Salario minimo “È l’ultima speranza per il Paese”. “Ma resterà facoltativo”

 

 

L’articolo Come e perché il salario minimo è stato archiviato, pubblicato il 5 maggio, si focalizza sul dibattito italiano e non inquadra le novità, assolutamente rivoluzionarie rispetto all’Europa del passato, che la direttiva sul salario minimo introduce. Innanzitutto il metodo: la direttiva è uno strumento vincolante, va recepita entro due anni dalla sua approvazione da tutti gli Stati membri e non solo quelli dell’Est dove il costo del lavoro è per ragioni storiche più basso. Anche l’Italia dunque dovrà farlo tutelando finalmente tutte quelle professioni sottopagate che oggi non rientrano nella contrattazione collettiva. Nel merito si sono fatti grandi passi avanti: le proposte di modifica del Parlamento europeo al testo della Commissione prevedono infatti la copertura della contrattazione collettiva al 90% e l’introduzione di un riferimento vincolante per valutare l’adeguatezza e l’equità dei salari minimi. Per certi versi, considerate le resistenze di alcuni partiti dell’attuale maggioranza in Italia, questa direttiva può dunque essere considerata come l’unica e l’ultima speranza per portare il salario minimo in Italia, assicurare salari dignitosi in tutta Europa e archiviare le delocalizzazioni che impoveriscono il tessuto produttivo italiano. Il prossimo 11 maggio, in un evento che vedrà protagonisti anche esponenti del governo e del Parlamento italiano, M5S presenterà la sua proposta di salario minimo europeo. Il lavoro non può essere sinonimo di povertà.

Daniela Rondinelli, europarlamentare M5S

 

Gentile onorevole, l’iniziativa della Commissione e il lavoro dell’Europarlamento sui salari sono un enorme passo in avanti rispetto al passato di austerity. Nei contenuti, però, la direttiva lascia dubbi, sollevati da autorevoli osservatori, sull’efficacia reale in Italia, poiché non impone in alcun modo agli Stati – né potrebbe – di stabilire una cifra di salario minimo con legge; la scelta resterà alla sola volontà politica dei Parlamenti nazionali. Con la nostra maggioranza sembra purtroppo difficile che si faccia. Il testo dà impulso alla contrattazione collettiva, ma si concentra sulla copertura numerica, richiedendo il 90%. Nei Paesi dell’Est sarà quindi dirompente con benefici anche per noi che subiamo le delocalizzazioni. In Italia, dice l’Inapp, oggi sotto l’ombrello dei contratti ricade già l’82,3% dei lavoratori, contando pure gli “atipici”. Chi è fuori può rivolgersi ai giudici che usano proprio i contratti collettivi come parametro. Sul piano quantitativo saremmo già a un passo dall’obiettivo della direttiva; ma il nostro problema, semmai, è qualitativo e consiste nel dumping salariale praticato dai contratti pirata di associazioni e sindacati non rappresentativi. La nostra urgenza sarebbe sfoltire i quasi 900 contratti misurando la rappresentanza sindacale: verrebbe così naturale estendere a ogni lavoratore l’efficacia dei contratti certificati, assicurando salari minimi a tutti. L’ideale sarebbe fissare anche una soglia minima con legge, ma come detto questa resterà una facoltà e non un obbligo.

Roberto Rotunno

Via i partiti dalla rai, ma salvate Calenda

Carlo Calenda crede molto in quello che fa. Ogni giorno lancia anatemi via twitter e tira fuori qualche ricetta per salvare Roma, l’Italia e l’Europa dall’Apocalisse (nella triplice veste di candidato sindaco, leader nazionale di partito ed eurodeputato). Non mettiamo in dubbio dunque la buona volontà con cui il Nostro ha promosso l’ultima crociata: “Fuori i partiti dalla Rai!”. Un proposito messo anche nero su bianco da una mozione presentata da Azione alla Camera. Ma prima che qualcuno se ne accorga e lo prenda sul serio, urge sussurrare all’orecchio di Calenda un dettaglio che forse gli è sfuggito: certo, fuori i partiti dalla Rai, ma detta così qualcuno potrebbe mal interpretare e far fuori i politici dai palinsesti, invece che dai vertici dell’azienda. E come colmerebbe, il povero Carlo, il vuoto interiore lasciatogli dalla mancanza di telecamere, di talk show, di microfoni? Quale altro hobby per trascorrere le giornate? Si affretti a chiarire ogni fraintendimento, Calenda, altrimenti qui finisce che mettono la soglia di sbarramento pure per comparire in tv. E sarebbe una crudeltà che non si merita, dopo tanti anni di sacrifici.

