“L’ex premier chiarisca. Mi accusa di complotti agitando un falso dossier”

Sigfrido Ranucci, lei si gode il 12,3% di share dell’ultima puntata di Report ma Matteo Renzi non ha gradito il servizio sul suo incontro all’autogrill con Marco Mancini, dirigente del Dis che coordina i Servizi. Dice che è “da studiare nei manuali del complottismo”, non gli piace che si dica “tipo losco ma elegante”, non lo convince che a riprendere la scena sia stata un’insegnante in auto con il padre. Non avrete esagerato?

“Tipo losco”, riferendosi a Mancini, lo dice la testimone, che in effetti è un’insegnante, l’abbiamo verificato, ed era lì per caso. Noi ci facciamo delle domande perché accadeva in un momento particolare, con una crisi politica in corso anche sulla delega ai Servizi. E mentre Mancini aspirava a un incarico di vicedirettore di una delle agenzie di intelligence. Non è nemmeno un funzionario come un altro, è sempre stato assolto anche grazie al segreto di Stato ma il suo nome è legato a vicende come il sequestro di Abu Omar e lo spionaggio Telecom. È singolare poi che Renzi mi accusi di complottismo quando il suo partito utilizza contro Report, addirittura in un’interrogazione parlamentare, un dossier che gira da mesi su una fattura pagata dalla Rai in Lussemburgo per l’inchiesta su Alitalia e Piaggio e mail tra me e Rocco Casalino. Tutte cose che non esistono.

Voi sapevate già del dossier. Come?

Ce lo dissero colleghi giornalisti a cui era arrivato, che poi non hanno scritto nulla. Il Tempo, Dagospia e qualcun altro hanno scritto di mail fra un conduttore Rai, senza fare il nome, e Casalino. Che ha smentito. A Luciano Nobili di Italia Viva vorrei chiedere se ci fa vedere la fattura e chi gliel’ha data, non ha il segreto sulle fonti. Il falso dossier è una polpetta avvelenata contro Renzi, non contro di noi. Un depistaggio. È arrivato in busta anonima? Da dove? È apparso a gennaio mentre il nostro inviato Giorgio Mottola lavorava sui soldi dell’obolo di San Pietro ed era in contatto con Cecilia Marogna, legata al cardinale Angelo Becciu, che si dice strumento di un tentativo di delegittimare il generale Luciano Carta allora capo dell’Aise.

Per Matteo Salvini, e non solo per lui, è normale che un politico come Renzi veda un dirigente dell’intelligence come Mancini. È normale o dovrebbe occuparsene il Copasir, il comitato parlamentare di controllo sui Servizi?

Renzi non è l’unico politico che parla con i Servizi, il problema non è l’incontro ma il contenuto di un dialogo durato, secondo la testimone, 40 minuti. Mancini non è il capo del Dis, ha informato i suoi capi? Se questi colloqui sono ammessi mi sembra inutile il Copasir come luogo di confronto tra i parlamentari e l’intelligence. C’è un do ut des tra Renzi e Mancini? Quest’ultimo chiedeva una sponsorizzazione? Gli dava informazioni? Nello scenario peggiore potevano essere informazioni su parlamentari che avevano scelto di far cadere Giuseppe Conte, o di passare dall’altra parte, magari perché oggetto di ricatti. Sono solo ipotesi, ma sarebbe bene che il Copasir chiedesse a Mancini e a Renzi. Se si frequentano dal 2016, parlano di sicurezza nazionale? E Renzi informa chi di dovere? Si incontrano in sedi istituzionali o anche in casa di una terza persona?

Oltre a Mancini c’è il suo amico Giuliano Tavaroli, già uomo chiave del caso Telecom: secondo la Marogna, avrebbe fatto da tramite per colpire l’ex capo dell’Aise Carta. La rete del vecchio Sismi di Nicolò Pollari e Pio Pompa è sempre in piedi?

È a disposizione, una sorta di mutuo soccorso. Renato Farina, l’ex agente Betulla, su Libero attacca Report per difendere Becciu . Anche Luca Fazzo del Giornale, coinvolto a suo tempo in quelle vicende, secondo la Marogna si sarebbe prestato all’operazione contro Carta.

Mesi fa la Lega chiese l’accesso agli atti in Rai, sembrava cercare le fonti di un servizio di Report sui suoi revisori dei conti. Com’è finita?

C’è un audit interno, non so a che punto sia.

