Zapatisti, inizia su un veliero il tour in Europa della ribellione

È salpato il 3 maggio da Isla Mujeres il veliero “La Montagna” con a bordo Escuadron 421. Si tratta della prima delegazione dell’Esercito Zapatista di liberazione nazionale a lasciare i confine del Paese per intraprendere un tour dei cinque continenti. Primo approdo, Galizia, Spagna, in un immaginario viaggio dei colonizzatori al contrario che però non vuol dire riconquista, ma riapprodo, rilettura della storia, ciclo tra vincitori e vinti, spiegano i protagonisti. A bordo del veliero viaggiano quattro donne, due uomini e una persona trangender: Lupita, 19 anni, Ximena, 25, Yuli, 37 e Carolina, 26; Darío, 47 anni e Bernal, 57 e Marijose, 39 anni. Sarà proprio Marijose la prima a mettere piede in terra spagnola, “uno schiaffo con una calza nera all’intera sinistra eteropatriarcale”. Il programma prevede incontri, appuntamenti e scambi in tutta Europa. Dalla Germania all’Austria alla Slovenia, alla Catalogna, Cipro, Croazia, Danimarca, Finlandia, Francia, Grecia, Paesi Bassi, Ungheria, Italia, Sardegna, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Baschi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Romania, Russia, Serbia, Svezia, Svizzera, Turchia e Ucraina. Diverse “geografie” dove “contribuire alla lotta contro il capitalismo per essere pienamente consapevoli delle differenze e allontanarsi da ogni desiderio di omogeneizzazione o egemonia”. L’Ezln sta preparando anche altre delegazioni che viaggeranno nei vari continenti in aereo, composte anche da comunità indigene e un gruppo ambientalista della zona di Morelos, Puebla e Tlaxcala, che si batte contro il progetto di una doppia centrale termoelettrica che ruberebbe le risorse idriche agli agricoltori della regione. L’idea è quella di incontrare ogni tipo di ribellione in altri Continenti: dai Gilet Gialli alle resistenze territoriali contro i grandi progetti costruttivi, ai collettivi femministi, a quelli migranti, passando per chi si batte contro la violenza di ogni genere. Una rete internazionale di mutuo aiuto dalle aeree metropolitane a quelle rurali. Non si conoscono ancora le date del tour, ma Escuadron 421 conta il 13 agosto di essere a Madrid per “celebrare” a modo suo i 500 anni della conquista del Messico-Tenochtitlan da parte dell’esercito di Hernán Cortés.

Le Nuevas Ideas fanno paura. Bukele, golpe senza armi

L’acceso dibattito sulla fortuna sempre più sfacciata delle cosiddette “democrature” oggi coinvolge inevitabilmente un altro Paese del Centro America: El Salvador. Noto all’opinione pubblica internazionale per una delle guerre civili più lunghe e sanguinose del secolo scorso, El Salvador sta precipitando nuovamente in una dittatura travestita da democrazia grazie all’esercizio del voto ancora concesso alla popolazione. Lo scorso febbraio, infatti, le elezioni legislative e municipali sono state vinte in maniera schiacciante dal partito Nuevas Ideas del presidente che sta sempre su Twitter, di origine libanese, Nayib Bukele. Con 61 seggi su 84, il partito personale di Bukele dal 1° maggio, giorno del giuramento dei deputati, sta dunque governando uno dei Paesi più poveri e violenti del globo senza dovere più negoziare con un’opposizione relegata a un ruolo del tutto irrilevante.

