La Casa Bianca listata a lutto e Joe Biden impallidito come avesse bevuto un cicchetto con un fantasma. La sospensione dei brevetti sui vaccini è stata definita “una svolta monumentale nella lotta contro il Covid” dall’Oms e ha ricevuto il plauso di mezzo mondo, pure di un noto bolscevico come Mario Draghi che ha battezzato i vaccini “bene comune”. Tutto bello, ma il povero Joe è comunque inconsolabile. La sua reputazione ha subìto un colpo letale: il rimprovero pubblico di Sabino Cassese. Per l’esimio e telegenico giurista – stavolta ospite di La7 a Coffee Break – la sospensione dei brevetti è roba da dittatura proletaria. “È un provvedimento da economia di guerra – dice, accigliato – un po’ sovietico”. Il presidente degli Stati Uniti è un orripilante sovversivo, chiaramente un comunista. Della pandemia, in fondo, bisogna ce ne freghi il giusto: la proprietà intellettuale è il motore dell’occidente capitalista, vogliamo metterla nel cassetto proprio ora? Cassese è inflessibile: “La scelta di Biden si sarebbe potuta evitare usando strumenti meno drastici. In questo modo è un’espropriazione”. Ce lo immaginiamo accigliato, il presidente degli Usa, mentre un collaboratore gli porge la notizia ferale. Possiamo quasi vederlo sgranare gli occhi e sussurrare attonito: “Who is Sabino?”.
Brevetti liberi, Biden passa la palla all’Ue
Dopo quasi sette mesi di discussioni finite nel nulla, è bastata una dichiarazione del governo Usa per cambiare le carte in tavola. “Per contribuire a porre fine alla pandemia, gli Stati Uniti supportano la rinuncia alla protezione della proprietà intellettuale sui vaccini covid-19 e parteciperemo attivamente ai negoziati affinché ciò accada”, ha scritto mercoledì Katherine Tai, rappresentante al commercio per gli Usa. A Wall Street l’effetto si è fatto subito sentire, mandando al tappeto inizialmente tutti i titoli dei produttori di vaccini: a fine giornata Moderna ha chiuso a -6,1%, Pfizer e Johnson&Johnson sono riuscite a contenere le perdite concludendo sostanzialmente in pareggio.
Il direttore esecutivo dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, l’ha definito un “momento monumentale” nella lotta contro il virus. A Bruxelles, dopo tanti silenzi sul tema, anche la Commissione europea ha finalmente parlato. “L’Ue è pronta a discutere qualsiasi proposta che affronti la crisi in modo efficace e pragmatico – ha detto la presidente Ursula von der Leyen – questo è il motivo per cui siamo pronti a discutere di come la proposta per una deroga alla protezione della proprietà intellettuale per i vaccini Covid possa aiutare a raggiungere l’obiettivo”.
La mossa di Biden cambia gli equilibri all’interno del consiglio generale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), ma non porta effetti concreti nell’immediato. La proposta di India e Sudafrica di sospendere temporaneamente (fino alla fine dello stato pandemico) i brevetti per i vaccini anti-Covid è sul tavolo del Wto da ottobre. Finora ha trovato l’appoggio di un centinaio di nazioni, ma per essere approvata ha bisogno del via libera di tutti gli Stati membri, in totale 164. L’Europa stessa, che finora aveva fatto sempre filtrare la sua contrarietà, nonostante la timida apertura di Von der Leyen è divisa al suo interno. Ieri il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha detto che i capi di governo dell’Ue discuteranno della condivisione dei vaccini, compresa “la rinuncia al Trips” (l’accordo internazionale a tutela della proprietà intellettuale), in occasione del vertice informale oggi a Porto, ma è stato molto ambiguo sul possibile esito della discussione, ricordando che “l’Ue ha sostenuto la terza via promossa dalla direttrice del Wto, Ngozi Okonjo-Iweala, su come portare i vaccini alla comunità globale. La cooperazione multilaterale è fondamentale”. Come dire: oltre all’idea di sospendere i brevetti, c’è anche quella di continuare sull’aumento di produzione con accordi tra le aziende e con le donazioni ai Paesi poveri.
Anche nel governo italiano si intravedono linee di pensiero diverse. Dopo l’annuncio dell’Amministrazione Biden, il premier Mario Draghi ha rilasciato una dichiarazione che non aggiunge nulla a quanto già si sapeva: “I vaccini sono un bene comune globale. È prioritario aumentare la loro produzione, garantendone la sicurezza e abbattere gli ostacoli che limitano le campagne vaccinali”, ha detto. Più netti Roberto Speranza e Luigi Di Maio. “La svolta di Biden sul libero accesso per tutti ai brevetti sui vaccini è un importante passo in avanti. Anche l’Europa deve fare la sua parte. Questa pandemia ci ha insegnato che si vince solo insieme”, ha dichiarato il ministro della Salute. Il capo della Farnesina ha definito l’annuncio americano “un segnale molto importante. L’Italia c’è, l’Europa non perda questa occasione e dimostri di essere unita e coraggiosa. Serve un libero accesso ai brevetti sui vaccini anti Covid. È una corsa contro il tempo e c’è bisogno della collaborazione di tutti per evitare di essere travolti dalle varianti del virus. Ogni Stato deve avere le stesse opportunità ed è fondamentale, davanti a questa emergenza, liberalizzare la produzione”.
