Alla Festa del Lavoro l’imboscata di “neri” e “gialli” al sindacato

Un video diffuso sui social mostra decine di incappucciati, vestiti di nero, che prendono a calci un furgoncino con la sigla sindacale CGT e agitano sbarre di ferro mandando in frantumi i finestrini. In un altro video lanciano oggetti e strattonano i militanti, coprendoli di insulti. Si vede anche un furgone del sindacato saccheggiato e imbrattato con la scritta CGT collabò, “CGT collaborazionista”, sottinteso “del governo”. Il primo maggio sono tornate le manifestazioni di piazza in Francia, dopo la parentesi del 2020 quando, nel pieno del primo lockdown per l’epidemia di Covid-19, il tradizionale corteo della festa dei lavoratori era stato annullato. Sabato più di 100.000 persone (170.000 per i sindacati) si sono riunite in tutto il paese, tra 17 mila e 25 mila a Parigi.

Gli incidenti sono avvenuti nella capitale, dove il corteo era partito alle 14 dalla Place de la République. Poco dopo, già i primi scontri tra black bloc e poliziotti, lacrimogeni e roghi accesi sul boulevard. Poi, alle 18, in Place de la Nation, punto di arrivo del corteo, sono i militanti della Confédération Générale du Travail, uno dei principali sindacati dei lavoratori, a diventare bersaglio di attacchi. La polizia ha dovuto ricorrere ai cannoni ad acqua per disperdere la folla. A fine giornata, da dati della prefettura, 46 persone sono state fermate a Parigi. Il bilancio per la Cgt è stato di 21 militanti feriti: “Insulti omofobi, sessisti, razzisti, sono stati seguiti da atti di vandalismo – ha scritto il sindacato in una nota –. L’odio si è espresso in una furia di colpi e di lanci di oggetti”. Chi sono gli incappucciati? Alcuni portavano il gilet catarifrangente simbolo dei Gilet gialli, il movimento anti-ingiustizie che scatenò una profonda crisi sociale nel 2018 e che sopravvive ancora, ma senza la forza di allora. Per Benjamin Amar, della direzione nazionale della Cgt, gli “insulti di classe” gridati dai black bloc sono “tipici dell’estrema destra”. La procura di Parigi ha aperto un’inchiesta per violenze. Scendere in piazza in Francia non era più una festa, neanche il primo maggio, già prima del Covid. E non lo è neanche ora anche se il Paese, dopo il terzo lockdown e malgrado i contagi ancora alti (circa 20.000 al giorno), si prepara, il 19, a riaprire dehors dei ristoranti, musei, teatri e cinema, dopo sei mesi di chiusura senza interruzione, oltre che di proteste, occupazioni, fronde dei professionisti del settore rimaste per lo più inascoltate.

Di fronte a un popolo stanco delle misure anti-Covid, che scalpita per tornare a vivere e a lavorare, con feste clandestine scoperte tutti i giorni (più di 300 tra gennaio e marzo), Macron cede a convivere col virus e si affida alla campagna vaccinale. A un anno dalle presidenziali, i sondaggi prevedono già un nuovo duello con Marine Le Pen al ballottaggio. La leader del Rassemblement national si afferma tra i giovani, approfitta della rabbia che agita quartieri e periferie, galoppa sui risentimenti alimentati dagli attentati islamisti e sulle delusioni che accompagnano il mandato di Macron, segnato dagli scioperi prima e dai flop nella gestione sanitaria poi. Il corteo di sabato era stato voluto dalla Cgt per rilanciare le rivendicazioni su lavoro, stipendi, protezione sociale e libertà. Perché, sostengono i sindacati, le conseguenze della crisi attuale non siano pagate dai lavoratori. Perché, ha detto il leader della Cgt, Philippe Martinez, “i mesi che verranno non siano uguali a quelli che hanno preceduto il lockdown, mesi di ristrutturazioni, con tanti soldi per chi ne ha già e ancora meno per chi non ne ha”. La riforma dei sussidi di disoccupazione che, a partire da luglio, complicherà l’accesso agli assegni, è uno dei principali motivi di malcontento. “È scandaloso. I nostri compagni sono stati vittime di un’imboscata”, ha commentato il leader Cgt dopo l’attacco ai suoi, denunciando la “cattiva gestione” della sicurezza da parte delle autorità. Le violenze sono state condannate da tutti, esponenti politici e membri del governo. “I black bloc stanno uccidendo il diritto di sciopero nel nostro Paese”, ha detto Xavier Bertrand della destra Les Républicains. “I fatti sono gravi. Dove sta andando la Francia?”, chiede l’“indomito” dell’ultra sinistra Jean-Luc Mélenchon. Già il primo maggio 2019 Philippe Martinez era stato allontanato di forza dal corteo che si trasformava in guerriglia. Ma ora i casseurs se la sono presa direttamente con i militanti. Per il ministro della Giustizia, Eric Dupond-Moretti, quello che è successo sabato è il segno “di una perdita di punti di riferimento”. Bernard Vivier, direttore dell’Istituto superiore del lavoro, fa notare come “per certe frange della contestazione l’immagine della Cgt è sempre più associata a un’organizzazione guardiana dell’ordine. Questo spiega la critica: Cgt collabò”.

