Embrioni.Chimera, la ricerca e l’etica

La scienza e i suoi traguardi hanno sempre costituito una minaccia per le arti magiche e per le religioni. Il conflitto è sempre stato molto acceso dai tempi di Ipazia a Galileo e non ne sono esenti i nostri giorni. Al di là di episodi storici che oggi ci appaiono ridicoli, che la scienza debba essere libera è ormai il consenso internazionale. Purtuttavia è anche vero che, se non può riconoscere limiti di indagine, dall’altro, la sua applicazione imponga l’attenersi a un’etica essenziale. Ci riporta violentemente a tali riflessioni una pubblicazione di questi giorni che informa che sono stati ottenuti i primi embrioni chimera uomo-scimmia. Sono il risultato della ricerca pubblicata sulla rivista Cell, guidata dall’istituto americano Salk e condotta in collaborazione con la Cina, e nella quale cellule staminali umane sono state trasferite in embrioni di scimmia. Gli embrioni chimera hanno continuato a svilupparsi per 20 giorni. Tale ricerca è stata condotta per meglio comprendere le malattie legate allo sviluppo, attualmente impossibili da studiare, considerando il limite di 14 giorni alla ricerca sugli embrioni umani, e si inquadra nel grande sviluppo della medicina rigenerativa. Inutile dire che da parte di tanti ricercatori e anche dalla stessa rivista scientifica siano state avanzate molte perplessità sulle possibili future ricerche e utilizzazioni dei risultati. Credo che tale quesito debba spostarsi sul pensiero crociano del diritto di libertà, trasferito agli scienziati. Secondo Croce, la libertà non può essere mai conferita a un soggetto umano, così come non si può mai fare, di tutti gli esseri umani, dei liberi e degli eguali. La libertà insita nel pensiero scientifico va, secondo me, conquistata, non limitata. La ricerca deve essere libera, la sua applicazione, dipendente dal ricercatore, deve essere sempre nel rispetto dell’etica umana. È per questo che abilitare alla ricerca scientifica dovrà sempre essere un processo conquistato attraverso una preparazione culturale.

 

Il generale che ci inietta “tutto”: anche l’antigelo?

Proseguono a rotta di collo le Figliuoliadi, la maratona di iniezioni a tappeto su tutto il territorio nazionale. In diretta dall’inaugurazione dell’hub vaccinale presso il polo natatorio di Ostia, il Generale in mimetica ha perentoriamente annunciato: “Valutiamo di estendere AstraZeneca alla classe di età inferiore ai 60, questo sulla base degli studi”, dal che si deduce che la precedente decisione del governo di somministrarlo solo agli ultrasessantenni non è stata presa sulla base degli studi. Forse siamo stati noi under-60 ad aver correlato AstraZeneca alle trombosi cerebrali? Penna d’oca vibrante sul cappello, il Gen. ha precisato: “I vaccini vanno impiegati tutti. Dobbiamo credere nella scienza, è l’unico modo per uscire dalla pandemia”. I vaccini vanno impiegati tutti? Signorsì, per vaccinare più persone possibile.

Ma se c’è un vaccino alternativo che al momento ha effetti collaterali meno gravi, perché rischiare che qualcuno se ne vada al Creatore? Non è compito del governo assicurarsi più Pfizer e Moderna e rimandare indietro i suoi ad AZ, con tutte le inadempienze e le ambiguità di cui è responsabile? Basta scrivere “vaccino” su una scatola per pretendere che tutti se lo facciano iniettare? Ci saranno italiani immunizzati con vaccini d’élite

e altri con preparati di serie B per amor di patria? E credere nella scienza non implica che si ripieghi su un altro vaccino, se la stessa scienza trova evidenze di effetti avversi gravi? No, rafforza Fabrizio Curcio, capo della Protezione civile: “Tutto quello che abbiamo lo dobbiamo somministrare. A noi interessano le percentuali di somministrazione”. Tutto tutto? Pure la soluzione fisiologica? Pure l’antigelo?

Fuoco alle polveri, basta chiacchiere, qui non si scherza, nessuno sfugga alle sue responsabilità. Offriamo il braccio ai militari. Che modo originale e marziale di aumentare la platea dei no-vax!