Intanto le case farmaceutiche hanno iniziato a difendersi, paventando blocchi della produzione e l’arrivo sul mercato di vaccini contraffatti. L’associazione nazionale americana dei produttori di farmaci (The Pharmaceutical Research and Manufacturers of America) – di cui fanno parte AstraZeneca, Pfizer e J&J – ha fatto sapere per bocca del suo presidente, Stephen J.Ubi, che la mossa di Biden “è un passo senza precedenti che minerà la nostra risposta globale alla pandemia e comprometterà la sicurezza. Questa decisione genererà confusione tra partner pubblici e privati, indebolirà ulteriormente le catene di approvvigionamento già sotto stress e favorirà la proliferazione di vaccini contraffatti”.
Dalla Svizzera, patria di molte case farmaceutiche e Paese finora contrario alla proposta di India e Sudafrica, ha fatto eco l’associazione internazionale dei produttori di farmaci (The International Federation of Pharmaceutical Manufacturers and Associations): “La rinuncia ai brevetti dei vaccini Covid-19 non aumenterà la produzione né fornirà soluzioni pratiche necessarie per combattere questa crisi sanitaria globale. Al contrario, è probabile che provochi interruzioni nelle forniture”. Pareri negativi sono arrivati anche da alcuni tecnici di Washington, convinti che la sospensione dei brevetti avvantaggerà la Cina. “È un enorme passo falso che non farà nulla per aumentare la distribuzione di vaccini e sosterrà la capacità della Cina di appoggiarsi all’innovazione degli Stati Uniti per promuovere i suoi obiettivi di diplomazia sui vaccini”, ha detto Clete Willems, legale nell’Ufficio del rappresentante commerciale degli Stati Uniti sotto le amministrazioni Obama e Trump. La linea Usa sembra però ormai segnata. L’appoggio di Biden al Wto non basterà a creare immediatamente consenso unanime sulla proposta di India e Sudafrica, ma è possibile che già da oggi altri Paesi europei si schiereranno a favore per evitare di ripetere un errore di calcolo che già in passato è costato moltissimo.
Lo ha ammesso proprio ieri Von der Leyen: “Mi ricordo bene l’inizio della pandemia e l’appello dell’Italia all’Europa. Gli italiani chiesero la solidarietà e il coordinamento dell’Europa. L’Italia aveva ragione, l’Europa doveva intervenire. E questo è quello che abbiamo fatto”.
“L’avvocato siciliano si è pentito: ci ha fornito elementi importanti”
C’è un documento, e con esso una data, che mette ordine nella miriade di tasselli che compongono il caso Amara e della presunta loggia massonica coperta denominata Ungheria. La data è quella del 24 aprile 2020. La Procura di Milano scrive al Tribunale di Sorveglianza di Roma, al quale Piero Amara, attraverso il suo avvocato Salvino Mondello, ha chiesto l’affidamento in prova ai servizi sociali. Affidamento che tuttora non è stato definito. E scrivendo al tribunale romano sostiene una tesi che oggi risulta importante per tre motivi. Analizziamoli uno per volta.
Il primo punto riguarda proprio Amara: la Procura di Milano ritiene che abbia una condotta collaborativa e le sue dichiarazioni siano ampie e rilevanti. Al punto da considerarlo ormai “ravveduto” ed estraneo al “contesto criminale” nel quale, fino a quel momento, aveva commesso i presunti reati che gli vengono contestati. E parliamo di reati parecchio gravi. Nell’aprile 2020 Amara è infatti indagato a Milano per associazione per delinquere, induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria, impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita e riciclaggio. Reati che arrivano a una pena di 12 anni di carcere.
Il secondo punto è che la sua collaborazione riguarda proprio i verbali in cui Amara descrive – tra il dicembre 2019 e il gennaio 2020 – l’esistenza della presunta loggia alla quale, a suo dire, apparterrebbero decine di magistrati e alti esponenti delle istituzioni. Dobbiamo quindi ritenere che la Procura di Milano, in quel momento storico, nell’aprile 2020, metta nero su bianco una presunzione di credibilità rispetto a quel che Amara sta raccontando. Presunzione, perché prima di risultare effettivamente credibile, le sue dichiarazioni devono essere verificate.
