Quando la serie tv ammazza il cinema

Come sia possibile che un narratore di talento come Niccolò Ammaniti abbia trasformato un suo romanzo in una serie cupa, lenta, ostinatamente distopica (la seconda parola più abusata al mondo dopo resilienza) quale è Anna (Sky Atlantic, venerdì sera), porta a riflettere sulla natura stessa della serie tv, da molti definita la narrazione principe del terzo millennio.

Ma è veramente così? Nel secolo scorso, tra cinema e letteratura si è stabilita un’alleanza naturale che è stata proprio la serie tv a rompere, prima di tutto per ragioni formali, la dilatazione dei tempi e la serializzazione dei formati, funzionali alla fruizione casalinga o dove c’è uno smartphone (ovunque). Quanto ai contenuti, le radici della serie affondano quasi esclusivamente nel fumetto e nella letteratura di genere, che per loro natura sono fornitori di eroi seriali. Dal commissario Basettoni a Superman è un attimo. Ammaniti è un visionario che brilla di luce propria; rabbia, orrore e tenerezza convivono nella sua visione dell’adolescenza tutt’altro che rassicurante, alla William Golding (l’unica cosa buona degli adolescenti è che non sono ancora adulti), e nel riconvertire Anna per il piccolo schermo anche lui si è tuffato nel mainstream apocalittico. Aver pubblicato nel 2015 un romanzo dove si immagina una pandemia mortale e interrompere le riprese a causa di una pandemia vera è una premessa impressionante, così come il virus letale che risparmia solo i bambini, la disperata ricerca di Anna per salvare il fratellino Astor, le creature del male in agguato nel mondo in macerie. Questo quadro angoscioso però fatica a evolversi, né è mitigato dal senso del grottesco, autentico punto di forza dell’Ammaniti narratore. Eppure, lo abbiamo visto, il grottesco non manca nemmeno nelle tragedie; il duo comico Fontana-Gallera o la carica dei virologi alla conquista del video sono momenti di buonumore che ormai sembra saperci regalare solo la realtà. Forse il vero day after è proprio questo.

“Bomba” Mourinho ritorna in Italia: daje Roma, Triplete e resurrezione

José Mourinho alla Roma ha la forza della storia e i limiti della cronaca. Non si discute il passato, dalla Champions del Porto ai fasti del Chelsea al Triplete dell’Inter. È il presente che inquieta: esonerato dal Manchester United, cacciato dal Tottenham. A 58 anni, il vate di Setubal è una “bomba” che la famiglia Friedkin ha lanciato nella speranza che scoppi sugli obiettivi (di svolta, di rinascita) e non in mano. Ha firmato per tre stagioni, dal “Non sono un pirla” di Appiano a “Daje, Roma” del primo messaggio c’è tutta la sua filosofia, un po’ ruffiana e molto aziendale. Succederà, da giugno, a un altro portoghese, Paulo Fonseca, la malinconia del fado

innalzata a classifica. La Roma è settima e attesa, domani, da una rimonta in Europa League – proprio contro i rossi dello United – che il 2-6 dell’andata rende quasi impossibile. Serviva una scossa. I padroni americani hanno spiazzato tutti. Si parlava di Maurizio Sarri, allenatore dell’ultimo scudetto juventino. Roma è città fin troppo aperta, le sparatorie delle radio sono western sadici, con i risultati a smistare le pallottole. Cruciale deve essere stata la tessitura di Tiago Pinto, general manager del club, lusitano pure lui. Corsi e ricorsi: anche Helenio Herrera pilotò la Roma dopo l’Inter. Il calcio di Mourinho non è mai stato un inno all’estetica ma sempre, almeno ai tempi belli, un modello di efficacia. È ancora lo Special One

? A leggere i tabloid inglesi non più. Il suo ingaggio travalica i confini del campo. Riecheggia l’operazione che Andrea Agnelli fece, nell’estate del 2018, con Cristiano: una sfida tecnica e mediatica. Le manette interiste e i discorsi della montagna (celebre, quello degli zero tituli

che coinvolgeva persino la Roma) già eccitano l’orgoglio crivellato dei tifosi, pronti a riceverlo come il marziano di Ennio Flaiano (occhio, però, al finale). Basterà il Circo Massimo? Ha bisogno del rumore dei nemici, Mou: quando governava il Real, lo trovò in Pep Guardiola. A naso, il nuovo potrebbe essere Antonio Conte.