Le agorà di Bettini, classi senza lotta

Qualcosa si muove a sinistra. Dopo anni di silenzio in cui i politici si sono rattrappiti nella funzione cadetta di faccendieri, ecco un’improvvisa fioritura di rifondazioni ideologiche.

Tutti folgorati da Papa Francesco, i leader di sinistra ne mutuano, oltre alla diagnosi e alla terapia, anche lo stile comunicativo, promulgando encicliche: Letta ne ha scritta una per rinverdire il Pd, Conte per rifondare il Movimento 5 Stelle, Bettini per promuovere le Agorà in appoggio al Pd.

Ho già riferito qualche riflessione sui discorsi di Letta e Conte. Oggi mi soffermo su Le agorà. Socialismo e cristianesimo, il manifesto con cui alcuni intellettuali di varia estrazione hanno condiviso con Goffredo Bettini le idee e il perimetro della loro area politico-culturale. Lo farò adoperando, nei limiti del possibile, le stesse parole del manifesto.

Il documento, più cristiano che socialista, parte da una disperata diagnosi del mondo, molto simile a quella già denunziata da Papa Francesco in Fratelli tutti: solitudine, disorientamento, relazioni sociali lacerate; regressione dell’essere umano a merce tra le merci. Travolte tutte le tradizionali forme identitarie, siano esse politiche, sociali o culturali: famiglia, luoghi di culto, piazze comunali, armonia delle città, legame con la madre Terra. Mercato sregolato, fisco delocalizzato, capitalismo senza etica; forza lavoratrice dispersa; latitanza dei partiti; sinistra e riformismo scissi dalle loro radici storiche.

Colpevoli di questo disastro cosmico sono la tecnocrazia oligarchica, la mondializzazione, il capitalismo liberista, iper-individualista, possessivo, aggressivo, mobile, finanziarizzato e internazionalizzato, qui preso di petto in forma comunque più blanda di quanto fece Papa Francesco in Evangelii gaudium del 2013.

Secondo Le Agorà, il Pd ha giocato tutte le sue carte nella dimensione del governo (“Governo, governo e solo governo”) cavandosela in alcuni casi dignitosamente, in altri bene, in altri molto bene. Tuttavia non è stato all’altezza degli sconvolgimenti, restando incerto nel suo profilo, nel suo radicamento e nell’organizzazione. Blindato nell’isolamento e nell’arroganza, ha coltivato un nuovo, confuso, disincarnato, ripetitivo ideologismo degli ultimi cascami liberisti. Ha trascurato gli immigrati, i giovani, le donne, i lavoratori fuori dai sindacati, i nuovi poveri, gli sfruttati e i perseguitati da vecchie e nuove ingiustizie e disuguaglianze: quelli che Papa Francesco chiama gli scarti della società, cioè gli ultimi, i molti che rimangono uno sciame contraddittorio privo di autocoscienza, esseri umani ai margini, vite di scarto, senza che nessuno ne organizzi gli interessi e ne definisca i contorni.

Per fare fronte a questo deserto e a queste macerie, il manifesto auspica che il Pd recuperi il suo popolo – un popolo aspro, disorientato, arrabbiato, sofferente e in parte rassegnato – ricollocandosi nella lotta democratica e trasformandosi in un partito-campo connotato da una sessantina di elementi distintivi: critico, popolare, colto, umile, ambizioso, antifascista, laico, cristiano, pratico, razionale, ideale, progettuale, europeo, socialista, personalista, umano. Un partito-campo dei diritti, dei doveri, dell’ascolto, delle decisioni, dei bisogni, della giustizia, della libertà, del pluralismo, delle differenze, dell’incontro e del confronto. Un partito-campo che metta insieme la sinistra divisa e dispersa con il cattolicesimo democratico e con l’arcipelago del volontariato, dell’impegno giovanile civico e antifascista. Un partito-campo che si allei con il Movimento 5 Stelle e con le aggregazioni liberali, modernizzatrici e pragmatiche: prima tra tutte, “Azione” di Carlo Calenda.

Alcune obiezioni dopo questo fiume in piena. Il manifesto Le agorà insiste sulla necessità di restare legati alle radici, alla tradizione e rimprovera alla sinistra di aver tagliato qualsiasi riferimento con la sua storia. Ma poi non accenna neppure alla storia del Pd, quasi vergognandosi della sua discendenza diretta da quel Partito comunista di Gramsci e di Berlinguer che ha contribuito in misura determinante non solo all’antifascismo e alla fondazione della Repubblica ma anche alle grandi conquiste della democrazia: dallo Statuto dei lavoratori alla riforma sanitaria, dal divorzio all’aborto e al nuovo diritto di famiglia.

Le agorà auspica un partito-campo che, in quanto socialista e cristiano, ridia voce a chi l’ha persa, ai nuovi poveri, agli sfruttati e ai perseguitati da vecchie e nuove ingiustizie e disuguaglianze. Riconosce che gli interessi sono polarizzati, che la divaricazione tra i “pochi” che comandano e i “molti” che subiscono è cresciuta, che la società è più che mai divisa in due entità che girano a velocità diverse, che abitano luoghi diversi, che frequentano scuole diverse, che si curano in ospedali diversi, che hanno probabilità del tutto diverse di crescita professionale e di qualità della vita. Riconosce che una élite conchiusa in se stessa e felicemente globalizzata si contrappone e prevarica una massa maggioritaria, priva di strumenti per farsi valere, incapace perfino di immaginare una vita migliore.