Bertolaso e Albertini mollano Salvini e lui se la prende con FdI: “Troppi no”

La campagna elettorale deve ancora iniziare, ma per Matteo Salvini le Amministrative di ottobre sono già un grosso problema. In barba al solito ottimismo sbandierato a favor di telecamera, il leghista ha impiegato sei mesi per trovare i candidati per Roma e Milano, li ha strombazzati come cavalli vincenti e poi è finito per essere sbugiardato da entrambi.

È successo con Guido Bertolaso per la Capitale ed è successo ieri a Milano con Gabriele Albertini, il cui no alla corsa per sfidare Beppe Sala ha aperto l’ennesima frattura pubblica nel centrodestra. Con tanto di smacco personale a Matteo, che ora se la prende con gli alleati per aver “fatto perdere la pazienza” ai suoi candidati, provocandone la fuga.

Ufficialmente, Albertini decide di farsi da parte per motivi familiari. Scrive una lettera a Libero ringraziando per i tanti messaggi di sostegno, assicura che stava “per cedere e dire sì” ma che poi si è fermato: “Non potevo infliggere un disagio a mia moglie. Preferisco sperare di trascorrere con la mia famiglia, finché ci sarà salute, l’ultimo ottavo di vita media”. E nell’uscire dal pressing, Albertini butta lì pure che se avesse vinto avrebbe chiesto a Sala “di entrare in giunta come vicesindaco”, gesto di rispetto per l’avversario ma anche ecumenico segnale per una Milano pronta “alla primavera” dopo “l’inverno della pandemia”.

Tante belle parole di cui Salvini non sa però che farsene, visto che pochi giorni fa anche Bertolaso si è sfilato da Roma lasciandolo col cerino in mano: “Ringrazio chi mi vuole sindaco nella Capitale – la versione del factotum dell’emergenza lombarda – ma cerchino qualcun altro”. E allora il leader leghista – che peraltro aveva scelto due nomi fuori dal suo partito – fiuta la disfatta e si agita, tirando in mezzo Fratelli d’Italia e Forza Italia: “Sono mesi che cerco di costruire e unire il centrodestra in vista delle amministrative. A Roma e Milano avevamo i candidati giusti, ma altri hanno detto no per settimane e mesi e loro hanno perso la pazienza”.

In effetti i passi indietro di Albertini e Bertolaso sono attribuibili solo in parte a ragioni personali, ma molto più alle crepe interne alla coalizione. Il problema è che FdI, a sua volta, scarica le responsabilità su Salvini, che da tempo rimanda il famoso “tavolo” del centrodestra in cui dovrebbero essere definite tutte le principali candidature alle Amministrative, per paura che la trattativa coinvolga vicende molto più nazionali (su tutte: la presidenza del Copasir contesa proprio da Lega e Fratelli d’Italia).

Ed è questo che Daniela Santanchè, riferimento milanese del partito di Giorgia Meloni, rinfaccia al leghista: “Il fatto che Salvini non abbia ancora convocato il tavolo del centrodestra ha determinato la decisione di Albertini. Quando non si hanno risposte e si vive senza sapere poi succede che un candidato si ritiri”.

Non basta allora il nome di Maurizio Lupi, indicato ora come il favorito per sfidare Sala, a calmare i malumori della destra. La lacerazione è molto più profonda e rischia non solo di ritardare la scelta dei candidati su Milano e Roma, ma persino di compromettere l’intesa altrove. A Napoli, per esempio, Giorgia Meloni potrebbe andare da sola sostenendo l’avvocato Sergio Rastelli (figlio di Antonio, ex governatore della Campania dal 1995 al 1999) e lasciando gli alleati al loro destino con Catello Maresca, sperando poi di arrivare al ballottaggio da una posizione di forza.

Uno sgarbo non da poco che potrebbe replicarsi in altre città dove l’accordo è ancora in alto mare, come Salerno o Bologna. Non c’è da stupirsi allora che di questo quadro fracassato, a taccuini chiusi, un big del centrodestra dia una sintesi simile a un epitaffio: “Non esiste più una coalizione”. Figurarsi se possono esistere i candidati.

