Chiesa, P2 e Servizi. Riecco gli anni 70

Giallisti di tutto il mondo unitevi. Dopo la sterminata apnea del Covid, l’Italia delle trame si è finalmente rimessa in moto. Un ex presidente del Consiglio con attitudini saudite lascia Rebibbia dove ha appena salutato un caro amico detenuto, si incontra con un campione delle spie a forte predisposizione americana, in un anonimo Autogrill a trafficare reciproche informazioni che in codice chiamano Babbi o Wafer o “Auguri di Natale”.

Il tutto, così sventatamente, da essere filmati, per 40 minuti di seguito, da una insegnante incuriosita e nascosta dietro a un finestrino che potrebbe anche essere uno di quei furgoni ciechi usati da tutti i servizi segreti del mondo per arricchire l’archivio e predisporre futuri ricatti.

Un cardinale fatto di granito sardo inciampa sull’intrigo di un palazzo da 200 milioni di dollari comprato a Londra con i soldi delle elemosine di San Pietro e si sbriciola (il cardinale, non il palazzo) sotto una pioggia di veleni vaticani, minacce di video compromettenti, imbrogli contabili e scandali sessuali. Mentre una sua dama in nero, esperta in segreti internazionali e borse Hermès, lo abbandona davanti alle telecamere, se ne va via con la sua scia Chanel, lasciandolo fradicio e al vento. Meno male che di lì a poco torni direttamente il Papa a portargli un piatto di minestra calda, la benedizione e l’ombrello.

Un magistrato che per anni, con faccia e pancia adeguate, ha navigato nel peggio della magistratura – coltivando pettegolezzi, malignità, inganni, false cattiverie e autentici segreti, il tutto a nome non della Giustizia, ma della Carriera – diventa d’improvviso autenticamente buono, sinceramente pentito, esce dall’Hotel Champagne dove cenava con gli amici degli amici e un trojan nel telefonino, si confessa in un libro, scala le classifiche, compare tutte le sere in tv a fare la morale, denunciando le correnti della magistratura. E provando a demolirle tutte, come putribonde fabbriche di abusive carriere, per far trionfare, nelle aule dello Spettacolo, finalmente la sua.

Nel frattempo al Palazzo di Giustizia di Milano, spuntano altri verbali, dove anche stavolta i cattivi non sono gli assassini o i ladri, ma certi magistrati romani e non romani che addirittura si riuniscono segretamente in un sontuoso appartamento per trafficare anche loro in nomine, inchieste e depistaggi. Una loggia, sembrerebbe, per di più battezzata “Ungheria”, dal nome della piazza che ne custodisce il covo e che a dire il vero un tempo ospitava all’angolo il bar più famoso dei pariolini neofascisti.

Ma quelli erano gli anni Settanta. Archeologia. Peccato che neppure gli anni Settanta manchino in questa rifioritura delle trame, essendo recentissima la retata di anziani ex terroristi, latitanti da quarant’anni, arrestati per un giorno a Parigi. Identificati. E subito scarcerati. A perfezionare un déjà-vu servito in definitiva a nulla, se non a riaprire per qualche ora l’album dei ricordi e dei dolori, se ne riparlerà tra due anni, come promette la diplomazia giudiziaria francese. In attesa che, prima o poi, compaia il Grande Vecchio.

Ma non ci sarà il tempo di annoiarci, visto con quanto zelo l’Italia torna a sfornare intrecci come ai bei tempi, quando i piani alti e altissimi della Repubblica progettavano golpe da dilettanti e stragi da professionisti. Si spartivano i soldi delle autostrade in costruzione e quelli della Cassa del Mezzogiorno in opere di bene per le banche, le mafie, i partiti. E senza troppe cautele trafficavano in petrolio e tangenti, dopo che Enrico Mattei era stato liquidato in volo, come un fuoco d’artificio.

Era l’Italia benedetta dalle gerarchie vaticana, americane, democristiane che nuotavano nel delta ancora abbondante del Boom, mentre i cavalieri del lavoro organizzavano il sacco di Palermo con qualche ficcanaso finito nel cemento. L’Italia che costruiva fabbriche incongrue e periferie invivibili che i giornali chiamavano Cattedrali nel deserto e Coree. E il doppio Stato allevava nell’ombra neofascisti veneti, parcheggiati tra i patrioti di Gladio, affinché nessuno si sognasse di interferire con le serrature a stelle e strisce della nostra indisciplinata Repubblica.