Riconosce che il riscatto di questa massa prevaricata esige forme relazionali e interessi organizzati e coscienti, ben definibili nei contorni, ma non osa dire che, per organizzarne gli interessi e definirne i contorni, occorre trasformare i vinti da poltiglia informe di singoli individui svalutati, in classe compatta e antagonista, capace di trasformare l’invidia, il disprezzo, l’umiliazione e la rabbia in lotta progettata, tanto irriducibile quanto legittima.

Mentre Warren Buffet, a nome di tutti i vincenti, sfacciatamente riconosce che la lotta di classe esiste, che sono i ricchi a condurla contro i poveri e che la stanno vincendo, il manifesto Le agorà non osa pronunziare la parola “classe” e meno che mai “lotta di classe”. Dopo avere mutuato da Papa Francesco la diagnosi del male cosmico che affligge la nostra società, ne fa propria anche la terapia basata sulla buona volontà e sul compromesso.

Il manifesto da una parte afferma che il capitalismo non è più riformabile attraverso il compromesso sociale e politico, dall’altra sostiene che, nello scontro distruttivo in atto tra le classi più deboli e subalterne e le classi più forti e di comando, è urgente lavorare con un chiaro conflitto, creare una spinta sociale organizzata, “rimettere in forma politica il conflitto sociale”. Ma con l’espressione “mettere in forma politica” intende depotenziare il conflitto frontale, diluire la durezza della lotta temeraria nell’ambiguità prudente del compromesso cangiante, sempre in bilico tra eguaglianza e libertà.

Così, mentre i neo-liberisti procedono per decisioni fulminee e per rapide rivoluzioni (cosa fanno se non rivoluzioni i vari Tim Cook, Jeff Bezos o Bernard Arnault?), il popolo scalcinato di sinistra è indotto a credere che esistono solo rivoluzioni cruente per cui occorre procedere con lentissime riforme e tortuosi compromessi. Sicché, alla fine dei loro mandati, sia l’ispiratore Papa Francesco, sia gli ispirati leader della sinistra, lasceranno un mondo con più derelitti di quanti ne avevano trovati. Scommettiamo?

 

Addio Rita, quando la vidi al Fatto pensai che ce l’avevamo fatta

Tanti anni fa un mio direttore diceva che per sapere se un articolo sarebbe venuto bene, oppure no, gli era sufficiente guardare negli occhi i suoi giornalisti. Con i lagnosi e i questionisti (quelli che: non ne so nulla, non ho seguito la cosa) c’era poco da fare: nel migliore dei casi ne sarebbe uscito fuori un compitino.

Poi c’erano gli altri, i pochi a cui brillava lo sguardo. Di curiosità, di passione, di ambizione. Non avevi finito di parlare ed erano già fuori a caccia dello scoop.

Con Rita Di Giovacchino era così, con lei lo sapevi subito che “il pezzo c’era”, e che grazie al suo lavoro il giorno dopo avremmo dato un buco alla concorrenza. E gioito pensando alle facce dei nostri colleghi più sfortunati, eh sì perché la competizione è il sale e il pepe del nostro mestiere.

Tante volte l’avevo letta sul “Messaggero”: dal sequestro Moro, al maxiprocesso di Palermo, alle stragi di mafia c’era sempre la sua firma a garanzia di una cronaca asciutta dei fatti, ben scritta, densa di particolari che gli altri non avevano. Fu merito di Vitantonio Lopez se un giorno la vedemmo comparire al “Fatto”, e per noi che vivevamo quell’avventura come la sfida di un brigantino corsaro alla flotta di sua maestà, averla a bordo, accanto ai tanti “irregolari” gelosi della propria libertà, era la conferma che ce l’avevamo fatta.

Un giorno mi portò una copia del “Libro nero della Prima Repubblica”, un testo sui poteri soprattutto occulti e deviati che hanno ricoperto di sangue e corruzione il nostro paese. Lo conservo con cura, un ‘livre de chevet’ del giornalismo vero, quello che fa le domande e non smette di cercare le risposte. Così come conservo il ricordo della sua generosità nel dare una mano ai più giovani. E del suo sguardo. Grazie Rita.

MailBox

 

Il Titolo V va riformato: basta sanità regionali

La dottoressa Martorelli (Il Fatto del 28 aprile) ha sollevato un problema di assoluta rilevanza: delle “misure di prevenzione” della pandemia Covid parlano tutti tranne che gli igienisti; si discute di distanze fra tavoli o di aerazione senza conoscere i “fondamentali della igiene e medicina preventiva”! L’aspetto più sconcertante del discorso della Dott.ssa Martinelli è che – anche nella prevenzione – ogni Regione detta le sue norme: il virus lombardo è forse meno “feroce” del virus napoletano o di quello siciliano? Si ripropone il problema dei problemi: la Sanità italiana deve essere ancora gestita dalle Regioni sulla scorta della sciagurata modifica del Titolo Quinto della Costituzione? Il Presidente Draghi non ritiene che “riportare la Sanità alla gestione nazionale” sia una riforma indispensabile… anche se non ce la chiede l’Europa? Se non lo fa Lui chi potrà mai farlo? Un esempio concreto della “buona sanità regionalizzata”: nel 1988 con la legge n67 ( Art 20) furono stanziati trentamila miliardi per l’edilizia ospedaliera/sanitaria; considerando altre leggi successive si arriva alla cifra attuale di 18 miliardi di euro: son trascorsi 32 anni e ne debbono essere ancora “impegnati” circa cinque miliardi e quelli “non spesi” sono molti di più! Lasciando la Sanità alle Regioni, i fondi del Recovery saranno spesi nella prossima era geologica! Presidente Draghi abolisca le ventuno “mangiatoie regionali”: incontrerà tante difficoltà ma Lei potrà riuscirci.

