Fedez e caso Renzi-Report: la Vigilanza processa la Rai

Un vero e proprio processo da parte della commissione di Vigilanza a Franco Di Mare, direttore di Raitre, sia per la vicenda Fedez sia per il caso Report, con l’incontro in autogrill mandato in onda dal programma tra Matteo Renzi e Giacomo Mancini. E Di Mare, su Fedez, usa ancora parole molto forti, negando qualsiasi tentativo di censura da parte della Rai, e parlando di “manipolazione”, “imbroglio”, “bugie” e “complotti” da parte dell’artista. Accuse forti che, secondo diversi parlamentari della Vigilanza, dovrebbero avere come conseguenza, se avesse ragione Di Mare, una denuncia alla Procura. “Fedez ha manipolato completamente la realtà tagliando la telefonata con gli autori e la vicedirettrice Ilaria Capitani con l’obbiettivo di far passare la Rai come azienda che pratica la censura”, ha detto Di Mare.

L’appuntamento è attesissimo, tant’è che all’inizio non c’è nemmeno posto per tutti. Di Mare all’inizio ricostruisce la vicenda del Primo Maggio, spiegando che la tv pubblica acquista l’evento che è totalmente organizzato da Cgil, Cisl e Uil e dalla società iCompany di Massimo Bonelli. Secondo Di Mare, venerdì pomeriggio Bonelli, dopo aver letto il testo di Fedez, con una mail avvisa Capitani. A questo punto la vicedirettrice di Raitre dice che secondo lei il testo è inopportuno, ma che comunque la scelta sul da farsi e le eventuali responsabilità non sono dell’azienda, ma di chi organizza. Poi venerdì sera va in scena la famosa telefonata, quella in cui Bonelli parla di “un sistema” e alla fine interviene anche Capitani. “La Rai aveva tutto il diritto di vedere il testo, ma non l’ha fatto, il testo di Fedez ci è stato mandato senza richiesta da parte nostra. Quella di Fedez è una manipolazione gravissima che ha gettato discredito sulla Rai e sulla sua onorabilità, con un danno d’immagine a livello internazionale”, afferma il direttore. Il risultato, secondo Di Mare, è che la Rai “sia stata crocifissa e condannata ancora prima che Fedez salisse sul palco”.

“Lei sta usando parole molto gravi. Se pensa sia stata operata una manipolazione, vada in procura e denunci”, fa notare, subito dopo, la dem Valeria Fedeli. Cosa che gli viene ripetuta anche da altri. “Se è convinto delle sue affermazioni, allora denunci”, ribadisce Loredana De Petris. “Tutta la storia è stata gestita malissimo. Lei se ne dovrebbe andare a casa a calci nel sedere”, s’infiamma Daniela Santanché. A metà, poi, quando prende la parola Davide Faraone di Italia Viva, piomba in commissione pure il caso Report-Renzi. “Lei imputa a Fedez quello che invece ha fatto tranquillamente Sigfrido Ranucci: ovvero procedere a un’operazione di taglio e cucito a un’intervista di un giornalista del programma a Renzi che mistifica l’accaduto. Per fortuna che poi Renzi ha pubblicato la versione integrale dell’intervista…”, attacca Faraone. Che, puntando il dito contro Di Mare per non aver accennato al caso Report nella sua lunga introduzione, chiede: “Vogliamo sapere chi è la donna che ha ripreso l’incontro all’autogrill, perché l’ha fatto e se lei reputa normale che un senatore della Repubblica venga spiato e un programma Rai mandi in onda in video che lo riprende abusivamente…”.

Poi tocca a Michele Anzaldi rincarare la dose. “Nell’incontro di Renzi all’autogrill non c’è assolutamente nulla di illegale, mentre con l’operazione di cucina che Report ha fatto si vuole indurre lo spettatore che chissà quali malefatte si stavano facendo, oltretutto sovrapponendo piani e storie diverse. Si è trattato di un’operazione di killeraggio contro un partito politico”, afferma l’esponente di Iv. Non c’è quasi nessuno, forse solo Primo Di Nicola su Fedez, che prende le difese di Di Mare. E l’audizione diventa una sorta di agonia fin oltre le dieci di sera.

Babbi&nipoti

Immaginate che accadrebbe se un programma Rai affermasse quanto segue: l’Innominabile ha incontrato l’agente segreto e caporeparto del Dis Marco Mancini nella piazzola di un autogrill l’antivigilia di Natale, subito dopo aver chiesto in tv al premier Conte di mollare la delega ai Servizi. Tutti strillerebbero: falso, vergogna, calunnia, complotto, fuori le prove! Invece, di quell’incontro, Report ha mostrato le immagini, riprese col cellulare da un’insegnante che attendeva il padre dinanzi all’autogrill. L’Innominabile non ha smentito (come avrebbe potuto?). Ma, anziché spiegare che ci facesse in un posto così con un tipo così (che aspirava a una promozione nei Servizi, malgrado si fosse salvato grazie al segreto di Stato dai processi per il sequestro Abu Omar e per i dossieraggi Telecom), tira fuori calunnie da dossier farlocchi contro Report, insinua complotti dietro l’insegnante che l’ha filmato e – gran finale – dice che Mancini doveva regalargli dei “babbi” al cioccolato. Che però purtroppo nelle immagini non si vedono. Del resto l’hanno capito tutti: i babbi fanno il paio con la nipote di Mubarak del suo spirito guida. Ci può credere solo chi ci deve o ci vuole credere. Specie se non ha una reputazione da perdere o da difendere. Invece fingono di crederci quasi tutti. I meglio giornaloni nascondono la notizia. O la trattano da gossip. O si esercitano nella vecchia arte di guardare il dito anziché la luna. Cioè non il fatto, gravissimo, documentato dal video. Ma il video: cosa ci sarà dietro, perché mai trasmetterlo. E pretendono spiegazioni non dal politico e dallo spione, ma dal programma che li ha smascherati.

