FedEx, gli operai Cobas occupano la sede del Pd al Nazareno

Ieri mattina i lavoratori della FedEx-Tnt di Piacenza rappresentati dal sindacato Si Cobas sono entrati nella sede del Pd in via Sant’Andrea delle Fratte, nel centro storico di Roma. In 200, già in via Molise per una manifestazione prevista contro la chiusura dell’hub emiliano e la contestuale messa in cassa integrazione dei dipendenti FedEx-Tnt, si sono riversati nella sede centrale del Partito democratico. All’interno lavoratori e disoccupati hanno intonato canzoni e slogan per chiedere lavoro e hanno ottenuto intorno alla ore 11.30 un incontro con il ministro Andrea Orlando. “Siamo stanchi delle prese in giro del ministro del Lavoro Orlando e del ministero dello Sviluppo economico, dai quali si attendono da tempo risposte concrete, a partire dalla riapertura immediata del sito FedEx di Piacenza”. I facchini della FedEx, ai quali si sono uniti anche i disoccupati del “Movimento 7 novembre” di Napoli e i lavoratori della manutenzione stradale della Campania, si sono poi spostati in corteo al ministero del Lavoro.

A Piacenza le proteste dei facchini vanno avanti da oltre un mese, da quando a fine marzo la Fedex ha annunciato la chiusura del polo logistico, spostando le merci nello stabilimento di Peschiera Borromeo. Quasi ogni giorno i lavoratori iscritti al Si Cobas organizzano sit-in contro i licenziamenti, bloccando i cancelli dei magazzini. Picchetti che spesso terminano con lo sgombero della polizia. Secondo il Si Cobas la decisione della multinazionale non è dettata da motivi economici ma ha lo scopo di “eliminare la manodopera più sindacalizzata dei propri magazzini”.

Come e perché il salario minimo è stato archiviato

C’è una precisa ragione dietro la scelta del governo Draghi di rimuovere il salario minimo dall’ultima versione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr): andava liberato il campo da un tema spinoso che vede da sempre contrari sia Cgil, Cisl, Uil che Confindustria, proprio ora che con le parti sociali il ministro Andrea Orlando sta discutendo di sblocco dei licenziamenti, riforme degli ammortizzatori sociali e pensioni. Partite altrettanto delicate, insomma. Sindacati e imprese non vogliono il salario minimo perché pensano intralci la loro attività principale: i contratti collettivi. E così è stato archiviato uno dei cavalli di battaglia dell’ex ministra del Lavoro Nunzia Catalfo e dell’intero M5S.

In teoria, il tema potrebbe tornare d’attualità con la direttiva Ue, approvata a ottobre, per favorire la crescita delle retribuzioni dei lavoratori: la norma comunitaria, però, non impone all’Italia di fare una legge sul salario minimo, è pensata per i Paesi dell’Est Europa, che oggi fanno concorrenza sleale con il basso costo del lavoro e suggerisce di introdurre il salario minimo di legge o in alternativa dare una forte spinta alla contrattazione collettiva. Essendo questa già presente e capillare nel nostro Paese, l’interpretazione dei più è che potremmo ignorare la direttiva senza rischiare procedure d’infrazione.

Ieri, durante un incontro organizzato dal gruppo 5 Stelle all’Europarlamento, Susanna Camusso si è detta tutto sommato favorevole alla direttiva purché si limiti a guardare a Est. Per l’ex segretaria Cgil, oggi responsabile Politiche internazionali, “va sostenuta perché non impone di introdurre il salario minimo legale dove non c’è”. La Confindustria, invece, è comunque contraria alla norma Ue, con o senza conseguenze interne: “Mi chiedo se l’imposizione di supporti alla contrattazione collettiva per legge, in Paesi dove la capacità delle parti sociali è molto limitata, potrà avere un impatto concreto”, ha scandito la dirigente Stefania Rossi. “Senza dimenticare – ha poi aggiunto – che tante imprese italiane investono nei Paesi dell’Est, creiamo sviluppo e portiamo una tradizione di dialogo dove non c’è”. Anche la Confcommercio ha storto il naso. Tutti convinti che in Italia la direttiva serva a poco o niente.