Ecco il miracolo della madre lontana: aiuta la figlia malata

I miracoli. Piccoli e quotidiani e ineffabili. L’infermiera di Como, malata di cancro, Daniela Molinari, non aveva molte speranze, soltanto la madre biologica avrebbe potuto salvarla. Data in adozione, la madre biologica si era rifiutata, in un primo momento, un no spaventoso, implacabile. Storie dolorosissime che riguardavano entrambe, ferite enormi, che affioravano ancora, senza remissione; ma la vita è un miracolo. Ecco tutto. L’appello della figlia alla madre biologica aveva ingenerato un seguito di appelli in coda; anche qui sulle colonne del Fatto, avevamo pregato la madre di compiere il gesto, con una lettera indirizzata a una donna, sconosciuta e chiusa – così sembrava – irrevocabilmente nel suo risentimento. E invece la vita sorprende e non smetterà mai di farlo. La donna che ha partorito Daniela, nel 1973, in un orfanotrofio nel comasco, lunedì 3 maggio si è recata in un laboratorio d’analisi e ha eseguito il prelievo che permetterà una terapia sperimentale, l’unica in grado di salvare Daniela dalla rarissima forma di cancro di cui affetta, esteso oggi con metastasi ai linfonodi. L’appello di Daniela ha raggiunto un sentimento corale di pietà profondissima. In molti si sono intestati la medesima speranza mista a disperazione. Occorreva la mappatura genetica di Daniela. Soltanto la madre biologica poteva salvarla. E lo ha fatto. Il prelievo di Daniela è previsto per il 6 maggio. La madre biologica di Daniela ha replicato il gesto generoso di dare la vita. La prima volta, 49 anni fa. Oggi nella complicata reiterazione. E a dirla tutta noi, la redazione non ha mai smesso di credere che sarebbe avvenuto. Non solo non smettiamo di credere nell’uomo, nella capacità di redenzione e perdono, ma nella vita che malgrado tutto resta un miracolo. Non smettiamo di credere, ne siamo sicuri, che in un tale indizio di eternità, Daniela sia già salva. E anche la madre.

Luana caduta sul lavoro e il circo del Concertone

Luana se n’è andata in silenzio, in una mattina tiepida di maggio, due giorni dopo la Festa del lavoro. Dicono i suoi colleghi che non si sono accorti di niente quando la macchina l’ha risucchiata e mangiata come in una favola terribile: in un attimo il corpo della ragazza è stato inghiottito e straziato. Nessun urlo è stato udito nella fabbrica tessile di Prato. La sua morte ha fatto rumore però, perché l’operaia Luana D’Orazio aveva 22 anni, un tempo della vita in cui è ancora tutto davanti, tutto intatto, tutto possibile. Luana era una bellissima ragazza con gli occhi grandi e voleva bene alla fabbrica, come la Vincenzina della canzone di Jannacci. Le piaceva lavorare, ha detto sua madre ai giornali con le lacrime increduli di chi deve declinare al passato la vita di un figlio di vent’anni. L’orditoio della fabbrica tessile in cui la ragazza era impiegata è uno dei più antichi macchinari dell’industria manifatturiera, anche se naturalmente oggi è meccanizzato o computerizzato. Eppure – hanno detto i sindacati – nonostante la tecnologia e il progresso si muore come si moriva mezzo secolo fa, schiacciati dalle macchine o giù dai tetti. Della dinamica dell’incidente che ha ucciso Luana non sappiamo ancora nulla: il macchinario, che dovrebbe avere un dispositivo di sicurezza, è sotto sequestro. Sappiamo però che il 2 febbraio un altro operaio di 22 anni è morto in fabbrica, a qualche chilometro di distanza: Sabri Jaballah, italiano di origine tunisina, è morto dopo essere stato schiacciato da una pressa. Quella dei caduti sul lavoro è una contabilità indecente: tra gennaio e marzo di quest’anno in Italia sono morte sul lavoro due persone al giorno.

