Primo giro di boa al Senato per il dl Sostegni da 32 miliardi che, dopo un mese e mezzo dal varo del Cdm, ottiene il via libera con il voto di fiducia in attesa della conversione in legge entro il 21 maggio. Considerati i tempi stretti, il passaggio del provvedimento alla Camera non potrà registrare ulteriori modifiche. Un limite che ieri ha fatto registrare un’altra giornata di tensioni nella maggioranza dopo che la Ragioneria generale dello Stato ha imposto lo stralcio delle norme sulla cedibilità del credito di imposta nell’acquisto dei beni strumentali relativamente al Piano Transizione 4.0, il cosiddetto superbonus per le aziende. Una misura voluta dal Movimento 5 Stelle che è arrivato, quindi, a minacciare “una seria riflessione su quello che sarà il voto alla fiducia”. Per poi chiedere di inserire il superbonus nel dl Sostegni bis. La Ragioneria ha espresso forti dubbi anche sull’emendamento che proroga le concessioni degli ambulanti sine die e che va oltre “i principi di trasparenza e concorrenza”.
L’Ue vuole annacquare il vino per abbassare il tasso alcolico. Coldiretti sul piede di guerra
“Enoi je dimo, e noi je famo, c’hai messo l’acqua e nun te pagamo”. Pur essendo romano (e romanista), è difficile immaginare Mario Draghi perdere il suo aplomb, vestire i panni di uno dei “ragazzi fatti cor pennello” protagonisti dello stornello romanesco La società dei magnaccioni e gridare ai signori dell’Unione europea “Oste! Portace n’antro litro”. Specialmente se annacquato. Perché è proprio questo il “miracolo” che vogliono fare dalle parti di Bruxelles: non trasformare l’acqua in vino, come fece Cristo, ma versarcela direttamente dentro, come se stessimo parlando di una romanella qualsiasi rimediata in una fraschetta di serie b.
Sembra uno scherzo, ma il tema è serio. E a lanciare l’allarme è la Coldiretti, che denuncia un documento all’attenzione del Consiglio dei ministri Ue per la “dealcolazione parziale e totale dei vini”. Tradotto: vogliono abbassare il grado alcolico del vino per “preservare la salute dei cittadini europei”. La proposta, spiega l’associazione di categoria, “prevede di autorizzare nell’ambito delle pratiche enologiche l’eliminazione totale o parziale dell’alcol con la possibilità di aggiungere acqua anche nei vini a denominazione di origine”. Un “inganno legalizzato per i consumatori che si ritrovano a pagare l’acqua come il vino”. In realtà, la proposta fa a pugni con altre normative europee, anche piuttosto stringenti. L’aggiunta di acqua al vino è assolutamente vietata in fase di produzione e imbottigliamento. Inoltre, in Europa esiste una rete di sicurezza delle denominazioni d’origine dei vini, che permette alle bottiglie di potersi fregiare del titolo “doc”. E queste norme non prevedono certo l’aggiunta di acqua per “dealcolizzare” il nettare di Bacco. Tutt’altro. Secondo Ettore Prandini, presidente della Coldiretti, questa proposta è una “deriva pericolosa che rischia di compromettere la principale voce dell’export agroalimentare nazionale”, un settore che “complessivamente sviluppa un fatturato di oltre 11 miliardi in Italia e all’estero”. Quello dell’acqua nel vino, d’altronde, non sarebbe la prima modifica della “ricetta” ufficiale: in alcuni Paesi del nord Europa è permesso il cosiddetto “trucco della cantina”, ovvero l’aggiunta dello zucchero per rendere effervescente lo spumante (che tale non è). “Eh, ma così so’ bboni tutti”, risponderebbe l’avventore tipico degli stornelli romaneschi.
Surreale sinistra proibizionista
C’è un tenace filo di surrealtà che lega la volata tirata da Fedez al ddl Zan al Concertone, le ronde social contro Pio e Amedeo dopo la loro apologia del politicamente scorretto, i volti scavati dell’ala dura dei televirologi (“Ricordati che puoi contagiarti!”)… Chi è stato giovane negli anni Settanta e ha vissuto la cultura di sinistra come terreno di libertà e di ribellione allo status quo, stenta a orientarsi con questi nuovi eroi del coprifuoco progressista. Il professor Galli Lenin della virologia, Fedez paladino antisistema creano qualche problema di identificazione; si fa un po’ fatica a vedere in lui il nuovo Karl Liebknecht, la nuova Rosa Luxemburg in Chiara Ferragni. Parrebbe solo l’ultimo caso di vip impegnato a trasformare uno show in comizio, tecnica redditizia, molto in voga negli Usa. Il sistema ringrazia a suon di like.