Vito Pindozzi

 

La Russia è ancora un Paese autoritario

La Russia, in rappresaglia dell’espulsione di un suo diplomatico preso con le mani nel sacco a Roma in attività di spionaggio, ha espulso un diplomatico italiano in servizio presso la nostra ambasciata a Mosca senza che costui abbia fatto alcunché per meritarsi l’espulsione. Sono passati quasi trent’anni dal 26 dicembre 1991, quando fu dissolta ufficialmente l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss) ma il modus operandi di chi detiene il potere in Russia è rimasto inalterato come se, di fatto, sussistesse ancora il regime comunista al potere. È sbagliato affermare che in Russia sia stata fatta in questi ultimi trent’anni la più grande operazione “gattopardesca” che si sia mai vista nella storia? Tutto è formalmente cambiato ma, nella sostanza, tutto è rimasto uguale a com’era prima della caduta del comunismo.

Pietro Volpi

 

Dosi, nella confusione vale l’arbitrio del medico

Mercoledì 28 aprile mi reco alla Fabbrica del Vapore a Milano per ricevere il vaccino anticovid. Box 17. Faccio presente che soffro di una patologia documentata. Sono anemica e ho ricevuto due infusioni, nel mese di luglio, presso un grande ospedale milanese. Ora la situazione è migliorata, ma sono sempre sotto controllo. Vi ricordo che nei due giorni precedenti la Regione aveva dato disposizione di somministrare i vaccini a Rna messaggero, Pfizer e Moderna, per via dell’incertezza sulle dosi di Astrazeneca. Situazione rovesciata proprio il mercoledì, al mio turno: il medico dice che ha avuto disposizioni di vaccinare con Astrazeneca. Rispondo educatamente che, data la mia anemia, contavo su altro vaccino. Risposta: “Lei non è abbastanza pallida”. Come abbia potuto vederlo resta un mistero, ma mi sono arresa al medico che obbedisce agli ordini superiori senza opporre resistenza. Prossima dose il 15 luglio.

Vanna Lora

 

Dopo il Concertone è ora di cambiare la Rai

Il caso Fedez non è il caso Fedez. È il segno di un’opinione pubblica che cerca rappresentanza a bisogni nuovi, come la tutela delle minoranze sessuali, ma anche per quelli conclamati, come una televisione pubblica e indipendente. Il rapper milanese porta scompiglio nella Rai, il più grande acquario del potere. Dove in acqua tiepida nuotano pesci di tutti i colori politici, con l’intesa reciproca di non rompere il confortevole “sistema”. Se qualche volta un disubbidiente vuole cambiare le cose, si attiva subito il sistema di isolamento ed espulsione. Che abbiamo visto operare – con diverse modalità – da Fo passando per Biagi, Luttazzi e altri, fino alla Gabanelli. Di Rai libera dai partiti si parla da anni. Nessuno dice no, ma nessuno pone regole di indipendenza. Questo perché a chiedere la BBC italiana sono voci poco organizzate. Ora Fedez mette sul tavolo un bel pacchetto di follower. Cioè, di voti. Allora Salvini non può mandarlo a cagare, ma gli propone un caffè. Il ragazzo va gestito, prima che gli crei casini nella sua stessa Milano e nel Paese. Ma la consegna è trasversale a tutti i partiti: farlo sfogare, dargli ragione e buttare dosi abbondanti di mangime nell’acquario per tenere calmi gli altri con nomine e avanzamenti e sanzionare gli atipici. Col solito sistema: Bilanciare Bastone e Carote. BBC, appunto.

Massimo Marnetto

 

La registrazione di Fedez del dirigente Rai che censura una parte del suo monologo sul ddl Zan al concerto del primo maggio riporta la luce dei riflettori su di un tema mai risolto: la Rai, pagata con canone obbligatorio da tutti i cittadini ma controllata dai partiti. La domanda è perché il M5S che nel 2018 ha avuto oltre il 32% dei voti, non ha posto tra le priorità la riforma della Rai e il conflitto di interessi? Un Paese libero e civile impedisce la concentrazione di giornali e TV nelle mani di gruppi che possono influenzare l’autonomia del potere esecutivo, legislativo e giudiziario.

Vito Coviello

Vaccini. L’Italia non brilla in Europa: lo dicono i numeri, non i giornalisti

 

Gentile redazione, premesso che sono un vostro appassionato lettore, che non amo né Draghi né Figliuolo, che amo però precisione e verità, vi segnalo che nell’articolo di Natascia Ronchetti sulle vaccinazioni i numeri non tornano. Secondo la giornalista “l’Italia appare indietro anche nel confronto con gli altri Paesi europei”. Ma proprio confrontando i numeri di vaccinazioni forniti con il numero degli abitanti di Italia, Francia e Germania risulta che le differenze siano minime. A questo punto un lettore si chiede se sia Ronchetti a non essere ferrata in matematica o se sia la linea del giornale (dare addosso a Figliuolo a prescindere). In entrambi i casi non è bello dover ammettere che alcuni miei amici comunisti, fascisti e leghisti non sono così in torto quando vi accusano di essere di parte.