E Di Mare insiste: “Da Fedez frasi gravi e infamanti”

Il caso Fedez ha convinto ancor di più Mario Draghi ad affidare a un supermanager esterno la guida della Rai. Un professionista che però non dovrebbe coincidere con Tinny Andreatta, evocata invece da molti come rientrante da Netflix, che tra l’altro porrebbe il problema della clausola di non concorrenza. E i candidati in lizza per il ruolo di ad sono diversi: da Laura Cioli (ex Gedi) a Carlo Nardello (ora in Tim), da Elisabetta Ripa (Open Fiber) a Fabio Vaccarono (Google Italia). Ma ce ne sono pure altri. E un aiuto in tal senso arriverà dalla società di consulenza Egon Zehnder, che, per contro del Mef, sta procedendo alla selezione studiando curricula, carriere e disponibilità. Al contempo l’intento di Palazzo Chigi è di affidare poi la presidenza a una figura di altissimo prestigio e garanzia, che possa essere un vero faro, anche morale, per l’azienda. E in tal senso prende sempre più quota la figura dell’ex direttore del Corriere, Ferruccio de Bortoli. Anche se ieri, su Tag 43 (nuovo sito news di Paolo Madron) è rimbalzato il nome di Simona Agnes, figlia di Biagio Agnes, molto sponsorizzata da Gianni Letta.

Quello che si vuole evitare, in futuro, è il pasticcio che si è venuto a creare sul caso Fedez, con la sua coda di polverone politico, figuracce e veleni di ogni tipo. Ieri, ad esempio, parole molto dure contro il rapper sono arrivate dal direttore di Rai3 Franco Di Mare, che domani sera verrà sentito sul caso in commissione di Vigilanza. “Avrei detto volentieri quel che penso, perché le dichiarazioni dell’artista sono gravi e infamanti per quanto sono infondate. Ma nel frattempo è intervenuta la convocazione in Vigilanza e sarà quella la sede per chiarire”, sostiene il direttore di Rai3. Che però ribadisce come “non ci sia stato alcun intento censorio da parte dell’azienda e della vicedirettrice Capitani, come si evince dalla versione integrale della telefonata, ci sono state gravi omissioni”. Ma in questa vicenda fanno capolino pure questioni private. Come, ad esempio, le parole di Giulia Berdini, fidanzata di Di Mare, che su Instagram aveva attaccato il cantante (“Fedez è disgustoso, rappresenta l’ipocrisia del politicamente corretto, ma è solo a caccia di pubblicità”), per poi, dopo essere stata bannata, correggere la linea (“condivido le parole di Fedez ma non le modalità”).

L’audizione di Di Mare, comunque, si annuncia torrida, perché la Lega, che nega di aver visionato prima il testo passato da una presunta “manina”, andrà a testa bassa. “Non ci vedo nulla di male se la Rai avesse chiesto prima i testi a Fedez, perché non si può mandare in onda qualsiasi cosa”, fa sapere Massimiliano Capitanio. “Assolutamente sbagliato che Fedez abbia attaccato sul palco i nostri senza contraddittorio e senza sentire la loro versione”, dicono altri leghisti. Tesi strampalata, perché, come sottolineato dall’ex presidente Rai Roberto Zaccaria, “vorrebbe dire infarcire i programmi d’intrattenimento di ospiti dettati dalla par condicio, una cosa assurda che ammazzarebbe la tv”.

Nel frattempo le polemiche sono roventi anche in Rai. Ieri c’è stato un lungo confronto telefonico tra Fabrizio Salini e Di Mare, anche in vista dell’audizione. Quello che si nota a Viale Mazzini, però, è l’assordante silenzio dei sindacati: Cgil, Cisl e Uil sono gli organizzatori, tramite la società I Company, dell’evento di piazza San Giovanni e Fedez il giorno prima avrebbe avuto il via libera al testo sul ddl Zan proprio da Maurizio Landini. Ma la cosa che più ha dato fastidio al settimo piano è il risalto della notizia, con’eco social pari a 16 milioni di contatti video e servizi sulla Bbc e diversi quotidiani stranieri. “È stato uno sputtanamento internazionale…! Da tanto la Rai non aveva un risalto mediatico negativo di questo tipo…”, è il commento amareggiato di un dirigente. E non è finita qui, perché il M5S presenterà un’interrogazione al Parlamento Ue per chiedere di “vigilare sulla libertà di espressione in Italia”.

La vicenda, se non altro, ha avuto il merito di far tornare a parlare del tema dell’indipendenza della tv pubblica dalla politica e della riforma della governance, che quasi nessuno però, tra le forze politiche, sembra davvero volere, nonostante le diverse proposte depositate. “Spero che questo Parlamento possa iniziare una vera discussione su una legge per riforma della governance Rai”, ha sottolineato il presidente della Camera, Roberto Fico. Nel frattempo, secondo Fico, “dato che ci sono da fare le nomine per il prossimo Cda, scegliamo persone il più possibile autonome e competenti”.

I renziani calunniano report: paga le fonti

L’ accusa è goffa nella forma e infamante nei contenuti: Report avrebbe pagato 45mila euro una fonte giornalistica per realizzare un servizio contro Matteo Renzi. A fare questa allusione è Luciano Nobili, deputato di Italia Viva tra i più fedeli alla causa dell’ex premier.