La stampa umoristica, tipo il Riformatorio, parla di “macelleria Report”, “agguato della Rai a Renzi: roba da America latina anni 70” (e perché non 60 o 80?). Aldo Grasso, sul Corriere, si indigna perché Report ha trasmesso il video di due personaggi pubblici in un luogo pubblico ed è “perplesso per il servizio in sé, che mescola molte cose, non tutte pertinenti” (fortuna che a Report la pertinenza non la decide lui, sennò il programma chiuderebbe per mancanza di servizi). Poi, gran finale, accusa Fedez di “non rispettare la privacy” divulgando la telefonata con la vicedirettrice di Rai3 (personaggio pubblico) che tenta di censurarlo. Ovviamente, se Fedez si fosse limitato a raccontare la tentata censura, tutti avrebbero strillato (come ancora fa quel comico naturale del direttore Di Mare): falso, vergogna, calunnia, complotto, fuori le prove! Ma, siccome purtroppo l’audio c’è, parlano del fatto che ci sia anziché del suo contenuto. Quindi, per concludere, sì: l’Innominabile s’è visto con Mancini per i babbi e Ruby era veramente la nipote di Mubarak.

“Bonaparte ci ha rubato il cuore”, firmato Bonaparte (sotto anonimato)

A riprova che il mito di Napoleone, in bilico tra leggenda del salvatore e narrazione del tiranno, è inesauribile, esce oggi in Francia Écrits clandestins de Sainte-Hélène (Éditions Perrin, a cura di Thierry Lentz, direttore della Fondation Napoléon), redatti dall’imperatore dal 1817 al 1818 mentre è in esilio e pubblicati in Inghilterra. Stilati come lettere anonime che parlano di Napoleone in terza persona, qui il corso dice la sua sulla prigionia, la sua epopea e apre uno squarcio inedito sulla sua figura. Lentz ci spiega che “Il primo creatore del mito fu Napoleone stesso. E ha fatto un ottimo lavoro”.

In effetti, passati due secoli poco sappiamo di quest’ometto dalle guance paffute, la fronte alta e la mano infilata nel panciotto per la gastralgia, come se il personaggio fosse destinato ad autoalimentarsi nel riverbero della memoria collettiva. L’arte del suo tempo è poco affidabile, i ritrattisti di cui si circonda sono usati come propaganda del suo potere: eccolo allora in versione eroe a cavallo in Bonaparte valica il San Bernardo (1803) di David; imperatore-dio in Napoleone I sul trono imperiale (1806) di Ingres; o maschio alfa nudo per Canova.

Scrittori e intellettuali, invece, divergono. Spiega Carlo Carlino, nella prefazione a Massime e pensieri di Napoleone di Balzac (Sellerio), che la sua figura, quando non magnificata, è avversata o affievolita. Per Manzoni, in Cinque maggio, alla morte dell’imperatore la terra è “percossa e attonita”. Per Hegel, è un uomo che “si irradia sul mondo e lo domina”. Balzac, che nel suo studio tiene una sua statuina, lo loda spesso nei suoi libri (La donna di trent’anni, Il medico di campagna). Sull’altro versante, Lord Byron in Ode to Napoleon lo vede come un “vile che aveva preteso di vedere prostrato il mondo ai suoi piedi”; Victor Hugo lo definisce “il grande taglialegna d’Europa”.

Ma c’è anche chi è indeciso: Puškin inorridisce per l’invasione francese della Russia ma secondo lui è un “grande nemico”. Stendhal in Vita di Napoleone lo acclama quale “ciò che di meglio ha mai prodotto il secondo stadio della civiltà” ma “prodigo di sangue”. Anche Foscolo, scrive Matteo Palumbo in Ei fu. Vita letteraria di Napoleone da Foscolo a Gadda (Salerno), ha “un’ammirazione a metà”.

Napoleone è, dunque, una creazione artistico-letteraria che si amplifica nel mistero più che risolversi nella verità. Ma allora, dietro l’homme de l’Histoire, chi c’è? “L’uomo privato ci sfugge – rivela Lentz – perché era difficile essergli amico: autoritario, andava di fretta, mangiava in piedi, non beveva, non si divertiva. Solo quando fu esiliato si mostrò senza il fascino del potere, che pregiudica le voci dei suoi coevi”. Ed è quello che, con la distanza dovuta, ha fatto il 900 quando ne ha umanizzato la figura: in I cento giorni, quelli dell’imperatore evaso dall’isola d’Elba, Joseph Roth narra un uomo sconfitto; in The Napoleon Symphony di Anthony Burgess, sul condottiero prevale l’uomo fragile. Banksy, più di recente, usa invece la sua immagine a cavallo (incappucciato come un uomo-pacco, nella foto) per criticare le politiche migratorie del governo francese. Ecco che il mito continua.