Il giallo Italia si è rimesso in moto. Sebbene in sedicesimo. Dai silenzi del presidente della Repubblica Antonio Segni e del generale dei carabinieri De Lorenzo, siamo transitati a quelli del senatore semplice di Rignano e del contabile dei Servizi, Marco Mancini. L’ombra di monsignor Marcinkus – con gli abissi del Banco Ambrosiano e del sangue sparso dai generali argentini – è lunga dieci volte quella appena sfiorita del cardinale Angelo Becciu e della sua annessa lady Cecilia Marogna. Per non parlare dei sontuosi depistaggi del Porto delle Nebbie, la Procura di Roma ai tempi dei leggendari Carmelo Spagnuolo, Vitalone e poi Squillante che per trent’anni hanno buttato sabbia negli ingranaggi delle inchieste indesiderate.

Ma tutto, in letteratura, si può migliorare. Persino l’incerto eloquio di Piero Amara, avvocato dell’Eni, già condannato per corruzione, titolare delle rivelazioni sulla loggia Ungheria. O i misteri di una tale Marcella Contrafatto, segretaria di Piercamillo Davigo, postina anonima dei verbali segreti. O lo sguardo spampanato di Luca Palamara e della sua schiera di raccomandati, che aspirano anche loro alla astuta demolizione della magistratura.

Dopo il giornale unico dell’emergenza, stiamo per intravedere il dopo Covid. La Storia e le storie si sono rimesse in moto. E sta arrivando il malloppo vero da Bruxelles, grande come un movente, quanto lo fu quello della nostra caotica industrializzazione, dopo il Piano Marshall. Dunque si muovono non solo i Re del mondo, ma anche gli alfieri, le torri, i pedoni della nostra povera Repubblica. In appendice tornano persino i fantasmi di Bisignani, Tavaroli, Gianni Letta, Denis Verdini, eroi di altre primavere, quando ancora Berlusconi irrigava le trame del suo giallo migliore, intitolato “Questo è il Paese che amo”, purtroppo interrotto nel momento in cui arrivavano le ragazze.

 

La vera (non) notizia di Amazon esentasse

Ha incredibilmente suscitato un certo scalpore un articolo del Guardian, che martedì ha pubblicato i conti di Amazon EU depositati in Lussemburgo, simpatica nazione da 600mila abitanti in cui – col nobile intento di ripopolare le aree interne – la multinazionale ha la sua sede fiscale europea: secondo i documenti pubblicati dal quotidiano britannico, il braccio operativo in Europa della società di Jeff Bezos nel 2020 ha avuto ricavi per 44 miliardi – 12 in più del 2019 – ma ha registrato perdite per 1,2 miliardi, il che le ha consentito di non pagare tasse, ma anzi di maturare un credito d’imposta di 56 milioni. Peraltro Amazon EU ha ora 2,7 miliardi di perdite da riportare sui prossimi bilanci e dunque probabilmente non pagherà tasse neanche in futuro. Nel frattempo, la trimestrale del gruppo Usa riporta profitti globali nel primo trimestre 2021 per 8,1 miliardi: sta, insomma, guadagnando 2,7 miliardi al mese. Dicevamo che la cosa ha creato un certo scalpore, anche se non se ne capisce il motivo: Amazon, e non solo lei, fa la stessa cosa ogni anno da anni (secondo un rapporto della Fair Tax Foundation, in un decennio ha registrato ricavi per 961 miliardi di dollari e profitti per 26,8 miliardi, pagando 3,4 miliardi di tasse, il 12,6% di aliquota reale). Tornando in Europa, è attesa a breve la sentenza definitiva su un contenzioso aperto dalla Commissione Ue nel 2014 su un accordo fiscale col Lussemburgo del 2003 (sic) che ha consentito ad Amazon EU di trasferire la maggior parte dei suoi profitti ad Amazon Europe Holding Technologies, che non paga tasse. L’ex responsabile fiscale della multinazionale, Bob Comfort, disse che l’accordo fu offerto dall’allora premier lussemburghese Jean Claude Juncker, poi presidente della Commissione Ue: oggi Comfort è console del Lussemburgo a Seattle, sede globale di Amazon. Come forse adesso vi sarà chiaro, la società di Bezos che non paga le tasse è – per usare un celebre adagio giornalistico – il cane che morde l’uomo e non l’uomo che morde il cane: non c’è notizia. Ma ora ci pensa la Commissione a fare giustizia, penserà il lettore. Mica tanto: “L’indagine non ha messo in discussione il sistema fiscale generale del Lussemburgo in quanto tale”. E qui, come si vede, siamo invece al cane non mangia cane.

Subito una riforma della Rai contro l’“Occupy tv” dei partiti

Partiti, governi, giornalisti (tranne al nostro Valentini), a nessuno, diciamocelo, frega più niente della questione televisiva né della Rai, men che meno a Draghi che non farà come fece Ciampi nel ’93, che pure provò a riformare l’azienda di viale Mazzini sottraendo il Cda al Parlamento e affidandolo ai presidenti di Camera e Senato.