Mancini: Salvini difende Renzi. Lo scandalo domani al Copasir

L’assist è di quelli che non passano inosservati. Il mattino dopo lo scoop di Report di lunedì sera in cui si raccontava l’incontro del 23 dicembre tra Matteo Renzi e il capo reparto del Dis Marco Mancini nell’autogrill di Fiano Romano, l’unico commento è arrivato da Matteo Salvini. Che ha difeso l’altro “Matteo” respingendo un possibile nesso tra quell’incontro e la crisi di governo aperta da Renzi anche sul tema della delega ai Servizi: “Incontrare uomini dei Servizi segreti mi sembra assolutamente normale – ha detto il leader della Lega ieri mattina – uno può vederli in un autogrill o nel suo ufficio, non mi sembra niente di particolare”. Poi Salvini ha spiegato che anche lui ha incontrato (“e continuerò a farlo”) “decine” di uomini dell’intelligence per parlare “di immigrazione, sicurezza nazionale, di aziende, di made in Italy”. Dunque per il leader della Lega l’incontro tra Renzi e Mancini non ha niente di strano e “la polemica” è “inesistente”. Non c’è niente di illegittimo e ieri, nella sua enews, Renzi si è difeso descrivendo il servizio di Report come “un manuale di complottismo”, non credendo alla versione della testimone che trovandosi lì per caso ha registrato il video e spiegato che “se oggi c’è Draghi e non Conte non è per un complotto all’autogrill ma per una scelta politica”.

A fare più rumore nelle chat degli alleati di FdI e soprattutto tra chi conosce le dinamiche del Copasir, il Comitato parlamentare che controlla i servizi segreti, è stata però la difesa di Salvini. “L’asse tra i due Matteo si è consolidato anche sul Copasir” fanno notare dal partito di Giorgia Meloni che da settimane rivendica per sé, in quanto unico partito di opposizione, la presidenza.

Peccato che a presiedere il Copasir sia ancora il leghista Raffaele Volpi, di antica scuola Dc, che nonostante gli appelli di 40 costituzionalisti e le pressioni politiche non ha intenzione di lasciare il posto al candidato di FdI, Adolfo Urso. E a Renzi va bene così. Non a caso Italia Viva, sempre molto attenta ai rapporti tra istituzioni e intelligence, sia l’unico partito che tace sul caso della presidenza del Copasir e abbia di fatto avallato la scelta della continuità di Volpi, in ottimi rapporti con Renzi. Tant’è che nell’ottobre 2019, con il governo Conte-2 appena insediato, il leghista fu eletto presidente a San Macuto al posto del ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, proprio grazie al voto decisivo del senatore renziano Ernesto Magorno che gli permise di ottenere 6 preferenze su 10 ed evitare un pericoloso ballottaggio visto che Forza Italia rivendicava quella poltrona per Elio Vito.

Sicché, mentre il Comitato ha ripreso a lavorare sentendo ilcommissario all’emergenza Francesco Figliuolo, il sottosegretario ai Servizi Franco Gabrielli e il numero uno dell’Aisi Mario Parente, c’è chi vede nel rapporto tra Renzi e Volpi (e Salvini) la scelta del Copasir di “scordarsi” di audire proprio il leader di Iv e l’ex premier Conte sul caso della visita del ministro della Giustizia americano William Barr nell’ambito del Russiagate. Un tema sensibile anche per la Lega. Epperò Volpi giovedì, quando il Copasir si riunirà per ascoltare il titolare dell’Aise Giovanni Caravelli su temi di politica internazionale (Libia, Iran, Cina), dovrà decidere cosa fare anche sull’incontro tra Renzi e Mancini.

Ne discuterà l’ufficio di Presidenza. “Non lasceremo che la questione rimanga sui giornali”, fanno sapere dal Pd, mentre anche FI e il M5S sarebbero intenzionati a chiedere chiarimenti per capire come sono andate le cose. E tra le ipotesi sul tavolo, fanno sapere fonti qualificate del Copasir, c’è anche la possibilità di convocare in audizione lo stesso Renzi, Mancini e il direttore del Dis Gennaro Vecchione. Oltre a raccogliere informazioni sul colloquio, i componenti del Copasir vogliono capire anche se i due interlocutori fossero pedinati. Per quanto risulta al Fatto, no. È vero invece che l’intraprendenza di Mancini non è gradita da tutti nel governo: il dirigente, che ai tempi dell’incontro con Renzi puntava a una vicedirezione operativa o almeno del Dis, potrebbe essere ridimensionato. Intanto ieri la deputata M5S Vittoria Baldino ha presentato un’interrogazione a Mario Draghi per chiedere chiarimenti su un possibile nesso con la caduta del governo Conte.