Davanti agli occhi pieni di futuro di Luana adesso tutti dicono “non si può morire così nel 2021”, “non si può morire di lavoro”, “serve più sicurezza”. E più controlli: non ci sono gli ispettori, li assumano, no? Dopo gli incidenti ci sono le indagini, le ispezioni, le multe ma chi se n’è andato non torna indietro. Tutti gli anni, l’11 ottobre, giornata che commemora i caduti sul lavoro, i morti si guadagnano un titolo di giornale con i numeri, le percentuali, i confronti con gli anni precedenti. Ma è un giorno all’anno, poi cala il silenzio, perché il lavoro non fa rumore. Quando l’orditoio si è mangiato la vita di Luana, da due giorni non si parlava d’altro che della vicenda di Fedez al concertone e della legge Zan contro l’omofobia (che ci auguriamo sinceramente venga presto approvata) per la quale molti artisti si stanno spendendo. Ci permettiamo di far notare che il Primo maggio è la festa del lavoro, diritto negato a tantissimi cittadini, in diversi modi. Sarebbe bello che al centro del dibattito ci fosse il lavoro, la vita degli sfruttati, dei sottopagati, dei ricattati, delle vittime. Non è un tema caro a nessuno: alla politica – specialmente a quel che resta della cosiddetta sinistra – e agli artisti, molto più interessati ai diritti civili che a quelli sociali. Ognuno usa la propria voce per le battaglie in cui crede, e ci mancherebbe altro, ma dite voi se è civile un Paese in cui si muore al lavoro e di lavoro, in cui aumentano a dismisura i lavoratori poveri, che non riescono a sopravvivere perché i salari sono troppo bassi. Nel ’72 Giorgio Gaber cantava così: “Gli operai hanno ancora una forza per non farsi fregare / Dalla gente per bene che con tante parole / E con tante promesse, li frena, li tiene”. Cinquant’anni dopo non ci sono più né promesse, né parole e pure la forza degli operai, in verità…

 

Dalla Lega al PdPer i politici italiani la libertà di espressione è solo la loro

C’è un divertente allegato alla vicenda Fedez-Salvini-concerto del Primo maggio che vale la pena indagare. Un dettaglio, forse, ma che dice molte cose sul Paese e la sua classe politica. Lasciamo da parte il solito teatrino dell’assurdo, con i leader di qua e di là che si scagliano contro la lottizzazione e la Rai controllata dai partiti, puro cabaret, puro nonsense, come se Wile Coyote comparisse in un talk show per gridare: “Basta con questi tentativi di mangiarsi uno struzzo!”. E va bene, si è già detto; così come si è già detto quasi tutto, sulla faccenda, e forse manca solo la profezia di Fassino: “Fedez si faccia un partito e si presenti alle elezioni”. Ecco, speriamo di no.

Eppure qualcosa è sfuggito alla disamina del caso (clinico), ed è l’accorato appello di Salvini a Fedez: “Sono pronto a un confronto in tivù”, dice a Barbara D’Urso, chiedendo tra le righe di organizzarlo lei. Grande idea: rapper contro baciatore di salami a casa della regina del nazional-populismo televisivo, una specie di epifania del trash. Confido che Fedez si sia fatto una risata. Anche il senatore Pillon chiede un incontro, lanciando una sua bizzarra visione del mondo: “No ai comizi, sì al confronto”. Insomma, la libertà di dire quel che si pensa (che è poi la libertà) barattata con un dibattito; la libertà di dare notizie verificate e impossibili da smentire (le frasi omofobe di alcuni esponenti leghisti) ceduta in cambio del famoso “contraddittorio”. È come se nel telegiornale si parlasse, che so, dei manifestanti uccisi in Birmania, e dopo il servizio, si presentasse in studio un generale golpista birmano per il contraddittorio. Un bel dibattito. Un confronto franco e sereno. Uno scambio di idee e di vedute. Mani in alto.