Napoleone per stomaci forti

Stato di salute. Nulla da segnalare, riguardo alla salute di Napoleone, fino al 1818. Ma quell’anno, il 4 di giugno, un giovedì, passò una notte in bianco, “mal di testa lacerante”, quindi “ansia”, poi “oppressione” e anche “pelle calda e secca”, “il cuore gli batte forte”, eccetera. Così il dottor Barry O’Meare, il cui referto, parecchi decenni dopo, fu venduto a un’asta in Texas per 1.500 dollari.

Dente. In quello stesso anno, O’Meare, un chirurgo irlandese che non aveva neanche trent’anni, gli cavò il dente del giudizio. Poi gli inglesi lo richiamarono in patria, aveva troppa simpatia per il paziente.

Sant’Elena. Siamo nell’isola di Sant’Elena, uno scoglio in mezzo all’Atlantico, mille e novecento chilometri dalla costa più vicina, qualche centinaio di abitanti, zanzare a milioni, topi fin sotto i letti, calura tropicale, umidità, si soffoca, ecc. Qui, dopo Waterloo, gli inglesi hanno sbattuto il cosiddetto imperatore, mettendogli come cane da guardia il generale Hudson Lowe, baronetto, stessa età del prigioniero. Istruzioni ricevute da Londra: rendere per quanto possibile la vita di N. un inferno. Hudson Lowe, tra l’altro, spiega a Bonaparte che lui non è un prigioniero, ma un ospite, e deve pagarsi da sé vitto e alloggio.

Su Hudson Lowe: “Un cretino” (Wellington).

Galoppata. Una mattina d’ottobre del 1820 il nostro galoppa da Longwood, sua residenza, fino a Sand Bay, dove lo attende sir William Doveton, 58 anni, nato a Sant’Elena, uno che dall’isola non s’è praticamente mai mosso (per ingannare il tempo ha fatto fare alla moglie Eleanor dieci figli). Costui nota che il suo ospite è “pallidissimo, grasso e rotondo, un maiale cinese”. Apparecchiano sul prato, viene servito un piatto di frutti tropicali fermentato, “un torcibudella”, si accompagna il tutto con champagne. N., mezzo sbronzo, perde i sensi. Lo fanno rinvenire, lui pretende di tornare a Longwood a cavallo. Non c’è modo di persuaderlo, ma gli vanno dietro, e a mezza strada lo devono tirar su e caricare su un calesse.

Canapè. Il maresciallo Carlo Tristano di Montholon, uomo dai molti cognati, che aveva seguito l’imperatore a Sant’Elena con la moglie Albine de Vassal, di cui era il terzo marito, moglie che s’accarezzava volentieri col Bonaparte, al punto che la seconda figlia sua, Josephine, partorita a Sant’Elena, risultava identica al grand’uomo. Costui, nel gennaio 1821, appuntò che N. dormiva di continuo, di preferenza sul lettuccio di Austerlitz che lo aveva seguito in esilio, e che non teneva più niente, vomitava, se la faceva sotto, ecc. Lo stesso Napoleone, quando si risvegliava, andava dicendo: “Non passo l’anno, non passo l’anno…” (intanto s’illudeva che gli avrebbero spostato l’esilio in America).

Calesse. Ultima passeggiata in calesse: 7 marzo 1821.

Antommarchi. Richiamato in patria O’Meare, era diventato medico di Napoleone Francesco Antommarchi, un còrso che sarebbe andato a morire a Cuba. Costui, intorno alla metà di marzo, vedendo che Bonaparte girava piegato in due per il mal di stomaco, gli diede da bere una limonata in cui aveva sciolto qualche grano di tartaro (potassio+antimonio). A causa di questo l’imperatore si contorceva per gli spasimi, e vomitava, e gridava al “dottoraccio”, che non si facesse vedere mai più, benché gliel’avesse raccomandato la madre Letizia.

Chili. Negli ultimi sei mesi, il prigioniero aveva perso forse undici, forse quindici chili.

Aria. Lo visita il dottor Arnott, del XX reggimento, e conclude che ha troppa aria nell’intestino. Napoleone non si capacita, “O’Meare dice che è un fatto di fegato”. Dentro di sé pensa che lo stia mangiando lo stesso cancro che, a 35 anni, s’è portato via il padre. Del resto i morsi allo stomaco durano da un pezzo.

Ultimi giorni. A metà aprile Antommarchi prega il maresciallo Bertrand di far presente all’imperatore che la sua ora è vicina. 15-25 aprile: Napoleone fa testamento. 29 aprile: spostano il letto nel salone di Longwood, vicino alla finestra, in modo che abbia più aria. Lui vomita tutto il tempo una materia nerastra striata di sangue. Lo salassano, lo imbottiscono di calomelano. 3 maggio: estrema unzione. 4 maggio: principio dell’agonia, vale a dire ansima, singhiozza, rantola, suda, rabbrividisce, vaneggia. Schizza liquidi neri fuori dal corpo. 5 maggio, mattina: tutti gli illustri di Sant’Elena stanno intorno al suo letto e ne contemplano la fine. Fuori, c’è nebbia, pioggia, tempesta. Il vento sradica due giovani alberi.

Ultime ore. Alle dieci non si sente più il polso, alle undici il corpo è gelido. Antommarchi gli rinfresca la bocca con acqua di fiori d’arancio e zucchero. L’addome gli fa su e giù. Gli occhi si rovesciano sotto le palpebre. Alle 17.49, una leggera schiuma avendogli coperto le labbra, rende l’anima.