Minority Report

L’altra sera, mentre guardavo la tragicomica puntata di Report sulle gesta di un piccolo traffichino, l’Innominabile, e di un grande criminale, il Pregiudicato, pensavo a ciò che accadrebbe in un altro Paese subito dopo una trasmissione così. Il presidente della Repubblica diramerebbe una nota per comunicare che mai più in vita sua riceverà i due soggetti in questione per motivi di igiene personale. Il premier, a stretto giro, li inviterebbe a lasciare la maggioranza e il governo con i loro ministri, sottosegretari, portaborse, boiardi, boiardini, per evitare che seguitino indisturbati a inquinare le istituzioni, la vita pubblica e il comune senso del pudore. A cominciare dalla cosiddetta ministra Gelmini, che ancora il 30 giugno 2020, nell’aula della Camera, rilanciava la bufala del giudice Amedeo Franco costretto dai colleghi cattivi a condannare B. contro la sua volontà, con queste parole: “Quella contro Berlusconi non fu una sentenza ma un’esecuzione politica, molto probabilmente pilotata da chi voleva estromettere il leader di Forza Italia dalla vita italiana”. L’Ordine degli avvocati convocherebbe l’esimio professor Coppi per sapere se risponda al vero ciò che afferma il suo cliente B. in un audio da lui registrato, e cioè che nell’estate 2013 il noto principe del foro si recò in compagnia di Gianni Letta dal primo presidente della Cassazione Giorgio Santacroce per parlare dell’imminente sentenza definitiva del processo Mediaset; e, in mancanza di adeguate spiegazioni difficili da immaginare, lo espellerebbe dall’albo.

Poi, ove mai esistesse, l’Ordine dei giornalisti prenderebbe la combriccola di pennivendoli al servizio dei Servizi e/o del Caimano beccati da Report a dossierare e contar balle, e li iscriverebbe in blocco all’Ordine dei Camerieri (senza offesa per questa incolpevole categoria). Il Copasir convocherebbe su due piedi il Rignanese per domandargli che ci facesse il 23 dicembre, dopo una visita a Verdini a Rebibbia e un appello a Conte perché mollasse la delega ai Servizi, nella piazzola dell’autogrill di Fiano Romano in compagnia dell’alto dirigente del Dis Marco Mancini, scampato due volte alla giustizia grazie al segreto di Stato (apposto anche dal suo governo) nei processi sul sequestro Abu Omar e sui dossieraggi Telecom, essendo la sua versione sui “babbi natalizi” alla crema e al cioccolato credibile quanto quella su Bin Salman. E, siccome Salvini l’ha difeso dicendo che lui di 007 ne incontra a decine, verrebbe convocato pure lui, sempreché il presidente abusivo del Copasir, il salviniano Raffaele Volpi, che non schioda per non cedere il posto a FdI, fosse d’accordo. Ma per fortuna siamo in Italia. Novità su Fedez e su Pio e Amedeo?

Joan Miró, i batteri e Uruk, la città morta di influenza

Morti 1. Numero di vittime dell’influenza russa (1889-1895): un milione. Numero di vittime della prima guerra mondiale (1914-1918): diciassette milioni. Numero di vittime della seconda guerra mondiale (1939-1945): sessanta milioni. Numero di vittime dell’influenza spagnola (marzo 1918-marzo 1920): tra cinquanta e cento milioni. Tra il 2,5% e il 5% della popolazione mondiale.

La maggior parte dei decessi si verificò nel corso di tredici settimane, tra la metà di settembre e la metà di dicembre 1918.

1918. Cose sul 1918: le tele di Joan Miró furono derise alla prima personale dell’artista a Barcellona; il mezzo di trasporto più comune era ancora il mulo; la Persia, una nazione tre volte più grande della Francia, aveva dodici chilometri di ferrovie, trecento chilometri di strade e una sola automobile: quella dello scià. Nell’aprile 1918, negli Usa l’influenza era già epidemica nel Midwest, nelle città della costa orientale dove si imbarcavano i soldati e nei porti francesi dove sbarcavano. A metà aprile aveva raggiunto le trincee del fronte occidentale. In Europa c’era un caldo fuori stagione, ma le truppe tedesche cominciarono a lamentarsi del cosiddetto Blitzkatarrh, cosa che senza dubbio mise in allarme Richard Pfeiffer, responsabile sanitario della Seconda armata dell’esercito tedesco, da cui prende il nome il bacillo. Dal fronte, l’influenza si diffuse rapidamente a tutta la Francia e da lì a Gran Bretagna, Italia e Spagna. Verso la fine di maggio anche il re, Alfonso XIII, si ammalò a Madrid, insieme al primo ministro e ai membri del suo governo.

Morti 2. In Francia la guerra fece sei volte più vittime dell’influenza, in Germania quattro, in Gran Bretagna tre e in Italia due. Ma in tutti gli altri continenti – a eccezione dell’Antartide che fu risparmiata da entrambi i disastri – il numero dei morti dovuti all’influenza superò quello della guerra.