Si intuisce, dietro lo schiocco dello schiaffone preso da Salvini, una sorta di incredulità, il non capacitarsi che un cittadino (un artista, un cantante, uno sportivo, un attore, insomma chiunque) abbia più audience della politica, e che possa non solo permettersi di avere delle opinioni, ma di dirle in pubblico con un certo successo. Al contempo, mentre si fa fuoco e fiamme per il ceffone incassato, si chiede ospitalità a questo o quel contenitore televisivo, cioè quei posti dove già abbiamo visto ogni nefandezza, compreso un Salvini addolorato che recita l’Eterno Riposo per le vittime del Covid (sempre dalla D’Urso). In quel caso, gli ultras cattolici (e nemmeno i laici, peggio mi sento) non ebbero niente da ridire e non chiesero nessun confronto, nessun contraddittorio, nessuna riparazione.

Non è cosa che riguardi solo Salvini, intendiamoci. Alla corte della tivù si presentano tutti, prima o poi, questuanti con il cappello in mano a chiedere qualche grammo di ricostituente per i loro consensi traballanti. E questo avviene perché la politica (da tempo) non ha più parole, ed è costretta a rubare quelle di altri. Quelle della tivù popolare, per dire, o dei comici, o dei cantanti (si vedano le lodi di molta sinistra al discorso di Fedez, un discorso che dovrebbe fare lei, di più e meglio); insomma un affannato rubacchiare linguaggi e parole qui e là, in mancanza di linguaggi e parole autonome, di visioni, di strategie. Fuffa, insomma. Propaganda. E difesa di un privilegio: solo noi possiamo parlare. Salvo poi, quando parla qualcun altro, chiedere a gran voce “il confronto in tivù”, magari perché compaia a discutere “democraticamente” quello che “Se avessi un figlio gay lo brucerei nel forno”. Segue dibattito. Ma anche – prevalga la pietà – no.

 

Il calcio vive di passioni, non di economia (e tv)

La Superlega che voleva restringere di fatto la Champions League ai club più importanti e prestigiosi è stata respinta con perdite. Da tutti. Tifosi, calciatori, allenatori. Come sia potuto nascere un progetto così stupido, perché elimina il merito sportivo conquistato sul campo, a favore dell’economico, cioè del bacino di utenza dei grandi club, non è, di primo acchito, comprensibile. Partiamo dai tifosi. Il tifoso è uno che gioisce come un bambino quando la sua squadra vince, piange come un bambino quando la sua squadra perde. Eppure a lui, in un caso o nell’altro, non viene in tasca nulla. Anzi è colui che paga lo spettacolo. È evidente a chiunque che il calcio si regge su passioni, sentimenti, simboli, che non possono essere ridotti all’economico.

Il progetto della Superlega nasce dal fatto che tutti i grandi club, se si escludono le squadre tedesche, sono da tempo, a prescindere dal Covid, in una disastrosa situazione economica. Ma com’è possibile? Una partita di medio cartello raduna allo stadio 30 mila spettatori, una di cartello 60 mila. Inoltre c’è la pletora degli abbonati alla pay per view che porta la cifra molto più in alto. Quanto ci mette un teatro, anche quando presenti una pièce interessante, a raggiungere 50 mila spettatori? Se va bene almeno un mese.

Evidentemente c’è qualcosa di marcio nel regno di Danimarca. Calciatori super pagati (e sono i meno responsabili) e agenti più pagati degli stessi giocatori. Ma non è su questo che adesso l’Uefa, che ha respinto con decisione il progetto Superlega, intende agire. Vuole in realtà in qualche modo assecondare gli interessi delle super squadre per cui per la prossima Champions ha preparato un programma molto cervellotico, nel quale concentrare i grandi match, togliendo qualsiasi spazio alle squadre minori.

Nella simpatica compagnia che commenta le partite di Champions su Sky (c’è Fabio Capello, il mister per eccellenza, Billy Costacurta, ragazzo molto simpatico, intelligente, competente perché lui il calcio lo ha giocato davvero) la cosa più intelligente l’ha detta Alessandro Del Piero: “Ma così si perde l’eccezionalità dell’evento”. È chiaro che se tu ogni mercoledì vedi giocare Bayern contro Manchester City, Psg contro la Juve, Inter contro Chelsea, tutto si appiattisce. Un conto è mordicchiare un pezzetto di marzapane, ma un chilo di marzapane ti stomaca.