Il mondo accademico la pensa diversamente. Pur con un’ampia copertura dei contratti nazionali, infatti, oggi nel nostro Paese abbiamo il 12% di lavoratori a rischio povertà, dice Eurostat. Rileva invece Inapp che l’88,9% dei dipendenti ricade sotto l’ombrello degli accordi collettivi: nella ristorazione e nel turismo però si scende al 76%, nella sanità e nei servizi socio-assistenziali ci si ferma al 66,7%. Settori con molte donne, addetti in nero e part-time involontari. Anche chi opera nei contratti nazionali non sempre se la passa bene: la vigilanza privata e i servizi fiduciari – esempio classico – prevedono il minimo di soli 4,60 euro all’ora. Non tutte le intese, poi, vengono da sindacati e associazioni d’imprese rappresentative: proliferano i cosiddetti “contratti pirata”, quelli che prevedono stipendi molto bassi e vengono redatti per permettere alle aziende di risparmiare sul costo del lavoro, con la complicità di sindacati fantoccio. Nel 2012 avevamo “solo” 549 contratti, oggi siamo a poco meno di 900.

Una legge che individui una soglia minima riparerebbe queste falle. In questa legislatura sono state presentate 8 proposte: una porta la firma dell’ex ministra Catalfo e prevede l’efficacia generale dei contratti sottoscritti da sindacati e datori maggiormente rappresentativi, ma con salari comunque mai al di sotto di 9 euro lordi orari. La proposta di Tommaso Nannicini – economista, senatore del Pd e tra gli autori del Jobs Act – è simile a quella di Catalfo, ma non indica importi, che sarebbero stabiliti da una commissione istituita presso il Cnel. Questi progetti non scalfirebbero la contrattazione collettiva, ma sindacati e imprese continuano a fare muro all’introduzione di una soglia minima per il salario.

La legge potrebbe anche essere l’occasione per superare alcune disparità presenti oggi nel nostro mercato del lavoro: Marco Barbieri, giuslavorista dell’Università di Foggia, ha fatto notare che la definizione di lavoratore nella giurisprudenza della Corte di Giustizia europea comprende anche i tirocinanti e i falsi autonomi, quindi il minimo legale dovrebbe riguardare anche queste categorie che, specie in Italia, sono meno tutelate.

I sindacati a Draghi: dimenticare la Fornero

La partita è appena cominciata e ha come obiettivo superare la riforma Fornero. La sfida è al governo Draghi e in particolare al ministro Andrea Orlando che dell’esecutivo, e dello stesso Pd, dovrebbe rappresentare l’ala sinistra. Anche se sulle pensioni sembra sia stata più affidabile la ministra precedente, Nunzia Catalfo del M5S, che aveva avviato un confronto ben orientato.

Orlando per ora tiene il riservo anche se sul tuo tavolo una proposta c’è già e sembra in sintonia con la flessibilità avanzata dal presidente del- l’Inps, Pasquale Tridico.

La scadenza del 2021

La vicenda ruota attorno alla riforma del ministro più impopolare d’Italia, Elsa Fornero, che aveva portato l’età pensionabile a 67 anni (oltre ad altre sciagure). Matteo Salvini, nella campagna elettorale del 2018, ne aveva proposto l’abolizione limitandosi poi alla temporanea “quota 100” che ha congelato la situazione per tre anni – tra l’altro risparmiando 9 dei 19 miliardi stanziati dal Conte 1 – ma scade alla fine dell’anno. Ora, se non si metterà mano al sistema pensionistico, da un giorno all’altro per accedere alla pensione servirà il requisito dei 67 anni invece dei 62 (con 38 anni di contributi) attuali: uno scalone di 5 anni che agita il mondo del lavoro e mette in guardia il sindacato.

Cgil, Cisl e Uil ieri, con i tre segretari generali, hanno presentato una piattaforma unitaria con l’obiettivo, dichiarato con più o meno forza, di superare la riforma Fornero perché nel sindacato la consapevolezza che quella misura ha ferito la propria base sociale, dopo dieci anni, finalmente si è sedimentata. Dopo la vicenda pandemica, inoltre, il problema è ancora più acuito.

La proposta è quella di mantenere l’attuale età di vecchiaia, 62 anni, o il requisito dei 41 anni di contribuzione, per ritirarsi dal lavoro: “Senza penalizzazioni per chi ha contributi prima del 1996”. Qui c’è una differenza importante con la Lega di oggi, attestata sulla proposta di legge del sottosegretario all’Economia, Claudio Durigon, il quale propone il pensionamento a 62 anni solo per “lavori usuranti” oppure per chi ha 41 anni di contributi, quota che riguarda solo una particolare categoria di lavoratori dipendenti: generalmente maschi, dell’industria e del Nord.