Ed è vero che la Rai è controllata dai partiti politici; ma la notizia ha una settantina d’anni. Invece, non si era mai visto che per tutelare le minoranze – battaglia sacrosanta – la sinistra imboccasse una strada vagamente proibizionista, non lontana nello spirito dal proibizionismo dei gruppi armati del politicamente corretto, a tutela delle razze, dei popoli, dei generi, eccetera. Quando i torquemada da tastiera insorgono perché Michelle Hunziker Ridens ha mimato gli occhi a mandorla, o Pio ha detto negro con la g, il vero bersaglio non è piu la tutela delle minoranze, diventa l’abbattimento dell’ironia, del gioco, del pensiero laterale, dire qualcosa per intenderne un’altra, magari il suo contrario. Il razzismo, ha detto Saul Bellow, sarà finito quando gli ebrei potranno ridere di una barzelletta sugli ebrei; ma allora, il giorno in cui le barzellette sugli ebrei verranno proibite non finirà mai. C’è molta confusione sotto il cielo, e ancora di più sotto i riflettori; volere un mondo in cui al dito sia vietato indicare la luna è strano e triste; ancora più strano è che a cascarci sia la cultura di sinistra.
Il noir, che nascedalle nostre vite
Da trent’anni scrivo storie che vengono definite noir. Parlano di emozioni e sentimenti comuni: paura, desiderio, rabbia, rimorso, sogno. Ma è come se queste emozioni venissero proiettate su uno schermo più grande del naturale, percorse da una tensione che calamita il lettore alla pagina.
All’inizio, nella mia generazione eravamo in pochi a provarci. Fra i compagni di strada dei primissimi anni 90 posso citare due amici, Carlo Lucarelli e Andrea Pinketts: i primi sassolini a rotolare giù e dare il via alla valanga di autori che ha poi travolto il mercato editoriale.
Si parlava sempre di noir, forse perché suonava bene, ma in realtà i generi della narrativa di tensione sono due e hanno vocazioni opposte.
Il giallo, la detective story, è la testimonianza commovente della fede che il mondo sia un posto decente dove vivere. L’ordine del mondo viene rotto da un omicidio? Niente paura: arriva il detective (un’invenzione di Edgar Allan Poe) e scopre il colpevole, ricreando l’armonia perduta.
Al contrario, il vero noir è l’esplorazione del mondo visto come un labirinto caotico, al quale il protagonista, che è spesso un criminale, cerca di imporre almeno un ordine parziale: per esempio non sopporta più il vicino di casa (o la moglie) e concepisce un piano per sbarazzarsi di lui (o di lei, e pure del suo orribile gatto). Vi sono familiari queste trame? Quella del vicino è Il cuore rivelatore, l’altra Il gatto nero, due racconti sempre di Poe. Dovunque ci si volti, è impossibile non imbattersi in questo gigante.
Nel giallo abbiamo dunque un mistero e seguiamo l’indagine destinata a risolverlo. Nel noir abbiamo un piano e ci appassioniamo al tentativo di portarlo a compimento. Lieto fine obbligato per il giallo, con eccezioni memorabili come La promessa di Dürrenmatt; invece i protagonisti del noir o falliscono il tentativo o ne pagano care le conseguenze.
Ora, il noir assomiglia tremendamente alla vita.
Cosa facciamo, tutti quanti, se non porci degli obiettivi, lottare per realizzarli e andare incontro troppo spesso a grandi e piccole disfatte? Gli eroi violenti del noir sono i nostri fratelli. Al netto della componente delittuosa, che aggiunge spezie alla lettura, i loro tentativi rispecchiano lo sforzo di tutti noi per dare un senso alle nostre esistenze.
È quello che succede al protagonista del Vizio della solitudine, il mio ultimo romanzo, ambientato nella Milano pre-Covid del 2019.