Al giovane Bukele, che se ne va in giro con un cappellino da rapper allo scopo di ammiccare ai giovani membri delle marras – le potenti gang che seminano il terrore e forniscono manovalanza al narcotraffico – questo risultato politico ha fornito la patente per estendere il proprio potere condiviso in modo smaccatamente nepotistico con i fratelli e i collaborarori di quando era titolare di una agenzia di pubblicità e comunicazione politica. È da domenica scorsa però che la deriva dispotica del capo di questa piccola Repubblica presidenziale si è del tutto conclamata. Gli avvocati salvadoregni e le organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato che durante lo scorso fine settimana i neo legislatori di Nuevas Ideas hanno inferto un colpo irreparabile a questa già fragile democrazia in seguito alla rimozione d’imperio del procuratore generale e dei giudici della Corte costituzionale. Ciò significa che anche gli ultimi due contrappesi all’amministrazione Bukele, iniziata nel giugno 2019, sono stati eliminati. Ma la maggior parte dei sei milioni e mezzo di salvadoregni sembra non accorgersene o condividere il colpo di mano. L’indice di popolarità di Bukele, che durante la campagna elettorale ha fatto riempire di pasta e tonno le dispense dei poveri non è calato nemmeno lo scorso 9 febbraio. È stato il giorno in cui il presidente è entrato in Parlamento assieme a un plotone di soldati, invocando Dio e minacciando i deputati. 
Due anni fa Bukele ha vinto le presidenziali con un programma anti corruzione che ha fatto appello agli elettori stufi dei due partiti che da decenni si alternano al potere: Fmln, di sinistra e Arena di destra. Senza il sostegno dei parlamentari tuttavia molte delle sue proposte erano rimaste finora bloccate.

A dare man forte ai legislatori avevano concorso la Corte costituzionale, l’ufficio del procuratore generale e il difensore civico. Ecco spiegato il motivo del loro anti costituzionale licenziamento. Cinque nuovi giudici sono già stati nominati dalla nuova assemblea parlamentare. “In questo modo il parlamento sta di fatto avvisando tutti gli altri funzionari che se si mette in dubbio la visione del presidente si viene rimossi”, ha detto Manuel Escalante, un avvocato dell’Istituto per i diritti umani dell’Università dell’America centrale. Bukele e i propri sostenitori hanno difeso questa decisione sostenendo che è necessaria per liberare il paese dai funzionari corrotti delle passate amministrazioni. È importante sottolineare che la rimozione del procuratore generale è avvenuta in un momento in cui stava indagando su gravi atti di corruzione e legami dell’attuale governo con la criminalità organizzata. Essendo il Centro America il “giardino di casa” degli Stati Uniti, la vicepresidente della neo amministrazione Biden, Kamala Harris, è intervenuta. Harris, che sta guidando gli sforzi della Casa Bianca per trovare accordi con il Messico e i paesi dell’America centrale allo scopo di arginare l’ondata migratoria, ha detto che “una magistratura indipendente è fondamentale per una democrazia sana e per un’economia forte”. Il Segretario di Stato, Antony Blinken, le ha fatto eco in una telefonata con Bukele mentre Usaid, l’agenzia per lo sviluppo, ha ricordato che una magistratura indipendente è “un presupposto necessario per combattere la corruzione e attrarre investimenti”. Bukele ha respinto queste critiche con un tweet: “Ai nostri amici della comunità internazionale: vogliamo lavorare con voi, fare affari e conoscerci. Le nostre porte sono più aperte che mai. Ma con tutto il rispetto: stiamo pulendo la nostra casa… e non sono affari vostri”.

Quel rapporto Onu sul principe Mbs e la Renzata a Riyad

Da oggi in edicola e in libreria il libro “Il caso Khashoggi”, pubblicato da PaperFirst, la casa editrice del Fatto, a cura di Marco Lillo e Valeria Pacelli inaugura la nuova collana “Nero su bianco”: una serie di libri che raccoglie documenti inediti e scomodi sulle principali inchieste italiane e non. “Il caso Khashoggi” prende spunto dalla partecipazione di Matteo Renzi al congresso del 28 gennaio a Riad con il principe ereditario Mohammad bin Salman. Nel libro, per far comprendere la gravità del gesto di Renzi pubblichiamo i rapporti originali nei quali il Governo Usa e la Relatrice speciale dell’Onu dicono la loro sulle responsabilità del principe saudita. Per la prima volta sono tradotti in italiano integralmente il rapporto della relatrice speciale del Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu Agnès Callamard e la relazione sul caso del Direttore dell’Intelligence Usa. Nel libro ci sono poi le interviste ad Hatice Cengiz, promessa sposa di Khashoggi; a Bryan Fogel, regista del documentario The Dissident e alla stessa Callamard, poi nominata segretario generale di Amnesty International. Qui un estratto della prefazione a cura di Marco Lillo.