Malattie 1. In tutti i conflitti del XVIII e del XIX secolo si sono avute più vittime a causa delle malattie che sul campo di battaglia.

Malattie 2. Dodicimila anni fa, da qualche parte nelle vaste pianure dell’Eurasia, un cacciatore-raccoglitore tirò su un recinto intorno a un paio di pecore selvatiche e inventò l’allevamento del bestiame. La trovata di quel primo cacciatore è nota come “rivoluzione agricola”. Le nuove attività collettive legate all’agricoltura e all’allevamento portarono al sorgere di nuove malattie, le cosiddette “malattie di massa”, come morbillo, vaiolo, tubercolosi e influenza.

Antille. L’influenza è la malattia che si portò dietro Cristoforo Colombo nel 1493 nel suo secondo viaggio nel Nuovo Mondo e che, dopo una sua sosta nelle isole, spazzò via buona parte della popolazione amerinda delle Antille.

Batteri. L’ottico olandese Antoni van Leeuwenhoek (1632-1723), che un giorno passando una lente di ingrandimento sopra una goccia d’acqua di stagno si accorse per primo che brulicava di vita.

Città. Uruk, nell’odierno Iraq, era cinquemila anni fa la città più grande del mondo. Contava circa ottantamila abitanti racchiusi in un’area di sei chilometri quadrati cinta da mura. La maggior parte della popolazione morì poi di influenza.

Mura. “Da ogni altra cosa è possibile mettersi al sicuro, ma rispetto alla morte noi tutti abitiamo una città senza mura” (Epicuro, III secolo a. C.).

(2. Continua)

Notizie tratte da: Laura Spinney, “1918.
L’influenza spagnola. La pandemia che cambiò
il mondo”, Marsilio, pagine 348, euro 12,00

 

“New York ti costringe ad avere fiducia negli uomini”: Monda torna nel suo “mondo”

“Come lei sa, io sono cattolico, e pertanto sono tenuto a perdonare e persino a porgere l’altra guancia. C’è una sola cosa che mi permetto di aggiungere all’insegnamento di Cristo, e che ho insegnato ai figli: perdona, ma non dimenticare”. Così parlò il capostipite dei Kennedy, Joseph, nel nuovo libro di Antonio Monda, Il principe del mondo (Mondadori).

Ottavo dei dieci capitoli dell’intensa saga dedicata a New York, ha titolo diabolico, in ossequio al dettato evangelico, ambientazione nella Grande Mela tra il 1927 e il 1930 e una miscela di realtà e finzione filtrata dal protagonista Jake (Jacob) Singer, assistente per Sam Warner e Kennedy. Scritto come un film, debitore di tanto cinema, inquadra crisi e opportunità, fallimento e rilancio con sintomatici riverberi sull’attualità pandemica: se la New York degli anni Venti non è morta, perché dovrebbe morire oggi il mondo?

Professore alla New York University e direttore della Festa del Cinema di Roma, Monda assolda i grandi della Settima Arte e dei mass media, da Louis B. Mayer a William Randolph Hearst, inquadra la Grande Depressione e il Proibizionismo, rivendica beneficio d’invenzione e realismo immaginifico. L’affaccio sull’oggi con l’inchiostro di ieri annovera i Warner Bros. e l’avvento del sonoro, i relitti del muto e la compassione umana, e stigmatizza con valore retroattivo le fake news, complice Roscoe “Fatty” Arbuckle, star dei silent film accusato di aver violentato e ucciso l’attrice Virginia Rappe, giubilato a mezzo stampa e rintuzzato dal patriarca dei Kennedy: “Vede Mr. Arbuckle, lei parte dal presupposto che il mondo sia giusto, e questa idea malriposta la condanna al dolore anche più di quanto siamo chiamati a soffrire tutti”. Monda ne certifica la fine, Fatty “morì a quarantasei anni con il fegato spappolato dall’alcol e dalla rabbia. Alla funzione funebre era presente soltanto Buster Keaton”, ma non abdica alla speranza, metropolitana se non universale: “New York ti dà l’idea di vivere il futuro. Chi non è mai stato in questa città di ferro e cemento non può neanche immaginare i colori dell’Indian Summer, e quell’aria tersa che ti invita, anzi ti costringe, ad avere fiducia nell’energia creata da uomini che sfidano il cielo ogni giorno”. Snello, semplice e devoto alla città che s’è scelto, un romanzo che oltre a fare le pentole (le vite di uomini illustri) prova a non dimenticare i coperchi (il piacere della lettura): il diavolo, improbabilmente.