Da tempo l’opinione pubblica è come mitridatizzata, la riforma della tv da 15 anni scomparsa dall’agenda pubblica, il superamento del duopolio rimasto una utopia per anime belle. Alla vigilia del rinnovo del Cda il premier, come i predecessori, non ha dimostrato alcun interesse all’argomento. La tv, anche solo quella pubblica, può attendere, ci spiegano dai grandi giornali. Anche se il vuoto d’iniziativa dell’ex governatore della Bce è stato finora riempito da altri, vedi ad esempio il ministro Giorgetti preoccupato più che di riformare l’azienda di rafforzare la presa della Lega su di essa. Come se già non bastasse l’onnipresenza di Matteo Salvini, una vera “occupy tv” su canali pubblici e privati. Particolarmente attivo, come hanno raccontato le cronache, il vice di Giovannini, il leghista Alessandro Morelli già direttore di Radio Padania che ha incontrato, ricevuto, promesso: tutto negli uffici del collega di partito e consigliere Rai, Igor De Blasio. Un via vai indecente che ha provocato numerose proteste verso l’amministratore delegato.

Ora che è scoppiato il caso di Fedez tutti si accorgono che la Rai è da riformare o magari da privatizzare, come se il problema del duopolio italiano si risolvesse mettendo sul mercato uno solo dei due oligopolisti. Certo colpisce che di tutte le parole spese dal premier in questi mesi, all’inizio poche, poi via via in aumento, non una abbia riguardato la volontà di mettere fine alla piaga della spartizione in Viale Mazzini. C’è chi spera che scelga lui i prossimi amministratori come ha fatto con alcuni suoi ministri, ma potrebbe andare peggio, e le scelte dei sottosegretari stanno lì a dimostrarlo ampiamente.

In ogni caso è chiaro che la nomina della nuova governance, per quanto autorevole possa essere, non sarà mai una risposta all’altezza delle necessità di un’azienda strategica, da liberare il prima possibile dall’invadenza dei partiti. Letta e Conte, fondamentali azionisti del governo, cosa aspettano allora a imporre la riforma della Rai? Dopo lo spettacolo di questi giorni dovrebbe essere una priorità ineludibile per le forze che rappresentano, magari facendo autocritica per le scelte e l’ignavia del passato. Basterebbe una legge che affidasse a una Fondazione il compito di nominare i vertici dell’azienda, come recitano le numerose proposte in questo senso che giacciono da anni in Parlamento, presentate anche dal Pd, dai Cinquestelle, da Leu. Tutte comunque migliorative, e di molto, dello stato attuale. Senza dire della necessità di cancellare la Gasparri come ci chiede l’Europa, con il suo assurdo codicillo (inapplicato) che prevede la privatizzazione della Rai!

A differenza degli altri confratelli europei il nostro servizio pubblico rimane ancora quello più forte in termini di ascolti, con un ruolo tuttora centrale. L’audience delle sue reti generaliste, che le consegna ancor oggi una primazia altrove sconosciuta, è risorsa essenziale per tenere insieme il Paese e contrastare la polverizzazione del pubblico. Ma da tempo la Rai è in crisi di idee: nei contenuti dipendente dalle factory private, priva di una mission, sdraiata su palinsesti pieni di chiacchiere e divani, e con la storia, la letteratura, la scienza del nostro Paese ridotte a fiction improbabili, senz’anima, quando non mero gioco di specchi dove la tv celebra solo se stessa. Se si vuol bene all’Italia, dunque, qualcuno pensi alla Rai. Subito.

 

Come si può inserire a scuola uno “spazio” per il fascio Ramelli?

L’arresto in Francia dei sei italiani condannati per reati di terrorismo e di Giorgio Pietrostefani, condannato per l’omicidio Calabresi, hanno riaperto – soprattutto a sinistra – il dibattito sui cosiddetti “anni di piombo” e sulle responsabilità dei militanti “rossi”. A destra, invece, sono continuate le iniziative per ricordare i “loro morti”, i “camerati caduti”. Per ricordarli in piazza e nelle sedi istituzionali. A Milano, Franco Lucente, capogruppo di Fratelli d’Italia in Regione Lombardia, ha presentato un’interrogazione alla giunta in cui ha chiesto “aggiornamenti su progetti e iniziative nelle scuole lombarde per la ricorrenza della morte di Sergio Ramelli e dell’avvocato Enrico Pedenovi”. Sergio era un ragazzo di 19 anni, militante del Fronte della gioventù, aggredito il 13 marzo 1975 a Milano da un gruppo di Avanguardia operaia che intendeva dargli una lezione a colpi di spranga e invece lo uccide. Pedenovi era un consigliere provinciale del Movimento sociale italiano, ucciso l’anno dopo, il 29 aprile 1976, da un commando del gruppo terroristico Prima linea.