 

Questo libro nasce dalla sorpresa provata nel vedere Matteo Renzi davanti al Principe saudita Mohammad bin Salman sul palco del Future Investment Initiative, un evento che si tiene ogni anno a Riyad ed è giunto alla sua quarta edizione. La scena ha fatto il giro del mondo ed è visibile su YouTube: il Principe saudita – sospettato di essere il mandante di un’operazione tesa al rapimento e/o all’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi – chiama cordialmente Renzi “Prime Minister“ come se fossimo ancora nel 2015. Renzi risponde appellando il Principe “my friend” e gli dice cose tipo: “È un grande onore e piacere essere qui con il grande Principe ereditario dell’Arabia Saudita Mohammad bin Salman, grazie tantissimo per questa opportunità. Per me è un privilegio particolare parlare con te del Rinascimento. Questo perché io non sono solo l’ex premier dell’Italia (come era stato presentato Renzi dalla voce fuori campo, ndr) ma sono soprattutto l’ex sindaco di Firenze, la città del Rinascimento”. Ascoltare un politico che è stato pur sempre il premier del nostro Paese per quasi tre anni, nonché il leader del partito di centrosinistra più forte d’Europa (da lui portato al 40,8%), nonché il sindaco di Firenze per due mandati, dire quelle cose davanti al mondo fa impressione. Almeno a chi conosca i fatti relativi al caso dell’omicidio di Jamal Khashoggi. Come ha fatto, ci siamo chiesti, un politico che nel bene e nel male ha segnato la scena italiana nell’ultimo decennio, a farci fare quella figura barbina sulla scena internazionale? Come ha potuto parlare sorridendo con leggerezza di polis e di civitas in relazione alla politica e all’odierna civiltà saudita? Come ha potuto ignorare quel che è emerso sul conto di MBS, come tutti chiamano il Principe ereditario? Certo, Matteo Renzi quando diceva quelle enormità non aveva potuto leggere il rapporto dell’intelligence del governo statunitense poi desecretato a fine febbraio. Però da tempo era pubblico il rapporto (ben più approfondito) della Relatrice Speciale del Consiglio dei diritti umani all’Onu Agnès Callamard che spiega per filo e per segno quel che è emerso dalle investigazioni turche sull’omicidio di Istanbul. Per non parlare del bellissimo filmThe Dissident, girato dal vincitore del premio Oscar per il miglior documentario nel 2018 (Icarus), Bryan Fogel. E soprattutto c’erano già le dichiarazioni pubbliche della fidanzata di Khashoggi, Hatice Cengiz, che è venuta appositamente a Roma per raccontare ai nostri politici quel che era accaduto a Istanbul il 2 ottobre 2018. Il 17 dicembre 2019 proprio al Senato, dove siede e ha un bell’ufficio Matteo Renzi, Hatice Cengiz ha rivolto un appello alla nostra comunità politica perché chiedesse conto e giustizia al Regno arabo, per l’uccisione del suo fidanzato (…) era arrivata a Roma dopo avere incontrato l’autrice del rapporto, Agnès Callamard (…)Nel caso Khashoggi la Relatrice Speciale ha concluso il suo rapporto con la richiesta al Human Rights Council, al Consiglio di Sicurezza e al Segretario Generale delle Nazioni Unite di varare un’inchiesta internazionale allo scopo di identificare le responsabilità individuali e trovare le modalità per perseguire i colpevoli. Quel giorno di dicembre del 2019 Hatice Cengiz chiedeva ai nostri senatori di fare qualcosa in quel senso.

Il ddl Zan spacca la maggioranza Draghi. Giallorosa e centrodestra di nuovo contro

Ex maggioranza giallorossa contro centrodestra di governo: il ddl Zan contro l’omotransfobia e la misoginia sta diventando l’occasione che mostra le crepe dentro la maggioranza del governo Draghi. Ieri il centrodestra al governo ha annunciato un nuovo testo di legge. In realtà a sera non era ancora stato depositato: sul tema non tutta Forza Italia è allineata con la Lega. E dunque, una posizione condivisa non è facilissima.