Ennio Guarneri, cinquantenne, non è esattamente un criminale; al contrario è stato un ispettore di polizia. Dagli anni 90 non immaginavo una trama che avesse come protagonista un poliziotto, perché mi ero tenuto fedele a un’idea di base: raccontare vicende straordinarie che accadano a persone ordinarie. Una guardia forestale accusata di stupro, uno psicoterapeuta assassino per caso, un ragazzo che affitta casa sua con Airbnb senza sapere che lì dentro si nasconde un segreto… Perché stavolta un poliziotto? Da dove è uscito? Nessuno sa da dove viene la prima idea per una storia. La fantasia è una regione a statuto speciale, che si governa in autonomia: il lavoro vero arriva dopo, quando costruisci intorno a questa idea.
Ennio vive solo, reduce da un matrimonio fallito e storie passeggere. Gli amici li ha lasciati in Questura, quando è stato cacciato per essersela presa con un intoccabile. È chiaro: l’esperienza di isolamento che ho vissuto dal marzo dello scorso anno, come tanti single, è entrata nel personaggio. È anche vero però che sono stato solo nella maggior parte della mia vita, e che soltanto quando non ho nessuno intorno mi sento me stesso.
“Sii solo e sarai tutto tuo”, diceva Leonardo. La solitudine non subita ma abbracciata come scelta, come forza. Un vizio da coltivare, non una penitenza imposta dal mondo e dalle circostanze. È stata l’antidoto al silenzio che in questi mesi camminava fra le stanze della mia casa, e nel romanzo diventa la palizzata di cui Ennio si circonda. Unica evasione: rifare privatamente, con la sua vecchia e dolcissima maestra, i cinque anni delle elementari. Ripassare i nomi delle Alpi, interrogarsi sulla scomparsa dei dinosauri, sulla differenza fra passato prossimo e passato remoto… Perché da bambini veniamo a contatto con le cose fondamentali, elementari, appunto. Tutto ciò che segue – medie, liceo, università, lavoro – è una lenta zoomata a stringere su argomenti sempre più specialistici, e intanto molte di quelle cose fondamentali le perdiamo.
Fin qui il protagonista c’è, dunque, arroccato dentro la sua fortezza. Ma un imprevisto che sconvolga l’equilibrio è il motore stesso della narrativa, proprio perché lo è della vita. Senza don Rodrigo, Renzo e Lucia si sposerebbero a pagina cinque e il romanzo finirebbe a pagina dieci.
Cosa può mettere in crisi il solitario ex ispettore? Niente più dell’amore è incompatibile con la solitudine. Ennio deve innamorarsi, e della persona più improbabile: una ragazza che bussa alla sua porta per vendergli Lotta comunista, a lui che è tutto fuorché comunista. Una curiosità: non solo questa ragazza esiste ma è un’istituzione milanese, come ho scoperto poi. La conoscono tutti!
L’assalto alla fortezza arriva però anche dal lato noir: Ennio interrompe senza volerlo l’esecuzione di uno scafista da parte di una misteriosa organizzazione di giustizieri africani. Si è messo nei guai e dovrà pagare con la vita la sua intromissione, a meno che non accetti di diventare lui stesso un esecutore.
Il conflitto fra legge e giustizia è antico quanto la tragedia greca, eppure è dolorosamente attuale non solo nelle tematiche del noir ma, di nuovo, nella vita di tutti noi. Ennio accetta di arruolarsi fra questi cacciatori di assassini e diventare un assassino a sua volta, esplorando fino in fondo quella metà oscura, violenta, che celava in sé e che offre al lettore lo sfogo proiettivo delle proprie pulsioni nascoste. Ma cosa accadrà quando la ragazza lo scoprirà? Ecco, l’arena è allestita, i due eterni avversari pronti a combattere: l’amore da una parte, la morte dall’altra. L’amore costringerà Ennio a guardarsi dentro una volta per tutte, perché lo costringerà a scegliere.
L’autore può scomparire, ora. La storia si scrive da sé.
L’anti-Casellati: il Presidente austriaco viaggia sui treni di linea
Diciamolo sottovoce, non vorremmo disturbare Maria Elisabetta Alberti Casellati, nostra elegantissima presidente del Senato che tra poco prenderà l’aereo di Stato anche per andare a fare la spesa. Non bisogna per forza comportarsi così: rappresentare le istituzioni non implica necessariamente sfruttare qualsiasi privilegio possibile, a prescindere dal costo, dal decoro e dall’opportunità. Si possono fare scelte diverse e ci sono persino esempi che lo dimostrano. Anche piuttosto recenti.