Matteo Ghiazza

 

Gentile Matteo, il “Fatto”, come molti altri giornali, va in stampa tra le 21 e le 22. Una scadenza rispettata anche il 28 aprile scorso, dopo aver verificato i numeri sulle vaccinazioni in corso, aggiornati alle 17.35, precisando, però, che i dati potevano cambiare, considerato che tanti grandi hub vaccinali chiudono alle 24. Solo in tarda serata il Commissario all’emergenza Figliuolo ha annunciato in tv che era stato raggiunto l’obiettivo delle 500 mila somministrazioni giornaliere. Da qui, l’errore. Detto questo, lei scrive che le differenze con gli altri Paesi europei sono minime. Fino a un certo punto. Per gran parte del mese di gennaio, fino al 19 (escludendo il Regno Unito che ha iniziato la campagna prima della Ue) l’Italia è stata prima per numero di somministrazioni, seguita da Spagna, Germania, Francia. Proprio il 19 in Italia era stato vaccinato il 2,12% della popolazione, mentre in Germania l’1,61%. Il 2 maggio invece la Germania aveva vaccinato il 28,04% dei suoi cittadini, l’Italia il 24,14%. Non si tratta di fare una gara, ma di essere obiettivi. Ci auguriamo vivamente che il traguardo delle 500 mila dosi inoculate al giorno non solo si consolidi, ma che presto venga superato. Del resto sono mesi che attendiamo quell’accelerazione che ha ancora da venire. Non a caso, mentre noi leggiamo solo “annunci” su obiettivi raggiunti o raggiungibili, gli altri corrono. Il milione di somministrazioni in Germania è lì a ricordarlo.

Natascia Ronchetti

Lega, la guerra santa al rap è solo l’ultima mossa fantozziana

Gioiamo tutti: è tornato il Cazzaro Verde dei bei tempi: quello del Papeete 2019, per intendersi.

Nel corso della scorsa settimana, Matteo Salvini è riuscito a coprirsi di ridicolo con invidiabile costanza. Idolo assoluto. La guerra santa a Fedez è solo l’ultimo tassello di una sette giorni vissuta orgogliosamente alla Fantozzi. Peraltro, sul caso Fedez, Salvini ha fatto lo gnorri dando la colpa del patatrac alla sinistra (che ha le sue colpe, infatti). E ha pure ammesso che le frasi dei leghisti omofobi citate sul palco da Fedez sono, effettivamente, “disgustose”. Bene. Però, in tutti questi anni da leader del fu Carroccio, Salvini si è guardato bene dall’allontanare quei leghisti omofobi: anzi, quattro su cinque nel frattempo hanno fatto carriera. Quel che si dice una coerenza granitica.

Andiamo per ordine. Due domeniche fa, nel giorno del 25 aprile e quindi della Liberazione, Salvini apre una raccolta firme puerile per abolire il coprifuoco e “restituire la libertà agli italiani”. Salvini, di fatto, si scaglia contro una decisione assunta da un governo di cui lui stesso fa parte. E già così ci sarebbe da chiamare Basaglia. Due giorni dopo, il Parlamento vota proprio contro il coprifuoco attraverso un’azione politica voluta da Meloni. Salvini ha la possibilità di votare con una sua alleata e mostrarsi coerente. E invece lui che fa? Si astiene. Non solo: si prende i meriti di avere costretto (?) Draghi a rimodulare a metà maggio il coprifuoco, quando la rimodulazione era già prevista in base all’andamento dei contagi. Disastro su tutta la linea.

Seconda figuraccia: mercoledì il Parlamento vota la mozione di sfiducia a Speranza; ancora un’idea di Meloni. Salvini, in questi anni, ha trattato Speranza come Briatore tratta la grammatica, quindi malissimo. Ora potrebbe votare per affossare l’odiato ministro della Salute. Bello (?). E invece lui che fa? Vota a favore di Speranza. Più che un uomo, una leggenda.

Terza figuraccia: Salvini, noto epidemiologo, si scaglia come un Borghi qualsiasi contro Crisanti, reo di non sapere nulla di pandemie perché “lui ha studiato zanzare” (mentre Salvini, si sa, ha studiato Birra e Polenta Taragna all’Università del Bar Fava). Crisanti, non senza misericordia, gli ricorda che “studiare le zanzare” rientra nel suo lavoro e che sono proprio i Paesi con più zanzare ad avere spesso affrontato meglio le emergenze pandemiche. Un concetto troppo complicato per il virologo Salvini.

E non è finita qui. A fine settimana si scaglia contro Virginia Raggi, rea di avere asfaltato orrendamente un pezzo di strada lungo il Tevere. Secondo Salvini, la Raggi avrebbe preferito il vile asfalto ai sanpietrini: metà carreggiata con asfalto nero come la pece e senza segnaletica, metà carreggiata con sanpietrini. Effettivamente la foto è inequivocabile: quella strada fa proprio schifo. Problema: faceva schifo anche prima. Nel senso che la metà carreggiata senza sanpietrini è così da 15 anni, non dalla giunta Raggi. Quest’ultima, nei giorni scorsi, ha solo potuto procedere a una nuova asfaltatura perché quella di prima era vecchia e piena di buche. Dunque la pista ciclabile andava rifatta daccapo, segnaletica compresa. L’ennesima figura da pinolo di Salvini, che Raggi e Azzolina zimbellano sui social neanche fosse il poro Anzaldi.