La proposta, secondo i tre sindacati, è sostenibile perché “le future pensioni saranno liquidate prevalentemente con il calcolo del contributivo”. Accanto a questa indicazione e oltre al sostegno alle categorie più deboli con l’ampliamento dei lavori gravosi e usuranti, al solito sostegno alla previdenza complementare, a interventi nel sistema contributivo o nel calcolo del Tfr, due punti meritano una particolare attenzione perché riguardano platee diverse dal tradizionale lavoro sindacalizzato.

Pensioni per le donne

Cgil, Cisl e Uil pongono il problema del “lavoro di cura” che riguarda in primo luogo le donne, chiedendo “il riconoscimento di dodici mesi di anticipo” pensionistico per ogni figlio e il riconoscimento “di un anno di contribuzione ogni 5 anni dedicati al lavoro di cura di persone disabili o non auto-sufficienti in ambito familiare”.

L’altro nodo riguarda i giovani, il lavoro povero e quello discontinuo. I sindacati chiedono che ci si faccia carico della precarietà del lavoro che, a fine carriera, rischia di cumulare estratti contributivi insufficienti a garantire pensioni dignitose. Si tratterebbe, quindi, di creare “una pensione contributiva di garanzia, collegata ed eventualmente graduata rispetto al numero di anni di lavoro e di contributi versati” valorizzando periodi di disoccupazione, di formazione e di basse retribuzioni.

Il sindacato insomma si posiziona annunciando, con Maurizio Landini, Luigi Sbarra e Pierpaolo Bombardieri, di essere pronti “a prendere delle iniziative” che in sindacalese vuol dire che si è pronti anche allo sciopero.

Era meglio la Catalfo

“Il punto è che avevamo condiviso con Catalfo – dice al Fatto Roberto Ghiselli, responsabile previdenza della Cgil – un percorso adeguato: un ampio studio del problema e poi una legge delega per avere già nel 2022 i decreti attuativi. Al ministro Orlando riproponiamo quel percorso”.

Il ministro finora non si è sbilanciato, ma – a quanto risulta al Fatto – ha intenzione di convocare i sindacati già nel mese di maggio. Sul suo tavolo giace una prima proposta di riforma avanzata di recente dal presidente dell’Inps, che prevede l’idea di scomporre la parte contributiva della pensione acquisita e da godere a 62 anni e la parte retributiva di cui usufruire a 67 anni. A questa ipotesi Orlando starebbe pensando di affiancare una “staffetta generazionale” – una proposta di legge in questa direzione è stata presentata dall’attuale capogruppo Pd alla Camera Debora Serracchiani, con l’ipotesi di erogare un assegno pensionistico – che, se vincolato solo al sistema contributivo, risulterebbe molto esiguo – in costanza di un rapporto di lavoro a orario ridotto in cui il pensionando o semi-pensionato svolgerebbe un’attività di tutoraggio. Questo a grandi linee: non esiste ancora nessun documento e quindi la discussione va ancora fatta.

Ghiselli dice che la Cgil non ha preclusioni ma avverte che si tratta di misure “che affrontano solo una porzione della platea e non sono risolutive”. All’Inps pensano invece che la platea per un’ipotesi di “staffetta generazionale” non sarebbe poi così ridotta.

I costi e l’assistenza

Nel programma del governo Draghi la questione pensioni finora non è stata posta. Si è visto però che il riferimento alla fine di “quota 100” è stato eliminato dal Piano nazionale di ripresa e resilienza su richiesta di Salvini. Il problema non esplicitato ancora è la quantificazione. Il Documento di economia e finanza, in realtà, stima il rapporto tra spesa pensionistica e Pil in forte stabilità. Dopo il picco del 17% raggiunto nel 2020, la percentuale scende progressivamente fino al 15,7% del 2027. La curva risale poi lievemente, portandosi al 16,6% nel 2044, per poi precipitare improvvisamente per effetto di assegni pensionistici ormai calcolati solo con sistema contributivo.

A questo va aggiunta l’ultima, importante, proposta dei sindacati vecchia ormai di decenni: la separazione tra previdenza e assistenza. In quella spesa, infatti, è compresa una miriade di interventi che nulla hanno a che vedere con il pagamento dei contributi pensionistici a carico di lavoratori e imprese.

Durigon, il leghista “sborone” pontino che ha regalato un sindacato a Salvini

Chissà se Claudio Durigon è davvero solo un po’ “sborone”, come l’ha definito il collega Gianmarco Centinaio. Arrivato dal nulla nelle liste della Lega “nazionalizzata” di Matteo Salvini, l’ascesa del sindacalista pontino è stata notevole: subito sottosegretario al Lavoro nel Conte I, poi di nuovo – all’Economia – nel “governo dei migliori”. Tutto liscio fino all’inchiesta di Fanpage e alla confessione rubata da una telecamera nascosta: “Quello che indaga (sui soldi della Lega) lo abbiamo messo noi”.