 

Peppe “Big in Japan”: dall’Abruzzo ai manga

“Ho discusso la tesi a novembre a Ca’ Foscari (nel 2014, ndr) e lo stesso mese ho comprato un biglietto di sola andata per Tokyo. Ci sono arrivato a gennaio e dopo sei anni sono ancora qui”. Peppe è un mangaka (disegnatore di fumetti, ndr) autodidatta, oggi ventottenne, riuscito in un’impresa che credeva possibile solo in sogno: pubblicare una serie di manga in lingua giapponese per uno degli editori più prestigiosi del Paese, Shogakukan. S’intitola Model: Mingo – Itariahito ga Min’na Moteru to Omou na yo, ovvero Mingo: Non pensare che tutti gli italiani siano popolari con le ragazze! presentata dal 2019 al 2020, con 18 pagine alla settimana, sulla rivista Big Comic Spirit e ora tradotta in italiano da Giuseppe Buttiglione e disponibile nel primo volume di Dynit Manga.

“Ero innamorato del Giappone già dalla prima esperienza durante l’Università, quando sono stato a Tokyo tre mesi per approfondire lo studio della lingua. Rientrato nella mia Fossacesia in Abruzzo, non vedevo l’ora tornarci, mi sembrava di trovarmi in un luogo senza dolci dopo aver vissuto nella fabbrica di cioccolato” racconta Peppe, nome d’arte di Giuseppe Durato, amato dal pubblico giapponese e non solo per il suo manga.

Peppe ha partecipato all’edizione 2019-2020 del reality Terrace House programma di Fuji Tv trasmesso anche su Netflix, ottenendo enorme popolarità pure in Italia, dove molti hanno saputo del suo progetto. Nel fumetto, Mingo/Peppe è un ragazzo completamente diverso dallo stereotipo che in Giappone si ha degli italiani.

Lui è introverso quel che basta, timido, non cura l’abbigliamento, non ama il calcio e non ha la minima idea di come approcciare le ragazze. Quando si ritrova a scuola o in giro con il gruppo di amici gaijin stranieri come lui, non si mette a confrontarsi polemicamente con le modalità tipiche dei giapponesi. Preferisce osservare e imparare nuovi codici comportamentali, cerca di mettersi in sintonia con l’ambiente e soprattutto prova a farsi notare da Mena, la ragazza di cui si è innamorato. Una commedia che nasce dall’esperienza, da quando un ragazzo di 22 anni si è ritrovato in Giappone con la volontà di pubblicare un manga. Dapprima ha lavorato come modello su riviste, cataloghi e per la tv, ma nel frattempo disegnava senza sosta, per portare avanti un progetto con l’impegno e la leggerezza necessaria. “Tutte le volte che ho avuto fortuna, mi sono fatto trovare pronto ad accoglierla. Se non si lavora al percorso le occasioni non arrivano”.

Gli autori ora vanno di corsa

Sul bordo strada o lungo i sentieri dei parchi capita di incrociare uomini e donne sibilare come pentole a pressione, con macchie di sudore a forma di continenti sulle magliette e le scarpe a tinte pastello che si sollevano al ritmo di corse più o meno sfrenate.

In mezzo alla fauna dei runner si nascondono professionisti insospettabili e casalinghe annoiate. E se tra loro allignassero pure gli scrittori? No, improbabile. Chi inventa storie è un culo di pietra, uno che resta seduto davanti al pc semmai a far galoppare i polpastrelli, non certo le gambe.

La storia della letteratura non contempla proprio sportivi memorabili. Giosuè Carducci trascorreva il tempo libero a giocare a briscola, Giovanni Verga chinato su un tavolo da biliardo, Giacomo Leopardi si ingozzava di gelati, Giovanni Pascoli si sbronzava, Italo Svevo era un accanito fumatore proprio come il suo Zeno. Gabriele D’Annunzio, che pure amava vantarsi per le sue prodezze, quando tentò di giocare a calcio al primo contatto col pallone cadde a terra e si ruppe due denti. In compenso, rara eccezione, Pier Paolo Pasolini ha consumato tanti campetti di periferia, dribblando gli avversari con una prestanza fisica invidiabile.

Tutti pigri anche tra i contemporanei? A smentire l’idea del letterato sedentario alla Balzac (non è un caso che con sindrome di Balzac si indichi un accentuato doppio mento), ecco il nostro Mauro Covacich che si misura in un’autobiografia atletica con Sulla corsa, in libreria per La nave di Teseo. L’autore triestino, anche sulla scorta dei suoi romanzi precedenti, insiste: “La corsa è una prodigiosa malattia della mente”. I runner non sono che “una comunità di asceti laici” perché “la maratona assomiglia a una vertigine introspettiva. Il maratoneta trova dentro di sé il proprio avversario. I limiti del corpo, i limiti della mente, è questo che intende forzare”.