Conte: “I dati sono dei 5S” Ma Raggi va su Rousseau

Arrivati a questo punto, anche la soluzione più semplice – azzerare tutto e rifare una nuova associazione per chiudere i conti in sospeso tra i 5Stelle e Rousseau – è altrettanto lastricata di guai. Perché non basta rifondare un altro Movimento, se non riesci a chiudere quello vecchio. E senza Casaleggio, il vecchio M5S chiudere non si può. Così, nella riunione via Zoom di mercoledì, Giuseppe Conte ha ragionato coi maggiorenti grillini su un’exit strategy che esautori la casa madre milanese da ogni velleità futura.

Tradotto: se anche l’ex premier rifacesse il partito da zero, non si può scongiurare il rischio che Casaleggio – che andò insieme a Luigi Di Maio a depositare dal notaio gli atti dell’attuale associazione – possa continuare a usare il nome del Movimento stesso. “Lui, come Grillo e Di Maio, può vantare diritti sul simbolo”, ammettono dai 5Stelle, pur aggiungendo che (senza Di Battista) la lista Casaleggio sarebbe ben poco attrattiva. Ma è comunque un rischio che nessuno si sente di sottovalutare: motivo in più per togliere al manager di Rousseau ogni paternità sulla creatura fondata dal padre. Ieri Conte ha chiuso ogni possibile trattativa: “Casaleggio per legge è obbligato a consegnare i dati degli iscritti al Movimento, che ne è l’unico e legittimo titolare. Su questo c’è poco da scherzare – ha detto a Repubblica – perché questi vincoli di legge sono assistiti da solide tutele, civili e penali”. Insiste, Conte, su “tutti gli strumenti per contrastare eventuali abusi”, a cominciare dalla richiesta di intervento al Garante della Privacy. Ma resta lo scoglio dell’attuale rappresentanza legale del Movimento, dopo che un pronunciamento del tribunale di Cagliari ha azzoppato il ruolo di Vito Crimi, il capo politico reggente a cui ora tutti gli espulsi minacciano di chiedere i danni, perché ritengono non avesse il titolo per cacciarli. E resta soprattutto lo scoglio della data della rifondazione M5S che non può certo aspettare i tempi della giustizia e delle Authority: senza considerare che il parere sulla privacy (che di solito si occupa di Pubblica amministrazione) anche se arrivasse nel giro di qualche settimana, non sarebbe in alcun modo vincolante da un punto di vista giuridico.

Conte però ha fretta: “Abbiamo predisposto tutto per partire. Siamo pronti. Questa impasse sta rallentando il processo costituente ma non lo bloccherà. Verrà presto superata, con o senza il consenso di Casaleggio”. Il consenso, va detto, è una chimera a cui nessuno crede più: “Ora Davide si sente ancora più forte”, avverte chi lo conosce bene. Figuriamoci dopo che ieri la (ri)candidata sindaca M5S a Roma, Virginia Raggi, ha scelto proprio la piattaforma “nemica” per il percorso che porterà gli iscritti a scrivere con lei il “programma partecipato” per la prossima consiliatura.

“Se è così, vadano in procura e denuncino”

“Vada in Procura e denunci…”. Così il senatore del M5S, Primo Di Nicola, mercoledì sera, durante l’audizione del direttore di Rai3, Franco Di Mare, in Commissione di Vigilanza Rai, si è rivolto al collega renziano Davide Faraone che aveva lanciato accuse pesantissime sul servizio di Report in cui era stato documentato l’incontro tra Matteo Renzi e il capo reparto del Dis, Marco Mancini.

Perché senatore?

Secondo il senatore Faraone, Matteo Renzi è stato “pedinato” e “spiato”: un’affermazione di una tale gravità che richiede necessariamente che vada in procura a denunciare o che il resoconto della seduta sia inoltrato ai magistrati. Se fosse vero, tutti i diritti e le prerogative di un parlamentare sarebbero violate.

Secondo lei le accuse dei renziani sono vere?

No, da quello che mi risulta, dalle immagini che ho visto in tv e da quello che sta dicendo la signora che ha filmato, la valutazione che ha fatto Report da un punto di vista giornalistico è stata corretta. La fonte è assolutamente genuina e la signora non mi sembra una in grado di pedinare o spiare un senatore. Tra l’altro i renziani, me lo lasci dire, sono stati anche sfigati…

Che vuole dire?