Ieri, poche ore prima della trasmissione di Rai3 con lo scoop sull’incontro in autogrill tra Renzi e l’agente dei servizi segreti Marco Mancini, Nobili ha anticipato un’interrogazione parlamentare che contiene accuse molto gravi – e senza alcuna prova – verso il programma di Sigfrido Ranucci. Si chiede al ministro del Tesoro Daniele Franco se la Rai abbia pagato per Report una fattura da 45mila euro ad una società lussemburghese “per confezionare servizi contro Renzi”. Ecco il testo: “Si interroga il Ministro per sapere se siano intercorsi rapporti economici nel mese di novembre 2020 fra la società Tarantula Luxembourg Sarl e la Rai TV e segnatamente se esista una fattura con oggetto Alitalia/Piaggio pagata dalla Rai a tale società per un totale di 45.000 euro e nel caso chi l’abbia autorizzata”. Ma non solo: “Si chiede di sapere se la redazione di Report abbia mai avuto rapporti con il dottor Francesco Maria Tuccillo, ex collaboratore della Piaggio Aerospace, e se vi siano stati rapporti economici fra la società lussemburghese e il dottor Francesco Maria Tuccillo”.

Nel calderone di Nobili si mescola un po’ di tutto: l’interrogazione cita un servizio sgradito di Report su Renzi e Alitalia andato in onda diversi mesi fa, il 30 novembre 2020. E poi tira in ballo anche Rocco Casalino, l’ex portavoce di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi: “Il 2 febbraio 2021, i quotidiani Il Foglio, Il Giornale e Il Tempo accennano a presunte mail scambiate fra Casalino e la Rai, aventi ad oggetto servizi che sarebbero stati confezionati al fine di danneggiare l’immagine del senatore Renzi”.

A questo mappazzone di suggestioni diffamatorie, Ranucci ha risposto con un video nel quale fatica a trattenere il sorriso: “Report in 25 anni non ha mai pagato una fonte”. Poi aggiunge: “Non uso mai la carta intestata, non ho mai mandato mail a Casalino. Si tratta di un dossier avvelenato sulle cui tracce eravamo già da tempo e anche altri colleghi che stavano per stamparlo si sono resi conto che era un falso clamoroso”.

Anche l’inviato di Report Giorgio Mottola smentisce le allusioni di Nobili: “Sono semplicemente ridicole. Sarebbe il primo caso di una fonte che costa più di un’intera puntata di Report. Noi non abbiamo mai pagato le fonti, nemmeno un euro”. Da dove arrivano allora le ipotesi citate da Nobili? “Crediamo sia un dossier fasullo, costruito ad hoc, che gira da un po’ di tempo. Le voci erano iniziate a gennaio, dopo che avevo incontrato Gianmario Ferramonti (faccendiere ed ex tesoriere della Lega Nord, ndr)”.

In serata è arrivata anche la replica di Tarantula Luxembourg, la società tirata in ballo da Nobili: “Ci vediamo costretti, nonostante l’assurdità della vicenda, a negare con estrema fermezza. Tarantula Luxembourg Sarl non ha mai emesso una fattura di tale importo né alla Rai, né a Report, né a nessuna delle persone coinvolte in quest’assurda vicenda. Non riusciamo ad immaginare il motivo di queste calunnie, ma valuteremo nelle sedi opportune eventuali azioni legali da intraprendere. Ringraziamo comunque per la pubblicità”. Nobili e Italia Viva alla fine rischiano una querela.

A Report sono ben abituati a pressioni, offensive e tentativi di censura politica (peraltro da quasi tutti i partiti) ma raramente con questa forma al tempo stesso intimidatoria e grossolana. Ieri il Fatto aveva anticipato uno dei temi della puntata di Report: l’incontro in autogrill tra Renzi e l’agente del Dis Mancini lo scorso 23 dicembre. In quel periodo il capo di Italia Viva attaccava quotidianamente il premier Conte sulla delega ai servizi. “Mancini è uno dei dirigenti dei servizi segreti con cui ho avuto incontri riservati – ha ammesso Renzi, intervistato da Mottola – ma quell’incontro all’autogrill non era certo riservato, ci sono pure le telecamere”. L’ex premier è intervenuto anche su Twitter. “Messaggio agli inconsolabili: il Governo Conte non è caduto per intrighi, complotti o incontri segreti. Semplicemente Draghi è meglio di Conte e l’Italia oggi è più credibile”.

Tace invece il Copasir, l’organo parlamentare che controlla i servizi non ha voluto rilasciare dichiarazioni sul tema e non pare interessato ad approfondire la vicenda.