Covacich sembra rispondere a Haruki Murakami, che con L’arte di correre è diventato l’icona dello scrittore corridore. Per il giapponese, eterno candidato al Nobel, correre, anziché una religione, sembra essere più una metafora da prendere a prestito per mostrare, in un parallelo con la scrittura, i momenti di crisi e i traguardi raggiunti.

Murakami sgambetta per i prati verdi di Cambridge dove insegna ascoltando con gli auricolari i Red Hot Chili Peppers. Rappresenta una versione più pop perché Covacich, è bene ribadirlo, officia un culto quando dal pulpito del suo acido lattico sentenzia: “È questo che eccita l’atleta: l’ascesi, la privazione, la metamorfosi. E un vago senso di onnipotenza… il grande oltraggio a Dio: non ho bisogno di nulla, ho vinto la materia”.

Potrebbe sottoscrivere un altro devoto dell’equilibrio tra mente e corpo come il francese Emmanuel Carrère, atteso a fine mese per Adelphi con il suo nuovo Yoga. Un autore come Marco Mancassola ha dichiarato che è inseguito dalle risate quando afferma che va a correre “per scrivere bene”. In un suo racconto ispirato ecco come la mette giù: “Credo che gran parte della mia esperienza di atleta dilettante ma soprattutto di scrittore sia in quel momento sospeso, in bilico, in quello stare spaventato e fiducioso nell’aria, aspettando che il piede trovi l’altro bordo del fossato”.

La letteratura consente ad altri scrittori di sublimare sulla pagina la passione di correre e non si capisce più se a battere l’asfalto siano i piedi degli scrittori medesimi o dei personaggi. Pensiamo a Correre di Jean Echenoz: Zatopek, operaio cecoslovacco, vincerà tutte le gare di fondo e di mezzofondo alle Olimpiadi di Helsinki; Il maratoneta di William Goldman (da cui il film con Dustin Hoffman): storia di spionaggio ma Babe, il protagonista, pur non disputando mai una gara agonistica, ha la moralità del corridore quando suda intorno al laghetto di Central Park; La solitudine del maratoneta di Alan Sillitoe: Colin, avviato agli allenamenti appena varca i cancelli del riformatorio, scopre nella corsa una possibilità di sradicamento; Crampi di Marco Lodoli: un corriere si iscrive a una maratona notturna in mezzo a deragliati, freak, fuori di testa; Non dirmi che hai paura di Giuseppe Catozzella: Samia, atleta di Mogadiscio, vuole partecipare alle Olimpiadi ma il viaggio per raggiungere l’Europa avrà il peggiore degli epiloghi. Covacich in A perdifiato aveva messo in bocca a un suo personaggio il movente più intimo di questa passione tanto esplorata anche in caratteri tipografici: “Resistere alla più alta velocità possibile per una strada così lunga è la cosa più bella che una mente umana possa produrre”.

“Avola su rapporti Stato-mafia è depistante, lo conosco bene”

Avvocato Antonio Ingroia, ai tempi in cui da magistrato ha indagato sulla mafia ha avuto a che fare con l’ex killer di Cosa nostra Maurizio Avola, ora protagonista del libro Nient’altro che la verità di Michele Santoro?

Più volte.

Secondo lei Avola è stato attendibile?

Ho considerato all’inizio la collaborazione di Avola particolarmente preziosa, perché in alcuni processi rilevanti in cui è stato sentito proprio sul crinale dei rapporti tra la politica e Cosa nostra (penso al processo Dell’Utri, all’indagine sistemi-criminali e allo stesso processo Trattativa Stato-mafia) è risultato attendibile dai riscontri successivi alle sue dichiarazioni. Ma nel percorso in cui ho interrogato Avola negli anni mi sono anche imbattuto in alcune dichiarazioni sorprendenti poi rivelatesi se non incredibili, quanto meno smentite dall’attività di riscontri da me disposta.

Per esempio?

Durante il processo Dell’Utri nel 1998 riferì in aula già di un attentato organizzato contro Antonio Di Pietro, commissionato da ambienti politico-finanziari alla Cosa nostra catanese. L’attentato sarebbe stato deliberato nel settembre 1992 all’hotel Excelsior di Roma dai boss catanesi Marcello D’Agata ed Eugenio Galea, con il boss messinese Rosario Cattafi. Ma la richiesta ai mafiosi fu avanzata, riferì Avola, dal banchiera Francesco Pacini Battaglia. Io aprii un fascicolo per verificare se ci fosse fondatezza della notizia di reato. Ma non trovai alcun riscontro positivo, anzi nessuna traccia nell’albergo e nella data indicata delle persone nominate, che neppure stavano a Roma.