E così arriviamo al terzo punto. Scrivendo al Tribunale di Sorveglianza di Roma, la procuratrice aggiunta Laura Pedio e il pm Paolo Storari, spiegano di non essere in grado di ipotizzare i “tempi di definizione” del procedimento – e quindi della credibilità definitiva di Amara – perché hanno un problema: la pandemia sta rallentando le indagini. Rilievo non secondario, nelle ricostruzioni di questi giorni, poiché rivela un dato: esiste un documento – e Il Fattoè in grado di rivelarne il contenuto – che non soltanto data (ad aprile 2020) ma mette certifica sia un “rallentamento delle indagini”, sia la sua motivazione: la pandemia in corso. Un dettaglio importante se consideriamo che, nella primavera 2020, Storari contatta il consigliere del Csm, Piercamillo Davigo, proprio perché sostiene di avere delle difficoltà con i suoi capi nel portare avanti le indagini. Difficoltà slegate, però, dall’emergenza sanitaria. Altrimenti, peraltro, non si spiegherebbe perché dovrebbe informare il consigliere del Csm.
Riepiloghiamo la situazione ad aprile 2020: per la Procura di Milano Amara è collaborativo, estraneo al suo vecchio “ambiente criminale”, “ravveduto”, ma le indagini rallentano a causa della pandemia. A febbraio Amara si era presentato in carcere per scontare la pena patteggiata per corruzione in atti giudiziari. Sono i giorni cui la Corte costituzionale ritiene illegittima l’applicazione retroattiva della “spazzacorrotti”: Amara torna libero e pensa al futuro e alla possibilità di essere affidato ai servizi sociali come misura alternativa al carcere. Ed è per questo che il suo avvocato, Salvino Mondello, chiede alla procuratrice aggiunta Laura Pedio di formulare un parere sulla collaborazione del suo assistito.
Ma da cosa si trae la conclusione che Amara sia “collaborativo” e “ravveduto”? La Procura di Milano cita proprio gli interrogatori resi tra il dicembre 2019 e gennaio 2020. Quelli in cui ha descritto la presunta loggia Ungheria. Ma non solo. Ha messo sul tavolo almeno un’altra notizia esplosiva: qualcuno gli ha raccontato – ma non esclude una millanteria – che Marco Tremolada (giudice del processo sulla corruzione dei vertici Eni per l’acquisto del giacimento nigeriano Opl 245) è stato avvicinato e avrebbe garantito l’assoluzione di Eni in tempi rapidissimi. E mentre l’accusa, nel processo Eni-Nigeria, tenta inutilmente di acquisire i verbali di Amara, la Procura di Brescia indaga e archivia perché ha verificato che Tremolada risulta estraneo a qualsiasi avvicinamento.
“Ebbi i verbali di Amara a Milano, poi lo dissi al Csm. Tutto regolare”
La consegna dei verbali in cui l’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara rivela l’esistenza di una presunta loggia Ungheria – ora al centro di un’indagine che ha scatenato un terremoto dentro la magistratura – avvenne a Milano. Lo ha confermato l’ex consigliere del Consiglio superiore della magistratura Piercamillo Davigo ai pm romani che lo hanno sentito mercoledì come persona informata sui fatti.
Chi gli ha portato quei verbali, nella sua casa di Milano, è Paolo Storari, magistrato della Procura di Milano, convinto che i suoi superiori, il procuratore Francesco Greco e l’aggiunto Laura Pedio, non volessero spingere l’acceleratore sull’inchiesta innescata dalle dichiarazioni dell’avvocato siciliano. Davigo non ricorda se quei verbali gli furono consegnati a mano in una pen-drive o recapitati tramite posta elettronica, ma non ha dubbi sul tempo, la scorsa primavera, e la città, Milano, in quel momento completamente chiusa per il lockdown. Alla Procura di Roma è arrivata una relazione del procuratore milanese Greco che – riferendo quanto gli avrebbe detto in un primo tempo Storari – colloca la consegna a Roma. Ora la versione di Davigo ha l’effetto di rendere la procura di Brescia, e non quella di Roma, competente per le indagini, perché è Brescia che deve indagare sui magistrati di Milano. Sabato il nodo sarà sciolto, con l’interrogatorio a Roma di Storari, intanto iscritto nel registro degli indagati per rivelazione di segreto d’ufficio.
Nel corso del suo interrogatorio davanti al procuratore di Roma Michele Prestipino e alla pm Lia Affinito, Davigo ha ripercorso tutti i passaggi di questa vicenda riferendo circostanze finora inedite, ricostruite dal Fatto anche con l’utilizzo di altre fonti.
All’inizio di questa vicenda c’è Piero Amara, avvocato siciliano che ha già patteggiato una condanna per corruzione. Da dicembre 2019 a gennaio 2020 rende ai pm di Milano Pedio e Storari diversi interrogatori nei quali racconta dell’esistenza di una presunta loggia denominata Ungheria di cui farebbero parte magistrati, avvocati, politici, funzionari, ufficiali delle forze dell’ordine. Nelle settimane seguenti, Storari lamenta una inerzia delle indagini e la mancanza di formalizzazione dell’inchiesta, che resta per mesi (fino al 12 maggio 2020) senza alcuna iscrizione nell’elenco degli indagati. Confida i suoi timori a Davigo, che gli consiglia – ha spiegato l’ex consigliere Csm ai pm capitolini – di mettere per iscritto il proprio dissenso ai superiori. Storari dice di averlo fatto con molte email inviate a Greco e Pedio. Al termine del lockdown, Davigo torna a Roma e dal 4 maggio riferisce della situazione di Milano al alcuni membri del Csm. Al suo vicepresidente, David Ermini, il quale – secondo quanto spiega Davigo – a sua volta avrebbe informato il Quirinale, porgendo poi a Davigo i ringraziamenti del Colle. Ermini al Fatto ha dichiarato: “Confermo solo che me ne parlò”. Nella settimana successiva, Davigo informa anche Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione. Aprire una pratica formale, sostiene Davigo, avrebbe distrutto l’indagine, non riuscendo più a tutelarne il segreto.