Dopo. Antommarchi, aiutato da un medico inglese, gli applica sul viso uno strato di gesso da cui cavare una maschera, e infatti oggidì, di maschere di Napoleone ricavate da quella (e da altri rilievi eseguiti in cera e in cartapesta), se ne mostrano parecchie, in musei e collezioni private. Sette medici lo fanno a pezzi per capire di che è morto, ma ne sigillano anche, in due recipienti d’argento colmi di spirito, il cuore e lo stomaco, con l’idea di donarli alla moglie Maria Luisa duchessa di Parma. La Maria Luisa avendoli rifiutati (“avrei voluto che vivesse a lungo, però lontano da me”) si sistemano le due ampolle nella bara. Con i capelli – che all’analisi moderna risultano pieni di arsenico – si fecero braccialetti. Al termine dell’autopsia, i sette medici si spartirono le lenzuola macchiate di sangue, certi che avrebbero avuto un mercato.

Pene. L’abate Vignali gli segò il pene che nel 1999 fu messo all’asta e aggiudicato per quattromila dollari al dottor John F. Lattimer, della Columbia University. La figlia di costui lo avrebbe a sua volta messo all’incanto per centomila dollari.

Dal Berlusconismo al Renzismo, epopea del politico “fai da te”

Alcuni uomini hanno un tale potere iconico da diventare aggettivi: senza scomodare Kafka, diciamo “berlusconiano” o “renziano” e tutti capiscono al volo cosa intendiamo. La parola descrive un insieme di tratti, un modo di fare, una cultura, un’antropologia singolare e inequivocabile, oltre che la pletora più o meno folta degli adepti. L’aggettivo è proporzionale alla fama e ne ricalca il valore, con poche eccezioni nella Storia: Napoleone era un cafone e un piccolo uomo, eppure “napoleonico” vuol dire grandioso, straordinario; mentre ormai “berlusconiano” e “renziano” partecipano di una tassonomia marginale, da gabinetto delle curiosità. Con una differenza sostanziale: che Berlusconi, che ha intercettato e generato un pubblico a sua immagine e somiglianza, ha impresso il suo codice a un’epoca, che è stata berlusconiana, cioè perfettamente incastrata allo Spirito del Tempo, amorale, edonista, ludica, individualista; mentre Renzi, sgomitando fin da subito per diventare aggettivo epocale e finito sinonimo di deteriore, si è autodistrutto nel giro di cinque anni.

Nell’ultima puntata di Report, divisa in multiproprietà tra i due mancati Napoleoni d’Italia, Berlusconi appare nelle sue adunate reattive, quelle delle pose mussoliniane di immanenza perenne tra sventolii di bandiere finte d’Italia, in realtà di Forza Italia, sotto Palazzo Grazioli: “Io sono qui. Io resto qui. Io non mollo! Io. Sono. Innocente!”.

Aiutato da spie volontarie appostate in piccoli alberghi di Ischia nelle persone di bagnini, camerieri, ristoratori pronti a riferire agli avvocati e alla stampa di famiglia le brutte parole che il magistrato Esposito avrebbe detto sul suo conto prima di condannarlo (“È una chiavica, gli faccio un mazzo così”), B. non è solo un uomo: è un portale. C’è tutto un mondo suscitato dal solo nome di B.: basta evocarlo, e come in un endorcismo lui si porta dietro un popolo, uno stile, la realtà di pixel, l’etica pubblicitaria, il vittimismo contundente, i miliardi, il sorriso gagliardo, il maquillage funebre, lo scandalo e il complotto, il carrozzone dei finti garantisti… Egli è legione.

Nella stessa puntata è stato svelato, con grande strepito del protagonista e dei suoi bravacci sui social, l’incontro di Renzi in autogrill con un uomo dei servizi segreti durante la crisi del governo Conte (innescata da lui, anche perché Conte cedesse la delega ai servizi). Mentre B., a dispetto della taglia, proietta la sua enorme ombra trentennale sul Paese, Renzi – stante la sua irrilevanza elettorale – è più una spina di pesce ficcata nel velopendulo d’Italia. Dà fastidio, non si toglie, s’incista.

“Lo dico per voi, siete una trasmissione importante, usate i soldi dello Stato, spero che li usiate bene”, dice il Senatore della Repubblica che prende soldi da una petromonarchia sanguinaria svolazzando nei cieli d’Arabia tra conferenze adulatorie e premi di Formula 1, e ha il 40,57% di presenze in Aula.

Strizza gli occhi, insinuante: “Conte ha fatto degli incontri un po’ strani, a Palazzo Chigi, nell’agosto del 2019…. Su una vicenda di spie abbastanza strane”. E chissà che il punto non sia fare incontri a Palazzo Chigi in orario d’ufficio, invece che nella piazzola di sosta di un autogrill l’antivigilia di Natale, dopo aver visitato un bancarottiere, ex senatore di Forza Italia, recluso a Rebibbia.

“Voi state facendo riferimento a un video (quello in cui lo si vede conversare con un ex agente del Sismi e attuale dirigente del Dis, ndr): sarebbe interessante sapere chi ve l’ha dato”, e però l’intervistatore non aveva fatto riferimento ad alcun video (così scopriva gli impostori il tenente Colombo). “Mi doveva portare, si figuri, i babbi, che sono dei wafer romagnoli, che io mangio in modo molto vorace… Oppure lei vuol dire che il dottor Mancini è il grande ispiratore della mia battaglia per cambiare l’autorità delegata?”, e verga segni su un foglio, come a mettere insieme i capi di un’eventuale querela (farà di peggio: un’interrogazione parlamentare per mano di uno dei suoi). Preferisce passare per tonto, ultima spiaggia dell’impudente, lui che voleva dare la cybersecurity all’amico Carrai.