Perché mentre dicevano che la signora aveva pedinato e spiato il proprio leader, la signora spiegava sul web come si era trovata in quell’autogrill, cosa stava facendo, come e perché aveva fatto quel video. Poi ha rivelato di essere un’insegnante e chiesto addirittura un incontro a Renzi per dimostrare che è tutto vero. Esiste nella storia una spia che va a confessarsi con lo spiato?

Quindi Italia Viva vuole solo delegittimare la fonte e Report?

Il tentativo di identificare le fonti dei giornalisti è una pratica inaccettabile perché la segretezza delle fonti è l’unica garanzia rimasta per continuare a fare giornalismo d’inchiesta. E il tentativo di Iv non è il primo: negli scorsi mesi anche Lega e Fratelli d’Italia hanno avviato pratiche per chiedere a Report informazioni per individuare le fonti. È evidente che il giornalismo di Report sia intollerabile per questi partiti.

Lei che ha fatto il giornalista per moltissimo tempo avrebbe dato la notizia?

Certo, un leader che si incontra con uno dei più importanti dirigenti dei Servizi di questo Paese è una notizia di grande interesse pubblico.

“Complotto contro Renzi”: Lega, FI e dem ci cascano

Il complotto c’è, ma al contrario. Non quello per far cadere il governo Conte-2 proprio usando l’argomentazione che l’ex premier giallorosa voleva tenere per sé la delega ai Servizi Segreti. Nossignori, quasi tutti i partiti – esclusi M5S e Fratelli d’Italia – ormai hanno maturato la convinzione che il 23 dicembre scorso all’autogrill di Fiano Romano Matteo Renzi e il capo reparto del Dis Marco Mancini fossero “pedinati”, “spiati” e che poi qualche strana manina abbia inviato il video del colloquio a Report per delegittimare l’ex premier. Una storia che, se vera, farebbe invidia ai romanzi di John Le Carré.

Sicché nelle ultime ore è stato tutto un profluvio di dichiarazioni in difesa delle prerogative di Renzi e contro la legittimità del servizio di Report. A partire dagli stessi renziani. Mercoledì, durante l’audizione del direttore di Rai3, Franco di Mare, in Commissione di Vigilanza Rai, il capogruppo di Italia Viva al Senato Davide Faraone ha teorizzato una cospirazione anti-Renzi: “Un senatore è stato intercettato, spiato con un video abusivo e la Rai ha mandato in onda un servizio di una persona che stava commettendo un reato” ha detto Faraone senza spiegare quale. Poi l’accusa diretta alla trasmissione di Sigfrido Ranucci: “Come mai la Rai ha mandato in onda un servizio senza verificare la versione della signora? Questo non è giornalismo, sono illazioni”. A Faraone ha dato manforte il deputato renziano Michele Anzaldi: “è stata firmata una pagina nera del giornalismo – ha spiegato – lì sono stati tutti pedinati”. Secondo l’onorevole di Iv “è stata fatta una consecutio drammatica” tra il colloquio di Renzi con Mancini “e le nomine dei Servizi”. Per il direttore di Rai 3 Di Mare invece è stato tutto regolare perché “il diritto alla privacy di un personaggio pubblico come Renzi è limitato”. Ieri è intervenuto anche Ranucci che ha smontato le presunte incongruenze fatte notare dai renziani: il video della donna “non è di 40 minuti ma di 20 secondi”, ha iniziato a registrare “solo quando è arrivato Renzi” e, alla fine dell’incontro, Mancini “è partito per primo e si è diretto a Fiano Romano per poi tornare indietro” mentre Renzi “è rimasto in autogrill e poi ha proseguito per Firenze”. Poi il conduttore ha annunciato che nella puntata di lunedì interverranno la donna e anche il padre che si era sentito male per spiegare come sono andate le cose. Ma Renzi non ci sta lo stesso: fonti a lui vicine spiegano che la versione di Ranucci “è falsa” perché Renzi sarebbe partito “prima di Mancini” e che oggi l’ex premier farà un esposto in procura per acquisire le immagini delle videocamere dell’autogrill.