Quando il presidente austriaco Alexander van der Bellen nel novembre 2019 è venuto in Italia, a Merano, per celebrare il centesimo anniversario della firma del trattato di Saint Germain e il cinquantesimo della firma del trattato per il Sud Tirolo-Alto Adige, la sua visita istituzionale è stata scandita da un’immagine. Il presidente alla stazione centrale di Vienna con il trolley, come un cittadino comune, in attesa del treno che l’avrebbe portato in Alto Adige, biglietto pagato verosimilmente di tasca sua e senza tanti clamori mediatici. Van der Bellen doveva incontrare il Presidente della Repubblica, era una visita ufficiale e non un viaggio di piacere. Casellati, seconda carica dello Stato italiano, nell’ultimo anno ha viaggiato a bordo del “volo blu” Falcon 900 dell’Aeronautica a disposizione del presidente del Senato ben 128 volte. Novantasette di questi spostamenti erano sulla rotta Roma-Venezia, andata e ritorno: Casellati ha usato un aereo pubblico per andare e tornare da casa, visto che la famiglia risiede a Padova. Magari non è nemmeno uno scandalo: è solo un’ennesima, plastica dimostrazione di un diffuso distacco dalla realtà, da parte di chi, per mestiere, dovrebbe conoscerla meglio di tutti gli altri. Dopo che è uscita questa notizia, come ha reagito Casellati? Ha preso il “volo blu” anche lo scorso fine settimana, ancora una volta per tornare a Padova. Eppure l’Austria sarebbe tanto vicina.
Fedez contro Rai3: in Commissione va in scena la parodia
Mercoledì mattina la lettura di Repubblica mi aveva messo particolarmente di buonumore. Perché all’improvviso era diventata concreta la prospettiva di potermi finalmente permettere l’acquisto di una barca vela.
Secondo il quotidiano degli ex padroni della Fiat, in serata il direttore di Rai3, Franco Di Mare, convocato in Commissione di vigilanza Rai per rispondere sul caso Fedez-ddl Zan-Concertone del Primo maggio, si sarebbe difeso dalle accuse di tentata censura sostenendo che la sua rete e la vicedirettrice Ilaria Capitani erano rimaste vittime di “una trappola orchestrata con l’ausilio di Marco Travaglio e Peter Gomez”. A quel punto avevo sentito il mio avvocato che mi aveva confermato come un’affermazione falsa simile, avanzata in Parlamento, valesse in tribunale non solo la barca, ma pure un casale di campagna. E il mio umore, già alto, era andato alle stelle. Così, dopo aver salvato le comunicazioni via Whatsapp con Fedez da cui emergeva senza possibilità di dubbio che il cantante, sconvolto, mi aveva informato dell’intero accaduto, compresa la ormai celebre telefonata di pressioni, solo alle 11 di sera di venerdì 30 aprile, alle 19 in punto mi sono collegato al canale Youtube della commissione per assistere alla seduta.
Devo ammettere che ben presto l’euforia è stata sostituita da una profonda depressione. E non tanto perché il mio sogno nautico è subito sfumato davanti a una relazione in cui Di Mare, tranne che in una risposta, peraltro sbagliata, a una domanda diretta della Lega, non ha mai fatto cenno al sottoscritto o a Travaglio (che addirittura con Fedez non aveva mai parlato). A deprimermi è stata la parodia di democrazia cui mio malgrado ho assistito.
Sì, lo so, e l’ho ripetuto e scritto più volte. Nei Paesi normali le commissioni parlamentari di vigilanza non esistono, perché sono i giornalisti che lavorano in tv a vigilare sul Parlamento e non il contrario. Ma visto che la commissione da noi esiste, mi sarei aspettato che servisse quantomeno a tentare di accertare la verità. Invece non è così. Di Mare, che ha avuto un atteggiamento a tratti analogo a quello di Fantozzi davanti al suo megadirettore galattico (si è rivolto ai commissari parlando di “consesso così importante e illustre” mentre ha definito se stesso e Rai3 “la rete che immeritatamente dirigo”) , ha accusato Fedez di essere un manipolatore, un imbroglione e un falsario. E ha sostenuto che gli stralci di telefonata con gli organizzatori del concerto, la vicedirettrice di rete e gli autori erano stati montati ad arte “per alterare il senso delle cose”. Vero? Falso? Era semplice stabilirlo. La telefonata integrale esiste ed esiste pure la sintesi messa online da Fedez. Nessuno però ha detto: ascoltiamole.