Nel pomeriggio, invece, in Senato si sono riuniti i capigruppo di Pd (Simona Malpezzi), M5S (Ettore Licheri), Leu (Loredana De Petris) e Iv (Davide Faraone), insieme a Franco Mirabelli, vicecapogruppo dem che dal primo giorno segue la questione. L’obiettivo è portare in aula il disegno di legge, senza le forzature immaginate sia dalla storica paladina di questi temi, Monica Cirinnà, sia dai Cinque Stelle che hanno pure raccolto le firme: ovvero andare in aula senza relatore, il leghista Ostellari. Per farlo, bisognerebbe usare l’articolo 77 del Regolamento di Palazzo Madama, che però prevede “un’urgenza” tutta da dimostrare e non è mai stato ancora applicato. Dunque, per evitare che Ostellari riesca ad affossare il provvedimento, il tentativo sarà quello di portare il più avanti possibile la discussione e di far sì che nelle prossime settimane si esamini solo lo Zan tra i vari testi in materia. Puntando anche sul fatto che qualsiasi provvedimento presentato dal centrodestra non abbia il tempo per essere esaminato. E sui numeri in Commissione: i giallorossi – compatti – hanno la maggioranza. Luigi Cucca di Iv (che potrebbe essere l’ago della bilancia) non dovrebbe assecondare eventuali giochi di sponda tra Renzi e Salvini.

Certo, l’arma fine di mondo è una possibilità. Ma comunque, poi si avrà a che fare con l’aula. Tra voti segreti e rivalità incrociate, non proprio una passeggiata. Tanto è vero che Enrico Letta, segretario del Pd, martedì mattina incontrerà il gruppo dem per cercare di blindarlo. Tentativo che però potrebbe persino essere controproducente: ad Andrea Marcucci, ex capogruppo, non è andata giù la decisione di sostituirlo. E potrebbe fargliela pagare. Un problema interno, rispetto a quello più ampio: Letta martedì ha incontrato Mario Draghi per dirgli quanto sia un problema il “metodo Salvini” di “piazza e di governo”. I dem sognano la maggioranza Ursula, il premier vuole tenere la Lega dentro. Il dl Zan può essere solo l’assaggio di quanto si può scomporre il quadro. Cronoprogramma delle riforme del Pnnr a rischio evidente.

Uso politico della giustizia, destra bloccata. Pioggia di emendamenti sulla prescrizione

Nel pieno del caos verbali di Piero Amara, il lato centrodestra più “renziano” della maggioranza avrebbe voluto dare un colpo di acceleratore al ddl sull’istituzione di una commissione di inchiesta sull’uso politico della magistratura. Ma la prima riunione, ieri, delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera, in seduta congiunta, è stata un nulla di fatto per un “auto ostruzionismo” di FI, Lega e FdI, che vogliono cambiare i relatori – Ceccanti del Pd e Conte di Leu – decisi dai presidenti Brescia e Perantoni, M5S. Il ragionamento è che non si possono designare come relatori due esponenti di partiti che sono contrari alla commissione. All’esame ci sono quattro proposte: due – di Gelmini e Bartolozzi, FI – che vorrebbero indagare sulla magistratura politicizzata, e due – di Lega e Fdi – che si focalizzano sul caso Palamara. Impantanata pure la commissione Giustizia sulla riforma penale: depositati da tutti i partiti oltre 700 emendamenti, molti sulla prescrizione. Segno che la maggioranza, divisa, difficilmente approverà la riforma.

Caso De Girolamo, i pm in Appello dopo l’assoluzione

La premessa è doverosa: Nunzia De Girolamo è innocente fino a prova contraria, a maggior ragione dopo la sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste” sancita il 10 dicembre dal Tribunale di Benevento al termine del processo sulla gestione di nomine e appalti nell’Asl sannita negli anni fino al 2012. Questa sentenza, però, non passerà per ora in giudicato. L’ufficio della Procura di Benevento guidata da Aldo Policastro ha depositato un ricorso contro l’assoluzione. Ci sarà, quindi, un processo di appello per De Girolamo e altri coimputati. Ma non per le accuse di associazione a delinquere, che l’ex ministro alle Politiche Agricole del governo Letta divideva insieme agli ex dirigenti dell’Asl che lei era solita ricevere nel salotto di casa senza sapere che uno di loro, Felice Pisapia, la registrava di nascosto. Pisapia (finito sotto inchiesta per altre vicende e infine coimputato della presunta associazione a delinquere) maturò poi la decisione di portare quei file audio ai pubblici ministeri, che valutarono quelle conversazioni come la prova di un complotto per spartirsi la sanità secondo logiche clientelari. E così l’imputazione di 416 cp a carico di De Girolamo, ritenuta capo del presunto sodalizio, aveva contribuito in maniera importante alla determinazione del pm Assunta Tillo di chiedere per l’ex ministra ed ex parlamentare una condanna a 8 anni e tre mesi.