Niente svolta, i ristori restano sui ricavi

Non sarà neanche la seconda tranche di contributi a fondo perduto, prevista dal decreto Sostegni bis, a placare i malumori di imprese e professionisti strangolati dalle chiusure. “La maggiore attenzione sull’imponibile fiscale e non sui ricavi” promessa nelle scorse settimane dal ministro dello Sviluppo Giancarlo Giorgetti, e confermata dal premier Mario Draghi (“Il prossimo decreto avrà anche l’altro criterio dell’utile”), non compare nella seconda manovra da 40 miliardi del governo Draghi. Come si legge nella bozza del decreto Sostegni bis, il governo prevede di erogare 11,15 miliardi alle aziende che hanno richiesto e ottenuto i contributi a fondo perduto introdotti con il primo decreto. Vale a dire la stessa somma già incassata ad aprile, senza la necessità di inoltrare una nuova istanza, agevolando perlopiù le imprese che fatturano oltre 5 milioni. Le misure previste per supportare le attività economiche colpite dagli effetti economici della pandemia non prevedono, quindi, maggiori stanziamenti, non allargano le maglie e non garantiscono niente di più di quello che è stato già stanziato a fine marzo con il primo dl Sostegni.

Insomma, non è bastato togliere il nome “ristori” di contiana memoria per rendere i “sostegni” più tempestivi e incisivi. Attuare modifiche ai ristori comporta necessariamente tempo per gli adeguamenti burocratici e amministrativi che il governo non ha. “Con i nuovi ristori hanno mantenuto la stessa filosofia cambiando solo l’arco temporale”, commenta la Fondazione Studi Consulenti del Lavoro. Il ristoro resta, infatti, destinato alle aziende con un fatturato fino a 10 milioni, che hanno subito perdite per oltre il 30% nel 2020. La base per l’indennizzo (che non può superare i 150 mila euro) verrà calcolata sulla media della perdita mensile registrata nel raffronto tra 2020 e 2019. A questa base si applica poi una percentuale dal 20% al 60% secondo l’entità del fatturato. Con un’unica sostanziale opportunità: le aziende che non superano 10 milioni di ricavi possono optare per un contributo alternativo, parametrato non più sulla perdita di fatturato ma sulla differenza tra il periodo 1° aprile 2020-31 marzo 2021 e il 1° aprile 2019-31 marzo 2020. Una novità che si è resa necessaria perché con la presentazione della dichiarazione trimestrale dell’Iva, è arrivata la certificazione che alcune imprese hanno avuto un calo maggiore di fatturato rispetto all’anno precedente. Per questo contributo sono stati stanziati 3 miliardi.

Sempre a sostegno delle imprese è in arrivo uno sgravio per altri 5 mesi sugli affitti. La bozza prevede che sia riconosciuto il credito d’imposta al 60% (50% in caso di affitto d’azienda) per i canoni di affitto relativi ai mesi da gennaio a maggio, scadenza cui viene allineato il credito d’imposta previsto per le strutture turistico-alberghiere. Per la misura vengono stanziati quasi 2,3 miliardi.

Il testo della bozza, composta di 48 articoli, contiene norme che vanno dall’ennesimo rinvio della plastic tax (battaglia cara ai renziani di Italia Viva e alla Lega) al rafforzamento degli incentivi sulle aggregazioni bancarie. Sono stati concessi 6 mesi in più ed è stato alzato il limite per usare i crediti fiscali (Dta) a bilancio. Una norma scritta dal Tesoro per poter garantire un’ampia dote pubblica alla banca che si accollerà il Montepaschi: Unicredit o Banco Bpm.

Per il rem ci sono altri 2 mesi

 

“5S, ora basta parlare di posti. La strada è il centrosinistra”

Il Movimento che fu sembra già roba d’archivio, quello che sarà è soprattutto nelle mani di Giuseppe Conte, il rifondatore ancora bloccato da mille grane. Massimo Bugani, veterano del M5S e capo staff della sindaca di Roma Virginia Raggi, non pare sorpreso: “L’avevo previsto che non sarebbe stato facile, perché il Movimento è composto da persone molto diverse tra loro per storie personali e orientamento politico. Ma ora è tempo di imboccare una strada, con una direzione politica chiara”.

Il M5S negli ultimi tempi sembra intento a discutere soprattutto dei due mandati e di soldi, no?

Sono fuori da queste dinamiche, ma mi auguro davvero che questi argomenti non siano il vero punto di discussione: soprattutto ora, in un Paese che vive la crisi provocata dalla pandemia. Non è bello leggere di discussioni sulle ricandidature o sul Tfr dei parlamentari. Auspico che ci si confronti su un percorso politico.

