La partita è appena cominciata e ha come obiettivo superare la riforma Fornero. La sfida è al governo Draghi e in particolare al ministro Andrea Orlando che dell’esecutivo, e dello stesso Pd, dovrebbe rappresentare l’ala sinistra. Anche se sulle pensioni sembra sia stata più affidabile la ministra precedente, Nunzia Catalfo del M5S, che aveva avviato un confronto ben orientato.
Orlando per ora tiene il riservo anche se sul tuo tavolo una proposta c’è già e sembra in sintonia con la flessibilità avanzata dal presidente del- l’Inps, Pasquale Tridico.
La scadenza del 2021
La vicenda ruota attorno alla riforma del ministro più impopolare d’Italia, Elsa Fornero, che aveva portato l’età pensionabile a 67 anni (oltre ad altre sciagure). Matteo Salvini, nella campagna elettorale del 2018, ne aveva proposto l’abolizione limitandosi poi alla temporanea “quota 100” che ha congelato la situazione per tre anni – tra l’altro risparmiando 9 dei 19 miliardi stanziati dal Conte 1 – ma scade alla fine dell’anno. Ora, se non si metterà mano al sistema pensionistico, da un giorno all’altro per accedere alla pensione servirà il requisito dei 67 anni invece dei 62 (con 38 anni di contributi) attuali: uno scalone di 5 anni che agita il mondo del lavoro e mette in guardia il sindacato.
Cgil, Cisl e Uil ieri, con i tre segretari generali, hanno presentato una piattaforma unitaria con l’obiettivo, dichiarato con più o meno forza, di superare la riforma Fornero perché nel sindacato la consapevolezza che quella misura ha ferito la propria base sociale, dopo dieci anni, finalmente si è sedimentata. Dopo la vicenda pandemica, inoltre, il problema è ancora più acuito.
La proposta è quella di mantenere l’attuale età di vecchiaia, 62 anni, o il requisito dei 41 anni di contribuzione, per ritirarsi dal lavoro: “Senza penalizzazioni per chi ha contributi prima del 1996”. Qui c’è una differenza importante con la Lega di oggi, attestata sulla proposta di legge del sottosegretario all’Economia, Claudio Durigon, il quale propone il pensionamento a 62 anni solo per “lavori usuranti” oppure per chi ha 41 anni di contributi, quota che riguarda solo una particolare categoria di lavoratori dipendenti: generalmente maschi, dell’industria e del Nord.
La proposta, secondo i tre sindacati, è sostenibile perché “le future pensioni saranno liquidate prevalentemente con il calcolo del contributivo”. Accanto a questa indicazione e oltre al sostegno alle categorie più deboli con l’ampliamento dei lavori gravosi e usuranti, al solito sostegno alla previdenza complementare, a interventi nel sistema contributivo o nel calcolo del Tfr, due punti meritano una particolare attenzione perché riguardano platee diverse dal tradizionale lavoro sindacalizzato.
Pensioni per le donne
Cgil, Cisl e Uil pongono il problema del “lavoro di cura” che riguarda in primo luogo le donne, chiedendo “il riconoscimento di dodici mesi di anticipo” pensionistico per ogni figlio e il riconoscimento “di un anno di contribuzione ogni 5 anni dedicati al lavoro di cura di persone disabili o non auto-sufficienti in ambito familiare”.
L’altro nodo riguarda i giovani, il lavoro povero e quello discontinuo. I sindacati chiedono che ci si faccia carico della precarietà del lavoro che, a fine carriera, rischia di cumulare estratti contributivi insufficienti a garantire pensioni dignitose. Si tratterebbe, quindi, di creare “una pensione contributiva di garanzia, collegata ed eventualmente graduata rispetto al numero di anni di lavoro e di contributi versati” valorizzando periodi di disoccupazione, di formazione e di basse retribuzioni.
Il sindacato insomma si posiziona annunciando, con Maurizio Landini, Luigi Sbarra e Pierpaolo Bombardieri, di essere pronti “a prendere delle iniziative” che in sindacalese vuol dire che si è pronti anche allo sciopero.
Era meglio la Catalfo
“Il punto è che avevamo condiviso con Catalfo – dice al Fatto Roberto Ghiselli, responsabile previdenza della Cgil – un percorso adeguato: un ampio studio del problema e poi una legge delega per avere già nel 2022 i decreti attuativi. Al ministro Orlando riproponiamo quel percorso”.
Il ministro finora non si è sbilanciato, ma – a quanto risulta al Fatto – ha intenzione di convocare i sindacati già nel mese di maggio. Sul suo tavolo giace una prima proposta di riforma avanzata di recente dal presidente dell’Inps, che prevede l’idea di scomporre la parte contributiva della pensione acquisita e da godere a 62 anni e la parte retributiva di cui usufruire a 67 anni. A questa ipotesi Orlando starebbe pensando di affiancare una “staffetta generazionale” – una proposta di legge in questa direzione è stata presentata dall’attuale capogruppo Pd alla Camera Debora Serracchiani, con l’ipotesi di erogare un assegno pensionistico – che, se vincolato solo al sistema contributivo, risulterebbe molto esiguo – in costanza di un rapporto di lavoro a orario ridotto in cui il pensionando o semi-pensionato svolgerebbe un’attività di tutoraggio. Questo a grandi linee: non esiste ancora nessun documento e quindi la discussione va ancora fatta.
Ghiselli dice che la Cgil non ha preclusioni ma avverte che si tratta di misure “che affrontano solo una porzione della platea e non sono risolutive”. All’Inps pensano invece che la platea per un’ipotesi di “staffetta generazionale” non sarebbe poi così ridotta.
I costi e l’assistenza
Nel programma del governo Draghi la questione pensioni finora non è stata posta. Si è visto però che il riferimento alla fine di “quota 100” è stato eliminato dal Piano nazionale di ripresa e resilienza su richiesta di Salvini. Il problema non esplicitato ancora è la quantificazione. Il Documento di economia e finanza, in realtà, stima il rapporto tra spesa pensionistica e Pil in forte stabilità. Dopo il picco del 17% raggiunto nel 2020, la percentuale scende progressivamente fino al 15,7% del 2027. La curva risale poi lievemente, portandosi al 16,6% nel 2044, per poi precipitare improvvisamente per effetto di assegni pensionistici ormai calcolati solo con sistema contributivo.
A questo va aggiunta l’ultima, importante, proposta dei sindacati vecchia ormai di decenni: la separazione tra previdenza e assistenza. In quella spesa, infatti, è compresa una miriade di interventi che nulla hanno a che vedere con il pagamento dei contributi pensionistici a carico di lavoratori e imprese.