“Ho agito dunque nelle uniche forme consentite dalla particolarità della situazione”, ha spiegato. “Ho legittimamente ricevuto i verbali, perché il segreto non è opponibile a un consigliere del Csm”. In ogni modo, dopo che Davigo parla con Salvi, questi prende contatto con Greco e la macchina delle indagini si riavvia. Viene coinvolta la procura di Roma, con Michele Prestipino, e quella di Perugia, competente per le toghe della Capitale, con Raffaele Cantone. Intanto i verbali segreti cominciavano ad arrivare in forma anonima ai giornali, al Fatto e poi a Repubblica. La Procura di Roma individua la “postina”, una ex segretaria al Csm di Davigo, uscito intanto dal Consiglio e andato in pensione. Su questo, Davigo ha spiegato ai pm che di non sapere nulla, se non che la segretaria aveva accesso al suo computer. Nessun ritardo nell’iscrizione, nessuna inerzia nelle indagini, reagiscono alla Procura di Milano. Furono fatte decine di accertamenti, rallentati soltanto dal lockdown che bloccò per mesi gli uffici giudiziari.
Zingaletta
Tra le notizie stupefacenti delle ultime ore, la più stupefacente è il pressing di Letta sul suo predecessore Zingaretti perché lasci la Regione Lazio con un anno d’anticipo e si candidi a sindaco di Roma. O, peggio ancora, lo faccia senza dimettersi, aspettando fino all’ultimo giorno utile (inizio settembre) per mollare la carica, così da far slittare le Regionali anticipate a qualche settimana dopo le Comunali. Il motivo è evidente: se si votasse lo stesso giorno per la Capitale e per la Regione, gli stessi elettori romani del centrosinistra dovrebbero votare separati per il sindaco (o la Raggi o Zingaretti, che già fanno scintille prima della sfida, figurarsi in campagna elettorale) e uniti per il cosiddetto “governatore” (verosimilmente espresso dalla coalizione giallorosa). Diciamo subito che questo trucchetto da magliari sarebbe umiliante per Zingaretti, per il Pd, per la coalizione, ma soprattutto per gli elettori. Un’indecenza etico-politica, oltreché la tomba di quel “nuovo centrosinistra” che il Pd di Zingaretti, con Conte, al M5S e a Leu, ha cercato faticosamente di costruire in questi 20 mesi e in cui Letta dice di credere.
Che Pd e M5S corrano separati alle Comunali è inevitabile: la Raggi aspira legittimamente al bis e il Pd non ha perso occasione di combatterla, con armi proprie e anche improprie, per tutto il mandato. Un accordo al primo turno è impensabile: nulla di strano se i dem presentano il loro candidato (Zingaretti aveva scelto Gualtieri, Letta l’ha ibernato): poi si vedrà chi fra lui e la Raggi passerà al ballottaggio e chi fra 5Stelle e Pd dovrà sostenere l’altro. Ma una forzatura assurda come sradicare Zingaretti dalla Regione sarebbe una dichiarazione di guerra al M5S alleato, che non resterebbe senza conseguenze. Il M5S sarebbe legittimato a rispondere schierando candidati forti a Milano, Torino e Bologna per mettere i bastoni fra le ruote a Sala e agli altri aspiranti sindaci Pd (per ora ignoti). E comunque i cittadini la prenderebbero malissimo: quelli del Lazio si domanderebbero che rispetto abbia Zingaretti a mollarli a metà della campagna vaccinale per traslocare al Campidoglio, fra l’altro dopo aver giurato per mesi che mai e poi mai l’avrebbe fatto; e quelli di Roma, già perplessi per la politica regionale sui rifiuti (molto simile al sabotaggio permanente della sindaca), si sentirebbero usati in una guerra di potere che non ha nulla di nobile (se è pronto Gualtieri, perché far saltare Zinga da una poltrona all’altra?). Davvero Letta pensa che basti spostare le Regionali un paio di settimane dopo le Comunali per far dimenticare agli elettori del Pd e del M5S la battaglia all’arma bianca fra Raggi e Zinga? Ma dove vive: sulla luna?
Prima ci si spoglia e si convive, poi chissà: in tv l’amore si fa al contrario
Inno al poliamore? Sfida agli stereotipi di genere? Trionfo del body positive? “Un vero esperimento sociale, in cui i single tornano alle origini, cominciando l’appuntamento come di solito si finisce: nudi”, ha detto la conduttrice di Naked Attraction Italia, Nina Palmieri. Severo ma giusto.