Questo capitolo è chiuso: il ricorso della Procura esclude l’associazione a delinquere tra i reati oggetto dell’appello e per questa imputazione l’assoluzione è definitiva. Restano in piedi alcuni episodi, qualificati in diverse ipotesi di reato. Le motivazioni dell’assoluzione di tutti gli imputati, pubblicate l’11 marzo in anteprima su ilfattoquotidiano.it, definirono le vicende “condotte censurabili sotto il profilo politico-amministrativo, ma che non integrano fattispecie penalmente rilevanti”.

Abusata dal prete solo se under 14: “Dopo è consenso”

“Bisogna informarsi e formarsi: i magistrati, ma anche il legislatore. Interloquire con chi ha vissuto violenza è difficile, con sé ha un bagaglio di sofferenza indicibile”: la deputata del M5S Stefania Ascari commenta così, ieri, in conferenza stampa alla Camera, le testimonianze sull’incredibile vicenda di Giada Vitale, che è stata vittima di abusi da parte di don Marino Genova, parroco di Portocannone, in Molise, e che poi ha assistito alla sua condanna (in Cassazione) solo per quanto accaduto fino ai suoi 14 anni. La vicenda è nota ma vale la pena ricordarla: Giada, 13 anni nel 2009, suonava l’organo in chiesa quando inizia a subire prima le attenzioni, poi gli abusi di don Marino. Quando nel 2013 lo denuncia, però, il fascicolo si divide: uno per i fatti pre-14 anni, per il quale arriva la condanna a 4 anni e 10 mesi per violenza sessuale e abusi, l’altro per i successivi. Fascicolo che però viene archiviato perché Giada è ritenuta consenziente. “Abbiamo chiesto di riaprire il caso più volte – ha spiegato ieri alla Camera l’avvocato Francesco Stefani – ma la richiesta è stata respinta dalla Procura di Larino”. Chiedevano di verbalizzare nuove testimonianze e di disporre una perizia psicologica visto che, neanche nelle prime fasi, sarebbe stata fatta disposta ma il pm ha ritenuto, in sintesi, l’impossibilità di fare una perizia ora per allora. “Non si può pensare che una ragazza sia non consenziente a 13 anni e che lo diventi a 14 – ha detto la criminologa e psicoterapeuta Luisa D’ Aniello –. Secondo il Gip, Giada avrebbe subito un iniziale stato di soggezione poi tramutatosi in consenso e innamoramento da un interessamento fisico del sacerdote. È assurdo. Può far pensare ai pedofili che sia lecito prima manipolare per poi abusare del minore. E l’innamoramento non c’entra: è il risultato di comportamenti disfunzionali, traumatici e dipendenza affettiva. Tutto, senza una consulenza psicologica. Perché non è stata fatta una valutazione forense?”.

Mail Box

 

C’è preoccupazione per la riforma scolastica

Nessuno sa ancora cosa, in dettaglio, il Recovery plan prevederà per la scuola. Da ciò che dice e che scrive, sembra che il ministro Bianchi voglia: 1) Destrutturare i gruppi classe (alla faccia della necessità di rimettere al centro la socialità delle persone in crescita); 2) Eliminare di fatto la libertà dell’insegnamento, basata sulla centralità dei contenuti culturali e sulla scelta da parte degli insegnanti dei metodi più adatti per condividerli, a seconda delle realtà che si trovano di fronte (e, invece, “formazione” coatta degli insegnanti affidata a privati come Invalsi o Leonardo-Gruppo Finmeccanica, con imposizione di metodi preconfezionati e digitalizzazione spinta anche dopo la pandemia, a prescindere dalle necessità della didattica); 3) Far passare l’idea che la scuola non è più desiderio di sapere veicolato attraverso i contenuti disciplinari ma intrattenimento estivo; 4) Ridurre il poco di scuola che rimane in piedi a formazione professionale appaltata alle aziende. La Scuola pubblica non è mai stata sotto attacco come ora. Noi insegnanti non possiamo che appellarci disperatamente alle organizzazioni sindacali, perché nell’incontro del 6 maggio non sottoscrivano il testo del Pnrr, non prima di aver ascoltato la voce di quelli che in teoria dovrebbero rappresentare.