Il consigliere Lucente ha sollecitato la giunta di centrodestra di Attilio Fontana a dare seguito a impegni già presi in Regione: lo stanziamento di 50 mila euro per la realizzazione di progetti con i licei e gli istituti tecnici, “per introdurre nelle scuole uno spazio dedicato a Ramelli, a Pedenovi e agli anni di piombo, perché purtroppo ancora molti giovani non sono a conoscenza di quello che successe”. Gli ha risposto l’assessore all’istruzione Fabrizio Sala, vicepresidente della Regione e coordinatore di Forza Italia, “prendendo l’impegno di portare avanti questo intento nel prossimo futuro, valutando le modalità insieme al Consiglio, magari con un protocollo d’intesa”.

Ma come si farà a introdurre nelle scuole superiori “uno spazio dedicato a Ramelli, a Pedenovi e agli anni di piombo”? Come, e da chi, saranno ricordati, raccontati e spiegati quegli anni? Intanto pochi giorni fa, il 29 aprile, ci ha pensato un migliaio di militanti dell’estrema destra (CasaPound, Forza Nuova, Lealtà Azione, Veneto Fronte Skinhead, Comunità militante dei Dodici Raggi) e di ultrà del calcio a onorare i due camerati caduti: si sono radunati a Milano, in via Paladini, dove Ramelli fu ucciso, e ha inscenato una cerimonia fascista per ricordare i due camerati, con il rito del “Presente!” e il braccio teso nel saluto romano. Una scena-scandalo che sta facendo il giro dei social in tutta Europa. Presenti anche tre parlamentari ed europarlamentari: Carlo Fidanza e Paola Frassinetti di Fratelli d’Italia e Massimiliano Bastoni della Lega. Per una cerimonia simile, nel 2019, erano scattate indagini e condanne per ricostituzione del partito fascista.

C’è un doppio binario: per i militanti vengono ripetuti i riti apertamente fascisti; per gli altri si tenta di riscrivere la storia, e di insegnarla a scuola, al fine di onorare le vittime “di destra”. Intendiamoci: un ragazzo ucciso è un ragazzo ucciso, e ha la stessa dignità, sia di destra, o di sinistra, o di nessuna parte politica. E, dall’altra parte, un assassino è un assassino, sia che appartenga a gruppi di destra, sia che faccia parte di gruppi di sinistra. Ma eroi si diventa per quello che si è compiuto da vivi, non per il fatto di essere morti. E non può essere considerato eroe chi in vita professava un’ideologia fascista che giustifica l’uccisione della libertà e dei diritti di ciascuno. Ha diritto, questo sì, alla giustizia che lui stesso non avrebbe concesso agli avversari, ma eroe, per favore, no. Attenti dunque a come si racconta la storia. E allora, caro assessore Sala, ci spieghi: come intende “introdurre nelle scuole uno spazio dedicato a Ramelli, a Pedenovi e agli anni di piombo”?

 

Emirati, Habermas rifiuta il premio dai torturatori

Dunque si può. Leggo che Jürgen Habermas, sociologo e filosofo tedesco, uno dei più eminenti intellettuali europei, tra i massimi protagonisti della Scuola di Francoforte, ha rifiutato un ricco premio, 225 mila euro, intitolato a Sheikh Zaied, ex sultano degli Emirati Arabi Uniti, destinato ogni anno a personalità mondiali della cultura. La ragione per cui il 91enne professore non si presenterà a ritirare il premio ad Abu Dhabi è la condizione dei diritti umani negli Emirati, dalla tortura alle incarcerazioni dei leader dei movimenti civili. In realtà, pare che in un primo tempo Habermas si fosse dimostrato disponibile ad accogliere il riconoscimento. Poi un’inchiesta dello Spiegel lo ha convinto del contrario.

È certo edificante vedere, una volta ancora, che lo spirito della democrazia non ha età. Ma stavolta nel gesto del vecchio studioso c’è qualcosa in più. Ed è il contesto. Un contesto in cui i diritti umani e civili vengono calpestati impunemente a ogni longitudine. Davanti agli Stati, davanti all’Onu, davanti all’opinione pubblica mondiale. Con pochi e meritori sussulti di indignazione. Tutt’intorno a noi, Europa e Mediterraneo. E oltre, in ogni direzione. Ungheria, Polonia, Egitto, Libia, Turchia, Siria, Arabia Saudita, ma anche – e sono solo esempi – Etiopia, Somalia, Afghanistan, Cina, Russia. A causa degli Stati, così come delle organizzazioni che si fanno Stato, si tratti delle milizie dell’Isis o dei cartelli messicani.