Dovessimo compilare la voce “renziano” su una Treccani dei potenti o ex tali sulla base del suo dialogo col giornalista di Report, tra i sinonimi finirebbero: gaglioffo, stridulo, rissoso, comico, esiguo, intimidatorio, infantile, incredibile, abile a sviare il discorso ma modesto a risolverlo dialetticamente, aspro, linguacciuto.

Habitué di regimi dove vigono metodi più radicali per sistemare i giornalisti, Renzi si sente vittima di complotti; dice che lo odiano, e in effetti in patria è detestato, ultimo in tutte le classifiche di gradimento, capo di una ridotta di miracolati, eterno presidente di Provincia che ha fatto i soldi (invece per noi, con le sue giacchette sfiancate, i pantaloni Scervino troppo corti, il peso oscillante, i suoi “dottore” negli sms, l’espressione che passa repentinamente da citrulla a feroce, egli è un personaggio clamoroso, una sagoma, un’autentica pacchia).

Grazie a Report è stato chiaro come due uomini così diversi e così affini, accomunati da una concezione affaristica della politica, l’uno principiatore l’altro epigono di un populismo di governo che ha portato entrambi a voler modificare la Costituzione in ottemperanza all’egotica fissazione esecutivista, condividano anche l’amicizia o quantomeno la consuetudine con barbefinte, personaggi bislacchi, cariatidi del potere. E fa riflettere che Berlusconi, uno che è indagato per stragi di mafia e è finito ai servizi sociali per un reato contro lo Stato, viaggi ancora sul 7%, mentre Renzi, indagato ma incensurato, sia solo all’1,7%, benché anche lui quanto ad amicizie equivoche prometta bene. Misteri d’Italia.

Telegiustizia: il dubbio fatale che condanna tutti i Ciontoli

Federico e Antonio Ciontoli, da due giorni nel carcere di Regina Coeli, hanno accettato la loro sorte con lucidità. Federico era preparato. Antonio è stato moderatamente ottimista fino alla fine, non tanto per se stesso, ma per la sua famiglia, che ha sempre scagionato da ogni accusa. “Pagano per una mia colpa, sono innocenti”, mi ha detto al telefono mentre le forze dell’ordine andavano a prelevarlo.
La figlia Martina e sua moglie Maria, alla notizia della sentenza che le ha condannate a 9 anni di carcere, si sono invece lasciare sopraffare dalla disperazione. Maria è svenuta. Si chiude, dunque, uno degli eventi di cronaca più controversi e forse emblematici del momento. Un processo che ha seguito con un’aderenza a dir poco inquietante la parabola mediatica: più le tv si gettavano sulla carcassa, più confezionavano tesi suggestive in cui i colpevoli cambiavano di giorno in giorno e testimoni improbabili spuntavano come funghi, più le sentenze diventavano severe e contraddittorie. L’avvocato Andrea Miroli che ha difeso i Ciontoli dal primo all’ultimo giorno con grande fervore e poco interesse per le luci della tv, al telefono racconta: “Ho accompagnato Federico in carcere stanotte, sono tornato all’una, sono provato. A Rebibbia non c’era posto, quindi ci hanno rimandato a Civitavecchia, poi a Regina Coeli. In questo processo abbiamo avuto 5 sentenze l’una diversa dall’altra. Il sistema si può reggere su queste paurose oscillazioni giurisprudenziali? E le oscillazioni non avrebbero dovuto essere valutate in termini di dubbio e quindi come tali diventare espressione di quel principio che rende, in caso di dubbio, la scelta obbligata come quella più favorevole al reo?”.

In effetti, verrebbe da dire che qui è avvenuto il contrario. Nel dubbio, si è optato per la ricostruzione più sfavorevole agli imputati e, dunque, per la pena più severa. Una pena che, tenendosi lontani dai forconi del popolo, dalle insinuazioni orientanti di certa tv e rimanendo vicini invece al concetto più complesso di diritto penale liberale, è quanto meno sproporzionata, almeno per quel che riguarda la moglie e i figli di Antonio Ciontoli. Tutti condannati a 9 anni di carcere dalla V Sezione penale della Cassazione per concorso in omicidio volontario. Per i giudici, tutta la famiglia ha agito nella consapevolezza che Marco potesse morire.

“Il problema è che le pene a cui si può arrivare per un evento colposo sono quelle che conosciamo, massimo 5 anni, e dunque a torto o a ragione ritenute troppo lievi. I giudici avrebbero potuto condannare Federico, Maria e Martina a una pena equa, tenendo conto che tutti sapevano che il colpo era al braccio, non al cuore, e che nessuno avrebbe potuto prevedere una prognosi infausta. La colpa andava attribuita come espressione della violazione della regola cautelare per cui bisogna sempre chiamare i soccorsi quando una persona è attinta da un colpo d’arma da fuoco. Non c’era dolo, ma colpa. E invece ai tre hanno dato il concorso pieno, neppure anomalo, in omicidio volontario”. Una decisione che lascia sconcertato chiunque abbia letto le carte senza inquinamenti emotivi. Come potevano i familiari accorgersi del colpo sotto l’ascella se non se ne accorsero neppure i soccorritori, quella notte? Se non se ne rese conto il medico che visitò Marco in stato confusionale al pronto soccorso, tanto che uscì per chiedere se assumesse sostanze stupefacenti? Come poteva, Antonio Ciontoli, aver capito che Marco stava morendo, se chiese al medico del Pit di tacere sul colpo d’arma da fuoco? In che modo, la morte di Marco avrebbe potuto rappresentare l’evento più conveniente per Ciontoli, dal momento che la morte del ragazzo lo avrebbe condotto in carcere, come poi è avvenuto? Incongruenze che la sentenza non ha preso in considerazione, scegliendo la facile e pericolosa direzione di zittire ogni ragionevole dubbio.