Per portare il discorso a un livello più generale è la legge dell’“utilità marginale” che ti insegnano al secondo anno di Economia. Il primo boccone ti salva dalla fame, il secondo anche, il terzo ti fa star bene, il quarto pure, il centesimo ti uccide. Questo processo lo conoscono gli scrittori di romanzi. Che sanno bene che un racconto non può essere fatto solo di picchi. Ci devono essere avvallamenti, zone d’ombra, pause. Anche Tolstoj deve scrivere una frase molto banale come “Anna Karenina si alzò e andò alla finestra” (cosa che scandalizzava Leo Longanesi che infatti romanzi non ne ha scritti mai, si è limitato a degli splendidi epigrammi). Tolstoj non può far morire ogni giorno Anna Karenina. Tutto il pathos del romanzo andrebbe a farsi fottere. Cosa che non ha mai capito Oriana Fallaci i cui cosiddetti romanzi, Un uomo per non parlare di Insciallah, sono totalmente indigeribili per l’enfasi che mette in ogni pagina. Fallaci va bene su un articolo, anche di quindici cartelle, in un libro è più indigesta di un chilo di marzapane.

Fosse per me tornerei alla vecchia, cara Coppa dei Campioni. Il vincitore di un campionato, si tratti pure di quello irlandese o delle Isole Faroe, sfida i vincitori dei campionati più importanti. In una partita secca, andata e ritorno, può capitare che una squadra minore, che ha vinto un campionato considerato minore, batta una grande squadra. Com’è successo anni fa col Lugano che buttò fuori l’Inter. Io poi sono particolarmente affezionato alle Faroe perché in Nazionale giocano impiegati, medici, operai, cioè degli assoluti dilettanti che si allenano quando possono, con tanti saluti ai giocatori professionisti il cui allenamento viene millimetrato fino a un’ora prima della partita. In casa le Far, isole groenlandesi dove si gioca a quaranta sottozero, hanno pareggiato con la Francia campione del mondo, con mio grande godimento perché le avevo giocate contro ogni logica. Questo, a onta degli agiografi della Superlega o similari, è il vero calcio: Davide può sempre battere Golia. Il resto è solo Economia e Tecnologia, mostri anonimi senza sentimento, di cui abbiamo le palle piene. E non solo nel calcio.

 

Da una dottoranda “Con gli archivi chiusi come possiamo fare ricerca?”

Gentile redazione, vorrei porre alla vostra attenzione le condizioni di chi, come me, fa ricerca nel settore culturale.

Sono una dottoranda in storia dell’arte e per studio devo frequentare costantemente archivi e biblioteche: luoghi rimasti chiusi a lungo nel corso di quest’anno; anzi, alcuni non hanno mai riaperto. Per citare un caso su tutti, la grande Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte di Roma è tornata operativa soltanto pochi giorni fa. Anche altre realtà hanno riaperto negli ultimi tempi, ma con orari e servizi ridotti, tanto che è impensabile immaginare ritmi di lavoro normali. I posti a disposizione sono più che dimezzati, con sistemi prenotazione spesso inefficaci, e nell’arco di pochi minuti è già tutto esaurito. Sono numeri miseri, soprattutto se si pensa al fatto che tantissime persone accedono liberamente nei negozi. Com’è possibile che nei centri commerciali si riesca a garantire la sicurezza di grandi numeri di dipendenti e clientela, e una biblioteca permetta l’accesso a venti utenti al massimo?

Archivi e biblioteche sono sempre stati assenti dalle narrazioni del governo, così come la mia categoria. Siamo a tutti gli effetti costretti a venire meno al nostro incarico, senza provvedimenti per porci nelle condizioni di lavorare, né per tutelarci ora che siamo in difficoltà. Mi auguro che questo messaggio arrivi alla politica, ai ministeri che si occupano di cultura, università e ricerca. Ben venga che il ministro Dario Franceschini abbia a cuore le sorti di cinema, teatri e musei, di cui si preannunciano le riaperture. Speriamo si possa affrontare anche la nostra situazione.

Così per il mondo dell’Università: ottima la svolta per un graduale rientro in presenza, ma non si dimentichino le categorie sguarnite da tutele. Dopo oltre un anno di fermo, non si è mai parlato chiaramente di proroghe di dottorato. Sono stati concessi alcuni mesi per le consegne delle tesi, ma sono rimedi estemporanei: la situazione è ben più grave.