L’ultima puntata televisiva della versione nostrana di questo format inglese è andata in onda il 4 aprile su Real Time. Rigorosamente a mezzanotte, quando, si sa, va la ronda del piacere. Ma i dieci episodi sono reperibili on demand sulla piattaforma digitale Discover+. I rendez-vous senza veli hanno retto l’urto dei moralismi tricolori, anche perché, a lungo vedere, si è capito che non c’è nulla di oltraggioso o sulfureo in queste disarmanti ostensioni anatomiche.
La formula è questa. Le anime solitarie, abbigliate come Adamo ed Eva, alla ricerca dell’amor empirico più che cortese, si fiutano solo ed esclusivamente col criterio del gradimento fisico. Immediato e globale. Due turni alla volta, un selezionatore/trice (vestito/a) al centro dello studio e sei pretendenti come mamma li ha fatti dentro cabine colorate. Zoom sulle parti intime e, a seguire, il busto, il petto e, buon ultimo, il viso. Come se genitali freschi di ceretta o a penzoloni potessero scatenare l’attrazione fatale. Questione di feeling, sì, ma biochimico. Le telecamere indugiano là dove non dovrebbero battere le luci del sole o dei riflettori. Un bazar urologico-ginecologico, un’intesa erotica radiologica preliminare, chissà, a un futuro ménage sentimentale. Quando ne sono rimasti due in gara, tocca al “giudice”, che si spoglia finalmente, e comunica la sua decisione. Uscirà col concorrente superstite. Si rimettono qualcosa addosso e poi, daje, per dirla con José Mourinho. Che batta o meno un colpo Cupido.
Al cast si era presentata una multiforme armata cripto-naturista: studenti, operai, farmacisti, impiegati, imprenditori. Ventenni e settantenni. Omosessuali, eterosessuali, transessuali, “non binari”. Idee per nuovi reality sulla falsariga? Il grande fringuello; L’isola delle formose; XXX Factor; Master Sex.
Naked non è l’unico dating show in programmazione negli ultimi tempi. Su Sky Uno, il giovedì sera, macina spettatori il ben più castigato Cinque ragazzi per me, e l’obiettivo di fondo è il medesimo: rovesciare i canonici step di una relazione. Una donna affrancata da impegni pregressi accoglie per almeno quattro giorni nel suo appartamento cinque giovani maschi, pure loro free eppur smaniosi di “fare sul serio”. Ognuno possiede qualità che lei ritiene indefettibili per intraprendere una love story. “La costruzione di un amore è come un altare di sabbia in riva al mare” cantava Fossati. Meglio allora un test collettivo e, nel caso, chiedere l’aiuto del pubblico da casa.
“Mangiavino e busecca”: per chi suona la dirlindana
Quando, prima di cominciare a scriverne, lo accompagnai in giro per il mio paese al fine di mostrarglielo e capire se avesse gradito di vivere in quel luogo le sue amene avventure, dovetti anche spiegare al mio amico maresciallo Ernesto Maccadò alcune caratteristiche peculiari del posto.
Fu un tour abbastanza lungo che mi tenne occupato dalla mattina alla sera durante il quale non gli mostrai solo viuzze, antri, angoli apparentemente anonimi ma in fondo necessari nel caso dovesse correre dietro a qualche furfantello. Con un certo orgoglio, tanto per fare un esempio, lo feci salire al cimitero al solo scopo di fargli godere l’ampia vista che da lì si guadagna su gran parte del lago così come lo condussi a prendere visione delle case natali di un paio di illustri concittadini quali sono stati l’amico del Manzoni, Tommaso Grossi, e lo sfortunato, perché morto di peste in giovanissima età, Sigismondo Boldoni. Sul lungolago gli dissi che, qualora avesse deciso di stabilirsi qui, la sua signora, magari percorrendolo sottobraccio a lui, avrebbe potuto ammirare estenuanti tramonti settembrini e a volte cieli che avevano i colori del Giorgione. Fu con un certo imbarazzo invece che a una sua precisa domanda risposi elencando il notevole numero di osterie che punteggiavano il paese, a conferma del fatto che il soprannome degli abitanti, “mangiavino”, non era stato dato a caso. E a seguire, anche per deviare il discorso, volli metterlo al corrente di due eccellenze gastronomiche con le quali avrebbe avuto a che fare: i missoltini, agoni, pesci insomma, seccati con antica maestria e da consumare con la polenta, e la “busecca”, trippa, del cui profumo l’aria del paese si impregnava la notte di vigilia dell’Epifania, essendo il piatto della festa. Come ho detto, al tempo di questa visita preventiva ancora non avevo il permesso di assumerlo nel novero dei miei personaggi ma dopo la giornata trascorsa assieme contavo in un suo parere positivo.