Conte rinvia da settimane il piano di rifondazione, anche per i problemi irrisolti sulla piattaforma web.

Io auspico un accordo con Rousseau. Non è facile tenere assieme i vari pezzi del Movimento. Conte sa che deve iniziare una nuova stagione e non tutti gli stanno aprendo la strada.

L’ex premier ha sostenuto che il M5S “è senz’altro di sinistra”. Non è una definizione forzata, visto anche che ha governato con la Lega?

Spero che il Movimento scelga una strada chiara ed esca dalle ambiguità. Per me porta al centrosinistra. Negli anni dei successi elettorali, il M5S ha costruito un percorso per il governo ma non ha creato un proprio perimetro culturale, essenziale per costruire a medio termine, e ora deve farlo. Va bene parlare di transizione ecologica, ma i temi del lavoro e del sociale sono fondamentali.

Per l’alleanza “a tutto tondo” però bisognerà aspettare le Politiche, hanno ammesso Conte e Letta. Le Comunali saranno solo “un primo passaggio”.

Io posso parlare del lavoro che sto facendo a Bologna, con un percorso molto serio e trasparente iniziato già anni fa con persone come Pier Luigi Bersani, Stefano Bonaccini ed Elly Schlein. Già ai tempi delle Regionali in Emilia Romagna dell’anno scorso proposi al M5S di non presentarci, per non rimanere schiacciati e cominciare a pensare a qualcosa di nuovo. Peccato però che in questi giorni Matteo Renzi abbia come al solito fatto il demolitore, presentando come candidata di Iv Isabella Conti.

Ci saranno le primarie. E lei sosterrà l’assessore del Pd Matteo Lepore.

Sì, sostengo chi vuole portare avanti Laboratorio Bologna, ossia il progetto con le forze politiche che hanno sostenuto convintamente il governo Conte.

Ne ha parlato con l’ex premier?

Tra me e lui i rapporti sono ottimi, e ci teniamo aggiornati.

Però Conte non ha mai detto nulla della ricandidatura a Roma di Virginia Raggi, che il Pd voleva a tutti i costi fermare…

Lo scontro con i dem è stato sempre duro anche a Bologna, ma poi bisogna voltare pagina. Il Pd a Roma dovrebbe riconoscere quanto ha fatto Virginia.

Anche la sindaca è durissima con i dem: la pace si fa in due, non crede?

Toccava e tocca a loro dare un segnale. A volte in politica arriva il momento dell’onestà intellettuale.

E un segnale di Beppe Grillo dopo quel terribile video sul figlio se lo aspetta?

Le cito Seneca: i grandi dolori rendono muti.

Grillo non potrà più essere il Garante dei 5Stelle?

La seconda domanda non elimina il dolore e il silenzio.

L’associazione Rousseau ha ormai rotto con il M5S. Davide Casaleggio pensa davvero a un suo partito?

Davide vuole sviluppare i suoi progetti per la partecipazione e la democrazia diretta, e non è solo la politica a poter trarre vantaggio dal suo lavoro.

protagonisti

Virginia Raggi

La sindaca di Roma
si ricandiderà al Comune per i Cinque Stelle, senza l’appoggio del Pd

Davide Casaleggio

L’ex pre

Nome e cognome

Sapeles doloraasds experferitat auasasddasdt vendiscit haribuasds ministrum voluptatiore venecate occaboremo

Basilicata, la transizione si fa col petrolio

Mentre si parla tanto di transizione ecologica, ci sono aree in cui è chiaro che le risorse fossili resteranno realtà ancora per tantissimo tempo. La giunta della Basilicata, nei giorni scorsi, ha approvato un accordo per la stesura del nuovo protocollo di intenti con Eni e Shell, entrambe titolari della concessione del noto giacimento petrolifero Val d’Agri. È uno dei più importanti: da qui arriva il 70-80% degli idrocarburi prodotti in Italia (oltre a inquinamento e inchieste).

Nell’accordo, vengono indicate le misure di compensazione ambientale “per la salvaguardia dell’ambiente” e “lo sviluppo del territorio lucano” in termini “economici, occupazionali e sociali”. Eppure non è stato ancora neanche discusso con le parti sociali e il testo è un grande mistero per tutti. Quello che si sa è che si stabilisce quanto deve essere dato alla Regione e agli enti locali per iniziative che equilibrino l’eventuale danno fatto al territorio con estrazioni e inquinamento. In pratica, Eni e Shell si impegnano a versare alla Regione – pare extra royalties – un contributo di 1,05 euro per ogni barile prodotto. A questi si aggiunge un contributo di 95 milioni di euro ogni 5 anni per il finanziamento di progetti di sviluppo. L’accordo avrà una validità di dieci anni a partire da ottobre 2019, data di scadenza della concessione (bloccata per due anni). Impegna poi le compagnie petrolifere a fornire alla Basilicata 160 milioni metri cubi di gas all’anno.