Questo incide non solo sul nostro lavoro, ma anche sulla nostra salute mentale, messa a dura prova da scadenze che rimangono tali, nonostante tutto.

Servono misure straordinarie, che non lascino indietro nessuno, per difendere la preziosità del nostro patrimonio culturale e l’eccellenza della ricerca.

Per questo, faccio mio lo slogan di “Mi Riconosci? – Sono un professionista dei Beni Culturali”: senza cultura, nessun futuro.

Grazie.

Una dottoranda in Storia dell’Arte

Mail box

 

Scuola, dopo la Dad si pensa ai test Invalsi

Un bimbo ha perso il nonno con il quale viveva, un giorno è stato portato all’ospedale e non lo ha visto più. Il Covid glielo ha portato via. Una bimba è stata un mese davanti al computer prima di dire una parola, di intervenire in una discussione, lei sempre così pronta, piena di idee e di proposte, faticava davanti a quello schermo. Il Covid ci ha costrette alla Dad. Tutti e tutte hanno vissuto almeno una volta in isolamento fiduciario, chiusi in casa. Tutti e tutte hanno vissuto cambiamenti enormi nella loro vita, “maestra, basta con il tuo però c’è anche qualcosa di positivo, noi non ce la facciamo più”. Il Covid li ha costretti chiusi a casa, senza abbracci, senza amici, senza pallone… E noi adulti cosa facciamo? Le prove Invalsi… È proprio vero che la scuola deve conservare se stessa a tutti i costi, a dispetto di tutto, a dispetto di una pandemia che ha cambiato il mondo. Per questa volta non ci chiediamo cosa andiamo a misurare, che senso hanno scuole che per un anno si allenano alle prove… Chiediamoci solo quanto ci stiamo giocando della nostra credibilità di adulti.

Patrizia Zucchetta della “Iqbal Masih”, Margherita Ghisu della “Balzani”, Vania Borsetti della “Pisacane”, tutte scuole dell’“Istituto comprensivo Simonetta Salacone” a Roma

 

Figliuolo, ottimo il pezzo della Ranieri

Splendido il commento di ieri di Daniela Ranieri! Ma dove lo abbiamo trovato questo generale? Meno male che non dobbiamo andare in guerra, altrimenti poveri noi! È lui che decide chi e con cosa dobbiamo vaccinare i cittadini e non gli esperti o le agenzie del farmaco preposte? Di punto in bianco dice che possiamo vaccinare anche gli under 60 con AstraZeneca quando fino al giorno precedente non era consigliato per questa fascia d’età. E poi proprio nel giorno in cui un paese europeo come la Danimarca decide di non utilizzare per nessuno i vaccini a vettore virale appunto come AstraZeneca e Johnson&Johnson! Forse pur di mantenere le sue promesse di 500.000 dosi giornaliere e più, sbandierate da tempo, si consente al generale di intervenire in materie tecniche di cui certamente è all’oscuro? E perché sempre nello stesso giorno alcuni nostri giovani giocatori di calcio in predicato di andare al campionato europeo non sono stati vaccinati con AstraZeneca proprio per dimostrare che quanto asserito da Figliuolo potesse essere valido ma invece è stato loro iniettato Pfizer o Moderna, come si legge?

Luca Pontello

 

Digitalizzazione? Non semplifica la vita

Oggi ho iniziato tentando di collegarmi ad Internet… la password… 24 simboli tra maiuscole, minuscole e numeri… poi dopo 20 minuti ho spedito dei soldi, altro iban di 27 numeri… poi dopo altri 20 minuti ho chiamato un numero verde. Non parlavo con nessuno, un robot parlava con me e mi dava istruzioni senza possibilità di replica, ma per avere le istruzioni dovevo digitare il codice fiscale di 16 simboli, il codice della bolletta e il mio numero di cellulare, finalmente sono andato dal tabaccaio a pagare dove finalmente dovevo digitare un “pin corto’’ di cinque cifre… si era fatto mezzogiorno. Stanco, ho fatto un sogno: parlavo con una centralinista, poi con un funzionario che mi rispondeva a tono… e pagavo spedendo un assegno. Il tutto in cinque minuti. Senza ascoltare per tre volte la tiritera della ‘’privacy’’. Per l’amor di Dio fermate Colao…

Francesco Degni

 

La festa degli interisti come in India sul Gange

Mi è capitato di vedere due video di feste (religiose?), una in India sulle rive del Gange e un’altra in Italia per la vittoria dello Scudetto. L’unica differenza è che nella seconda non c’era il fiume e mi auguro che prossimamente non ci siano più di quattromila morti al giorno anche da noi.