Ma non ci sono solo i renziani a teorizzare la cospirazione contro il proprio leader: anche Pd, Lega e Forza Italia sono della stessa opinione. Bastava sentire Andrea Ruggieri (FI): “Io non credo che quel video sia utilizzabile in tv, ammesso che sia davvero una cittadina curiosa non aveva il diritto di riprendere due personaggi, uno pubblico e l’altro no perché non è una giornalista”. Anche nel Pd si levano voci che teorizzano il complotto. Fausto Raciti parla di “porcheria” e di “accanimento di un pezzo dell’informazione” mentre Simona Malpezzi ieri a Omnibus si è detta “inquieta” sul fatto che “quelle immagini siano arrivate in altre mani”. D’accordo anche il leghista Riccardo Molinari secondo cui “sarebbe grave se il filmato fosse stato commissionato” e se Renzi “fosse stato pedinato”. Intanto ieri si è riunito il Copasir ed è stato deciso che la prossima settimana sarà audito il direttore del Dis Gennaro Vecchione e dopo quella testimonianza si valuterà se sentire anche Renzi e Mancini. Secondo fonti qualificate, il Copasir non si occuperà dell’inchiesta giornalistica o dell’autenticità della fonte, ma si concentrerà sull’incontro.

“Per i docenti si riparla di sanatoria dei precari per creare altri precari”

Il Fatto lo ha raccontato qualche giorno fa: al ministero dell’Istruzione e a Palazzo Chigi si cerca una soluzione per stabilizzare 60 mila precari della scuola, nonostante il concorso a loro riservato appena concluso. Si pensa a un decreto, a un corso-concorso. “Nessuna sanatoria” ha ribadito il ministro Patrizio Bianchi, ma una necessaria soluzione. Che certo però non sarà una procedura “canonica”.

Professor Boeri, sembrava che col nuovo governo non si dovesse più tornare a vecchie dinamiche e invece ecco la sanatoria.

Non posso credere che il ministro possa fare una cosa simile dopo aver ribadito più volte la necessità di procedure ordinarie e selettive per il reclutamento. Mi auguro non sia così.

Come spiega che ciclicamente si ripropongano queste stabilizzazioni?

Non si pianificano le assunzioni, nonostante i dati a disposizione permettano di prevedere quanti insegnanti andranno in pensione e dunque il fabbisogno di nuovi. Sono circa 30 mila all’anno. Basterebbe approntare concorsi ordinari per tempo e farli. Invece si arriva all’ultimo minuto con un approccio simile a quello sull’immigrazione: non si affronta il problema alla base e si creano condizioni d’emergenza.

Un concorso ordinario in verità era stato indetto…

Esatto. E i 400 mila che hanno presentato domanda saranno scavalcati, giovani validissimi, studenti che si sono laureati in questo periodo di grandi difficoltà e che potremmo portare nella scuola. Invece si sceglie la chiusura totale, un segnale pessimo in contrasto con un Pnrr che declina buoni principi sulla scuola. Inoltre ora si pone il problema di evitare che arrivino fiumi di ricorsi da chi sarà scavalcato.

Per i precari era poi è stato appena fatto un concorso riservato.

Oltretutto con un ordinario indetto poco dopo. Lo stesso ministro Brunetta ha precisato che i concorsi si possano fare anche in tempo di Covid. Il decreto 44 permette di farli rispettando i vincoli. Allora perché non si è andati avanti? Trovo sia grave.

La sanatoria serve a evitare le cattedre vuote?

Resteranno vuote lo stesso, soprattutto al Nord dove per la mobilità i docenti si fanno spostare appena possono. E temo che anche su questo, ma di nuovo mi auguro non sia vero, il ministro abbia concesso ai sindacati che sarà ridotto il periodo in cui non possano usarla.

Ci sarebbero però i supplenti.

Quindi nuovi precari, nuove future cattedre vuote e zero continuità per gli studenti. E in futuro ancora necessità di stabilizzazioni emergenziali. In pratica continuiamo a stabilizzare ma continuiamo anche a creare precariato.

È difficile contemperare diritti dei giovani e dei precari storici della Pa?

Capisco i problemi dei precari, sono simpatetico con le loro richieste, sono entrati in contatto con la realtà e alcuni sarebbero di grande valore per la scuola. Però con questo meccanismo si troveranno sempre a competere, anche quando avranno delle corsie preferenziali, con chi ha altrettante o maggiori legittime richieste. Servono prove selettive ordinarie, magari riservandosi poi di risolvere eventuali problemi residuali. Finché produrremo precari a mezzo di precari ci saranno sempre iniquità e inefficienze. Sono certo che chi ha imparato sul campo riuscirebbe brillantemente nelle prove ordinarie.