Qual è la sua opinione?

È stato dentro e fuori dal programma di protezione… credo che ogni tanto abbia esigenza di ritornare alle luci della ribalta attraverso dichiarazioni eclatanti. Per questo motivo, compreso questo aspetto, cominciai a utilizzarlo con le pinze. Più di recente ha ripetuto la storia dell’attentato a Di Pietro in un dibattimento del processo Trattativa Stato-mafia, ma ripeto, i miei riscontri già eseguiti nel 1998 non lasciavano adito a dubbi. Inoltre, da quanto ho letto sul comunicato della Procura di Caltanissetta in merito alle dichiarazioni di Avola che si possono leggere sul libro di Santoro e che sono state rilasciate anche ai magistrati nisseni, le mie perplessità sono confermate dai loro riscontri negativi.

E rispetto a quanto riferisce su via D’Amelio?

Ecco, su questo punto le mie perplessità sono avvalorate anche dal ruolo che Avola assegna a Matteo Messina Denaro, un ruolo di primo piano improvvisamente acquisito appunto da Messina Denaro, che da quel che so non è mai emerso precedentemente con responsabilità organizzative nella strage di via D’Amelio. È chiaro che oggi Messina Denaro sia il latitante numero 1 e che quindi mettere il suo nome significhi assicurarsi richiamo e risonanza.

Perché adesso?

Allora Gaspare Spatuzza quando decide di parlare riferisce di avere come motivazione il travaglio per aver appreso della detenzione di innocenti. Ma Avola appunto perché ora decide di parlare? Io non voglio pensar male, ma questa sua sicurezza sull’assenza dei Servizi segreti in via D’Amelio, proprio mentre sta per arrivare a conclusione il processo Trattativa Stato-mafia, non può che insospettirmi ulteriormente.

Quindi depistaggio?

Se c’è depistaggio, e non discuto la buona fede dei giornalisti Michele Santoro e Guido Ruotolo, non sono in grado di dirlo, ma posso dire che il sospetto è legittimo e che queste dichiarazioni hanno di per sé un effetto depistante. Bisogna capire con chi Avola ha avuto contatti durante la detenzione (terminata nel gennaio 2020, ndr) e subito dopo.

Il legale di Avola, Ugo Colonna, chi altri ha difeso in questi anni?

Alti ufficiali dei carabinieri già indagati per presunto favoreggiamento delle latitanze di Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro e che poi hanno denunciato per calunnia i carabinieri che a loro volta li avevano accusati: il maresciallo Salvatore Fiducia, che difendo io, e lo storico capo scorta di Nino Di Matteo, il maresciallo Saverio Masi, testimoni di commistioni tra apparati dello Stato e latitanti. Insomma è singolare la coincidenza per cui Avola ora sembri voler smontare processi e inchieste che hanno svelato apparati dello Stato responsabili nella Trattativa e nello stragismo.

Netanyahu senza alleati, anche Bennett dice ‘no’

Benjamin Netanyahu tra l’incudine e il martello. Mentre a mezzanotte scade il tempo per lui dalle elezioni marzo per formare un governo, ieri l’Agenzia governativa israeliana che supervisiona le politiche dello Stato ha aperto un’inchiesta sull’incidente che venerdì scorso ha portato alla morte di 45 ebrei ultraortodossi sul Monte Meron. Per risolvere la prima questione, “King Bibi”, in carica da quattro mandati, ha offerto la premiership a Naftali Bennett, leader del partito di destra Yamina, per una coalizione a rotazione. Il quale però ha rifiutato. Quanto all’inchiesta, Bibi, già a processo per corruzione fa affidamento sull’amicizia con Matanyahu Englman, capo dell’Agenzia, il quale però in conferenza stampa ha dichiarato che “il disastro del Monte Meron si poteva evitare”, e che il suo report si concentrerà sulle azioni di coloro che dovevano decidere. Tra questi Netanyahu, sotto accusa per aver concesso le celebrazioni di Lag Ba’omer con 100 mila persone, contro le 500 consentite all’aperto in era Covid. Ragione? Non inimicarsi i partiti ultraortodossi, utili in questa concitata fase politica. Tornando al governo, infatti, il tentativo con Bennett “per evitare la formazione di un esecutivo di sinistra” non è riuscito. Il leader di Yamina lo ha attaccato: “Non ha la maggioranza. La sua proposta è incomprensibile, non ho chiesto la premiership, ma un governo di destra”. Bennett teme il fallimento con l’ultradestra alleata di Likud che non accetta l’appoggio necessario per i 60 seggi (su 120) alla Knesset. Fallimento che ricadrebbe sul suo partito. Intanto si è fatto avanti come premier il leader dei centristi Yesh Atid, Yair Lapid: “È tempo per un nuovo governo di unità nazionale o si va alle quinte elezioni in due anni”. Allo scadere della mezzanotte la decisione passerà al presidente Rivlin che dovrà stabilire a chi affidare l’incarico.