Una millanteria, fino a prova contraria. Ciò che imbarazza davvero Durigon è rimasto fuori dall’inquadratura. Sono i suoi rapporti a Latina e dintorni, il sistema di potere con cui la Lega ha iniziato a volare in un territorio in cui era quasi inesistente. Lo hanno scritto Il Fatto e Fq Millennium lo scorso anno. Oggi lo racconta bene anche Fanpage. C’è Andrea Fanti, responsabile della campagna per l’elezione di “Claudione”: il suo nome è citato in circostanze spiacevoli dal pentito Agostino Riccardo, che lo accusa di aver pagato una mazzetta da cinquemila euro per vecchi favori elettorali. Durigon è però totalmente estraneo a tutte le inchieste. Fanti è legato a Simone di Marcantonio, giovane imprenditore di Latina che compare in più inchieste sulle infiltrazioni mafiose nel basso Lazio. Come “Alba Pontina” sulle amministrative del 2016: secondo un testimone, Di Marcantonio avrebbe provato a comprare il suo voto offrendogli 50 euro all’ingresso del seggio. L’imprenditore è stato protagonista di diverse iniziative elettorali della Lega a Latina. Ma non solo: secondo la Dda di Roma, Di Marcantonio è a sua volta un prestanome di Sergio Gangemi, condannato a 9 anni in primo grado per estorsione con metodo mafioso. E ancora: nella rete di Durigon c’è pure Luciano Iannotta, ex presidente di Confartigianato Latina, arrestato nel settembre 2020 con l’accusa di avere rapporti con i clan locali. Iannotta avrebbe messo a disposizione un suo appartamento a Latina come base elettorale della campagna dell’amico Claudio; di sicuro era presente ai suoi comizi. L’interesse delle cosche locali nell’ascesa della Lega pontina è ben documentato: ci sono anche le feste per la campagna elettorale di Durigon (del tutto estraneo anche a questa inchiesta) pagate da Natan Altomare, ai domiciliari per sequestro di persona e accusato pure lui di rapporti con i clan, e i manifesti leghisti attaccati dal clan Di Silvio, una delle famiglie criminali più feroci del Lazio.

Un bel quadretto di amicizie e rapporti. Durigon, personalmente, non è accusato di nulla. Nemmeno delle pratiche non proprio trasparenti del suo sindacato, l’Ugl. “Claudione” ne è stato vicesegretario dal 2014 fino all’elezione in Parlamento. Insieme a Francesco Paolo Capone ha messo la faccia e la firma su una stagione di numeri mirabolanti: l’ex Cisnal (storico sindacato della destra fascista) ha dichiarato 1,8 milioni di iscritti. Ma secondo un gruppo di aderenti che hanno denunciato l’Ugl per truffa allo Stato, le tessere vere sono meno di un ventesimo di quelle dichiarate, tra le 65 e le 70mila. Anche in questo caso la Procura indaga. Poco male: nel frattempo l’Ugl si è messa a tavola. Nel mondo del lavoro è marginale, ma nel mondo della politica pesa parecchio di più. Nel 2017 Durigon ha preso il sindacato e l’ha consegnato chiavi in mano a Salvini. Ha messo a disposizione sua struttura e uomini, in una regione in cui la Lega non esisteva. Alla fine ha affittato alla Lega anche i suoi uffici, proprio di fronte al Bottegone che fu del Pci: prima si è trasferita la “Bestia”, la struttura social di Luca Morisi, poi è arrivata la Lega tutta, che si è presa un piano intero. 500 mq a un prezzo di saldo, secondo quanto sostiene lo stesso Durigon: “5.500 euro al mese, un grande affare post Covid”. Il suo profilo è sempre un passo dietro a Salvini, che l’ha difeso dalle polemiche e dalle richieste di dimissioni. La Lega nel Lazio è lui (e infatti si fa il suo nome per la Regione). Così ha chiuso ilcerchio: i Durigon sono una famiglia da “Canale Mussolini”, trapiantati dal Veneto per le bonifiche dell’Agro Pontino. Ma ora il basso Lazio chi lo bonifica?