Fu quando ormai la giornata volgeva al termine che cominciai ad attendere un suo giudizio ed ebbi la sensazione che stesse per emetterlo nel momento in cui, calata la notte, lo stavo riaccompagnando in stazione per riprendere il treno. Preso un lungo respiro il Maccadò aprì la bocca e fece per parlare ma si bloccò subito, un’espressione di all’erta in viso. “Questo cos’è?”, chiese poi. Questo cosa?, pensai io, guardandomi in giro. “Questo”, chiarì lui mettendosi un dito al naso per segnalarmi di stare zitto. Capii allora. Ma le mie orecchie vi erano talmente abituate che a volte mi sfuggiva. Tuttavia, a domanda risposi. “Maresciallo, è la dirlindana”. Suonata dalle campane della chiesa. Sorta di cantilena, tre note, anche un po’ lugubri, un “din don dan” sulle cui origini se ne raccontano parecchie. L’ultima in ordine di tempo lo spiega quale segnale di coprifuoco imposto ai bellanesi ai tempi della dominazione austriaca forse perché il popolo di allora era abbastanza indocile. Tenuta in auge poi, spariti quelli, e divenuta col tempo parte integrante dei piccoli appuntamenti quotidiani nella vita del paese. Una tradizione ormai, chiarii, e come tale si ripeteva suonando sempre alla stessa ora. “Le dieci meno dieci”, puntualizzai.
Il maresciallo verificò l’ora sul suo orologio. “Meno male che non sono più quei tempi”, dissi io. Lui mi guardò. “Non si sa mai”, ribatté. E anche oggi, ogni volta che lo incontro, non manca di ricordarmi quella sera ormai lontana. Perché, afferma, la storia si ripete, più o meno uguale.
“Il texas affascina come Marte”. “Il 99% è merda. Ma c’è l’1”
Joe Lansdale non ha bisogno di presentazioni. È autore affermato di noir, horror e thriller, e soprattutto della serie hard boiled con protagonista la coppia di detective spiantati del Texas orientale, Hap e Leonard. Un bianco progressista e un nero gay repubblicano amici per la pelle, i cui casi si risolvono sempre in una serie di sonore scazzottate. Ma Lansdale, che ha all’attivo ormai un centinaio tra romanzi e raccolte di racconti oltre a decine di fumetti (Batman, Tarzan…) e sceneggiature, è anche uno che ama andare al punto. Forse c’entrano le arti marziali, che insegna con un suo personale mash-up di discipline a Nacogdoches, Texas, dove vive.
Mentre aspettiamo a giugno la nuova edizione di Freddo a luglio (da cui il film omonimo) da martedì è in libreria Cronache dal selvaggio West, serie di racconti su Hap e Leonard giovani. Il titolo originale parodiava Steinbeck: Of mice and minestrone. Lansdale la fa semplice: “C’è un racconto con un topo e un minestrone. Aveva senso, tutto qui”.
Pensa sempre di ambientare un prossimo romanzo in Italia?
Sì, una storia di Hap e Leonard. Anche se ancora non mi sento di conoscere l’Italia abbastanza bene. Pensavo a Bologna…
Si è spiegato il perché del suo grande successo qui?
Mi fanno spesso questa domanda. Non ne ho la minima idea, ma mi fa piacere. Presumo che i libri siano tradotti molto bene. Ma forse il Texas affascina perché è un luogo remoto, un po’ come Marte…
Queste storie di Hap e Leonard saranno le ultime?
Non ancora. Sto per pubblicare alcuni racconti dal punto di vista di Leonard, anche senza Hap. Spero siano l’inizio di una raccolta su di lui. Però sento che mi sto avvicinando alla fine del ciclo sui due. Non subito: prima ho almeno altri tre libri.
Hap e Leonard sono cambiati nel tempo?
Se non cambiassero sarebbero noiosi. E poi al di là della trama, le loro storie sono per me anche un modo per parlare di come si affrontano le tappe della vita.
Perché ha scelto di creare una coppia di detective?
Perché sentivo di poter giocare con loro per creare non solo dialoghi interessanti e divertenti, ma anche per affrontare questioni sociali e politiche da due punti di vista diversi.
Oltre alle arti marziali e la musica, il cibo è molto importante nelle sue storie…
È uno dei motivi per cui amo l’Italia…
Quella tra detective e cucina è un’accoppiata tipica dei gialli. Si sente legato a questa tradizione?
Potrei rispondere di sì, ma il motivo principale è che il cibo mi interessa e piace alle persone. Come il resto, è un portato della mia esperienza. Buona parte della vita di Hap è la mia, Leonard è un misto di molte persone che ho conosciuto. C’è sempre un po’ di te in ogni personaggio. Anche quelli presi in prestito da altri autori, anche nel cane che abbaia.
A quale genere si sente più legato?
Al giallo e all’horror, ma scrivo di tutto. Più che altro sono uno scrittore freelance.
E affronta spesso questioni sociali, tipicamente quelle dell’America degli anni 60-70. Trova gli stessi problemi anche oggi?