Diritti della donna e dei minori, dei migranti e dei giornalisti, dei lavoratori e degli intellettuali. Diritto all’acqua, alla salute, al lavoro e alla libertà, all’ambiente e all’identità etnica o alla memoria. Un elenco da capogiro di privazioni e di violenze. Certo che c’è il progresso, certo che non è tutta una catastrofe. Ma colpisce che nell’era della globalizzazione l’unica cosa che davvero non si globalizza siano i diritti. Quelli possono essere schiacciati senza che moti possenti si alzino in protesta dal mondo istruito e democratico. Non dalle istituzioni, smunte di storia gloriosa dalla geopolitica e dalle sue leggi, così che perfino ricordare il genocidio armeno diventa impresa coraggiosa. Ma nemmeno dai partiti o ciò che dovrebbe loro assomigliare. Ci si sente inutili osservatori di stelle, impotenti lettori di guerre e di ingiustizie.

L’assenza di un’autorità mondiale che imponga il rispetto dei diritti sanciti in decine di Carte solenni dovrebbe pesare su tutti ma pare non sia un problema. Abbiamo inventato un linguaggio politicamente corretto che sconfina spesso nel ridicolo, in questa nostra gara cicisbea a diventare più raffinati, sempre più evoluti nel lessico formale, mentre i fatti, crudi e terribili, non ci vedono intervenire neanche in sogno. Davanti al mondo si riduce l’Eufrate a un torrente, si minaccia di confiscare il Nilo, si avvelenano i fiumi in Nigeria come in Amazzonia. L’età dei diritti, diceva Norberto Bobbio. Le loro nuove generazioni, scriveva Stefano Rodotà. Forse ne siamo così sazi, nei nostri minuscoli mondi geografici e professionali, da non renderci conto di questa bugia della storia, di questo doppio binario che li rende sempre più affermati e sempre più negati. Il fatto è che l’aumento vorticoso delle disuguaglianze non può che riflettersi in divari crescenti di potere. E il potere e il diritto notoriamente non si amano, stanno tra loro in contesa perenne.

Nel cuore dell’Europa, nelle famose patrie del diritto, si discetta d’altro. Per la Francia i diritti umani sono quelli dei “nostri” terroristi, che scuotono le coscienze parigine ben più che le armi vendute all’Egitto di Regeni, di Patrick Zaki e mille altri. Per l’Italia i diritti umani sono quelli dei boss mafiosi liberati a colpi di false perizie mediche e di corruzioni giudiziarie, mentre nel Mediterraneo si consuma la strage silenziosa. Un collegio arbitrale con base all’Aja ha chiesto di assolvere la ex Texaco, già condannata dalla giustizia ecuadoriana con l’accusa di avere intossicato un lago amazzonico causando la scomparsa di due comunità indigene.

Jürgen Habermas sembra reintrodurre di colpo la grandiosità del diritto. Altri forse avrebbero trovato le migliori giustificazioni per accorrere alle celebrazioni. Se non lo prendo io, il premio, lo prende un altro. Andrò lì ma terrò un memorabile discorso sui diritti umani. La cultura e l’arte affratellano (come affratellava lo sport ai mondiali di Argentina, mentre i colonnelli facevano gettare giù vivi dagli aerei migliaia di giovani…). Ha fatto la scelta più dignitosa, quella che oltre alla nostra ammirazione dovrebbe accendere il desiderio che la sbronza di potere e indifferenza ceda il passo a una nuova generazione di giusti. Che prendano nelle proprie mani la globalizzazione e ne facciano un’altra cosa.

 

La comunità ebraica e le gag: “Le parole sono preludio alla violenza”