Lfc, i pm: “Condanna a 4 anni per i due contabili della Lega”

Nove mesi dopo gli arresti, ieri la Procura di Milano ha chiesto la condanna per i due ex contabili della Lega di Matteo Salvini. Il procuratore aggiunto Eugenio Fusco e il sostituto Stefano Civardi hanno chiesto 4 anni e 8 mesi per Alberto Di Rubba e 4 anni per Andrea Manzoni. Entrambi sono imputati per peculato e turbata libertà nella scelta del contraente in relazione all’acquisto di un capannone da parte della fondazione regionale Lombardia Film Commission (Lfc) per 800mila euro. Pena più alta per Di Rubba perché “incaricato di pubblico servizio” in quanto la trattativa si è svolta quando il contabile leghista era presidente di Lfc che, costituita parte civile, ieri ha chiesto 1,7 milioni di danni, mentre il Comune di Milano si è limitato a 117mila euro. Per la difesa i commercialisti “non hanno preso denaro pubblico”. Il processo si svolge con rito abbreviato (sentenza primo giugno), mentre un secondo processo con rito ordinario vede imputato per concorso in peculato l’imprenditore Francesco Barachetti anche lui destinatario, secondo l’accusa, di parte degli 800mila euro. Altri tre protagonisti dell’indagine hanno già patteggiato. Tra loro il “prestanome” Luca Sostegni a 4 anni e 10 mesi e il commercialista Michele Scillieri (3 anni e 4 mesi) nei cui uffici milanesi nel 2017 la nuova Lega di Salvini ha eletto il suo primo domicilio. In aula, ieri, l’accusa ha ripercorso le parti salienti dell’indagine così come in parte già illustrato in una consulenza agli atti. Il capannone, nel 2016, risulta in pancia alla società Paloschi, all’epoca verso il fallimento. La srl viene gestita nella sua fase finale da Scillieri e da suo cognato. Inizialmente doveva essere Paloschi a vendere a Lfc, ma un inciampo ha consigliato un passaggio intermedio attraverso la società Andromeda riferibile sempre a Scillieri. Chat e email acquisite dalla Procura di Genova chiudono il cerchio, secondo l’accusa, “sull’accordo collusivo”. Il capannone valutato 400mila euro, è stato poi acquistato con soldi pubblici al doppio. Al di là della vicenda Lfc, in Procura a Milano restano aperti altri fronti che puntano ai presunti fondi neri della Lega. Tra questi, l’inchiesta per bancarotta fraudolenta della società New Quien che vede indagato anche Andrea Manzoni, fedelissimo del tesoriere Giulio Centemero. In meno di quattro anni sui conti della società passano più di 4 milioni. Oltre a questo, la Procura in stretto contatto con i colleghi di Genova che indagano per il riciclaggio di 49 milioni, oggi valuta la posizione di alcuni professionisti vicini alla Lega. Tra questi l’imprenditore Maurizio Carrara, non indagato. Rispetto a lui e a Di Rubba, sono al vaglio operazioni finanziarie per milioni segnalate dall’antiriciclaggio di Bankitalia. Un ultimo rivolo investigativo porta in un paese noto come la Svizzera del Medio Oriente. Alcuni bonifici arrivano qui. La richiesta di condanne chiude solo un capitolo. Da mesi, la Procura lavora per dimostrare l’esistenza di casse esterne alla Lega, che, secondo l’accusa, sarebbero a disposizione del partito.

Amazon, 44 miliardi di fatturato in Europa Ma non ha pagato nemmeno 1 euro di tasse

Nel 2020 Amazon ha guadagnato in Europa 44 miliardi di euro, ma la sua sede in Lussemburgo non ha pagato un solo euro al fisco ricevendo per giunta anche un rimborso di 56 milioni per aver avuto perdite economiche nel Granducato. A svelarlo è stato il Guardian che ha esaminato il bilancio relativo al 2020 depositato dalla società di Jeff Bezos. La sede europea di Amazon, a cui fanno capo le vendite effettuate in Italia, Francia, Germania, Olanda, Spagna, Polonia e Svezia, nonostante nell’anno della pandemia abbia denunciato ricavi superiori di 12 miliardi rispetto all’anno precedente grazie al lockdown e al crollo delle vendite al dettaglio, ha chiuso i conti del 2020 presentando perdite per 1,2 miliardi di euro. Un rosso che, scrive il quotidiano britannico, dovrebbe garantire al colosso un credito d’imposta di 56 milioni di euro che, aggiungendosi ad altri sconti fiscali concordati tra Bezos e il Granducato, gli garantiranno di non pagare niente. Una pratica fiscale che l’Ue cerca di combattere. Ieri la Commissione Ue ha, quindi, spiegato che nelle prossime settimane diffonderà una comunicazione per una tassa minima sulle multinazionali. “Abbiamo visto gli articoli sulla stampa, non entriamo nei dettagli, ma in linea generale la Commissione ha adottato un’agenda molto ambiziosa in materia di fiscalità e intendiamo lavorare contro le frodi fiscali”, ha sottolineato il portavoce della Commisione Ue, spiegando che Bruxelles resta “impegnata con i partner internazionali nella discussione in corso all’Ocse” per raggiungere una soluzione globale.