Gioiamo tutti: il Cazzaro Verde è tornato quello di sempre. Quello che non solo sbaglia tutto e pronuncia cose irricevibili, ma che cicca ogni uscita con propensione tafazziana degna del miglior Renzi. Daje Matte’!

Tutti contro “l’icona” Davigo per affossare la magistratura

È in corso una strana gara cui partecipano alcuni politici, avvocati e magistrati. Una gara fatta di interventi che, per quanto stellarmente diversi fra loro per tono e contenuti, hanno in comune un elemento: dare addosso a Piercamillo Davigo (a volte senza neanche bisogno di nominarlo). Ora, se ciò è comprensibile per certi politici e avvocati, dai magistrati ci si aspetterebbe quanto meno un atteggiamento un po’ diverso. Intendiamoci: nessuno vuol mettere la mordacchia alla libertà di opinione e di critica, sarebbe semplicemente idiota; neppure si può anche solo pensare a un qualche invito trasversale ad attivare remore di carattere corporativo. Ci mancherebbe altro!

Ma mentre certi politici e avvocati aspettavano solo l’occasione buona per scatenarsi contro il simbolo di Mani pulite, un’icona della magistratura, con lo scopo ultimo di colpire attraverso lui il “bersaglio grosso” (cioè la magistratura stessa nella sua credibilità e indipendenza), i magistrati dovrebbero tener conto anche di tale profilo. Proprio per questo mi domando (senza, va da sé, nessuna pretesa di insegnare qualcosa a chicchessia) se per i magistrati che intervengono nel dibattito l’approccio non debba essere più attento. Tanto più nelle fasi iniziali dell’intricata vicenda. Nel senso che, nell’ordine giudiziario, sicuramente ci sono vari magistrati che (eufemismo!) non amano l’ex collega Davigo, ma chi non rientra in questa categoria e ragiona senza pregiudizi dovrebbe sapere chi è e come opera Davigo. Ciò in base ad anni di attività professionale e di esternazioni pubbliche che consentono di rovesciarlo come un calzino (do you remember?).

Certo, il groviglio di problemi scatenato dal dossier con i documenti (non firmati) riferibili a cinque interrogatori dell’avvocato d’affari Amara, che uno o più zelanti “postini” si sono adoperati per recapitare a giornalisti e non solo, appare assai insidioso, confuso e complesso, oltre che singolare. Ci vorrà un lavoro di speciale attenzione e accortezza per dipanarlo al fine di individuare le eventuali responsabilità di ciascuno, nessuno escluso. Ma per quanto riguarda Piercamillo Davigo una cosa almeno mi sembra di poter dire fin d’ora: non ha agito per qualche interesse personale o per uno scopo ictu oculi classificabile come riprovevole o riconducibile a una qualche architettura intenzionale. Se ha commesso un peccato, si è trattato di un peccato che si potrebbe definire di generosità. Nel senso che Davigo ha deciso autonomamente (a quanto pare “sul tamburo”, altro indizio di generosa disponibilità) di caricarsi addosso un fardello spinoso per non esporre più di tanto, lasciandolo solo, un collega che si sentiva in difficoltà.

A questo punto, attendiamo senza pregiudizi o aspettative precostituite gli sviluppi della vicenda. Con un occhio ai disastri che i “corvi” possono causare, in quanto brodo di coltura ideale per quei palazzi e potentati che da sempre vorrebbero costringere i pm a starsene buoni buoni in un angolino; strumentalizzando a proprio vantaggio ogni falla, vera o presunta, del pianeta giustizia. Che ha bisogno – a dir poco – di profonde e robuste manutenzioni, mentre le derive illiberali sono tutt’altra cosa. Ecco perché, nonostante tutto, è ancora una fortuna che l’inchiesta sia svolta da magistrati indipendenti. Considerazione faticosa e impopolare, in questa stagione di miasmi, che tuttavia ci può stare . Perché una rissosa commissione parlamentare animata da velleità vendicative sarebbe assai peggio.

 

Fedez ha messo il dito nella piaga di Salvini & C.

Quando, in Italia, un bambino dice che il re è nudo, il sistema mette sotto processo il bambino. Così oggi tocca ricordare che il punto non è cosa dobbiamo pensare di Fedez, bensì cosa gli italiani hanno imparato sull’Italia grazie al suo monologo del Primo Maggio. Intanto, hanno appreso che, sì, abbiamo un grosso problema di odio contro gli omosessuali. E che una legge, attesa da 24 anni, potrebbe finalmente mettere un argine a questo odio, e alla scia di violenza che produce. Poi hanno scoperto qualcosa di veramente indicibile. E cioè che un partito al governo del Paese – la Lega di Matteo Salvini – ha un’anima violenta: la stessa anima dei partiti dell’estrema destra in Europa, quella che tiene in ostaggio l’Ungheria. Un’anima venata di fascismo.