I benefici economici per la Regione, ha assicurato il presidente Vito Bardi, sarebbero sestuplicati. “L’accordo – ha aggiunto – garantirà risorse importanti a tutti i lucani per affrontare al meglio l’emergenza economica e sociale post Covid”. In media, la produzione è di circa 84mila barili al giorno (su un potenziale di 104mila). Questo significa che le maggiori entrate, se si esclude qualsiasi tipo di inconveniente o di stop, si aggireranno intorno ai 55 milioni l’anno. In una nota anche Eni ha espresso soddisfazione, sottolineando “la volontà di rafforzare la relazione con la comunità lucana e favorirne la crescita anche su nuove linee di indirizzo rivolte alla transizione energetica e all’economia circolare” (delle quali, però, ancora non c’è traccia).

L’accordo arriva proprio mentre si attende il Piano nazionale che dovrà stabilire dove si possa trivellare e dove no (detto “Pitesai”), nella consapevolezza che comunque un sito produttivo come Val d’Agri difficilmente potrà risultare escluso (se non altro la Giunta ha approvato gli indirizzi sulle zone da sottrarre a future concessioni). Quanto ai sindacati – anche se si aspettavano un rinnovo più lungo (per almeno altri 20 anni, come previsto dalla concessione precedente) – lamentano di non essere stati coinvolti nella realizzazione dell’accordo, che peraltro non sembra ancora aver definito un vecchio problema: cosa si intende nello specifico per “compensazioni ambientali” e come renderle effettive. In passato, infatti, i soldi che arrivavano dalle estrazioni e avrebbero dovuto essere utilizzati per investimenti ambientali sul territorio sono invece spesso finiti a coprire le uscite correnti.

I sindacati, infine, chiedevano la creazione di un centro di ricerca e sviluppo sull’idrogeno. “Una ipotesi che per il momento è solo accennata – ci spiega un sindacalista – speriamo se ne possa riparlare in un secondo momento”.

Idrogeno, rinnovabili e nucleare: Cingolani ha idee poco “green”

Avanguardistico è avanguardistico, il ministro per la Transizione ecologica, Roberto Cingolani. Ed è un bene: non è col luddismo che si progredisce. Eppure, nello sforzo verso un mondo più verde grazie agli ultimi ritrovati della tecnologia, pare esserci poca attenzione, volente o nolente, ai dettagli che fanno la differenza. Così da giorni ambientalisti, movimenti e qualche politico segnalano le contraddizioni del ministro e del Pnrr. I macro-temi di contrasto sono ricorrenti: idrogeno, rinnovabili, nucleare. Per ognuno c’è qualcosa che non quadra.

L’idrogeno, ad esempio, è il prodotto di punta della nuova comunicazione “green”, passato rapidamente da fonte di energia sconosciuta ai più a destinataria di 3,1 miliardi di euro in 5 anni. I problemi, da qui in poi, sono diversi. Il primo: una vera transizione ecologica deve produrre idrogeno da fonti rinnovabili (idrogeno “verde”). Cingolani ne parla come se fosse prioritario, ma dal suo Piano non pare proprio. Nell’intervista al CorSera di ieri, in cui prospetta una transizione a colpi di grossi compromessi, dice che “non ci sono soluzioni facili” e che “tutti devono capire che la sostenibilità ha dei costi, non solo economici” e che non ci si può rinunciare solo perché “l’idrogeno da metano produce troppa CO2”. Una incidentale, tra altri esempi, che scopre un nuovo problema: fino a che produrre idrogeno con le rinnovabili non sarà conveniente, semplice e veloce per il mercato, bisognerà utilizzare il gas naturale.

Ma il mercato è definito anche da riforme e investimenti sulle rinnovabili. Secondo le stime delle associazioni ambientaliste, per mantenere la traiettoria di decarbonizzazione prevista per il 2030, l’Italia deve incrementare lo sviluppo delle rinnovabili per circa 6mila megawatt l’anno. Eppure, il Pnrr prevede risorse per soli 4mila MW in cinque anni. Nonostante alcuni passi avanti (smart grid e agrovoltaico) mancano poi novità sulla regolazione e la fiscalità energetica: “Permetterebbero di trasformare l’incentivo in una politica di sviluppo – spiega Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italia – mentre solo 200 Megawatt con 680 milioni sono destinati allo sviluppo di rinnovabili incluso l’eolico off-shore”. Ci si aspetta che il mercato faccia da sé “che andrebbe anche bene – conclude Onufrio – ma solo se almeno per il primo anno si riuscisse a spingere e a incentivare le rinnovabili ferme da un decennio”.