Nel frattempo, resta in mano alla Corte di giustizia Ue il contenzioso tra l’Ue, Amazon e il Lussemburgo dopo che la società e il Granducato hanno fatto ricorso contro la decisione dell’Antitrust Ue, che nel 2017 concluse che il Lussemburgo aveva concesso ad Amazon vantaggi fiscali indebiti per circa 250 milioni di euro. “La Commissione Ue continuerà a monitorare il comportamento di Amazon in fatto di fiscalità”, ha precisato un’altra portavoce dell’esecutivo comunitario. Non si è fatta attendere la risposta di Amazon. “La società paga tutte le tasse richieste in ogni Paese in cui opera. L’imposta sulle società si basa sui profitti, non sui ricavi, e i nostri profitti sono rimasti bassi a seguito dei nostri ingenti investimenti e del fatto che la vendita al dettaglio è un’attività altamente competitiva e con margini ridotti”, si legge in una nota di Amazon. Che spiega: “Abbiamo investito ben oltre 78 miliardi di euro in Europa dal 2010 e gran parte di tale investimento è in infrastrutture che creano molte migliaia di nuovi posti di lavoro, generano entrate fiscali locali significative e supportano le piccole imprese europee”.

Val d’Agri, l’intesa con la Regione conviene a Eni&C.

Ieri abbiamo raccontato di come, in Basilicata, fosse stato fatto un pre-accordo sul rinnovo decennale della concessione petrolifera in Val d’Agri tra Eni-Shell e la Regione, garantendo compensazioni ambientali per 1,05 euro al barile e 95 milioni nel quinquennio per progetti legati al territorio. Il governatore forzista Vito Bardi aveva esultato: le entrate si moltiplicano per sei e tutto sarà investito sul territorio. “Al solito, la giunta di centrodestra e la sua maggioranza eccedono in ottimismo – dice Gianni Perrino consigliere regionale M5S – Basta leggere l’accordo preliminare per accorgersi che i conti non tornano, tra clausole sulla quotazione media del barile e ripartizione delle risorse tra Regione e compagnie per il finanziamento di progetti tutti da inventare”. A scorrere il testo del preaccordo, in effetti, si rileva che il contributo che i petrolieri verseranno per compensare con opere virtuose l’eventuale inquinamento derivato dallo sfruttamento dei giacimenti non è stabile, ma rivisto al ribasso quando la media ponderale dei prezzi rilevanti per il calcolo delle royalties nell’anno di riferimento è inferiore a 45 dollari al barile. Se però la media cresce, il contributo resta uguale. Inoltre, i 95 milioni non saranno destinati solo alla Regione e ai suoi progetti ma così divisi: 50 milioni per “progetti realizzati da soggetti individuati dalla Regione Basilicata con bandi regionali” e 45 milioni per “Progetti di Sviluppo realizzati direttamente dai Contitolari”, ovvero Eni e Shell, seppur approvati dalla Regione. Un modo, insomma, per dare l’opportunità di un ritorno d’immagine sul territorio. Il protocollo a cui questo pre-accordo fa da trampolino di lancio dovrebbe diventare definitivo entro il 15 settembre. In caso contrario, Eni e Shell si impegnano comunque a versare alla Regione un contributo pari a quanto sarebbe stato dovuto da ottobre 2019, data di scadenza della concessione (in attesa di proroga).

Cacciato per la malagestione di Aria, ora Gallera controllerà le ricche società regionali

L’ex assessore Giulio Gallera controllerà la corretta gestione di Aria. E di tutte le partecipate di Regione Lombardia. È stato infatti eletto ieri presidente della I Commissione che, tra l’altro, deve vigilare sulle società regionali. Defenestrato per manifesta incapacità a gestire la Lombardia durante la pandemia, è stato ripescato per controllare le ricche società regionali, durante la pandemia. La nomina pone anche un conflitto d’interesse, come spiega il Pd Pietro Bussolati: “Il centrodestra ha affidato a chi gestiva la sanità prima e durante la pandemia, e quindi ha avuto un rapporto stretto con le partecipate, il compito di vigilare su di esse. Mancano le garanzie per un lavoro trasparente”. Ma Gallera non ha fatto una piega, anzi. “Ringrazio tutti i consiglieri, garantirò equilibrio e rispetto”, ha detto. E con un colpo di spugna a mesi di critiche e fallimenti, ha aggiunto: “Metto a disposizione dell’Assemblea la mia esperienza. Poi su obiettivi strategici e piani industriali delle partecipate faremo degli approfondimenti per migliorarne l’efficienza”. I lombardi tremano.

