Giallisti di tutto il mondo unitevi. Dopo la sterminata apnea del Covid, l’Italia delle trame si è finalmente rimessa in moto. Un ex presidente del Consiglio con attitudini saudite lascia Rebibbia dove ha appena salutato un caro amico detenuto, si incontra con un campione delle spie a forte predisposizione americana, in un anonimo Autogrill a trafficare reciproche informazioni che in codice chiamano Babbi o Wafer o “Auguri di Natale”.
Il tutto, così sventatamente, da essere filmati, per 40 minuti di seguito, da una insegnante incuriosita e nascosta dietro a un finestrino che potrebbe anche essere uno di quei furgoni ciechi usati da tutti i servizi segreti del mondo per arricchire l’archivio e predisporre futuri ricatti.
Un cardinale fatto di granito sardo inciampa sull’intrigo di un palazzo da 200 milioni di dollari comprato a Londra con i soldi delle elemosine di San Pietro e si sbriciola (il cardinale, non il palazzo) sotto una pioggia di veleni vaticani, minacce di video compromettenti, imbrogli contabili e scandali sessuali. Mentre una sua dama in nero, esperta in segreti internazionali e borse Hermès, lo abbandona davanti alle telecamere, se ne va via con la sua scia Chanel, lasciandolo fradicio e al vento. Meno male che di lì a poco torni direttamente il Papa a portargli un piatto di minestra calda, la benedizione e l’ombrello.
Un magistrato che per anni, con faccia e pancia adeguate, ha navigato nel peggio della magistratura – coltivando pettegolezzi, malignità, inganni, false cattiverie e autentici segreti, il tutto a nome non della Giustizia, ma della Carriera – diventa d’improvviso autenticamente buono, sinceramente pentito, esce dall’Hotel Champagne dove cenava con gli amici degli amici e un trojan nel telefonino, si confessa in un libro, scala le classifiche, compare tutte le sere in tv a fare la morale, denunciando le correnti della magistratura. E provando a demolirle tutte, come putribonde fabbriche di abusive carriere, per far trionfare, nelle aule dello Spettacolo, finalmente la sua.
Nel frattempo al Palazzo di Giustizia di Milano, spuntano altri verbali, dove anche stavolta i cattivi non sono gli assassini o i ladri, ma certi magistrati romani e non romani che addirittura si riuniscono segretamente in un sontuoso appartamento per trafficare anche loro in nomine, inchieste e depistaggi. Una loggia, sembrerebbe, per di più battezzata “Ungheria”, dal nome della piazza che ne custodisce il covo e che a dire il vero un tempo ospitava all’angolo il bar più famoso dei pariolini neofascisti.
Ma quelli erano gli anni Settanta. Archeologia. Peccato che neppure gli anni Settanta manchino in questa rifioritura delle trame, essendo recentissima la retata di anziani ex terroristi, latitanti da quarant’anni, arrestati per un giorno a Parigi. Identificati. E subito scarcerati. A perfezionare un déjà-vu servito in definitiva a nulla, se non a riaprire per qualche ora l’album dei ricordi e dei dolori, se ne riparlerà tra due anni, come promette la diplomazia giudiziaria francese. In attesa che, prima o poi, compaia il Grande Vecchio.
Ma non ci sarà il tempo di annoiarci, visto con quanto zelo l’Italia torna a sfornare intrecci come ai bei tempi, quando i piani alti e altissimi della Repubblica progettavano golpe da dilettanti e stragi da professionisti. Si spartivano i soldi delle autostrade in costruzione e quelli della Cassa del Mezzogiorno in opere di bene per le banche, le mafie, i partiti. E senza troppe cautele trafficavano in petrolio e tangenti, dopo che Enrico Mattei era stato liquidato in volo, come un fuoco d’artificio.
Era l’Italia benedetta dalle gerarchie vaticana, americane, democristiane che nuotavano nel delta ancora abbondante del Boom, mentre i cavalieri del lavoro organizzavano il sacco di Palermo con qualche ficcanaso finito nel cemento. L’Italia che costruiva fabbriche incongrue e periferie invivibili che i giornali chiamavano Cattedrali nel deserto e Coree. E il doppio Stato allevava nell’ombra neofascisti veneti, parcheggiati tra i patrioti di Gladio, affinché nessuno si sognasse di interferire con le serrature a stelle e strisce della nostra indisciplinata Repubblica.
Il giallo Italia si è rimesso in moto. Sebbene in sedicesimo. Dai silenzi del presidente della Repubblica Antonio Segni e del generale dei carabinieri De Lorenzo, siamo transitati a quelli del senatore semplice di Rignano e del contabile dei Servizi, Marco Mancini. L’ombra di monsignor Marcinkus – con gli abissi del Banco Ambrosiano e del sangue sparso dai generali argentini – è lunga dieci volte quella appena sfiorita del cardinale Angelo Becciu e della sua annessa lady Cecilia Marogna. Per non parlare dei sontuosi depistaggi del Porto delle Nebbie, la Procura di Roma ai tempi dei leggendari Carmelo Spagnuolo, Vitalone e poi Squillante che per trent’anni hanno buttato sabbia negli ingranaggi delle inchieste indesiderate.
Ma tutto, in letteratura, si può migliorare. Persino l’incerto eloquio di Piero Amara, avvocato dell’Eni, già condannato per corruzione, titolare delle rivelazioni sulla loggia Ungheria. O i misteri di una tale Marcella Contrafatto, segretaria di Piercamillo Davigo, postina anonima dei verbali segreti. O lo sguardo spampanato di Luca Palamara e della sua schiera di raccomandati, che aspirano anche loro alla astuta demolizione della magistratura.
Dopo il giornale unico dell’emergenza, stiamo per intravedere il dopo Covid. La Storia e le storie si sono rimesse in moto. E sta arrivando il malloppo vero da Bruxelles, grande come un movente, quanto lo fu quello della nostra caotica industrializzazione, dopo il Piano Marshall. Dunque si muovono non solo i Re del mondo, ma anche gli alfieri, le torri, i pedoni della nostra povera Repubblica. In appendice tornano persino i fantasmi di Bisignani, Tavaroli, Gianni Letta, Denis Verdini, eroi di altre primavere, quando ancora Berlusconi irrigava le trame del suo giallo migliore, intitolato “Questo è il Paese che amo”, purtroppo interrotto nel momento in cui arrivavano le ragazze.