Ed è stato veramente grottesco il coro di consensi a Fedez salito dagli esponenti del Pd. Che non si sono chiesti: come è possibile governare con un partito che non espelle un suo eletto che dice “se avessi un figlio gay, lo brucerei nel forno”? Neppure il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il presidente del Consiglio Mario Draghi si sono fatti questa domanda. Oppure si sono risposti con quello straordinario cinismo che solo lo sguardo di un bambino riesce a demolire. Perché ad apparire nuda, e repellente, è proprio la ragion di Stato che, pur di blindare il sistema, coopta anche le forze che andrebbero invece isolate, e combattute. Senza forse volerlo, Fedez ha messo il dito proprio in questa macroscopica piaga: se il governo Draghi aveva offerto alla Lega una legittimazione democratica, l’antologia di mostruosità pronunciate dai leghisti e letta in tv dal rapper, gliel’ha tolta di nuovo.

Poi hanno imparato che se gli artisti di successo usassero anche solo una minima parte del loro accesso ai media per dire quello che non si può dire, il discorso pubblico e l’ethos di questo Paese sarebbero diversi. Quando, raramente, succede (per esempio con Roberto Saviano) il potere ha paura, e reagisce scompostamente: intimando agli scrittori di pensare ai romanzi, ai cantanti di cantare. Ha scritto George Orwell: “La posizione secondo cui l’arte non dovrebbe aver niente a che fare con la politica è già una posizione politica”. In altre parole, chi proclama la neutralità dell’arte, lo fa perché vorrebbe ridurre l’arte al silenzio. Ne sono profondamente convinto: nel disprezzo della classe politica verso il teatro, nella pervicacia con cui il patrimonio culturale viene ridotto a un’arma di rincoglionimento di massa (vedi arena del Colosseo), si può leggere l’animalesca diffidenza verso qualunque elevazione culturale permetta ai cittadini di articolare una critica del potere. E, sì, nei testi di alcune canzoni di Fedez c’è più pensiero critico che in tutta la politica “culturale” di Dario Franceschini.

Ancora: hanno scoperto che (anche) sulla Rai il Movimento 5 Stelle ha fallito (come ha riconosciuto con onestà Roberto Fico), e il carrozzone della tv pubblica è sempre saldamente in mano alla censura politica. La vicedirettrice di Rai3, ex portavoce di Veltroni, che prova invano a censurare un Fedez che intende dire né più né meno quello che dice l’articolo 3 della Costituzione, è un ritratto atroce della sinistra di destra che ha sfigurato la tv pubblica. La Rai rappresenta oggi un enorme atto di fede nel potere rivoluzionario della “parola contro”: lo si capisce dall’impegno che profonde per stroncarla.

Tutto questo vuol dire che Fedez sia di sinistra? Manco per niente, ovviamente. Si è limitato a esprimere posizioni (sulla tutela dell’orientamento sessuale, sulla lotta alla discriminazione e alla violenza, sulla libertà di espressione) tipiche del pensiero liberale, anche di destra. Il punto è che noi non abbiamo destre liberali: ne abbiamo di affaristiche, o di fascistoidi. E, naturalmente, nessuno può ritenere “di sinistra” un Fedez testimonial di Amazon. Ma anche questo è interessante: perché proprio la scissione tra diritti civili e diritti sociali dimostra che l’assenza della sinistra è oggi soprattutto culturale. Per la stragrande maggioranza dei ragazzi occidentali è addirittura ovvio accettare e adottare qualunque identità dell’universo Lgbt+, mentre è stranissimo esprimere una critica radicale, per non dire un rigetto, nei confronti di una “economia che uccide” (Bergoglio). Mentre comprendiamo (finalmente!) la necessità di tutelare e valorizzare le differenze, non riusciamo a vedere l’altra faccia della medaglia: combattere le diseguaglianze. Se ci fermiamo alla prima parte, la liberazione si ferma nel privato, nell’esperienza individuale: mentre nella vita pubblica e nei rapporti economici e sociali rimaniamo schiavi. Tra le nudità scoperte da Fedez, senza saperlo e senza volerlo, c’è anche quella di un Paese senza Sinistra.

 

Non esistono parole neutre: ecco perché Pio & Amedeo sbagliano

È l’intenzione dietro alle parole che le rende buone o cattive (George Carlin, 1990).

Non è l’uso della parola il problema, ma l’intenzione della parola (Pio & Amedeo, 2021).

Se le cose fossero davvero così semplici, il problema della violenza verbale (dagli sfottò su orientamento sessuale, identità di genere, disabilità, agli epiteti razzisti) sarebbe stato risolto da un pezzo. In realtà, l’argomento di Carlin, ripreso da Pio & Amedeo per sostenere un siparietto di 20 minuti contro il politically correct nell’ultima puntata di Felicissima sera (Canale 5), è sbagliato, perché non esistono parole neutre, prive di connotazione. Ogni parola, ci dice la semiotica contemporanea, richiama dei frame, le scene di cui può far parte (cfr. Qc # 50). E la storia di certe parole le ha connotate di significati discriminatori: puoi usarle in modo neutro solo fra amici; se apostrofi chi non conosci con parole discriminatorie, stai esercitando una violenza, anche se non ne hai l’intenzione.