Martina, che all’epoca aveva 19 anni, è a Rebibbia dove tra sconti di pena e buona condotta non resterà comunque meno di 5 anni (come la madre e il fratello). Il tutto dopo aver trascorso, in attesa della sentenza, 6 anni di carcere in libertà, tra gogna mediatica e l’unico lavoro che ha trovato: assistere a casa una persona malata, che le si era molto affezionata. Federico, di qualche anno più di lei, in questo periodo di agonia ha lavorato all’estero come volontario. Ora è a Regina Coeli. Maria, la più provata della famiglia, divide la cella con la figlia. Antonio sconta la pena più dolorosa: quella di aver tolto la vita a Marco Vannini. E anche un pezzo di vita alla sua famiglia.

La “maledizione” della linea 12

Si scavava a mani nude sotto i resti del ponte sul quale passava la linea 12 della metro di Città del Messico che ieri – crollato un pilastro – è precipitato trascinando con sé due vagoni del convoglio delle 22.25 piombando su una delle principali arterie stradali della città. I morti sono 23, più di 70 i feriti, il più grande disastro della capitale messicana dal terremoto del 2017 e il paragone non è peregrino. Stabilirà l’inchiesta subito aperta dalla prefettura della città se ci sia un nesso come avevano denunciato gli abitanti della zona tra la fragilità del ponte e la forte scossa sismica di 4 anni fa. “Per ora sappiamo soltanto che un tirante si è staccato al passaggio del treno della metropolitana”, ha spiegato la governatrice della capitale, Claudia Sheinbaum ieri, dal luogo della tragedia, chiedendo di “evitare inutili speculazioni sulle cause prima che i periti verifichino cosa sia successo”. Il presidente del governo, Andrés Manuel López Obrador ha promesso che l’inchiesta “non guarderà in faccia a nessuno. Nessuno resterà impunito”, ha sottolineato. Il riferimento è all’ex governatore del Partito della Rivoluzione democratica (Prd), Marcelo Ebrard, artefice, nel 2012 della costruzione della linea 12, fiore all’occhiello della sinistra messicana che poteva vantarsi di aver investito 1.800 milioni di dollari per offrire un servizio quotidiano a mezzo milione di persone della zona sud-est della Capitale. Peccato che già nel 2014 il servizio fu sospeso a causa di “oscillazioni e un deragliamento”, per poi finire coinvolto nello scandalo che aveva coinvolto 30 funzionari dell’amministrazione Ebrard, la cui carriera crollò sotto il peso delle inchieste. L’ex direttore del Progetto Metro, Enrique Horcasitas Manjarrez fu condannato a 20 anni di inabilitazione per aver consegnato l’opera prima che fossero concluse le dovute verifiche. Il consorzio che costruì la linea 12 invece fu multato per 2.121 milioni di pesos per ritardi, lavori non conclusi e danni alla costruzione. Oggi l’ex governatore si dichiara a disposizione degli inquirenti: “Chi agisce con integrità non deve temere nulla”, ha dichiarato Ebrard ieri. Ma la maledizione della linea 12 non finisce qui. A saltare in aria a fine 2017 per lo stesso scandalo sono anche le teste del nuovo governo, quello ancora in carica di Claudia Sheinbaum. Gli abitanti della zona lanciano l’allarme del deterioramento a seguito del terremoto del 2017 del pilone 69, quello crollato lunedì sera e nel 2018 viene ordinata la riparazione a carico della Carso, Construcción de Obras para el Transporte, in consorzio altre imprese per 15 milioni di pesos. Non si sa se e come siano stati effettuati i lavori. A ottobre scorso gli abitanti denunciano su Twitter che “la metro all’altezza di Walmart San Lorenzo Tezonco si sta abbassando di livello, abbiamo notato il personale fare i rilievi”, con tanto di foto del punto incriminato. Quello venuto giù ieri.