A guadagnare da questa impostazione sono i petrolieri. Il piano industriale dell’Eni è fortemente concentrato sul gas e include la produzione di idrogeno con la cattura dell’anidride carbonica nei pozzi in disuso (tecnica sperimentale e con rischio di fenomeni microsismici). Produrre idrogeno così (idrogeno blu) costa molto meno che produrlo verde, 2 euro contro 4/6 euro. L’alternativa sarebbe investire di più sugli elettrolizzatori che producono idrogeno dall’acqua favorendone la diffusione e abbattendo così costi e prezzo dell’energia. Anche la concorrenza ne gioverebbe: l’acqua è a disposizione di tutti, il gas no.

Infine il nucleare. Cingolani ne parla spesso riferendosi alla tecnica di produrre energia con la fusione, lo stesso principio con cui si alimentano le stelle. L’Italia sta partecipando a una sperimentazione europea, i cui esiti non vedranno la luce prima del 2050. Ma ieri sul Corriere, il ministro è parso possibilista (“va valutato il da farsi”) pure sui “reattori container” su cui punta la Francia. Nuovo problema: il nucleare in Occidente è in crisi profonda, tanto che in Usa e nella stessa Francia, la strategia è chiedere di estendere la vita degli impianti che hanno più di 40 anni o puntare sulle grandi taglie per ridurre i costi. Insomma, i “container” moltiplicherebbero i pericoli e sarebbero pure antieconomici.

Da Milano a Perugia: il domino dell’avvocato Amara sulle Procure

Prima o poi le procure italiane – a partire da quella di Perugia – dovranno sciogliere il nodo più importante di questa vicenda: chi è davvero Piero Amara? L’ex legale esterno dell’Eni, che da un anno e mezzo descrive l’esistenza di una loggia segreta chiamata “Ungheria”, che a suo dire ha condizionato il Paese – alti prelati, politici, vertici di importanti istituzioni – quanto e forse più della P2, della quale avrebbe conservato un elenco di affiliati (sì, però su una fotocopia che non ha mai consegnato perché il foglietto sarebbe chissà come finito a Dubai. Mah). Qual è la percentuale di vero e di falso nelle dichiarazioni di Amara? Ma soprattutto: parla per conto proprio oppure, dietro le sue dichiarazioni, c’è qualcuno? Per ora le procure sono costrette a lavorare su altro: quello che Amara ha messo sul tavolo. La loggia Ungheria. Ed al netto dei grembiulini non bisogna mai perdere di vista un punto: Amara quando parla sembra che abbia sempre in mente una sorta di mappa. E la mappa principale riguarda la magistratura.

La loggia Ungheria e la “sua rete relazionale fu usata per condizionare la nomina…”. E piazza lì il nome di un magistrato. “La loggia Ungheria e la sua rete di relazioni era in grado di condizionare il Csm…” e piazza lì Palazzo dei Marescialli. Piazza di qua, piazza di là, mette sul tavolo una sfilza di procure nelle quali, a suo dire, ci sarebbero magistrati in qualche modo a disposizione della loggia se non, in alcuni casi, addirittura affiliati. Le prove? A volte glielo dice qualcuno. A volte, perché la presenza del magistrato è nella “lista di 40 nomi” che ha fotocopiato e mai consegnato, a volte la toga è in servizio e a volte in pensione. E così innesca un domino che – per l’obbligatorietà dell’azione penale – impegnerà il lavoro di parecchie procure. Tra magistrati i servizio e altri in pensione, ha disseminato i nomi di magistrati che hanno lavorato in Piemonte, Lombardia, Umbria, Lazio, Sicilia, Campania e Basilicata. Inquirenti, giudicanti, settore penale e amministrativo, procure, Tar, Consiglio di Stato e Csm.