Le gag sono composte da una premessa e da una battuta. Ieri abbiamo visto che le premesse usate da Pio D’Antini e Amedeo Grieco per lo sketch dei loro personaggi Pio & Amedeo contro il politically correct sono una sfilza di argomenti falsi. Quanto alle battute, abbiamo già visto (Ncdc, 27 aprile) che il punto non è se una gag fa ridere o meno. Si ride infatti per il meccanismo comico, che scatena il riflesso della risata; ma se la tua gag veicola un’idea razzista, hai fatto il razzista (consapevole o no); se ridi a una gag razzista, hai fatto il razzista (consapevole o no). Nello sketch in questione, mentre le premesse false stabiliscono, sbagliando, che razzismo e omofobia non stanno nelle parole, ma nella testa di chi le usa (invece stanno sia nella testa che nelle parole, poiché queste hanno una storia che contribuisce al loro significato), le battute a suffragio di quelle tesi false limitano gli esempi a contesti particolari, come l’uso ingiurioso di epiteti fra amici (“Io ho un amico a Foggia, Lorenzo. Ogni volta che arriva il conto si inventa la telefonata, deve andare al bagno, uh, ho il portafoglio a casa. Lo chiamiamo Lorenzo l’ebreo”) e le epoche in cui il razzismo non era avvertito (“Abbiamo cantato Edoardo Vianello: ‘Siamo i Watussi. I piccoli negri.’ Ma mo’ Edoardo Vianello è razzista? Quel povero signore di 90 anni, ma che ha fatto?”). In questo modo, l’argomento creato (esempio particolare, tesi falsa generale: “Chiamiamo il nostro amico tirchio ‘Lorenzo l’ebreo’, quindi possiamo dare dell’ebreo a tutti i tirchi”) è una classica fallacia induttiva, la generalizzazione indebita. Che va bene per far ridere, ma in un discorso sui temi rilevanti del razzismo e della discriminazione fa il gioco dei violenti. Come se non bastasse, il modus operandi di D’Antini e Grieco è lo stesso che inguaia il trailer di Tolo Tolo (Ncdc, 23 aprile) e certe gag del film Borat (non a caso, tutti osannati dalle destre): l’ambiguità con cui gli attori condividono la posizione dei loro personaggi. Questa ambiguità non c’è quando comici come Albanese e Stephen Colbert interpretano i loro personaggi reazionari: la presa di distanza fra attore e personaggio è resa in modo netto. Infatti i reazionari non applaudono Albanese e Colbert, come invece fanno con Pio & Amedeo, Zalone e Borat.

Chi ha difeso quello sketch ha usato la stessa fallacia induttiva di D’Antini e Grieco: prendere esempi da contesti limitati (“Anche i gay usano fra loro la parola frocio”, “Paolo Isotta voleva essere chiamato ricchione” “Allora anche Totò e Walt Disney erano razzisti e discriminavano”): questi esempi non giustificano che oggi tu possa dare del frocio e del ricchione a chi non conosci, o possa fare scenette in blackface. La prova dell’errore di generalizzazione di quello sketch è nelle reazioni indignate che ha suscitato. Ruth Dureghello, presidente della comunità ebraica di Roma: “Non è vero che il problema sia l’intenzione che si mette, il tema sono le parole per il significato che assumono e per ciò che contribuiscono a creare nell’ambiente in cui viviamo. Le parole sono il preludio della violenza, perché per esempio le cronache sono ancora piene di notizie di persone omosessuali insultate e poi aggredite, di chi ha un colore diverso della pelle che è costretto a subire razzismo e intimidazioni. Questa è la difesa della libertà di tutti, non razzismo al contrario o difesa di alcune minoranze. Anche quella di un bambino del Sud che si trasferisce al Nord e non deve accettare gli insulti contro i meridionali solo perché così hanno deciso Pio e Amedeo. Chi difende la licenza a insultare non difende la libertà d’espressione, ne limita l’esercizio a chi è vittima della violenza”.

(3. Continua)

 

Caro De Masi, le “Agorà” parleranno al lavoro

Ho letto le osservazioni critiche del professor Domenico De Masi al “Manifesto Le Agorà”, coordinato da Goffredo Bettini. Molte osservazioni del professore sono condivisibili e anche le critiche hanno il loro fondamento, solo che il versante di rigenerazione della sinistra è davvero impervio per tutti.

De Masi dice, infatti, “che occorre trasformare i vinti da poltiglia informe di singoli individui svalutati in classe compatta e antagonista”. Sono d’accordo. Ma la domanda è: come si fa? Chi sono i vinti? O meglio, a che punto è la trasformazione sociale del lavoro?

Viviamo i prodromi di una fase lunga inaugurata nel 1971 con lo Smithsonian Agreement e la trasformazione dell’operaio massa in operaio sociale. Una fase passata per l’89, vero anno di nascita della mondializzazione dello sfruttamento e dell’integrazione finanziaria. Un mondo, quello che conosciamo, connesso e interdipendente come mai era avvenuto prima nella storia. In questo senso il Manifesto investe più sul conflitto sociale, sul processo, sul movimento che sulla individuazione meccanica della Classe. Anche perché magari, andando su per i rami, di qualche luogo produttivo ad alto tasso di sfruttamento, il padrone potrebbe risultare essere, ad esempio, un Fondo pensione dei metalmeccanici americani.