Voto, Tories favoriti in Galles Il Labour punta su Londra

Super giovedì di elezioni quello di domani: politiche in Scozia e Galles e amministrative in Inghilterra. È certo il rinnovo del mandato al sindaco di Londra Sadiq Khan, che ha appena promesso di riportare le Olimpiadi nella capitale britannica, ma questa sembra l’unica buona notizia per il Labour. In Galles, secondo i sondaggi, andrà incontro alla peggiore sconfitta dal 1999: resterebbe il partito di maggioranza ma è prevista una crescita dei Tories. E rischia anche Hartlepool, roccaforte laburista del Nord-est dell’Inghilterra dal 1974 che diventerebbe sinonimo di disfatta per il segretario del Labour Keir Starmer se, come prevedono i sondaggi, verrà espugnata dal candidato conservatore alle elezioni suppletive. Una sconfitta che aprirebbe una lacerante resa dei conti fra la sinistra del partito e la gestione tiepida di Starmer, oltre a consolidare il consenso per la linea di Johnson malgrado gli scandali delle ultime settimane. Teso il clima in Scozia, dove si rinnova il Parlamento in una elezione che la first minister Nicola Sturgeon ha presentato come una tappa necessaria sulla via dell’indipendenza che è la ragione d’essere del suo partito, lo Scottish National Party. Per sfidare Boris Johnson e il suo rifiuto di concedere un secondo referendum per l’indipendenza, dopo quello sconfitto nel 2014, Sturgeon ha bisogno di un trionfo alle urne. Ma i sondaggi prevedono che ottenga solo 63 seggi, non i 65 necessari per la maggioranza. Quasi certa l’alleanza con i Verdi, in lizza per 11 seggi, che condividono l’obiettivo del referendum; ma la spinta propulsiva pro-indipendenza ne uscirebbe indebolita. Anche perché il consenso per una Scozia indipendente e di nuovo in Ue, dopo aver raggiunto un picco del 55% a ottobre (IpsoMori), ora è tornato in minoranza. Il trionfo della campagna vaccinale britannica rispetto a quella europea avrebbe fatto ripensare il filo-europeismo, benché in Scozia il Remain, nel voto su Brexit del 2016, abbia vinto con il 62%.

Madrid, la destra sbanca. L’effetto Iglesias non c’è

Dopo 26 anni, il cambiamento non ci sarà. La Comunità di Madrid resta a destra. La governatrice uscente e dimissionaria dei Popolari, Isabel Diaz Ayuso ha addirittura migliorato il risultato del 2019, secondo i sondaggi – 43,7% con 62-65 seggi e secondo i primi risultati che la danno a 62 seggi – confermandosi la vincitrice delle Regionali di ieri. Un successo personale, creato da Ayuso nella eterna lotta contro il governo socialista di Pedro Sanchez soprattutto sui temi della pandemia, e nonostante i pessimi numeri del virus della Comunità fin da marzo dell’anno scorso.

L’altra vincitrice è stata Monica Garcia, candidata del partito Mas Madrid dello scissionista Inigo Errejon con circa 25 seggi e più del 16%, due punti e 5 seggi in più delle ultime elezioni. Un risultato questo che conferma la vittoria dei partiti più estremisti contro i moderati. Anche Vox con la candidata Rocio Monasterio di fatto, migliora la sua situazione di circa 2 seggi per mettersi a disposizione della maggioranza di Ayuso per governare. Grande sconfitto è il candidato socialista Angel Gabilondo, che avrebbe peggiorato il risultato del 2019 scenderebbe a 26 seggi da 37 e che per la seconda volta non governerà la Regione. Segue Podemos in cui “l’effetto Pablo Iglesias” con appena 11 seggi, dimessosi dalla vicepresidenza del governo per “salvare Madrid dal fascismo” non c’è stato, soccombendo al rifiuto di Garcia di riunire le due fazioni del partito. Le sinistre, stando ai sondaggi, di fatto non riuscirebbero a raggiungere la tanto agognata maggioranza di 69 seggi neanche uniti. Confermando la frammentazione del voto tra le tre formazioni. Chi scompare del tutto da Madrid è il partito arancione di Ciudadanos. L’anonimo Edmundo Bal resta fuori dalla Comunità confermando il fallimento dei populisti centristi dopo il flop del 14 febbraio in Catalogna. Nessuna sorpresa. In parte era tutto atteso, ma il risultato di ieri non si ferma a Madrid, destinato com’è a trasformarsi in un voto nazionale. Da un lato il risultato potrebbe indebolire il governo Sanchez che dovrà riflettere su questo ennesimo insuccesso. Dall’altro, la governatrice Ayuso porta una riflessione anche all’interno del suo partito, che ieri festeggiava nella sede di Madrid, dimostrando che la politica moderata all’opposizione del leader Pablo Casado non paga, ma a vincere è lo scontro incessante e duro come quello portato avanti da lei a Madrid contro Sanchez e gli altri candidati.

Ayuso potrebbe riportare in auge anche l’alleanza con Vox, al contrario di quanto annunciato nell’ultimo discorso del leader del Pp a Las Cortes, quando ad Abascal il giorno della sfiducia a Sanchez disse: “Siamo arrivati fin qui, ora basta”. Per i pronostici del voto non ha aiutato l’affluenza, di 11 punti superiore a quella del 2019 con il 69% degli oltre 5 milioni di votanti che alle 19 di ieri si era recato alle urne. Gli analisti avevano avvertito che in una campagna così polarizzata tra la destra in lotta per “la libertà” e la sinistra con il motto anti-franchista “no pasaran”, caratterizzata da pallottole e scontri che ricordavano la divisione della Capitale durante la Guerra Civile degli anni 30, da che parte venisse la mobilitazione non era facile da decifrare. Mobilitazione straordinaria nonostante il Covid e il giorno feriale. Il virus è entrato a pie’ pari nella campagna con la governatrice fan delle aperture contro le misure anti-pandemia del governo socialista. Il risultato di ieri avrà ripercussioni anche economiche: con il Pp non allineato con il governo, la Comunità potrebbe vedersi sfuggire l’occasione della più grande iniezione di denaro dalle storia recente – i 70 miliardi del Recovery – proprio per lo scontro tra Ayuso e Sanchez.