Un effetto domino nel quale, codice di procedura alla mano, viene quasi da chiedersi: quale procura debba indagare sull’altra. in una sora di catena senza fine. Dice il vero Amara o dice il falso? E perché disegna una P2 al quadrato che, se fosse reale, dovrebbe venire già un Paese intero? Un fatto è certo: per ora gi unici indagati di questa presunta loggia massonica sono lo stesso Amara, che l’ha denunciata, e due sue vecchi conoscenze: Alessandro Ferraro e l’avvocato Giuseppe Calafiore. Amara li ha tirati in ballo e loro hanno confermato tutto. Si tratta però, per chi conosce le loro vicissitudini giudiziarie, di un trio che somiglia tanto a Lucignolo, al gatto e alla volpe. La realtà che, a parte loro tre, per ora, di magistrati indagati, a Perugia, non ce n’è neanche uno. Sarebbe un errore però pensare che Amara sia solo un eventuale cialtrone. E da Milano a Perugia, da Roma a Messina, le procure lo sanno bene. Di magistrati – è stato accertato – ne ha già comprato qualcuno. E per istruire fascicoli finti, con finti testimoni, destinati, secondo la procura di Milano, a depistare il processo sulla corruzione di Eni – gli imputati sono stati assolti – per l’acquisto del giacimento nigeriano Opl 245. E proprio mentre viene interrogato, Amara lascia sul tavolo dei pm Storari e Pedio, l’ombra che uno dei giudici che valuterà la corruzione nigeriana, Marco Tremolada, sia stato “avvicinato” garantendo l’assoluzione e un processo rapido. Amara ha una prova in mano? No. Precisa che gliel’ha riferito una persona ma aggiunge di non sapere se sia vero o abbia millantato. Tutto falso, appurerà la procura di Brescia. Nel frattempo l’accusa del processo Eni chiede di acquisire i verbali di Amara su eventuali “interferenze” nei “confronti di magistrati milanesi”. Il collegio presieduto da Tremolada rifiuta il deposito degli atti. Brescia poi appura che su Tremolada non c’era stata alcuna interferenza. Ma le dichiarazioni di Amara creano un corto circuito micidiale. Ora parla di una nuova P2 facendo nomi che possono destabilizzare il Paese. Fa tutto da solo? O per conto di chi?

Csm, volano stracci e verbali. Il Consiglio scarica Davigo

Il Consiglio superiore della magistratura “opera soltanto sulla base di atti formali e secondo procedure codificate”, fa sapere il Csm nella tarda serata di ieri. Ed è un segnale chiaro alla vicenda che riguarda Piercamillo Davigo e gli atti secretati che nella scorsa primavera gli consegnò il pm di Milano, Paolo Storari, convinto che i suoi superiori, il procuratore capo Francesco Greco e l’aggiunto Laura Pedio, non volessero spingere l’acceleratore sull’inchiesta innescata dalle dichiarazioni di Piero Amara sulla presunta loggia massonica denominata “Ungheria”. Davigo sostiene di aver spiegato la situazione al vicepresidente del Csm David Ermini, con quest’ultimo che a sua volta informò il Quirinale e poi incontrò nuovamente l’ex magistrato di Mani Pulite, porgendogli i ringraziamenti del Colle e il messaggio che a quel punto non era necessario intraprendere ulteriori iniziative. Ermini al Fatto ha confermato solo la prima parte della versione di Davigo – “confermo solo che me ne parlò” – mentre non conferma e non smentisce il resto del racconto. E nei giorni scorsi Davigo ha ribadito: “Dirò tutto nelle sedi istituzionali”.

Ieri il Csm ha fatto sapere che al Consiglio è “inibito qualsiasi intervento a fronte di atti non identificabili, come la sommaria comunicazione verbale da parte dell’allora consigliere Piercamillo Davigo, in merito a indagini della procura di Milano”. E ancora: “In presenza di notizie in sé irricevibili perché estranee ai canali formali e istituzionali, ogni iniziativa del Csm sarebbe stata scorretta e avrebbe potuto amplificare voci non riscontrabili”. È l’ennesima puntata di una vicenda che sta facendo traballare l’organo di autogoverno della magistratura. E non soltanto quella. La Procura di Brescia ha chiesto a quella di Milano gli atti per capire come avvenne la prima fuga di notizie dei verbali di Amara. E a quanto pare, il primo momento in cui si accerta che qualcosa è sfuggito al controllo, risale al febbraio 2020, quando l’ex dirigente Eni Vincenzo Armanna viene trovato in possesso di un foglietto, probabilmente ricavato da una foto, che riproduce una pagina di quei verbali secretati. Una data quindi antecedente a quella, che possiamo collocare intorno ad aprile, in cui il pm Storari consegna i verbali non firmati a Davigo. Brescia dunque indagherà su Milano. Nel frattempo il procuratore di Milano Francesco Greco sta stilando una relazione dettagliata da inviare al Csm per ricostruire la gestione degli interrogatori di Amara.

Tra Storari e Greco si sarebbe infatti consumato uno strappo – che lo porta poi a coinvolgere Davigo in questa vicenda – dopo circa 4 mesi in cui il pm sollecitava di approfondire con l’iscrizione di alcuni indagati gli scenari delineati da Amara. Altra data certa: nel maggio 2020, circa sei mesi dopo le prime dichiarazioni di Amara, periodo in cui c’è anche un rallentamento delle attività dovute al Covid, Milano iscrive nel registro degli indagati – per violazione della legge Anselmi – Amara, il suo ex collaboratore Alessandro Ferraro e l’avvocato Giuseppe Calafiore.