Non crede che spesso i precari siano solo linfa per i sindacati?

Per i sindacati è molto facile organizzare i precari. Hanno obiettivi molto precisi e sono facilmente raggiungibili. Ma forse i sindacati dovrebbero iniziare a rappresentare quei giovani che oggi si presentano in 400mila aspirando a insegnare, concorrendo ad armi pari con gli altri candidati.

Rete unica, il governo archivia il progetto con Tim al comando

Con molta confusione, e dopo mesi di uscite azzardate, il governo ha deciso che almeno su un grande dossier industriale vuole imprimere una discontinuità. S’intende quello della società unica della rete in fibra che, secondo i piani del Conte-2, sarebbe nata dalla fusione della rete di Tim con quella di Open Fiber, la società controllata al 50% da Cassa depositi e prestiti ed Enel. Quel progetto prevedeva che Tim avesse la maggioranza del capitale, aspetto che non piace al nuovo esecutivo.

L’ennesima prova la si è avuta ieri. Dopo indiscrezioni di stampa che interpretavano i contenuti del Recovery plan italiano sul tema banda ultralarga come una bocciatura del progetto, Tim è crollata in Borsa (-5,5%). Il gruppo ha annunciato un esposto e chiesto l’intervento della Consob. “Non si comprende – ha scritto in una nota – la relazione tra il suddetto Piano e possibili aggregazioni delle società operanti nel settore”. Le interpretazioni sono state però di fatto confermate dal ministro per la Transizione digitale Vittorio Colao in un incontro pubblico: “Il nostro obiettivo è politico e di Paese, non di assetti societari. Puntiamo – ha spiegato – a qualsiasi situazione adatta a dare la banda larga a tutti, e lo faremo con le gare”, cioè mettendo gli operatori in concorrenza.

La situazione è caotica. Da tempo il governo manifesta insofferenza per l’operazione studiata all’epoca giallorosa. In più di un’occasione Colao, ex numero uno di Vodafone (cioè il principale player europeo del settore), ma anche il ministro dello Sviluppo Giancarlo Giorgetti hanno lasciato intendere che il comando a Tim non andava bene, specie (e qui vale più per il leghista) se a controllo straniero, visto che l’azionista di maggioranza del colosso italiano è la francese Vivendi.

Quel piano rispondeva però a obiettivi precisi. Per portare la rete ovunque servono investimenti pesanti, il governo può fare la sua parte con i miliardi del Recovery ma gli operatori quei soldi non li hanno. Tim non può cedere il controllo della sua rete, perché fa da garanzia all’enorme debito accumulato delle scalate negli anni post-privatizzazione. Open Fiber è nata nel 2016 (governo Renzi) per sfidare Tim ma non se la passa benissimo: ha vinto i bandi per portare la rete nelle aree a fallimento di mercato ma è in ritardo di tre anni, e non produrrà margini per un bel po’. Era, insomma, un’unione strategica utile a entrambi.

Non è detto che la rete unica non si faccia, ma il governo Draghi non vuole il comando di Tim, cioè di un operatore del settore, cosa che peraltro non piace nemmeno all’Antitrust Ue. I sindacati, preoccupati soprattutto dei potenziali esuberi in Telecom, ieri hanno attaccato l’esecutivo. La confusione è sintetizzata dal ruolo della pubblica Cdp, azionista con il 10% di Tim e che nei giorni scorsi ha chiuso l’accordo con Enel per comprare un altro 10% di Open Fiber per 500 milioni, prezzo fissato dall’offerta del fondo Macquarie per il restante 40% dal gigante elettrico. Tocca al governo decidere cosa fare. Ma le idee non sembrano chiarissime.

Giulia Grillo. Una breccia nel muro di gomma, presto per cantare vittoria

“Il 13 maggio ero pronta a festeggiare il primo anniversario del nostro primo ordine del giorno in materia. L’apertura di Biden è una specie di gran regalo di compleanno”. Così Giulia Grillo, deputata M5S ed ex ministro della Sanità del governo Conte-1, commenta le parole del presidente Usa sulla sospensione dei brevetti dei vaccini anti-Covid.