In molti invece ne hanno parlato. Chi per sostenere che l’integrale è peggio (e questo è anche il mio parere), chi per dire il contrario. E quando un commissario ha proposto di convocare anche Fedez gli è stato risposto di no. Gran parte delle domande si sono risolte in comizi politici e il sistema adottato per porle (prima parlano tutti i commissari e solo dopo ore l’audito risponde) ha avuto l’unico risultato di trasformare la vigilanza in commissione di comizianza. Con mia depressione doppia. Temo che una barca (l’ennesima?) corra ora il rischio di comprarsela il già ricco Fedez se deciderà di trascinare Di Mare in tribunale, mentre io ho avuto la conferma di come davvero in Italia il sistema migliore per insabbiare uno scandalo sia quello di sempre: una bella commissione.
Moro, dopo 43 anni stiamo ancora cercando la verità
Il 43esimo anniversario della morte di Aldo Moro ci coglie ancora oggi, come quel fatidico giorno del 9 maggio 1978, sgomenti e confusi. Nonostante cinque processi, due Commissioni parlamentari di inchiesta, il filone n. 5 (Moro) della Commissione bicamerale Terrorismo e stragi, siamo ancora alla ricerca di una verità storica condivisa.
Continuano a proliferare pubblicazioni, ricostruzioni, convegni che azzardano tesi e antitesi, spesso non supportate da dati documentali certi, riproponendo a distanza di quasi mezzo secolo le discussioni politiche di allora: fronte della fermezza contrapposto ai trattativisti, complottisti che vedevano la mano dei Servizi segreti nostrani e stranieri dietro l’attentato di via Fani, a loro volta divisi tra chi privilegiava la pista atlantica e quella del blocco sovietico. E non sono mancati coloro che invece, come Rossana Rossanda nel suo libro-intervista a Mario Moretti, consideravano il brutale eccidio di via Fani e la soppressione del presidente della Democrazia cristiana un affare esclusivamente italiano.
Non hanno trovato conferma negli atti parlamentari e nella realtà processuale molte piste e contro-inchieste di quegli anni: tra tutte, l’articolo dell’Europeo del 23 marzo 1978, secondo cui il giorno dell’attentato gli artificieri disinnescarono un ordigno da un’auto parcheggiata in via Fani, che aveva “un potenziale devastante, opera di persone espertissime, difficilmente italiane”. Da allora, si sono succeduti: teoremi sul significato del sequestro e dell’uccisione di Aldo Moro e degli uomini della sua scorta; imbarazzi e tentativi di coprire le incertezze e gli errori dell’attività inquirente; superficialità o volontà di coprire quanto prima questa pagina oscura della nostra storia.
Quale presidente della Commissione per l’Archivio storico del Senato, ritengo che un contributo di chiarezza possa arrivare da un riordino del sistema delle desecretazioni degli atti delle Commissioni di inchiesta. Abbiamo trovato una situazione assai precaria: le bobine delle attività delle commissioni, spesso obsolete, erano anche in condizioni di deperimento, mentre il cartaceo originale – per essere letto adeguatamente nel suo contesto – deve valersi della possibilità di incrocio con le registrazioni. Non tutte sono integre e leggibili e stiamo iniziando un programma di digitalizzazione.
Il Senato ha provveduto all’abolizione del segreto funzionale di tutte le Commissioni cessate prima del 2001 (e in prospettiva lo faremo di tutte), ma rimangono ancora zone d’ombra, dovute agli enti originatori che declassificano a un ritmo troppo lento: continuando di questo passo, ci vorranno circa due secoli per rendere tutto accessibile a tutti. A dimostrazione del fatto che la Direttiva Renzi, sbandierata come la soluzione del problema, ha finito per rivelarsi essa stessa il problema.