Il Manifesto prova a interloquire con le nuove forme del lavoro e dello sfruttamento, sempre più cognitivo e socializzato come ci dimostra l’economia delle piattaforme e della logistica diffusa. Provando però anche ad enfatizzare le forme di cooperazione produttiva, autogestita, investendo sulla consapevolezza e indipendenza di una soggettività comunitaria disposta a battersi per liberare tempo, creatività, occasione di emancipazione e certamente anche il salario. Per questo è necessario aprire una discussione vera su cosa è oggi il lavoro e il non lavoro, come permea la vita delle persone, soprattutto dei più giovani. Mettendolo al centro di una vera rigenerazione politica. La sinistra dovrebbe ricominciare a mappare il mondo intorno, scegliendo un punto di osservazione, quello di chi sta peggio. A cominciare da quelli che ci portano merci fin dentro casa o i professionisti che passano ore a programmare algoritmi per semplificare la espressività social di ognuno di noi.

Il complotto di Travaglio e Gomez all’Autogrill

Cari lettori, ci hanno scoperto. Siamo costretti a confessare perché ieri Repubblica ha pubblicato un’anticipazione della tesi difensiva del direttore di Rai3 Franco Di Mare, il quale sostiene che “la famosa telefonata registrata da Fedez era una trappola orchestrata con l’ausilio di Marco Travaglio e Peter Gomez”. Ebbene, tutto vero. L’idea di un complotto contro Di Mare è nata nel parcheggio dell’Autogrill Tortona Nord, dove il nostro direttore ha incontrato Gomez in gran segreto proprio mentre Fedez li raggiungeva carico di prelibati dolcetti romagnoli. Fedez lamentava una ormai insopportabile monotonia dei palinsesti di Rai3, di cui l’artista è fedele spettatore. A quel punto Travaglio si è illuminato: “Perché non scrivere un monologo sul ddl Zan, sperare che vogliano censurarlo, farsi dire che è un testo inopportuno, registrare tutto, metterlo sui social e poi sputtanare la Lega sul palco?” “Potrebbe funzionare – si è inserito Gomez –, ma Di Mare è un osso duro, ci becca di sicuro”. E infatti oggi, guarda caso, scopriamo che un presunto passante ha filmato l’incontro all’Autogrill e poi lo ha inviato a Di Mare. Ma noi non molliamo: appuntamento a Medesano Est per una rustichella e per decidere le prossime mosse.

Se FDI supera Salvini, si fa male Draghi

M ettiamo che in un prossimo lunedì sera, nel consueto sondaggio politico del Tg di La7, Enrico Mentana annunci che FdI ha superato la Lega, diventando così il primo partito (sempre “se si votasse oggi”). Fantapolitica? Mica tanto considerato che, nelle intenzioni di voto, il 3 maggio scorso il partito di Giorgia Meloni aveva con l’ennesimo balzo toccato quota 18,7%. Mentre il partito di Matteo Salvini arretrava di un punto ancora fermandosi al 20,9%. Una differenza di due punti virgola due niente affatto incolmabile alla luce della tendenza consolidata nel derby sovranista che in poco più di un anno ha visto FdI conquistare almeno una decina di punti e il Carroccio perderne altrettanti. Un sorpasso futuribile ma le cui probabili conseguenze sono già sotto i nostri occhi.

1. Il costante arretramento leghista non può essere accettato nell’indifferenza dei vertici e della base soprattutto in un partito strutturato su base federale nel quale il segretario è un primus inter pares che resta tale finché porta valore aggiunto in termini di consenso. Anche per effetto degli inevitabili malumori, Salvini ha scelto, da un giorno all’altro, di passare dall’opposizione alla maggioranza di Mario Draghi. Con lo scopo di tacitare con qualche poltrona ministeriale e di sottogoverno alcuni collettori di voti (per esempio, il lombardo Giancarlo Giorgetti, o il chiacchierato Claudio Durigon nel Lazio). Cercando pure di non scontentare il potere moderato incarnato dal presidente veneto Luca Zaia. 2. È stata una manovra spericolata che tuttavia non soltanto non ha interrotto l’emorragia di voti verso FdI, ma costringe il leader leghista a continue acrobazie per apparire sia di lotta che di governo (un colpo al cerchio e uno alle riaperture). Senza risultati tangibili. Anzi. Poiché l’evidente travaso di voti nella destra premia piuttosto la scelta della Meloni che adesso egemonizza in solitudine il campo dell’opposizione. 3. Le convulsioni del salvinismo già oggi rappresentano un problema non piccolo per Mario Draghi. Che oltre a chiedere all’alleato verde di darsi una calmata è costretto a sorbirsi le rimostranze del pd Enrico Letta che sulla crisi di Salvini, come dicono a Parigi, chiagne e fotte. I fatti ci dicono quindi che per il premier un sia pure simbolico sorpasso a destra non sarebbe affatto una buona notizia. Proprio perché per Salvini sarebbe pessima. Adesso i due cercano di darsi una mano. Finché sarà possibile.