La versione dell’amica “Ciro Grillo urlava e lei, nuda, piangeva”

Genova

C’è un momento in quella notte in cui tutto sprofonda in un abisso, dopo il quale niente e nessuno sarà più come prima. R.M., che da ora in poi chiameremo con il nome di fantasia Roberta, l’amica di S., si è appena addormentata sul divano, dopo aver respinto le avance di almeno tre dei quattro ragazzi che le hanno ospitate dopo la serata in discoteca: “Uno mi ha anche invitato in camera, senza specificare se da sola o con lui, ma volevo evitare situazioni ambigue”.

Sono le sei di mattina e Roberta ha perso di vista da la sua amica S.J., a cui ci riferiremo come Silvia. I carabinieri della compagnia Milano-Duomo – è il 27 agosto 2019 – chiedono a Roberta se ricorda o ha sentito qualcosa. La ragazza dice di essersi svegliata tre volte: “In un’occasione Ciro Grillo urlava a uno degli altri in corridoio, era arrabbiato perché Silvia era in camera con qualcuno, io ho subito pensato a Corsiglia: ‘Io me la sono portata a casa perché me la volevo scopare, invece se la sta scopando lui’. L’amico provava a calmarlo: ‘Tanto era brutta, ne troviamo un’altra domani’”. Roberta viene svegliata altre due volte. “In un caso mi si è avvicinato Ciro, che mi ha chiesto se ero sicura di voler dormire sul divano o se volessi andare con lui. Gli rispondevo che stavo benissimo lì e lui si è allontanato senza insistere”.

L’ultima volta è Silvia a svegliarla: “Era accovacciata accanto a me in accappatoio e piangeva. Le ho chiesto cosa stesse succedendo, ma lei singhiozzava. Nel frattempo è arrivato uno dei ragazzi, che le ha chiesto se andasse tutto bene. Lei gli ha dato le spalle, per non farsi vedere piangere. Io ho risposto di sì per farmi dire cosa era successo. Ma lei dopo aver pianto ancora si è calmata e mi ha detto di non preoccuparmi, che stava bene”.

Non va bene niente, in realtà. Roberta ritrova Silvia molte ore più tardi su un letto, completamente nuda, da sola. Sono le 13 circa. “Era confusa e sconvolta. Aveva tutto il trucco colato, credo per il pianto, si guardava intorno come se non sapesse dove si trovasse. Mi era capitato di vederla ubriaca, ma mai in questo stato, non mi è sembrato che fosse per gli effetti dell’alcol”. In effetti Silvia ha raccontato agli inquirenti di essere stata costretta a bere da una bottiglia di vodka “con un odore strano”.

Per i pm Gregorio Capasso e Laura Bassani durante la notte è avvenuto uno stupro di gruppo. Silvia, incalzata dall’amica, trova la forza di dirlo a mezza voce: “Mi hanno violentata… tutti”. E i ragazzi? “C’era un silenzio surreale – ricorda Roberta – facevano finta di niente. Si comportavano come se non fosse successo niente”.

Per la prima volta è possibile raccontare quanto è successo la notte del 16 luglio del 2019 attraverso un punto vista molto importante, quello della principale testimone della presunta violenza sessuale di gruppo che vede indagati Ciro Grillo, figlio di Beppe, e i tre amici Francesco Corsiglia, Vittorio Lauria ed Edoardo Capitta. Tutti si proclamano innocenti.

L’interrogatorio di Roberta, 20 anni, è avvenuto il 27 agosto del 2019. A raccogliere il suo racconto è il maresciallo Cristina Solomita, che ha già messo a verbale la denuncia di Silvia, assistita dall’avvocato Giulia Bongiorno. Vanno a scuola insieme le due ragazze, si definiscono “migliori amiche”. Il loro rapporto si è però incrinato dopo quella notte, di cui non parleranno più fino al 2 agosto. Quando su richiesta di Roberta hanno un incontro: “Lei mi ha detto che si stava facendo aiutare, presumo da uno psicologo e che non dovevo preoccuparmi, che ne aveva parlato con la madre e avrebbe preso provvedimenti”. Roberta, quando scoprirà lei stessa di essere stata vittima di un’altra potenziale violenza sessuale – Grillo, Capitta e Lauria si scattano delle foto oscene su di lei mentre dorme – si rivolgerà a un legale, l’avvocato Vinicio Nardo.