La Libia resta provincia di Ankara

La nuova linea dell’amministrazione Biden per quanto riguarda la questione libica ha dato il suo primo frutto, andato subito di traverso al capo dello Stato della Repubblica presidenziale turca, Recep Tayyip Erdogan. Il presidente americano Joe Biden, diversamente dal suo predecessore Donald Trump è contrario all’agenda politica, aggressiva, di Erdogan, specialmente nel Mediterraneo. Nonostante siano storici partner Nato, il nuovo inquilino della Casa Bianca e il “Sultano” hanno interessi diversi nel devastato Paese nordafricano zeppo di petrolio e gas. Biden ha deciso di mostrare i muscoli per interposta persona all’ambiguo Erdogan. Il quale si sta spartendo la Libia con l’amico-nemico Vladimir Putin, a svantaggio peraltro degli interessi italiani.

La persona in questione è la giovane ministra degli Esteri del neo governo a interim libico (Gnu), Najla al-Manqoush, nata e formatasi a Londra. Va letto anche in questo modo il clamoroso voltafaccia, per ora solo a parole, del nuovo esecutivo libico di transizione nei confronti di Ankara. Il capo della diplomazia libica durante il primo incontro a Tripoli con il collega turco, Mevlut Cavusoglu, ha infatti chiesto la partenza delle forze straniere e dei mercenari in vista delle elezioni entro la fine dell’anno. Najla al-Manqoush ha esortato la Turchia a rispettare le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che chiedono il rimpatrio di tutti i combattenti stranieri e mercenari, in tutto più di 20mila. La maggior parte di questi è costituita da addestratori turchi e miliziani siriani ingaggiati e finanziati dal Sultano in favore del governo basato a Tripoli e riconosciuto dall’Onu, mentre a sostegno del generale ribelle Khalifa Haftar in Cirenaica (la zona orientale della Libia) ci sono i mercenari della compagnia privata russa Wagner. Le osservazioni della ministra libica sono state espresse durante una conferenza stampa congiunta con Cavusoglu che ha visitato la capitale con il ministro della Difesa Hulusi Akar e alti funzionari militari e dell’intelligence. “Chiediamo (alla Turchia, ndr) di prendere provvedimenti per attuare tutte le disposizioni delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu e di cooperare per espellere tutte le forze straniere e i mercenari dai territori libici”, ha detto la ministra. Questa presa di posizione è un evidente tentativo di ingraziarsi l’amministrazione Biden e prendere le distanze da una Turchia che, a partire dal 2019, dopo aver dispiegato truppe, mercenari e droni armati per combattere assieme alle forze di Tripoli gli uomini di Haftar – segnandone la sconfitta – la fa sempre più da padrona. Cavusoglu ha puntualizzato che le forze turche sono in Libia come parte di un accordo di addestramento raggiunto con la precedente amministrazione libica il cui premier era Fayez al-Sarraj, esponente della Fratellanza Musulmana, il cosiddetto islam politico (sunnita) di cui Erdogan è leader assieme all’emiro del Qatar. Proprio a causa della alleanza di Sarraj nei confronti del presidente turco, venne stipulato alla fine del 2019 il controverso accordo sull’estensione delle zone esclusive marittime turche e libiche. Nonostante il diritto internazionale, il duo rese confinanti le proprie acque incurante di aver inglobato parte di quelle esclusive greche e cipriote. Va sottolineato che si tratta di specchi di mare che nascondono nei fondali ingenti lotti di idrocarburi. “La ministra libica a questo punto si troverà certamente ad affrontare le critiche dei libici filo-turchi per motivi ideologici e confessionali e anche dei tripolini che temono ancora un nuovo attacco da parte delle forze con sede nell’est”, ha affermato Jalel Harchaoui, ricercatore senior sulla Libia presso la Global Initiative Against Transnational Organized Crime.

La partenza di centinaia di truppe e migliaia di miliziani pagati dalla Turchia è improbabile. Molto difficile resta la posizione di Tripoli perché Haftar resta un rebus nelle sue intenzioni. Ankara, avendo speso somme incalcolabili per assicurarsi la propria presenza nella Libia occidentale, rimarrà per parecchio tempo. Il governo di Tripoli che ha preso il potere a marzo, ha il compito di riunire un Paese che è stato dilaniato dalla guerra civile per quasi un decennio. Mira a guidare la Libia verso le elezioni generali calendarizzate il 24 dicembre. I diplomatici del Consiglio di sicurezza affermano che ci sono più di 20.000 combattenti stranieri e mercenari in Libia, inclusi 13.000 siriani e 11.000 sudanesi, insieme a russi e ciadiani. I 15 Paesi membri attuali del Consiglio di sicurezza hanno concordato in una riunione informale la scorsa settimana che il rientro di combattenti stranieri e mercenari è l’unica strada per cercare di stabilizzare il paese. Il ministro della Difesa Hulusi Akar si è rivolto con queste parole alle truppe turche di stanza in Libia: “Fino al 2019 eravamo gli unici ad aiutare Tripoli sul terreno. Noi infatti siamo amici anche nel brutto tempo, non solo nelle belle giornate. Ora continuiamo le nostre attività nel Mediterraneo orientale nell’ambito dell’accordo di demarcazione marittima con la Libia. I tentativi della Grecia di scavalcare questo accordo sono vani. Siamo favorevoli alla risoluzione dei problemi attraverso il diritto internazionale, il buon vicinato, il dialogo e metodi pacifici”.