Capisco allora che vi sia qualcuno che pensi ad aggirare la questione costituendo una nuova Commissione Moro (la terza!) per acquisire gli atti della seconda. Non so se questa sia la strada più diritta ed efficace. Il problema non è, infatti, solo quello di rendere conoscibili singoli documenti, ma di rendere conoscibili tutti i documenti che giacciono negli archivi. Oramai dappertutto nel mondo si cerca di superare il gap di democrazia che sta dietro alla segretezza degli archivi: spero che potremo presto annunciare un definitivo passo avanti, nella promozione del diritto alla conoscenza, con l’approvazione del disegno di legge a mia prima firma n. 2018 (“Norme per la limitazione del segreto nelle amministrazioni pubbliche”): con esso, non si desecreta questo o quel documento, ma si introduce un metodo elementare, quello del calcolo dell’età del documento. Fatta una semplice somma e superati i 50 anni (che, nell’esame parlamentare, possono ben essere ridotti a 30), nessuno può rifiutare di consegnare il documento all’utente, allo storico, al giornalista o al cittadino interessato. Il Parlamento così assicurerebbe la responsabilità del governo verso la comunità. La storia è un bene collettivo e dinanzi agli atti che la testimoniano non ci può essere né occultamento, né opacità, né indifferenza.
La decrescita infelice: un’Italia senza italiani
Un milione e quattrocentomila studenti in meno. In dieci anni una città come Milano, ma abitata solo da under 30, scomparirà. Sono le previsioni del ministro dell’Istruzione.
L’anno scorso abbiamo registrato il minimo storico delle nascite e il massimo storico delle morti: 384mila persone. Abbiamo scritto: tante quanto ne contiene Firenze. Un cimitero che ci rimanda, per il triste primato, al 1918, l’anno della terribile spagnola.
Se utilizzassimo ancora le città per misurare con un’immagine quel che ci aspetta, dovremmo poi incolonnare le più grandi, Roma, Torino, Palermo, Napoli e nemmeno – se lo facessimo per davvero – riusciremmo a eguagliare il numero monstre dei sei milioni di italiani che perderemo nel 2065, secondo le proiezioni dell’Istat. Se cinquant’anni vi sembrano un periodo troppo oltre il nostro interesse, fermatevi a questa cifra: 2,1 milioni in meno già nei paraggi del 2025, tra quattro anni o poco più, prima ancora che il programma di ripresa e resilienza, il famoso Recovery, possa dirsi concluso.
Italia senza italiani, una corsa all’ingiù dopo anni di declino costante ma silenzioso. Dal pendio al burrone, non c’è che dire. Non basteranno i nuovi immigrati, che tra mezzo secolo saranno comunque il triplo degli attuali residenti (circa cinque milioni) a suturare le ferite che questa desertificazione produrrà.
La popolazione si concentrerà sempre più tra il centro e il nord del Paese (71 per cento del totale), con un sud sempre più stecchito (peserà per il 26 per cento). Se le stime del ministro Bianchi sono corrette, e purtroppo lo sono, da quest’anno e per i prossimi nove perderemo più di centomila studenti all’anno. Bianchi ha spiegato, anche rallegrandosi, che l’organico dei docenti resterà immutato, in modo da avere aule meno affollate e tempo dello studio allungato. Ma quanti laureati in meno, quanti talenti in meno, quanti ingressi in meno di giovani diplomati nel mondo del lavoro? Eravamo il Paese dei cervelli in fuga, una narrazione – a volte persino troppo compiaciuta – che illustrava le qualità italiane nel mondo. Era la cifra dello spreco culturale, di competenze, di energie colpevolmente espulse e liberate altrove.
Di questo passo dovremo però affrontare il crash del capitale umano (e abbiamo avuto già una prova con l’arruolamento degli anestesisti nelle terapie intensive), il buco nella società digitale che stiamo per edificare, perché i nuovi arrivi dal sud del mondo non compenseranno il deficit scolastico che maturerà e scarnificherà la leva super tecnologica che dovrebbe regalarci la qualità del nostro vivere e del nostro produrre.
Ci resta quindi il dubbio che invocare il “modello Genova”, il massimo della spinta efficientista, dell’opera congegnata bene e realizzata meglio al riparo da ogni vincolo, per eseguire il prossimo mirabolante e ricco piano di ripresa, senza fare i conti non solo col tasso di legalità ma con le forze veramente disponibili per far fronte a un dispiegamento così massiccio di impegni, ci porterà altra delusione.
Se oggi la Pubblica amministrazione è alla disperata ricerca di professionalità che la tolgano dalla letargia in cui è sprofondata, che ne sarà domani quando le immissioni in ruolo dovranno misurarsi con la decrescita paurosa dei laureati, dei cervelli che servirebbero per tenere alti gli standard di qualità?