La politica dimentica i morti: commissione ferma al Senato

Ieri mattina un operaio di 49 anni ha perso la vita a Busto Arsizio, in provincia di Varese, dopo essere stato schiacciato da un tornio meccanico. È accaduto a 24 ore dalla morte di Luana D’Orazio, la giovanissima operaia rimasta impigliata in un macchinario dell’azienda tessile in cui lavorava. Una tragedia su cui è in corso un procedimento per omicidio colposo: risultano indagati la titolare e l’addetto alle manutenzioni. Ma le due morti in due giorni sono solo il simbolo di una continua emergenza che l’Italia non è mai riuscita a risolvere soprattutto perché la politica ha semplicemente smesso da tempo di occuparsene, salvo il cordoglio occasionale come quello di questi giorni.

A novembre 2019 il Senato ha previsto la nascita di una commissione sulle condizioni e sugli infortuni dei lavoratori, ma la presidente Maria Elisabetta Casellati, pur avendo ricevuto i nomi dei componenti indicati dai gruppi, continua a non farla partire. Il testo unico approvato nel 2008 è da tutti considerato una buona legge, ma dopo 13 anni mancano ancora alcuni dei decreti attuativi. Nel frattempo prosegue la strage quotidiana con numeri inaccettabili: nel primo trimestre del 2021 solo le morti denunciate all’Inail sono state 185, in aumento dell’11,4% rispetto allo stesso periodo del 2020. E si tratta – vale sempre la pena specificarlo – di un dato sottostimato per definizione: non tutti i lavoratori sono assicurati presso l’istituto pubblico. Sono infatti esclusi, per esempio, i componenti delle forze dell’ordine e gli autonomi. E poi c’è l’esercito dei lavoratori in nero, senza contratto, tutele e dignità che sfuggono da tutte le statistiche, soprattutto quando perdono la vita sul posto di lavoro.

Ma ad aggravare una situazione già drammatica ci ha pensato il Covid. Nell’ultimo anno, mentre sono diminuiti i decessi per episodi violenti o per incidenti stradali sul tragitto tra casa e azienda, con la complicità dello smart working, sono esplose nel frattempo le morti causate dal contagio sul lavoro. A partire da marzo del 2020, oltre 165 mila persone sono risultate positive per contatti avuti mentre erano in servizio, e 551 di queste hanno poi perso la vita. Il mondo delle imprese, con Confindustria in testa, ha a lungo lottato affinché l’infezione sul lavoro non fosse equiparata all’incidente sul lavoro, per fortuna senza riuscirci. I sindacati hanno ottenuto i protocolli di sicurezza per il contrasto al Covid, aggiornati l’ultima volta poche settimane fa, ma il problema come al solito è la scarsità di controlli. Durante il 2020, l’Ispettorato del lavoro (Inl) ha effettuato solo 17 mila verifiche in questo ambito, notando che le violazioni più frequenti riguardano la formazione dei dipendenti, la fornitura dei dispositivi di protezione e la sanificazione degli ambienti.

L’Inl è nato nel 2017, con l’obiettivo di coordinare le attività di vigilanza, ma non è mai stato messo nelle condizioni di operare a pieno regime. Da anni si riduce gradualmente il suo organico a causa dei pensionamenti non sostituiti. Nel 2020 il personale ha perso altre 200 unità, fermandosi ad appena 3 mila addetti ai controlli. Proprio il Covid, con l’impossibilità di organizzare i concorsi, ha bloccato le circa 1.500 assunzioni previste, e ora l’Ispettorato è appeso al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che prevede 2 mila nuovi ingressi. Il risultato è che l’anno appena passato ha visto un ulteriore crollo di un terzo degli accessi ispettivi, passati dai 160 mila del 2019 a 104 mila. Se anche l’Inl fosse potenziato, la materia dei controlli sulla sicurezza resterebbe confusa e dai perimetri incerti: la competenza dell’Ispettorato si concentra perlopiù sui cantieri edili e va in parallelo con quella delle Asl regionali.

Secondo Iunio Valerio Romano, senatore del Movimento 5 Stelle che proviene dal mondo dell’ispezione lavoro, serve una procura nazionale del lavoro. La proposta consiste nel creare pool di magistrati specializzati nella materia. “La Procura non dovrebbe avere un’utilità solo nella repressione – spiega il senatore – ma può garantire una sorta di regia unica per rendere più efficace anche la prevenzione e consentire altresì una omogeneità nell’azione investigativa”. Romano insiste anche sull’istituzione della commissione: “È un’esperienza che si ripete nel corso delle legislature – ricorda – le vecchie hanno contribuito a buone norme sulla tutela del lavoro; più tempo passa più ci avviciniamo alla scadenza del mandato, va istituita subito”.