Scrivo polizieschi, e nei polizieschi ci devono essere crimini e personaggi oscuri, sennò non sono interessanti. E se vuoi parlare di questioni sociali devi per forza concentrarti e martellare su quello che non funziona. Comunque, sono molto più felice ora che è presidente Joe Biden. Non dico che andrà tutto bene, Biden mi piace ma non è perfetto. Theodore Sturgeon (scrittore di fantascienza americano, ndr) diceva che il 99 per cento di ogni cosa è sempre merda. Resta l’uno per cento.
Cosa pensa della cancel culture, che ha lambito uno dei suoi autori preferiti, Mark Twain, e più di recente il biografo di Philip Roth?
Non conosco il caso del biografo di Roth e non posso commentarlo. In generale, c’è cancel culture da entrambe le parti. Mark Twain è attaccato da destra perché parla di razzismo e da sinistra perché usa termini razzisti. È un’idiozia: conta il contesto, non le parole. Nei miei libri uso un linguaggio offensivo, ma il contesto è antirazzista, per questo mi servono personaggi razzisti… Intendiamoci, per i crimini veri non ci sono scuse. Non andrò a vedere un film di Roman Polanski perché è provato che è uno stupratore. Non è questione di arte, lui trae profitto dai suoi film. Ci andrei se fosse morto, anche perché adoro Chinatown, e Rosemary’s Baby. Però un’offesa verbale non è uno stupro o un omicidio. La vita delude a volte, invece ci sono gruppi di giovani, più o meno universitari, che hanno paura delle delusioni e vogliono fissare regole per evitarle. Non puoi pretendere una legge per punire chi è stronzo solo perché è stronzo. Ma probabilmente sto già offendendo un sacco di gente con questo discorso. E allora che si fottano. La gente ha bisogno di incazzarsi ogni tanto.
Iñigo Errejón. Mas Madrid, l’esperimento riuscito del matematico ribelle
“Ha svolto un ruolo fondamentale nella politica spagnola e per il suo cambiamento. Gli auguro il meglio e ci tengo a dire che le ingiurie che ha subito finora avrebbero dovuto essere messe a tacere già da tempo”. Iñigo Errejón Galván a testa bassa commentava così la debacle del suo ex socio di Podemos, Pablo Iglesias alle Regionali di Madri. Lui, Iñigo, il cervello della formazione nata dagli Indignados del 15-M, avrebbe potuto prendersi la rivincita sul sodale, non foss’altro che per restituirgli la frecciatina ricevuta alle Politiche del 2019 quando il leader di Podemos davanti al risultato di Mas Madrid – 3 seggi – dichiarò: “Per Errejón può essere il giorno più difficile della sua vita. Gli mando un abbraccio”. Di certo si rifarà politicamente. Il successo della sua formazione, Mas Madrid, non sarebbe il punto d’arrivo. C’è chi nella sua cerchia è convinto che Errejón stia già facendo i suoi calcoli “da laboratorio” per estendere la vittoria a tutta la Spagna ripetendo magari all’infinito il sorpasso sui socialisti ottenuto dalla “sua” candidata Monica Garcia. Si potrebbe dire che tra due visioni – quella vista come “moderata” di Errejón e quella “di lotta” di Iglesias – la prima abbia avuto ragione sulla seconda, al contrario di quanto pronosticato nel famoso scontro del congresso di Vistalegre II, nel febbraio del 2017. Lì ebbe inizio la rottura tra il numero uno e il suo eterno secondo, con il conferimento da parte della base del partito di tutto il potere a Iglesias. Classe 1983, il “niño bueno” è già due volte deputato, nel 2015 per Podemos e dal 2019 per Mas Pais. Ma da “matematico ribelle” qual è, si può dire che abbia tessuto le coordinate di questa rivincita in diversi esperimenti. Il primo, la nascita nel 2018, di Mas Madrid, la piattaforma per le Comunali che avrebbe dovuto incoronare l’ex sindaca giudice Manuela Carmena. Non funzionò, ma il bambino prodigio la riutilizzò per le Regionali 2019 con un risultato insperato: il 14% dei voti. Con la stessa formazione domenica ha raccolto 2 punti e 4 seggi in più.
Traditore per molti, sebbene tra i due fondatori a ben guardare pare il più fedele ai valori del Podemos originario: di lui si ricorda la tesi sulle gesta di Evo Morales in Bolivia e su come “Mas”, (notare l’assonanza) abbia disarcionato l’oligarchia dominante. Errejón tuttavia dal suo laboratorio non ha mai sottovalutato il populismo, che poi nient’altro è che la ragione per cui ti votano da tutti gli schieramenti. Refrattario a identificarsi con la sinistra, negli ultimi anni in odore di pesanti sconfitte, motivo per cui si fece andar bene la fusione con Izquierda Unida, ma non la convivenza sotto lo stesso tetto, c’è chi lo definisce “un costruttore di popoli”. Il mondo che rappresenta si basa sui valori di ecologia, sostenibilità, eguaglianza e giustizia sociale. Ultimo, ma non ultimo, un sistema paritario soprattutto a livello di genere. Da qui l’ultima sfida: lanciare la candidata Monica Garcia alla Comunità di Madrid. Una donna, medico, con una storia di mobilitazione recente ma calzante: Garcia nasce dalla marea bianca delle proteste sanitarie contro i tagli del 2012-2013. Anche lei ex Podemos “pentita”. Ma ciò che più conta, fuori dalla politica politicante e dalle ideologie “scontate”. “Un altro parto extrauterino”, come ha definito la candidatura di Garcia lo scrittore ed editorialista del Paìs, Juan José Millas. Così come lo fu l’avvicinamento opportunistico da parte di Errejón nel 2019 ai socialisti di Pedro Sanchez che gli valse la rottura con Iglesias. Anche su quella mossa ebbe ragione: Podemos e Psoe governano insieme. Ma Iglesias non c’è più e Sanchez dopo domenica se si guarda a sinistra vede Errejón. Il quale già ha chiesto al premier di “dare più spazio agli alleati”. Anche “l’esperimento Madrid” è riuscito.