Enrico Rossi

 

Per “educare” Renzi ci vuole il contrappasso

La nostra Costituzione prevede che la pena sia rieducativa, ma io sono convinto che Matteo Renzi non possa essere in alcun modo rieducato e quindi non posso auspicare alcuna condanna per lui. L’unica efficace, se fosse ancora ammessa, sarebbe condannarlo all’esilio su un’isola sperduta, dove non arrivano e da dove non partono giornali e dove sia vietato l’ingresso ai giornalisti e non siano ammesse interviste.

E. Z.

 

E se i consiglieri omofobi fossero stati 5 Stelle?

Non voglio nemmeno immaginare, ma lo so, cosa non sarebbe avvenuto se a esprimersi così come quei consiglieri della Lega verso persone che vivono una vita che li rende felici fossero stati consiglieri del M5S… così come se lo stesso Movimento avesse un Generale da loro messo lì a indagare sugli importi di soldi pubblici, anche miei, spariti. Invece così andrà tutto ad affievolirsi anche grazie però al M5S stesso che non sa più far valere i suoi principi fondativi.

Fabio De Bartoli

Avarizia, cattiveria, peni: tutti gli argomenti falsi di Pio & Amedeo

I personaggi creati dai comici Pio D’Antini e Amedeo Grieco, Pio & Amedeo, sono due agroikoi, dicevamo, cioè due Checco Zalone. Il loro sketch contro il politically correct procede per gag che sono composte, come ogni gag, da una premessa e da una battuta. Le premesse usate da Pio & Amedeo sono una sfilza di argomenti falsi. Vediamoli uno per uno.

“Non è l’uso della parola il problema, ma l’intenzione della parola”. Solo che non ci sono parole neutre, e quelle che rimandano a discriminazioni, passate e presenti, sono discriminatorie, indipendentemente dalle intenzioni di chi le dice. “Oggi contano più le parole che il significato che ci metti dentro”. Ma non la decidi tu, la storia discriminatoria che una parola si porta dentro. “Oggi non si può dire più niente”. No, si può dire tutto, ma senza discriminare il prossimo per motivi razziali, etnici, religiosi. Il ddl Zan estende giustamente questo divieto ai motivi sessuali, di orientamento sessuale, di identità di genere e di disabilità. Perché uno dovrebbe poter discriminare gli altri impunemente? “Dobbiamo poter scherzare su tutto senza freni!”. Davvero? Anche scherzare su vittime vere di carnefici veri? Schierandoti cioè coi carnefici? Per esempio perculando Anna Frank o don Pino Puglisi? Non credo proprio. “Io voglio che negro faccia la fine di terrone. Nel senso della parola. All’inizio era dispregiativo. Appena abbiamo sfoderato l’autoironia noi terroni è quasi diventato figo dirlo”. Anche oggi “terrone” è un insulto, se lo dici a chi non conosci. Poi, se un determinato insulto è figo non sta a te deciderlo, ma alla vittima dell’insulto. Infine, auspicare l’autoironia della vittima lascia intatto il comportamento del violento, ovvero è una banalizzazione del problema: creato dal violento, non dalla vittima. “L’avarizia degli ebrei è un luogo comune. Scherziamoci su”. Ma perpetuare uno stereotipo non contrasta lo stereotipo, e incoraggia chi lo condivide. Le gag tv che rafforzano gli stereotipi razzisti hanno come conseguenza quella di banalizzare il razzismo, col risultato, per esempio, che a scuola i bulletti umiliano certi compagni ripetendo a sfottò i tormentoni, apparentemente innocenti, di questo o di quel comico tv. Vedi “Il problema con Apu” (shorturl.at/sCEIM). “Va condannata la cattiveria”. Ma un cattivo potrebbe sempre giustificarsi con l’altro tuo argomento, e dirti che hai frainteso la sua intenzione. E che sei pure poco autoironico, dato che, giustamente, t’incazzi. “Ci sono parole che non si possono dire in televisione”. Giusto: in base alle fasce orarie, per proteggere i bambini. Nelle altre fasce orarie, e senza discriminare il prossimo, dovresti poter dire tutto (anche se c’è ancora chi non riesce a rientrare in Rai per fare il talk-show che faceva con successo, essendone stato bannato 20 anni fa dopo un editto di Berlusconi, il padrone della tv concorrente che trasmette Felicissima sera). “Mica tu ti offendi se dico che i neri ce l’hanno più grande del tuo?”. Ma il problema non è l’offendersi, è il discriminare. E il non banalizzare temi rilevanti con stereotipi e stupidera. “Per qualcuno che l’ha frainteso da casa, io chiedo scusa a tutte le donne, le donne sono sensibili”. “Che ho detto?”. Avete appena detto che il problema è di chi è sensibile e fraintende. “Ci resta un’unica soluzione: l’autoironia”. No: l’autoironia non è una soluzione perché solleva i violenti dall’obbligo sociale e morale di non essere violenti. Una risposta migliore è una legge che obblighi finalmente i violenti ad assumersi la responsabilità di comportamenti che, poiché non sanzionati, continuano a vessare vittime. Ovviamente non basta: serve altro, come vedremo. (2. Continua)