Quell’integralismo ebraico a cui la politica ha abdicato

Non mi stupisce, purtroppo, che sui social arabi siano proliferati moti di giubilo per l’atroce mattanza in cui è degenerata la festività ebraica di Lag Ba’omer sul monte Meron: 45 morti e 150 feriti tra la folla dei haredim, gli ultraortodossi schiacciati e soffocati nel mentre il loro fervore religioso trasmutava in panico. Attribuire un significato provvidenziale al sangue innocente versato dal nemico, esaltarlo come vendetta divina, presagio apocalittico, doglie necessarie al parto di un Messia giustiziere, è ormai una consuetudine nel Medio Oriente divenuto epicentro dei fanatismi integralisti.

Da una parte e dall’altra: ricordo bene, quando nel 2015 trascorsi un mese a Zfat, la culla della qabbalah, tanti pii uomini nerovestiti che salutavano la carneficina in atto nella vicina Siria come felice segnale dell’imminenza della redenzione tanto attesa dagli ebrei.

Tutte le mattine, dalle antiche sinagoghe di Zfat, volgevo lo sguardo a ovest sul monte Meron, meta di pellegrinaggi devoti. Si trova a soli cinque chilometri di distanza. Potevo percorrerli a piedi per rendere omaggio alla tomba dell’antico rabbi Shimon bar Yohai che essi veneravano quale autore dello Zohar, il Libro dello Splendore, testo fondativo della mistica cabbalistica, rifugiatosi nelle grotte della Galilea durante il secondo secolo della dominazione romana. Peccato che lo Zohar, come accertato da tutti gli studiosi, a cominciare dal grande storico moderno della qabbalah, Gershom Scholem, sia stato scritto in Spagna nella seconda metà del XIII secolo. Cioè millecento anni dopo. Se glielo facevo notare, ottenevo solo repliche stizzite: “Non ci interessano le chiacchiere di certi sapientoni. La Verità è inscritta nella tradizione ricevuta, la stessa parola qabbalah significa proprio ‘ricevuta’. E quel che ricevi non lo discuti. Se ogni anno per la festa di Lag Ba’omer decine di migliaia di fedeli si radunano sul monte Meron sulla tomba di Bar Yohai, non occorre altra conferma: è rabbi Bar Yohai l’autore di quel libro sacro”. Non funziona così, in fondo, anche per i miracoli di Padre Pio?

Solo che la Galilea è davvero una terra speciale che nei secoli genera di continuo autoproclamati Messia, veri o falsi che siano. E insieme a essi, alle loro dottrine e alle loro profezie, vi sono germogliate esperienze culturali straordinarie, le cui tracce si trovano perfino nella psicoanalisi e nella fisica quantistica contemporanee. Sarebbe bello dilungarsi su tali eredità, non dovessimo fare i conti con gli esiti nefasti di una tradizione irrigidita fino a trasformarsi in settarismo e superstizione. Dopo la strage dovuta al sovraffollamento sul monte Meron, per la prima volta transennato dalla polizia per distanziare i pellegrini come prevenzione anti-Covid, Israele deve fare i conti con gli spazi di autogoverno territoriale concessi alle congregazioni dei haredim.

Di fatto a Meron, come in altre zone del paese, lo Stato ha ceduto autorità piena ai rabbini integralisti. Durante le operazioni di soccorso è successo perfino che la folla aggredisse verbalmente e fisicamente le soldatesse perché si permettevano di toccare corpi maschili, contravvenendo ai precetti.

Ora la tragedia suscita polemiche feroci tra i religiosi che accusano la polizia di essersi intromessa in una zona da cui doveva rimanere esclusa, e i laici che non sopportano più la prepotenza e l’indisciplina degli ultraortodossi, già manifestatasi in vari episodi di inosservanza del lockdown durante la pandemia. Il guaio è che senza i partiti religiosi è impossibile raggiungere una maggioranza alla Knesset. Netanyahu è riuscito a governare per anni cedendo loro progressivamente quote di potere. E anche chi, in queste ore, conta sulla rinuncia di Bibi che sembra impossibilitato a mettere insieme i 61 seggi necessari per restare in carica, non potrà fare a meno di loro. Il più quotato alla successione di Bibi, difatti, resta Naftali Bennett, uomo di punta del sionismo religioso. La maledizione del monte Meron rischia di pesare a lungo sul destino d’Israele.