Luca Malgioglio, La nostra scuola

 

Il problema di Viale Mazzini è la politica

La questione Rai è un problema politico e di democrazia di prima grandezza. Dimostra come i cittadini siano presi in giro, e per di più con i loro soldi del canone, ricevendo invece di un pubblico servizio, l’arroganza della politica che esercita un potere assoluto, spartitorio, omissivo, diventato disinformazione di massa, estremamente simile alle televisioni private. Questo sistema è irriformabile e solo una diversa visione del problema può portare a un cambiamento radicale, che è vitale per la nostra democrazia che non possiede un contrappeso dalla parte dei cittadini. La Rai va trasformata in “public company”, senza pubblicità, finanziata solo dal canone, dove i cittadini che lo pagano, siano i soli azionisti con il potere di eleggere il presidente (con tutti i poteri compresi quelli di amministratore delegato e relative responsabilità), in regolari elezioni da abbinare alle politiche, scelto tra personaggi indipendenti da economia, politica, religioni. Sempre in nome di una democrazia più matura, sarebbe corretto che nessun soggetto, né privato né pubblico, possedesse più di una rete nazionale, smantellando in parte il monopolio di Rai e Mediaset.

Paolo De Gregorio

 

La stampa si autocensura sui guai di Renzi e B.

Sulle prime pagine dei vari giornali non c’è una riga perlomeno di commento sull’incontro Renzi-Mancini né sulla gogna che ha dovuto subire il giudice Esposito. In Italia non esiste la censura ai giornalisti ma c’è una cosa che è molto peggio: l’autocensura!

Stefano Strano

 

Ddl Zan, Povia ha paura ma nessuno lo toccherà

Povia, quello che cantava, anni fa, il capolavoro “Luca era gay”, ha dichiarato sconcertato che, se passasse la “legge Zan” contro l’omotransfobia, le sue canzoni non potrebbe più scriverle, perché sarebbe reato. Ovviamente, non è così. Ma se, effettivamente, la “legge Zan” fosse una normativa pensata addirittura per far cambiare mestiere al famoso cantante di pezzi memorabili nell’immaginario collettivo, come “I bambini fanno ooh” e “Vorrei avere il becco”, non sarebbe poi tanto male.

Marcello Buttazzo

 

Archivi, la direzione risponde alla lettrice

Con riferimento alla lettera dal titolo “Da una dottoranda ‘Con gli archivi chiusi come possiamo fare ricerca’”, pubblicata sul vostro giornale il 5 maggio 2021, si precisa quanto segue. Gli oltre cento Archivi di Stato, presenti in ogni capoluogo di provincia, durante l’emergenza sanitaria sono rimasti aperti al pubblico, a seguito di specifiche disposizioni normative, reiterate di volta in volta con vari provvedimenti che ne hanno disposto l’apertura anche nelle cosiddette “zone rosse” del Paese, onde consentire la fruizione e la consultazione della documentazione in essi conservata sia agli studiosi che ai professionisti incaricati degli adempimenti relativi alle pratiche edilizie connesse al cosiddetto “superbonus 110 per cento”. Gli Archivi di Stato hanno confermato anche in questa occasione il loro ruolo di custodi della memoria delle comunità e di istituti al servizio dei diritti dei cittadini.

Dott.ssa Anna Maria Buzzi
Direttore generale
Direzione generale archivi – Mic

Giustizia. “Noi familiari delle vittime di via Fani abbiamo diritto alla verità”

Illustrissimo Presidente Mattarella, le rivolgiamo questo accorato appello, alla vigilia del 9 maggio, giorno della memoria per le vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice, quali parte dei familiari dei martiri della strage di via Fani, perché riteniamo che solo un suo intervento possa porre termine a una vergognosa impasse. Sono oramai tre anni che la Commissione Moro II, presieduta dall’onorevole Giuseppe Fioroni, ha ultimato i suoi lavori. Innumerevoli sono gli atti, anche investigativi, che l’organismo bicamerale di inchiesta ha secretato. E ciò costituisce l’ennesimo oltraggio alle vittime. Così, signor Presidente, abbiamo atti che, dagli archivi dei Servizi segreti, hanno semplicemente cambiato posto, finendo occultati in quelli della Commissione. Ed era il 1978 signor Presidente, sono trascorsi 43 anni! Quanti altri ne dovranno passare per avere la verità su quel 16 marzo del 1978? Si sta forse attendendo che tutti i familiari delle vittime abbiano esalato l’ultimo respiro?