I comici prendono spesso la via del paradosso, e un tipo di paradosso è basato sulla definizione incompleta: il suo metodo consiste nello sminuire il significato di una cosa, descrivendola con uno solo dei mille elementi che la determinano, per dimenticare volutamente tutti gli altri, come fa Chamfort dicendo: “Il sesso non è che lo sfregamento fra due mucose”. Un conto è usare questo metodo per far ridere, ma servirsene come base per un discorso serio non può che banalizzarlo. In molti, per fortuna, hanno notato il tentativo assurdo dello sketch di Pio & Amedeo: spostare la soluzione della violenza verbale su chi la subisce (questi dovrebbero “riderne”). Fa il paio con l’altra assurdità notata, quella di due artisti privilegiati che, in prima serata, spiegano a minoranze e gruppi discriminati come dovrebbero comportarsi per far sparire magicamente il problema della violenza verbale di cui sono fatti oggetto. Contro la violenza verbale, discriminatoria, che sempre più spesso si accompagna a quella fisica, interviene per ora solo la riprovazione sociale, di cui il politicamente corretto è una manifestazione. Non a caso, l’attacco contro il politicamente corretto viene dalle destre, poiché la propaganda tossica di destra contro le minoranze strumentalizza lo spazio del discorso democratico che, non presidiato da leggi, è sottoposto alla sola riprovazione sociale. Così, in questi anni, la destra ha fatto propaganda tossica esprimendo impunemente i propri pregiudizi discriminatori in nome di una malintesa libertà di espressione. Poiché la legge interviene solo in certi casi (la legge Mancino sanziona e condanna la discriminazione e la violenza per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali), il politicamente corretto serve a rendere responsabili coloro che esprimono pregiudizi discriminatori anche di altro tipo, affinché non lo facciano nel silenzio generale, che alla lunga diventa assenso. In altri termini, il politicamente corretto prosciuga le acque della propaganda tossica discriminatoria. È una buona cosa, ma non basta più: lo si è capito con le violenze contro omosessuali e trans, che sono aumentate dopo il 2016, l’anno dell’approvazione della legge sulle unioni civili. Le leggi seguono i mutamenti sociali: ne stiamo attraversando uno. Serve una legge come il ddl Zan, cioè una legge che difenda i cittadini appartenenti a minoranze e gruppi da discriminazioni e violenze fondate su orientamento sessuale, identità di genere e disabilità. Purtroppo, il fatto che siano al governo anche quelle forze che hanno applaudito l’attacco di Pio & Amedeo al politically correct non fa ben sperare. (1. Continua)

 

Viale Mazzini: Il dogma antico del “sistema”

Non si può dare torto a Matteo Salvini quando dice: “Fedez e Rai3, polemica tutta interna alla sinistra. Artista di sinistra, ‘censori’ di sinistra”. E ha ragione Massimo Bonelli, l’organizzatore del Concertone del Primo maggio quando alle proteste di Fedez, replica: “Le sto chiedendo soltanto di adeguarsi a un sistema che probabilmente lei non lo riconosce però è quello…”.

Partiamo dal “sistema”: esso è strutturato, codificato, blindato, accettato, e in Rai esiste da sempre anche se oggi sembra sconveniente parlarne. Un po’ come nell’era vittoriana le gambe dei tavolini venivano pudicamente celate con appositi rivestimenti onde evitare peccaminosi pensieri. Infatti, l’ad Fabrizio Salini assicura che in Rai non esiste e non deve esistere nessun “sistema”, e se qualcuno ne ha parlato per conto della Rai “mi scuso”. Fantastico. All’epoca di Ettore Bernabei il perno del “sistema” era la Dc con i partitini alleati a spartirsi le briciole. A quei tempi la censura era un dogma consacrato, accettato e indiscutibile, e infatti nessuno osava dissentire. In seguito il compito del defensor fidei del servizio pubblico fu affidato alla Commissione parlamentare di vigilanza.

Particolarmente occhiuta, negli anni 80, la presidenza del dc Mauro Bubbico, detto “Cafone il censore” per certi suoi modi simpaticamente bruschi. Con la governance

Rai voluta da Matteo Renzi, il “sistema” si è evoluto rimanendo lo stesso. Nel senso che al settimo piano di Viale Mazzini l’ad decide in totale autonomia esattamente ciò che viene chiesto dai partiti. A cominciare dai partiti di sinistra, che occupano tg e reti, nominano vassalli e valvassini, piazzano ex portaborse di leader ed ex leader, decidono carriere e dunque emolumenti. Né più né meno che Lega e FdI.

Solo che a sinistra lo fanno dall’alto di una presunta, insopportabile, e ormai defunta superiorità morale. Che tocca vette di irresistibile comicità con titoli del tipo: “La sfida di Letta agli alleati: fuori i parlamentari dal cda della tv pubblica” (Corriere della Sera). Di vero in questa frase c’è che non manca molto al rinnovo dei vertici Rai. La finezza consiste nel chiedere che al posto dei soliti politici trombati o ininfluenti si scelga in base al “curriculum”. La sfida alle altre forze politiche è naturalmente “forte e ambiziosa”. Ecco quindi che il caso Fedez cade a fagiolo per risistemare la truppe su posizioni più favorevoli. Il criterio? Uno a me, uno a te e uno a Fedez. Alla fine il solo a pagare sarà Bonelli. Reo di avere detto la verità.