 

Concertone ’91: quando elio scorticò vivo

“In realtà questo è un depistaggio per il funzionario della Rai”, gorgheggiavano Elio e le Storie Tese al Concertone del Primo maggio 1991. Citato dopo il caso Fedez come la storica censura in diretta del servizio pubblico di lorsignori. Con alcune differenze rispetto a quanto accaduto un trentennio dopo. A cominciare dal contenuto della canzone “Sabbiature”, al cui confronto il monologo dell’influencer milanese sulla legge Zan è una tenera filastrocca di Natale. A ritmo di rock: “Perché anche Andreotti è stato giudicato dalla corte inquisitoria per un caso di depistaggio. Nelle indagini sul tentato golpe Borghese. Il caso poi è stato archiviato come del resto altri 410 su 411. E gli unici sfigati che non sono stati archiviati sono stati Gui e Tanassi. Per il caso della Lockheed. Ma d’altra parte Tanassi era il segretario del Partito socialdemocratico. E come lui Pietro Longo che era nella P2. E dopo di lui Nicolazzi è stato inquisito per le carceri d’oro. Ma tutto questo è stato archiviato in nome dell’amore”.

Perché quei birbanti sventolavano i panni zozzi dei politici potenti al cospetto del popolo italiano (ascolti boom) senza sermoneggiare ma prendendo per i fondelli tutto il cucuzzaro. Compresi i papaveri di viale Mazzini. “Come anche il caso delle armi all’Iraq. In cui era coinvolto l’attuale presidente della Rai Manca. Poi il caso è stato archiviato ma il popolo italiano si chiede perché. Evidentemente il popolo italiano non è deficiente. Se tutti gli anni elegge questi uomini. È perché ha capito che loro lo fanno nel nome della nazione. E nel nome dell’amore”. Sapremo poi che in Rai scoppia l’iradiddìo. Ma Elio è incontenibile: “Urliamo anche ti amo a Ciarrapico l’attuale presidente della Roma. Lui vendeva il pesce c’ha una fedina penale lunga così. Poi ha conosciuto Andreotti, è diventato il re delle acque minerali. Ha avuto un prestito di trentanove miliardi con cui ha comperato la Fiuggi”. Stacco, appare il cerimoniere Vincenzo Mollica con faccia d’ordinanza, scaraventato sul palco per arginare la montagna di merda che sta travolgendo i palazzi della Capitale. Farfuglia: “Cerco di capire una cosa. Stiamo passando dalla Rete tre alla Rete due? Benissimo. No ancora no”. Geniale. Lui si è fatto scudo umano mentre oscurati dalla diretta quei disgraziati continuano a cantare: “Ti amo Ciarrapico. Ti amo per l’emissione di assegni a vuoto”. Imparate gente, imparate come si scortica davvero il potere. E come si censurano i veri rompicoglioni. Senza spararsi sui piedi.