L’articolo Come e perché il salario minimo è stato archiviato, pubblicato il 5 maggio, si focalizza sul dibattito italiano e non inquadra le novità, assolutamente rivoluzionarie rispetto all’Europa del passato, che la direttiva sul salario minimo introduce. Innanzitutto il metodo: la direttiva è uno strumento vincolante, va recepita entro due anni dalla sua approvazione da tutti gli Stati membri e non solo quelli dell’Est dove il costo del lavoro è per ragioni storiche più basso. Anche l’Italia dunque dovrà farlo tutelando finalmente tutte quelle professioni sottopagate che oggi non rientrano nella contrattazione collettiva. Nel merito si sono fatti grandi passi avanti: le proposte di modifica del Parlamento europeo al testo della Commissione prevedono infatti la copertura della contrattazione collettiva al 90% e l’introduzione di un riferimento vincolante per valutare l’adeguatezza e l’equità dei salari minimi. Per certi versi, considerate le resistenze di alcuni partiti dell’attuale maggioranza in Italia, questa direttiva può dunque essere considerata come l’unica e l’ultima speranza per portare il salario minimo in Italia, assicurare salari dignitosi in tutta Europa e archiviare le delocalizzazioni che impoveriscono il tessuto produttivo italiano. Il prossimo 11 maggio, in un evento che vedrà protagonisti anche esponenti del governo e del Parlamento italiano, M5S presenterà la sua proposta di salario minimo europeo. Il lavoro non può essere sinonimo di povertà.
Daniela Rondinelli, europarlamentare M5S
Gentile onorevole, l’iniziativa della Commissione e il lavoro dell’Europarlamento sui salari sono un enorme passo in avanti rispetto al passato di austerity. Nei contenuti, però, la direttiva lascia dubbi, sollevati da autorevoli osservatori, sull’efficacia reale in Italia, poiché non impone in alcun modo agli Stati – né potrebbe – di stabilire una cifra di salario minimo con legge; la scelta resterà alla sola volontà politica dei Parlamenti nazionali. Con la nostra maggioranza sembra purtroppo difficile che si faccia. Il testo dà impulso alla contrattazione collettiva, ma si concentra sulla copertura numerica, richiedendo il 90%. Nei Paesi dell’Est sarà quindi dirompente con benefici anche per noi che subiamo le delocalizzazioni. In Italia, dice l’Inapp, oggi sotto l’ombrello dei contratti ricade già l’82,3% dei lavoratori, contando pure gli “atipici”. Chi è fuori può rivolgersi ai giudici che usano proprio i contratti collettivi come parametro. Sul piano quantitativo saremmo già a un passo dall’obiettivo della direttiva; ma il nostro problema, semmai, è qualitativo e consiste nel dumping salariale praticato dai contratti pirata di associazioni e sindacati non rappresentativi. La nostra urgenza sarebbe sfoltire i quasi 900 contratti misurando la rappresentanza sindacale: verrebbe così naturale estendere a ogni lavoratore l’efficacia dei contratti certificati, assicurando salari minimi a tutti. L’ideale sarebbe fissare anche una soglia minima con legge, ma come detto questa resterà una facoltà e non un obbligo.
Roberto Rotunno