Onorevole Grillo, lei e la sua collega Angela Ianaro avete più volte in questi mesi, spesso in solitudine, invitato il governo e il Parlamento a prendere posizione. Che effetto le fa questo coro di consensi?

Sinceramente non mi aspettavo la svolta degli Stati Uniti. Ho sempre pensato che sostenere una decisione di questo tipo all’interno del Wto sarebbe stata una mossa politicamente grandiosa per l’Europa. Invece, ancora una volta, gli Usa si dimostrano più lungimiranti. Per il resto sì, all’inizio Angela ed io eravamo solissime, così il M5S che a dicembre ha presentato un primo emendamento al Bilancio. Poi abbiamo depositato altri atti legislativi al Senato, alla Camera e al Parlamento europeo. Siamo lieti che adesso tutti o quasi sembrano d’accordo. Se si vuole sconfiggere la pandemia non si può lasciare tutto nelle mani delle aziende.

L’apertura degli Usa è una svolta o solo un punto a favore di una partita ancora lunga e incerta?

Voglio essere cauta. Conosco bene che cosa si muove in questi mondi e non mi sento di cantare vittoria. Certo è un primo spiraglio in un muro di gomma incredibile che avvolge questo argomento. Non so se davvero ci sarà la moratoria, ma credo che tornare indietro sarà difficile. Dovremo vaccinarci per qualche anno, la sensibilità dell’opinione pubblica in materia è molto alta.

“I vaccini sono un bene comune globale. È prioritario aumentare la loro produzione garantendone la sicurezza, e abbattere gli ostacoli che limitano le campagne vaccinali”. Draghi non è andato oltre queste parole…

A Draghi chiediamo di farsi interprete delle nostre istanze: il Parlamento il 24 marzo ha votato la nostra mozione che impegna tutta la maggioranza a sostenere questa battaglia. Il governo ha un mandato parlamentare

Vittorio Agnoletto. Il diritto alla cura è più importante della carità dei ricchi

“Sono molto soddisfatto della dichiarazione degli Stati Uniti: può essere una scelta storica in grado di modificare i tempi nella battaglia contro il virus”. Vittorio Agnoletto, portavoce della campagna europea “Diritto alla cura #NoprofitOnPandemic”, è stato tra i primi in Italia a sostenere la necessità di sospendere per un periodo i brevetti sui vaccini anti-Covid.

Gli Usa sono a favore, ma mancano altri 64 Paesi nel Wto.

La partita è appena iniziata, ci sarà una pressione fortissima da parte di Big Pharma, soprattutto su Ue e Usa, che sono i mercati principali, quelli su cui le aziende hanno sempre trovato sponde per tutelarsi. I rischi principali che vedo sono due. O che questa dichiarazione produca effetti concreti in tempi troppo lunghi, dimenticandosi che ogni giorno che passa sono morti in più nel mondo. Oppure che alla fine, invece di arrivare alla sospensione dei brevetti, si opti per un aumento della carità.

Cioè?

Ad esempio Covax. Intendiamoci, questa iniziativa è certamente meglio di niente, ma si tratta di donazioni ai Paesi del Sud del mondo da parte di aziende produttrici e istituzioni varie. I brevetti restano alle aziende e i finanziatori possono decidere quante dosi e a quali Paesi darle. Superare i brevetti e permettere a tutte le aziende, pubbliche e private, di produrre vaccini, è tutta un’altra cosa. La carità va bene, ma prima viene il rispetto del diritto alla cura. Per questo chiediamo la sospensione dei brevetti, perché così aumenterebbe la produzione e la disponibilità per tutti, e inoltre si abbasserebbero i prezzi.

Le aziende farmaceutiche e alcuni esperti dicono che la disponibilità dei vaccini non dipende dai brevetti ma da altri fattori, soprattutto dalla mancanza di aziende capaci di realizzare i vaccini e dalla scarsità di materie prime.

Bugie. Ci sono tante aziende capaci di produrre e se tutte fossero libere di farlo aumenterebbe certamente la produzione. Sanofi, tanto per fare un esempio, ha dovuto aspettare mesi per produrre da parte di Pfizer-BioNTech. La prova del fatto che sono bugie è proprio l’opposizione alla moratoria da parte delle aziende detentrici dei brevetti. Se liberalizzando i brevetti non cambierebbe niente, perché loro si oppongono?