Non è che stiamo facendo le nozze con i fichi secchi?
Violenza sulle minoranze: il ddl Zan è meglio dell’autoironia di Pio & C.
Abbiamo visto come degli errori semiotici, retorici, logici e pragmatici portano lo sketch di Pio & Amedeo a una conclusione aberrante (la soluzione della violenza verbale spetterebbe a chi la subisce: questi dovrebbe “riderne”). La prova dell’errore di quello sketch è nelle reazioni indignate che ha suscitato.
Milena Santerini, coordinatrice nazionale per la lotta contro l’antisemitismo: “Le parole sono già fatti. Additano gli ebrei come fossero tutti uguali, un’intera categoria di avari: il primo passo per spogliare le persone della loro individualità ed esporle al pregiudizio. Soprattutto, ricalcano i vecchi schemi delle offese antisemite, dimenticando o ignorando che proprio attraverso questi insulti si riesce a colpire le persone in quanto tali; dimenticando quanto parole banali, stereotipate e offensive creino una realtà di discriminazione, che divide ‘noi’ da ‘loro’, e che porta e ha portato, quella sì, sicuramente alla violenza nei ‘fatti’”.
Fabrizio Marrazzo, portavoce del partito Gay: “Con una risata non si possono seppellire anni di discriminazione: ‘Ricchione’ al Sud significa persona che non può procreare, è una parola molto pesante e offensiva, c’è un ragazzo che rispondeva sempre col sorriso a questo insulto, poi ha preso una corda e si è impiccato. La risata di chi subisce l’insulto non è contentezza, ma è per non mostrarsi deboli. Devono essere garantiti i diritti delle persone, non si può far passare che l’insulto è qualcosa di banale che si stempera con una risata. Perché queste frasi vanno a seminare un odio che poi sfocia nell’isolamento e nella depressione. Anche personalmente, sentirsi chiamare ricchione, o qualcos’altro, non è mai una sensazione positiva, se stai vivendo una situazione personale con il tuo compagno e ti senti apostrofare così. Non sono cose che divertono. In privato con un amico fai quello che vuoi, ma in televisione in prima serata col 3% di share non è accettabile. Pio e Amedeo hanno fatto una stupidaggine e mi auguro che ritornino sui loro passi, e non si schierino con un partito come quello di Salvini che ha commentato dicendo che dava loro la sua solidarietà”.
Vladimir Luxuria: “‘Ridiamoci sopra’ purtroppo non basta. Dite che non c’è bisogno del Gay Pride perché Amedeo non andrebbe mai in giro con un cartello dicendo ‘viva la fica’. Bisogna chiedersi perché esiste il Gay Pride e non l’Etero Pride. Forse perché gli etero possono accedere al matrimonio mentre per i gay ci sono le unioni civili? Forse perché le coppie eterosessuali possono sperare di adottare mentre i gay no? Forse perché degli eterosessuali possono essere genitori e i gay no? Forse perché nessuno è andato mai in giro a picchiare qualcuno in quanto solo eterosessuale? E magari due gay in certi contesti prima di baciarsi fra di loro devono guardarsi in giro per vedere che non ci sia nessuno con cattive intenzioni di colpirli, insultarli o picchiarli? Quindi ironia sì, diritto alla satira sì, ma attenzione: in contesti di omofobia transfobia, bifobia, davvero, non basta farsi una risata”.