Ma riavvolgiamo il nastro. La serata comincia al Billionaire. Silvia e Roberta sono invitate da A., un amico comune al gruppo dei genovesi: “A. mi ha detto che era il figlio di Beppe Grillo. Ho pensato avesse questo ruolo perché ha raccolto tutti i soldi e si vantava di avere contatti con il personale del locale”. Roberta se ne sta sulle sue, “perché sono timida e non do troppa confidenza”. Silvia, “più estroversa”, “ballava un po’ con tutti ma con nessuno in particolare”. A un certo punto Roberta la nota su un divanetto con Ciro: “Si baciavano, il bacio era partito da lui e dopo pochissimo Silvia si staccava. Non mi è sembrato che lo respingesse in modo brusco, ma conoscendola mi è sembrato che non corrispondesse l’interesse di lui”. La scena viene notata anche da A., al quale Silvia stessa, che durante i balli è spesso avvicinata da Corsiglia, dirà “che non le piaceva nessuno”. Le due ragazze rimangono fino alla chiusura, mentre gli amici se ne vanno. Non rientrano al B&B, a Porto Pollo, “perché il taxi sarebbe costato troppo”. Così accettano l’invito di Ciro: “Potete rimanere da noi”. Prendono un taxi. Una volta in casa, le due amiche accettano vestiti più comodi e rifiutano garbatamente alcolici e “da fumare”: “I ragazzi tra loro parlavano di erba e di dove l’avessero nascosta, parlavano del fatto di averne già fumata e di averne avanzata, anche se non ho visto nessuno fumare”. Roberta propone di fare una pasta. Durante la preparazione riceve “un’avance”: “Corsiglia mi diceva ‘ti aiuto’, ma si capiva che era un approccio”. Il ragazzo dopo cena sparisce con Silvia. Prima che Roberta, come detto, si addormenti.

Alla fine della mattina successiva, in un clima surreale, Roberta aiuta l’amica a raccogliere i vestiti. Si fanno accompagnare verso casa, l’unico che guida è Corsiglia, ma questi si rifiuta di portarle a destinazione, “perché loro quel pomeriggio avevano altri programmi”. Le lasciano a metà strada, ad Arzachena. Dove le ragazze prenderanno un taxi prima di dividersi. Silvia si è chiusa in se stessa, “faceva finta di niente”, dice Roberta. Va a Palau per “prendere la pillola del giorno dopo”, dicendo alla sorella di dover comprare “una cosa per la mamma”.

Durante l’interrogatorio emerge anche un episodio doloroso del passato. Una precedente stupro che Silvia aveva raccontato a Roberta di aver subito, ma che secondo lei “non aveva denunciato”. In quel caso, dice Roberta, “Silvia si era svegliata con un amico nella sua tenda a metà della notte”. “Questo episodio aveva creato problemi coi compagni di classe, la fidanzata di quel ragazzo l’accusava di aver cominciato lei e di essersi inventata tutto”.

Toghe. Presto azioni disciplinari. E Salvi sente la Cartabia

Giusto il tempo tecnico di arrivo delle carte, che devono inviare le procure di Milano, Roma e Perugia e il Pg della Cassazione Giovanni Salvi fa partire l’istruttoria disciplinare per la vicenda dei verbali milanesi dell’avvocato Piero Amara, che il pm Paolo Storari, a fine marzo 2020, ha consegnato all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Quei verbali, mesi dopo, furono spediti, secondo la Procura di Roma, dall’ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, con una lettera anonima, al “Fatto” e a “Repubblica”. C’è chi, tra coloro che in questi giorni hanno parlato con il Pg Salvi, dice che “si è sentito preso in giro” perché Davigo, racconta, non gli parlò dei verbali ma solo, genericamente, dei contrasti alla Procura di Milano. In base alle carte che arriveranno al Pg, non si sa se ci saranno diverse azioni disciplinari, quella scontata è per Storari. Sarà solo Salvi a valutare, così è stato stabilito durante una telefonata con la ministra della Giustizia Marta Cartabia, anche lei titolare dell’azione disciplinare, per evitare “sovrapposizioni”, dato che ci sono indagini in corso. Sul fronte Csm, ai consiglieri, per ora, sembra improbabile l’apertura di un fascicolo a carico di Storari per valutare una eventuale incompatibilità ambientale poiché per l’identica vicenda si muove il disciplinare che, quindi, prevale.