Pablo Iglesias. L’ex star di Podemos e la sua rivoluzione incompiuta
Eurodeputato, deputato, vicepresidente del governo: non è comune aver accumulato così tante cariche importanti in soli sei anni. Ma Pablo Iglesias Turrión, fondatore nel 2014 di Podemos, la formazione nata dagli Indignados di Puerta del Sol, non è un politico “come tutti”. Anzi, odia a tal punto percepirsi come tale da dimettersi da qualunque incarico in un istante e un istante dopo aver contato i voti delle Regionali di Madrid, dimezzati rispetto a due anni e mezzo fa. “Non apporto niente”, ha constatato rammaricato il leader di Podemos in conferenza stampa. “Mi hanno soltanto fatto diventare il capro espiatorio. Lascio la politica”. Sì, è vero: “l’effetto Iglesias”, da lui tanto sperato nel lasciare la vicepresidenza del governo per “salvare Podemos” dalla scomparsa, non c’è stato e neanche lui è riuscito a salvare “Madrid dai fascisti”. Eppure questo “tutto o niente” è tipico di Iglesias. Solo un politico dal “metabolismo accelerato”, come lo definisce lo scrittore ed editorialista del Paìs Juan José Millas, avrebbe mollato tutto in due minuti. “Un uomo dalla combustione rapida. Capace di ardere con la passione di un cerino, con lo stesso fulgore, o con l’impeto dei fuochi artificiali”. Ma a restare col cerino in mano è stato lui. Capro espiatorio del passaggio dalla politica dei puri e duri del Podemos originario a quella reale e governativa e per giunta alleata dei socialisti. Negli stessi anni fulgenti in cui Iglesias accumulava incarichi, Podemos perdeva voti. Finché lui stesso, una volta leader acclamato dalla folla e primo nelle intenzioni di voto degli elettori di sinistra – i programmi tv in cui veniva invitato raggiungevano un’audience pazzesca – non si è visto trascinato al minimo storico di gradimento. Finché un giorno di maggio simile a quello del 15-M, l’omonimo dell’Iglesias fondatore del Partido Socialista Obrero Español, che dai giovani comunisti ha iniziato la carriera politica, figlio di una sindacalista e di un ex membro del Frente Revolucionario Antifascista y Patriota, il più “castizo” dei candidati madrileni, ha dimostrato un peso specifico pari al 7,2% dei voti per 261.010 elettori. Neanche un quartiere della Capitale.
Per molti a mancargli è stato l’ingegno politico, il tatticismo, lui politologo che qualche segno di strategia politica l’ha dimostrato nell’ingresso nel governo Sanchez, l’antico rivale. “Mai – aveva giurato il leader del Psoe solo a febbraio del 2019 – riuscirei a dormire sapendo di avere accanto lui come vicepresidente”. Ma si è trattato di un barlume. Ad accecare l’ex professore della Complutense che spera di tornare a insegnare, è arrivata la convocazione delle Regionali da parte della governatrice Popolare Isabel Diaz Ayuso, con Podemos dato al 5% nei sondaggi: neanche la soglia di sbarramento per entrare in Assemblea. “Il salvatore della Patria” non è riuscito ad assistere alla fine della sua creatura senza immolarsi. “Un kamikaze a Madrid” titolavano i giornali. Ma tentando sempre il tutto per tutto, Iglesias si è affidato alla polarizzazione messa in scena da Ayuso “per la libertà contro il comunismo”, chiedendo la mobilitazione “del voto di sinistra contro i fascisti”. Un tranello contro cui niente ha potuto, neanche il porta a porta alla “cintura rossa” dei municipi della capitale. Madrid gli è costata la fine della folgorante carriera “istituzionale”. Tornerà a fare politica, dice, come prima di Podemos. Resta al suo posto la ministra delle Pari opportunità, sua moglie Irene Montero. “Non sarò io l’ostacolo al rinnovamento”, ha spiegato. Martedì il direttivo ufficializzerà le dimissioni da segretario generale. Al suo posto subentrerà la ministra del Lavoro, Yolanda Diaz, e “una grande squadra”. Sperando che non si ritrovino con lo stesso cerino in mano.