Quando uno usa parole discriminatorie, non sta solo insultando: sta dicendo che si pone in una posizione di chiusura e di rifiuto nei confronti di diritti di cui non riconosce la legittimità. Questa mentalità sta cambiando: oggi si notano discriminazioni che finora venivano ignorate, e che comportavano conseguenze negative per certi gruppi sociali. Poiché si stanno moltiplicando gli atti di violenza contro quelle minoranze, il ddl Zan è una risposta migliore dell’autoironia delle vittime suggerita da Pio & Amedeo. Ma serve anche altro, come vedremo domani. (4. Continua)
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Vaccinazione anti-Covid e rischio trombosi
Le rarissime evenienze trombotiche (1 caso ogni 150-200 mila individui vaccinati) osservate in pazienti immunizzati coi due vaccini anti-CoViD-19 prodotti da AstraZeneca e da Johnson & Johnson sollevano alcuni importanti quesiti, che hanno trovato riscontro in una mia “Lettera all’Editore” recentemente pubblicata sulla prestigiosa rivista Science. Nello specifico, penso che sarebbero necessari approfonditi studi finalizzati a chiarire i seguenti aspetti: 1) Perché i succitati fenomeni trombotici si verificano soprattutto negli individui di sesso femminile e di età inferiore ai 50 anni? 2) Essendo entrambi i vaccini in questione basati sulla tecnologia del “vettore virale”, analogamente al vaccino russo “Sputnik 5” e a differenza degli altri due vaccini anti-CoViD-19 prodotti da Pfizer-BioNTech e da Moderna, che si avvalgono della tecnologia dell’Rna messaggero, quale sarebbe il ruolo eventualmente esplicato dal vettore virale – un adenovirus assolutamente innocuo per la nostra specie – nella genesi della condizione “auto-immunitaria” che sarebbe alla base dell’insorgenza delle affezioni trombotiche in parola? 3) Quale sarebbe, poi, il contributo eventualmente esercitato dalla “proteina spike” del virus – il più importante e immunogenico antigene grazie al quale il famigerato virus SARS-CoV-2 sarebbe in grado di penetrare all’interno delle nostre cellule – nella genesi delle suddette affezioni trombotiche post-vaccinali? Si tratta di domande cruciali alle quali la ricerca è chiamata a fornire una serie di risposte. Ciononostante, i benefici della vaccinazione anti-CoViD-19 sono enormemente superiori ai rischi indipendentemente dal tipo di vaccino utilizzato, in pratica “non c’è gara”! Last but not least, è bene rimarcare anche questo, il “rischio 0” non esiste!
Giovanni Di Guardo Già Prof. di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria dell’Università di Teramo
Corruzione, il Papa è un esempio da seguire
Si fa un gran parlare che l’Italia deve fare un cambio di passo. Per quanto mi riguarda l’esempio da seguire è quanto sta facendo Papa Francesco in Città del Vaticano. Tolleranza zero per coloro che avranno qualsiasi carica di gestione pubblica: devono essere persone specchiate sotto tutti i punti di vista, quindi via anche i prescritti perché mai giudicati. Questo renderebbe la fiducia a chi ancora vuole credere in questo Paese. Una rivoluzione culturale. Forse sto chiedendo troppo?
Roberto Mascherini
La censura al rap non è “presunta”
Volevo segnalare a pag. 2 del Fatto del 3.5, una anomalia linguistica tipica della stampa italiana: l’ipercondizionale. Nell’articolo di L.D.C. si legge: “…del rapper […] che denuncia il (presunto) tentativo di censura…”. Dal video/audio si capisce benissimo che si stava operando una pressione indebita con il fine di costringere il cantante a omettere alcune parti del suo intervento: aggiungere il termine “presunto” mi sembra francamente eccessivo.
Luca Cangenua
Caro Luca, hai ragione: “presunto” un corno!
M. Trav.
Bin Laden, perché gli Usa non lo processarono?
Leggo del decennale della morte di Osama bin Laden. Comparso agli onori della ribalta all’indomani dell’11 settembre 2001, per anni i Tg e i media ce lo hanno proposto in tutte le salse. Poi d’un tratto una mattina preso, catturato, portato dai rangers e… “giustiziato” al volo sulla stessa nave, gettato in mare. Non un interrogatorio, non una indagine… Comparso misteriosamente e misteriosamente scomparso! Di Assange sappiamo di più e infatti è… guardato a vista!
Maurizio Dickmann
La tracotanza di Mieli a proposito di Davigo
Martedì 4 maggio, nel corso del solito siparietto tra Simone Spetia di Radio 24 e il tuttologo emerito Paolo Mieli, quest’ultimo ti ha tirato in causa sottolineando con tono beffardo la tua totale inerzia nel commentare il comportamento di Davigo. Si è anche permesso di esprimere in maniera allusiva se non offensiva giudizi poco positivi nei confronti dei tuoi collaboratori che hanno seguito il caso, accusandoli di un voluto pressapochismo atto ad innacquare le responsabilità dello stesso Davigo, in quanto persona protetta dal Fatto. Personalmente non ho stima di Mieli, ma ritengo non solo opportuno ma anche doveroso che tu risponda pubblicamente a tanta tracotanza.
Angelo Ferrara
Caro Angelo, come purtroppo spesso gli accade, Mieli non sa letteralmente di cosa parla.
M. Trav.