Non parliamo poi degli atti di indagine… Vorremmo sapere perché la Commissione non ha ultimato i lavori, ma la risposta deve provenire non dai titolari chiamati a condurla, ma da chi ha svolto le attività rimaste incomplete. E in ogni caso desideriamo contezza, dopo tre anni, della prosecuzione di quegli specifici filoni da parte dell’autorità giudiziaria. Non siamo esperti di diritto, ma abbiamo sufficienti cognizioni per comprendere che un fascicolo può essere fatto “vivacchiare”, senza fare assolutamente nulla di concreto, fino a che un fatto non cada nel dimenticatoio, visto che non può operare la prescrizione, per tacere di altre motivazioni che ben teniamo presenti. E le teniamo presenti perché abbiamo letto le parole più volte pronunciate dall’ex presidente Fioroni: “Verità dicibili…; il limite della conoscibilità dei documenti di Stati esteri…; una verità ritagliata…; verità troppo grandi tenute fuori dal perimetro politico-giudiziario”, e questa oscena sequela potrebbe continuare. Noi, ma così ogni italiano dotato di senso civico e spirito patrio, vogliamo le verità indicibili; vogliamo la conoscibilità dei documenti del nostro Stato; vogliamo la verità tagliata fuori e, ci si consenta, non siamo troppo piccoli per le verità troppo grandi, che sono smisurate solo per i pavidi. Concludiamo questo appello signor Presidente, con un’ultima cortese sollecitazione, sulla scorta dei recentissimi avvenimenti francesi: in Nicaragua e in Svizzera sono presenti, individuati e localizzati due dei componenti del “commando” brigatista che operò in via Fani quel tragico 16 marzo, Alessio Casimirri e Alvaro Lojacono, la cui mancata cattura ed estradizione costituiscono l’ennesimo affronto: a noi come familiari e al Paese tutto come ricerca della verità. Riponiamo fiducia nel suo potere al fine di ottenere le risposte che ci spettano di diritto. Risposte sensate e non di facciata, non vorremmo che, come per Bologna, l’esistenza di verità indicibili, ma per noi comunque ascoltabili, portasse qualcuno, che già lo ha tentato, a proporre farneticanti piste. Con ossequio e speranza

Famiglie Leonardi, Ricci, Iozzino, Rivera, Zizzi

Il lockdown fu un errore?

Pubblicato su The Telegraph e poi ripreso dall’Independent e da altri giornali, è l’articolo “I sostenitori del blocco non possono sfuggire alla colpa del più grande fiasco della salute pubblica della storia”. Gli autori sono due autorevoli studiosi, professori di Medicina, Martin Kulldorff ad Harward e Jay Bhattacharya a Stanford. Secondo la loro tesi, non solo un anno fa non esistevano prove scientifiche che sostenessero l’efficacia di un lockdown per proteggere gli anziani ma, di fatto, sono stati ignorati tutti i principi che regolano la protezione di tale fascia. I governi e gli scienziati hanno rifiutato le misure di protezione mirate, preferendo una generalizzazione.
Infatti, continuano gli autori, sebbene chiunque possa essere infettato, c’è un’enorme differenza nel rischio di morte tra vecchi e giovani: aver disconosciuto questo aspetto del virus ha portato al più grande fiasco della salute pubblica della storia. Da un lato non si è avuta la giusta protezione dei fragili, dall’altro non si è tenuto conto di quanto tali misure potessero essere dannose per la rimanente popolazione.

Ogni Stato ha del resto sperimentato restrizioni diverse.
L’obiettivo per alcuni è stato eradicare l’infezione, per altri (come l’Italia) mitigare. Si è dimostrata un’efficace strategia quando la situazione epidemiologica è andata fuori controllo e i risultati, oggi elaborabili, ci dicono che il successo non è stato dipendente dal grado di restrizione, quanto dalla precocità di attuazione. La Svezia, poi, che non l’ha usato, ha avuto un andamento epidemiologico migliore del nostro, salvando socialità e soprattutto la scuola. Con dati più omogenei di quelli presi in esame, l’argomento richiederà un’analisi approfondita, a lungo termine.

 

direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano