Il dirigente Rai assunto in Agcom

Per i piani alti di Viale Mazzini è stato un gesto di cortesia istituzionale. E per l’Autorità per le comunicazioni, che quel beau geste ha molto apprezzato, il problema non si pone: che un dirigente dell’azienda del servizio pubblico televisivo vada in prestito come capo di gabinetto all’Agcom, non configura neppure potenzialmente alcun conflitto di interessi. E così il giornalista Giorgio Giovannetti che per mamma Rai è da anni un pilastro (è arrivato a ricoprire alti incarichi come quello al Gr Parlamento), potrà ora godersi un’aspettativa di sette anni. Che trascorrerà come braccio destro di Giacomo Lasorella, neo presidente Agcom (e nella sua vita precedente, vicesegretario della Camera) e con uno stipendio da leccarsi i baffi: oltre 173 mila euro lordi all’anno più gli extra che gli spettano come dirigente di quella Autorità che ha poteri di controllo sul suo datore di lavoro.

Ma non è questione di vil danaro anche se lo stipendio è di un certo peso e pure gli altri benefit: l’Agcom, per dire, continuerà ad alimentare la sua attuale posizione Inpgi e Casagit ché a dispetto del nuovo incarico di capo di gabinetto, resta pur sempre giornalista anche se l’indennità di fine rapporto gli sarà liquidata bypassando il fondo di previdenza complementare della categoria. Stipendi, emolumenti e rimborsi spese a parte però, la questione Giovannetti chiama in causa ben altro aspetto: cosa sarebbe accaduto se il presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni avesse chiesto a Mediaset di prestargli un capo di gabinetto? Non è che Lasorella non si sia posto il problema: prima ha interessato l’Anac che ha escluso l’incompatibilità di Giovannetti nel nuovo ruolo. Poi però al presidente è rimasto il dubbio. E così ha chiesto pure al comitato etico interno all’Autorità se fosse necessario adottare qualche precauzione, sicché comunque trattasi di un dipendente della Rai. Macché: tutto a posto, non sarà necessario porre alcun paletto. Al limite se proprio Giovannetti dovesse trovarsi in imbarazzo potrà sempre fare appello alla propria coscienza e dare prova della sua indipendenza da quell’azienda che resta casa sua. E dove tornerà, appena terminato il suo mandato in Agcom, fino alla pensione. In Rai l’aspettano a braccia aperte, va senza dire.

Anche se in pochi sapevano del suo trasloco: la sua aspettativa è stata decisa ai piani altissimi e “per assecondare una richiesta di Lasorella”. Ma qualcuno persino in Rai storce il naso: “Sarà pure tutto in regola, ma è una questione di opportunità: per tacere dell’aspettativa settennale legata al mandato di Lasorella: cosa assai anomala. Ma si può fare?”.

Consip: “Marroni attendibile”. Più in salita la strada per Lotti

Una motivazione lunga per una pena breve. Il 29 aprile scorso sono state depositate le 43 pagine delle motivazioni della sentenza con la quale il 29 gennaio il Tribunale di Roma ha condannato a 10 mesi, con i benefici della sospensione condizionale e della non menzione della pena, l’ex Comandante Generale dei Carabinieri, Tullio Del Sette. L’accusa era rivelazione di segreto e favoreggiamento. Del Sette, secondo i giudici di primo grado, “rivelava a Luigi Ferrara, presidente di Consip S.p.A., notizie che dovevano rimanere segrete in particolare l’esistenza di un’indagine penale avente ad oggetto l’imprenditore Alfredo Romeo ed i suoi rapporti”. Inoltre compiva anche il reato di favoreggiamento “perché rivelando a Luigi Ferrara i fatti (…) invitandolo inoltre alla cautela nelle comunicazioni a mezzo telefono (…) aiutava gli indagati di quel procedimento ad eludere le investigazioni”.

La sentenza arriva prima per Del Sette che per gli altri imputati a causa delle accuse di Luigi Marroni, ex amministratore delegato di Consip, per via della sua scelta del rito abbreviato. Le motivazioni potrebbero pesare ora nel procedimento contro l’ex ministro Luca Lotti, contro l’ex comandante regionale della Toscana dell’Arma, Emanuele Saltalamacchia, accusati anche loro di rivelazione di segreto e favoreggiamento e contro l’ex presidente di Publiacqua Filippo Vannoni, accusato di favoreggiamento.

Il grande accusatore di tutti è l’ex manager Marroni che però nel solo caso di Del Sette rimane confinato al ruolo di testimone ‘de relato’. Infatti l’ex Ad della centrale acquisti della pubblica amministrazione, come scrivono i giudici romani, ha riferito di avere saputo “in quattro diverse circostanze, di essere intercettato”. Lo ha saputo direttamente “da Vannoni Filippo (consigliere del Presidente del Consiglio dei Ministri, Renzi Matteo), dal Gen. Saltalamacchia Emanuele, dall’On. Lotti Luca e dal Presidente Ferrara Luigi”. Quest’ultimo però non era fonte diretta ma “gli aveva confidato di aver avuto analoghe informazioni dal Generale Del Sette Tullio”.

Il punto chiave è dunque la credibilità dei testimoni. Secondo le motivazioni della sentenza del presidente estensore Roberto Nespeca l’ex amministratore di Consip è credibile: “non vi è, peraltro, motivo di dubitare dell’attendibilità e della credibilità del Marroni sul punto, stante il tenore delle sue dichiarazioni che confermano la sincerità della ricostruzione offerta dal Ferrara il cui racconto risulta esauriente, anche se conciso”.

La difesa di Del Sette ha tentato in tutti i modi di minare la credibilità del testimone più traballante, cioé Luigi Ferrara. L’ex presidente di Consip il 20 dicembre 2016, aveva reso dichiarazioni che confermavano sostanzialmente le accuse ‘de relato’ di Marroni contro Del Sette. Poi però aveva tentato una marcia indietro con i pm romani. Salvo poi tornare ancora sui suoi passi.

Ferrara, scrivono i giudici nella motivazione, “ha poi negato che il Gen. Del Sette gli aveva parlato delle indagini, avendogli solo suggerito di stare attento, e ha spiegato che l’interrogatorio del 20 dicembre 2016 era stato molto teso, gli erano state mostrate le microspie, gli era stato detto che era stato ascoltato tutto e che il Pubblico Ministero, dott. John Woodcock, aveva fatto cenno all’arresto di un latitante pericoloso originario dello stesso paese del Ferrara”. Però Il Fatto il 22 dicembre 2016, ragionano i giudici, aveva riportato la notizia che Del Sette era indagato per le parole di Ferrara, questi però non fa nulla per scagionarlo per ben sei mesi.

“Il Presidente di Consip, stando a quanto dichiarato il 16 giugno 2017, pur consapevole di aver accusato il Comandante Generale dei Carabinieri di aver rivelato informazioni relative ad un procedimento penale, coperte da segreto investigativo (notizia trapelata alla stampa e immediatamente diffusa, con il conseguente clamore mediatico che ne è derivato), non si sarebbe consultato con un legale o con persone a lui vicine o di sua fiducia per rettificare o comunque per chiarire o precisare (…) simili chiarimenti sono stati, per l’appunto, resi solo quando i Pm di Roma hanno ritenuto, a distanza di diversi mesi, di convocarlo”. Per i giudici “deve, pertanto, ritenersi provato che il Gen. Del Sette, in un incontro con il Ferrara, prima dell’estate del 2016, abbia rivelato a quest’ultimo di un’indagine in corso che riguardava l’imprenditore Romeo Alfredo ed i suoi rapporti con i vertici Consip”.

C’è poi un’altra notizia negativa per Lotti, Saltalamacchia e Vannoni. Secondo i giudici di primo grado non è vero che non c’è il favoreggiamento quando si rivela l’esistenza di un’indagine a un soggetto (come Marroni e Ferrara) che non è indagato ma solo intercettato per scoprire reati di terzi. “Non rileva che l’imputato abbia fornito le notizie al Ferrara e non al Romeo, soggetto indagato e che egli non fosse a conoscenza, secondo la difesa, che esse sarebbero state riferite a detto imprenditore”. Per i giudici per configurare il dolo basta “la consapevolezza che la propria condotta si risolve in un aiuto a favore di chi si sa sottoposto alle investigazioni, essendo irrilevanti i motivi del comportamento tenuto”.

Grillo Jr, nuovi capi d’accusa. E dopo 2 anni si scopre: interrogato il tabaccaio “sbagliato”

Una sequenza di foto ricostruita in un modo più definito, in cui Ciro Grillo e gli amici Edoardo Capitta e Vittorio Lauria scattano immagini oscene con i telefonini, accanto a una delle due ragazze conosciute quella sera. R.B. è addormentata sul divano. Non si accorge di niente, forse anche per effetto dell’alcol assunto durante la lunga nottata, cominciata al Billionaire e terminata a casa del figlio del fondatore del Movimento Cinque Stelle. Contrariamente a quanto sembrava in un primo momento, adesso i magistrati hanno ricostruito come in quegli scatti compaiano a turno tutti e tre i ragazzi.

Quelle foto, di per sé, hanno portato a un’ulteriore accusa di violenza sessuale. In quel momento, intorno alle sei del mattino, secondo quanto denunciato dalla seconda ragazza, S.J., nella stanza accanto si consumava il primo stupro, da parte del quarto amico della comitiva dei genovesi, Francesco Corsiglia. Una seconda violenza sessuale, questa volta di gruppo, andrebbe in scena intorno alle 9 del mattino, ancora una volta ai danni di S.J. Agli inquirenti la studentessa ha raccontato che Grillo, Capitta e Lauria l’avrebbero obbligata a bere ciò che restava di una bottiglia di vodka che aveva un “odore strano”. Un particolare potenzialmente sospetto, ma difficile da approfondire anche per via del fatto che la denuncia è stata presentata a otto giorni di distanza dai fatti, avvenuti il 16 luglio del 2019. Dopo aver bevuto, per gli inquirenti, la giovane viene portata in camera da letto e costretta a un rapporto di gruppo. Secondo i difensori degli indagati, il video girato con il telefonino dagli indagati, dimostrerebbe che il rapporto era consenziente. Per i pm, il consumo di alcol è invece un tassello importante per dimostrare la minorata difesa della vittima e l’impossibilità a esprimere un consenso a quel rapporto. Agli atti delle indagini sono stati aggiunti altri accertamenti. Gli indagati hanno sempre sostenuto che a riprova del fatto che la serata si era svolta in serenità c’era il fatto che la mattina erano andati insieme a S.J. a comprare le sigarette. La polizia giudiziaria aveva provato a verificare questo particolare ma con la chiusura indagini è venuto fuori che era stato sentito il negoziante sbagliato. È stata così acquisita la nuova testimonianza, sebbene a due anni di distanza è improbabile che si riveli significativa.

Vannini, condanne confermate per la famiglia Ciontoli

La Cassazione ha confermato la condanna a 14 anni di carcere per Antonio Ciontoli, accusato dell’omicidio volontario di Marco Vannini. Confermate anche le condanne a 9 anni e 4 mesi per la moglie di Ciontoli, Maria Pizzillo e ai due figli Federico e Martina Ciontoli. La sentenza, è stata accolta da un lungo applauso e dalle lacrime della famiglia Vannini. Per i giudici fu omicidio volontario. I fatti risalgono al 18 maggio 2015. La vittima venne portata presso il pronto soccorso di Ladispoli a notte fonda, quasi due ore dopo essere stato colpito da un colpo di pistola sparato dall’arma che Ciontoli teneva in casa. Le sue condizioni erano ormai disperate: il proiettile, partito dalla pistola di Ciontoli mentre Marco, fidanzato di Martina, era ospite in casa, aveva provocato gravi ferite interne. Dopo il ferimento, i Ciontoli non fecero nulla per salvarlo. Antonio Ciontoli ammise che il ragazzo era stato colpito, per errore, da un proiettile, solo davanti al medico di turno. Se fosse stato trasportato subito in ospedale, è emerso dalle perizie, si sarebbe salvato.

Biscione-Vivendi, accordo dopo 5 anni di scontri

Dopo cinque anni di scontro, Mediaset, Fininvest e Vivendi hanno trovato ieri un accordo. I francesi, soci del gruppo televisivo con quasi il 30%, cederanno buona parte della loro quota. Si dovrebbe chiudere così uno scontro durissimo avviato nel 2016 quando il patron di Vivendi, Vincent Bolloré, stracciò l’accordo per rilevare la pay tv di Premium e iniziò un tentativo di scalata a Mediaset. La vicenda ha avuto strascichi legali e giudiziari (con un’inchiesta a Milano per aggiotaggio). I francesi, come detto, dovrebbero cedere un’ampia parte della quota detenuta, almeno il 19% abbondante ora congelato nella fiduciaria Simon, per rimanere con una quota che non consentirebbe azioni nelle assemblee straordinarie. Il prezzo dell’eventuale cessione è centrale. Nel novembre 2019 si era negoziato intorno a 3,7 euro per azione, il valore al quale i francesi hanno in carico i titoli Mediaset. Che così potrebbe trasferire la sede legale in Olanda. Con l’intento di creare una piattaforma dove Vivendi possa convergere nel caso si riaprisse il dossier dell’alleanza.

Mediaset spodesta Radio Città del Capo. Ultima emittente libera divorata da Subasio

Scompare una delle ultime radio indipendenti e libere: da ieri Radio Città del Capo, storica emittente bolognese, non trasmette più. L’ultima frequenza è stata venduta a Radio Subasio, del gruppo RadioMediaset. Dalla sinistra a Pier Silvio Berlusconi. Un epilogo tragico per un’emittente capace di fare della propria indipendenza politica una bandiera: negli anni 90 Radio Città del Capo lanciò uno dei primi crowdfunding popolari della storia raccogliendo mille sottoscrittori fedeli pronti a sostenerla. Nessuna censura, nessun limite, nessuna condizione. Anzi, una sì: quello di essere libera e di non appartenere a nessuno che non fosse editore puro, la cooperativa ‘Not Available’.

I soci sono quelli che la radio la fanno o la gestiscono. Una piccola ma solida comunità capace di animare il dibattito bolognese grazie a speaker sopra la media come Pino Cacucci, Bifo o i Luther Blissett, un gruppo di intellettuali e performer dalla cui sezione bolognese nasceranno poi i Wu Ming. Gli ascoltatori si trasformavano sotto la guida dei Luther Blissett in ‘inviati’ capaci di organizzare eventi surreali, come una festa su un autobus notturno alle 2 di notte. Altrettanto epica rimane la diretta di un concerto dei Nirvana in quel di Baricella, sperduto paese alle porte di Bologna. Nel 2012 la cooperativa di giornalisti, Not Avalaible, viene inglobata a costo zero dalla cooperativa Voli Group, attuale Open Group, una fusione che segna la fine. Nonostante le rassicurazioni, Radio Città del Capo viene smantellata rubrica dopo rubrica: Open Group, come recita il sito, è una “cooperativa multisettoriale, opera in ambito sociale ed educativo, nella gestione di patrimoni culturali, oltre che nella comunicazione e nell’informazione. Si occupa di disabilità, dipendenze, integrazione, emergenze abitative”. Settori molto distanti dall’editoria radiofonica. E infatti dopo poco viene venduta la prima frequenza a Rds e oggi la seconda, con tanto di impianti. Per Open Group però è un successo: “La vendita delle frequenze ci permette di investire per consolidare ‘Melting Pod’, il nostro progetto che sviluppa contenuti audio innovativi, narrativi e branded, rivolgendosi a imprese, cooperative ed enti pubblici impegnati in ambito sociale, culturale ed educativo, con un’attenzione particolare per la sostenibilità”.

Festa nerazzurra, Fontana&Salvini all’attacco di Sala

I festeggiamenti dei 30 mila interisti in piazza Duomo? Un evento previsto e tollerato, perché meglio prevenire incidenti che evitare contagi. Così ieri il prefetto Renato Saccone ha risposto riguarda alla calca dei tifosi registrata in alcune parti della città domenica. “Abbiamo valutato che chiudere piazza Duomo sarebbe stata inevitabilmente occasione di ancora più densi e rischiosi assembramenti”. Tradotto: visto che i tifosi non sono arginabili né in grado di comprendere che accalcarsi durante una pandemia è una pessima idea, abbiamo lasciato fare. Come era accaduto il 21 febbraio scorso prima del derby, quando interisti e milanisti si erano “affrontati” a San Siro. Con bandiere e fumogeni ma senza mascherine. E se non si vieta prima, non si interviene durante, “si opera per evitare incidenti di qualsiasi natura, per ridurre nei tempi le manifestazioni di festa, con il rispetto del coprifuoco, per salvaguardare le tante attività commerciali”, ha aggiunto Saccone.

La vicesindaca Anna Scavuzzo, chiamata in causa dalle opposizioni che ne chiedevano la testa, spiega: “Eravamo pronti sia domenica che per la settimana successiva. Non abbiamo avuto scontri. Non ci sono persone che si sono fatte male nonostante una folla totalmente acefala – ha aggiunto –, non avevamo organizzatori con cui discutere, non ci sono stati danneggiamenti”. Poi ha ricordato che lei in piazza non c’era, mentre c’erano i leghisti: “Silvia Sardone, Alessandro Morelli, Massimiliano Bastoni: loro hanno strizzato l’occhio alle tifoserie, non noi”. Sardone ha risposto di esser “andata per un sopralluogo”, ma le foto la immortalano con tanto di mascherina nerazzurra.

Le polemiche, comunque, non sono mancate sui social di Beppe Sala: dalle opposizioni (“Speriamo che situazioni del genere non abbiano determinato conseguenze e che in futuro si evitino scene così, perché rischiano di essere pericolose”, Attilio Fontana), dalle associazioni (genitori di “A scuola!”, organizzatori di matrimoni, artisti, esercenti delle sale da ballo e dei cinema, società di sicurezza privata) e dai medici. Che per la prima volta si sono trovati d’accordo nel definire l’accaduto un’idiozia che tra due settimane pagheremo con l’indice Rt. Il primo a parlare è Franco Locatelli, coordinatore del Cts: “I festeggiamenti erano da evitare”, seguito da Fabrizio Pregliasco: “Un’intemperanza inutile che potrebbe determinare un po’ di guai. Quando ci fu la vicenda del Napoli (altra folla calcistica, ndr) non abbiamo visto grossi guai, ma questa volta siamo in giallo e in una fase particolare. C’è un rischio reale”. Più tranchant l’interista Massimo Galli: “Questo tipo di manifestazioni sono pericolose”, il punto è che nel weekend “non ci sono state solo manifestazioni di una tifoseria, ma c’è stata la perdita di controllo delle minime misure: ieri gli assembramenti erano ovunque”. Per Matteo Bassetti invece sarebbe bastato far entrare “10 mila tifosi a San Siro tutti distanziati e controllati”. Stessa linea scelta da Matteo Salvini: “Sala non poteva far entrare 20 mila tifosi in uno stadio da 80mila, invece di tacere e scappare?”. Secca la risposta del sindaco: “No. Gli stadi sono chiusi. E poi, come entrano ed escono 20 mila senza assembrarsi?”.

Ora l’ansia è per Inter-Sampdoria dell’8 maggio. Così, mentre il sottosegretario Andrea Costa annuncia che si sta pensando di aprire gli stadi “per le ultime due giornate di campionato”, gli ultras hanno ordinato “di evitare manifestazioni presso i punti simbolo della città”. E per il 23 maggio, prima di Inter-Udinese, ultima partita di campionato, hanno promesso: “A San Siro ci sarà una mega festa scudetto. La Curva Nord preparerà qualcosa di sensazionale all’esterno dello stadio e festeggeremo insieme ai giocatori”. Milano è avvisata.

Draghi, gradimento in picchiata. Luna di miele finita in due mesi

Sarà che le aspettative erano troppo alte in partenza, sarà che nei primi due mesi l’esecutivo di Draghi ha dovuto scontentare molti perché governare nel mezzo di una pandemia non è un pranzo di gala. Però un tonfo così netto nei sondaggi Mario Draghi probabilmente non se lo aspettava. Secondo l’ultima rilevazione di Tecné-Dire, che ha fotografato l’andamento della fiducia nel presidente del Consiglio e nel suo governo da quando si è insediato, l’esecutivo ha perso ben 5 punti a cavallo di metà aprile, quando il governo ha deciso di riaprire alcune attività: il governo è passato da una fiducia del 51,2% al 46,7%. Anche la figura del premier è stata un po’ offuscata nei primi due mesi di governo: da febbraio il gradimento nei confronti di Draghi è sceso dal 61 al 52,1% (-9 punti). Tornando alla fiducia nell’esecutivo in totale, dal 13 febbraio, giorno del giuramento al Quirinale, il tonfo è di ben 12 punti: il gradimento degli italiani nel governo è passato dal 58,4% al 46,7% di oggi. Dopo un breve periodo di stabilità fino al 19 marzo (quando la fiducia nell’esecutivo era al 57,4%), il crollo è stato evidente: a inizio aprile il governo aveva perso altri 5 punti percentuali (52,1%) fino a scendere sotto la soglia psicologica del 50% alla fine del mese. E non è un caso che, dopo le prime settimane di ordinaria amministrazione, il governo abbia iniziato a perdere consensi quando ha dovuto prendere le prime decisioni divisive: il condono delle cartelle esattoriali, il decreto di fine marzo che ha chiuso l’Italia per tutto il mese di aprile, le polemiche su una campagna vaccinale che faceva fatica a decollare e il decreto successivo (dopo Pasqua) che ha previsto riaperture dal 26 in poi. Ma non per tutti – per esempio non per i ristoranti al chiuso, le piscine o le palestre – e comunque con limiti come il coprifuoco alle 22 che continuano a indispettire alcune forze di maggioranza, in particolare il centrodestra a trazione leghista. La luna di miele, insomma, è durata un mese o poco più.

Il crollo di 12 punti nei primi due mesi di governo però è quasi un record: analizzando il gradimento degli italiani nei confronti degli ultimi 6 governi, solo quello guidato da Mario Monti aveva avuto un crollo più ampio nei primi 60 giorni. Secondo i dati di Demos, che negli ultimi anni ha analizzato il dato tendenziale del gradimento dei governi, l’esecutivo tecnico chiamato a “salvare” l’Italia nel 2011 dopo gli anni di Berlusconi era apprezzato da 8 italiani su 10 nel giorno del suo insediamento (il 78%), un dato anomalo visto che solo dieci giorni più tardi il dato era già sceso al 65%, e dopo due mesi la fiducia era scesa di 20 punti arrivando al 58%. Nel mezzo il governo aveva approvato una legge di Bilancio lacrime e sangue e il ministro del Lavoro Elsa Fornero aveva annunciato la stretta delle pensioni con una legge che poi prese il suo nome ed è stata tra le norme più odiate negli ultimi decenni. Un monito per il governo Draghi che, per quanto differente da quell’esecutivo perché formato da politici e non solo tecnici, è guidato da una figura simile a quella di Monti. Con un’aggravante in più: se l’esecutivo dell’economista della Bocconi era nato per “mettere a posto” i conti e per approvare misure economiche e sociali impopolari, quello di oggi i soldi deve distribuirli – seppure nel bel mezzo della pandemia – con gli oltre 200 miliardi di fondi Ue del Recovery Plan.

L’altro governo che nei primi 60 giorni aveva perso più consenso, ma meno dell’esecutivo di Draghi, è stato quello di Enrico Letta, partito nell’aprile 2013 dopo il boom del M5S alle elezioni politiche, la difficoltà di formare un governo ma soprattutto dopo la rielezione di Giorgio Napolitano al Quirinale mal digerita da buona parte dell’elettorato grillino. Letta, a capo di un governo di larghe intese con Forza Italia, nei primi due mesi (piuttosto anonimi) era passato da una fiducia del 53 al 43%. In lieve calo anche il Conte II che tra il settembre 2019 e il novembre successivo (dopo la batosta elettorale della coalizione giallorosa in Umbria) aveva perso un punto passando dal 44 al 43%.

Chi invece ha guadagnato consensi nei primi 60 giorni sono stati gli altri tre governi degli ultimi dieci anni: in primis l’esecutivo del rampante Matteo Renzi che, insediato da pochi giorni, aveva annunciato “una riforma al mese” e gli 80 euro in busta. La scia di quel consenso nei primi mesi (dal 56 al 60%) poi portò all’exploit del Pd renziano alle europee del maggio 2014 con il 41%: da lì iniziò la fase discendente fino alla sconfitta nel referendum del 2016. Anche il governo Gentiloni, partito in sordina per traghettare il Paese al voto dopo l’era dell’ex sindaco di Firenze, guadagnò 5 punti percentuali in due mesi (dal 38 al 43%) e lo stesso successe al Conte I (Lega-M5S) che approvò subito il decreto Dignità voluto dal M5S. Poi il Paese fu colpito dalla tragedia del Ponte Morandi e gli italiani si strinsero, come avviene nei casi emergenziali, intorno all’esecutivo.

Testa o frocio

A gentile richiesta di molti lettori, e solo per quella, provo a dire la mia sul gran frastuono attorno a Fedez, alla legge Zan, al caso Rai e al monologo scorretto di Pio e Amedeo. Premessa: a me gli artisti che non si fanno gli affari propri ma dicono la loro anche su temi politici divisivi piacciono sempre a prescindere, perché vanno contro i loro interessi commerciali (dividono il pubblico). Se poi lo fanno anche con passione e intelligenza, tanto meglio: suscitano dibattito molto più dei politici, segno che hanno molto più da dire di loro.

Legge Zan. In un Paese decente, non c’è bisogno di una legge contro l’omofobia: bastano quelle contro chi minaccia o diffama. Idem per la legge Mancino contro chi incita all’odio e alla discriminazione razziale e religiosa. Ma in Italia (e non solo) da qualche anno è montata un’incultura, che la Lega e i suoi trombettieri amplificano e legittimano, contro i “diversi” per sesso o etnia. Quindi purtroppo una legge ci vuole. La pena però non dev’essere la galera, ma una versione 2.0 dei lavori forzati: studiare a memoria e declamare in piazza, secondo i casi, le poesie di Sandro Penna e Se questo è un uomo di Primo Levi.

Fedez. Ha fatto benissimo a dire ciò che pensa (fra l’altro documentato carte alla mano) e i gerarchetti di Rai3 malissimo a tentare di impedirglielo (a proposito: dov’era il direttore Pampers Di Mare?). Ma i politici di sinistra indignati per la tentata censura cosa avrebbero detto se un artista fosse andato in Rai ad attaccare loro? Quando i politici, tutti, impareranno a non occuparsi dei palinsesti televisivi e a tacere sarà sempre troppo tardi.

Pio&Amedeo. Sotto quel travestimento da buzzurri, si nascondono due comici raffinati (come Checco Zalone). Infatti han detto col linguaggio più basso la cosa più alta di tutte: il razzismo e l’omofobia non risiedono tanto nelle parole, quanto nella testa di chi le usa. Omofobo non è chi dice “frocio” né chi ci scherza: è chi odia i gay e ne parla con cattiveria. Le migliori battute sui gay le fanno i gay, anche definendosi “froci”. Il nostro compianto Paolino Isotta lo era, ma pretendeva di essere chiamato “recchia” o “recchione”. Omofobo pure lui? Lo stesso vale per l’antisemitismo: le più belle battute sugli ebrei sono quelle che gli ebrei si fanno da soli (la grande tradizione yiddish). Perché non dovrebbero poterle fare anche i non ebrei? Dipende sempre dallo spirito, dai toni, cioè dalla testa. Si può, anzi si deve scherzare su tutto. Altrimenti diventa omofobo pure Totò. E i fratelli Grimm, con i sette nani, erano body-shamer.

Rai. Cambiare i vertici senza levarla al governo di turno serve solo a sostituire gli attuali camerieri con altri camerieri. Che magari non sono nati camerieri. Ma lo diventano appena ci entrano.

“Madre, le donne mi danno la caccia. Tuo, Martin”

 

Poche persone si sono spese più di Martin Luther King Jr. nella lotta per l’emancipazione degli afroamericani […]. King Jr. adorava sua madre, Alberta. Nel 1948, durante il suo primo semestre al Crozer Theological Seminary di Upland, in Pennsylvania, le scrisse questa lettera e le confidò il suo amore.

Cara madre, la tua lettera mi è stata recapitata questa mattina. Spesso spiego ai ragazzi in giro per il campus che ho la madre migliore del mondo. Non puoi capire quanto io apprezzi le tante gentilezze che tu e papà mi riservate. Finora ho ricevuto ogni settimana il denaro (5 dollari). […] Mi scrivi che le mie lettere sono avare di notizie. È che non ho chissà quali novità. Non vado mai da nessuna parte e non faccio molto a parte stare su questi libri. A volte il professore entra in classe e ci dice di leggere i nostri [illeggibile] compiti in ebraico, ed è davvero dura. Hai presente la ragazza con cui uscivo a Spelman (Gloria Royster)? Studia alla Temple e sono andato a trovarla due volte. Ho anche conosciuto una tipa niente male a Phila che è impazzita per il sottoscritto. Da quando Barbor ha detto ai membri della sua chiesa che la mia famiglia è ricca, le ragazze mi danno la caccia. Non penso mai a loro, ovviamente, sono troppo preso dallo studio. Ceno spesso dai Barbor. Lui è simpaticissimo, una delle migliori menti che abbia mai incontrato. Non ho ancora avuto tempo di contattare gli amici che hai da queste parti. Ma può darsi che a breve lo faccia. Spero spiegherai ai membri perché non ho scritto a nessuno. […] Credo debba tornare a studiare. Saluta tutti. Tuo figlio

 

Nel 1890, cinquant’anni prima di guidare il Regno Unito alla vittoria della Seconda guerra mondiale contro la Germania nazista, il quindicenne e futuro primo ministro Winston Churchill vivacchiava con distrazione e pigrizia alla Harrow School di Londra. Sua madre, Lady Randolph Churchill – notoriamente severa, che lui sostenne di aver amato “con tenerezza, ma da lontano” – a giugno si trovò di fronte a una pagella che la lasciò ben poco entusiasta. Incapace di controllare le proprie parole, reagì con questa sua tipica e incauta lettera, una delle tante che scrisse nel corso degli anni. […]

Carissimo Winston, sto inviando questa lettera con [la tata] Everest, che vedrà come te la stai passando. […] Ho molto da dirti, e temo non di piacevole natura. Sai quanto detesti scovare in te delle mancanze, tesoro, ma questa volta non posso evitarlo. Tanto per cominciare tuo padre è molto arrabbiato per aver atteso un’intera settimana un cenno da parte tua per il suo regalo di cinque sterline, e per poi averlo ricevuto con quella incurante e distratta lettera. La tua pagella, che allego, è molto brutta, come vedrai. Se continui a lavorare in modo tanto discontinuo e caotico sarai il peggiore della classe. Guarda il tuo voto nello stile! Non riesco a esprimere quanto io e tuo padre siamo delusi. […] Mi rendi molto infelice. Avevo per te speranze così grandi, ero così fiera, e adesso è tutto svanito. L’unica mia consolazione è la tua condotta, e che sei un figlio affettuoso, ma il tuo rendimento è un insulto alla tua intelligenza. Sono sicura che potresti avere tutto ciò che desideri, se solo riuscissi a delineare un programma, ed essere determinato nel portarlo avanti. È questa tua incuranza, la tua più grande nemica. […] La tua amorevole ma scocciata madre.

 

Nel 1973, quando era ancora agli inizi di una lunga e illustre carriera cinematografica, Danny DeVito ottenne una parte in un film perlopiù dimenticato, “Un magnifico ceffo da galera”, diretto e interpretato da Kirk Douglas che era già un’amata leggenda di Hollywood. All’uscita l’accoglienza fu tiepida, a voler essere generosi. Ma nessuno al mondo ne era più fiera della madre di DeVito, Julia, che subito dopo averlo visto spedì una tenera lettera a Douglas. […]

Gentili Sig. e Sig.ra Douglas, sono la madre di Danny DeVito e desidero ringraziarvi entrambi per avere assegnato a mio figlio una parte nel vostro film, “Un magnifico ceffo da galera”. La mia famiglia al completo lo ha visto al Paramount di New York. Lo abbiamo trovato grandioso. Amici e parenti che lo hanno visto in Florida non fanno che chiamarmi dicendo che anche Danny è grande […]. Qui nel New Jersey, metà di Asbury Park ne aspetta l’arrivo. Mia figlia ha un salone di bellezza a Neptune con dentro esposto un cartello: “Un magnifico ceffo da galera prossimamente in questa città”. Come vede gli facciamo un sacco di pubblicità. […]