Napoli, Intesa vende il Monte di Pietà (ma si può impedire)

C’è ancora qualcuno che crede alla favola delle banche mecenati dell’arte, amiche della cultura, costruttrici di civiltà? Certo, è un mito un po’ invecchiato se per difenderlo bisogna sempre invocare il mito del Rinascimento “creato” dalla banca dei Medici. E il punto non è tanto che è un po’ curioso difendere il presente attraverso un caso di mezzo millennio fa, quanto che allora l’urgenza morale, la spinta interiore, di Cosimo il Vecchio era quella di restituire alla collettività un denaro che sentiva di averle sottratto. Mentre oggi, al contrario, le banche massimizzano i profitti calpestando allegramente l’interesse pubblico. Ultimo, clamoroso caso: Banca Intesa che vende il Monte di Pietà di Napoli, ricevuto in dote con tutto il patrimonio del Banco di Napoli. C’è una buona dose di ironia, in tutto questo: visto che il Monte di Pietà nasce (nel 1539) per offrire prestiti su pegno senza interessi.

Ora a pagare un interesse altissimo su questa storia di coesione sociale è la città di Napoli, che rischia di perdere un pezzo straordinario del suo corpo, conficcato nei Decumani, carico di storia e di arte: scandito dai monumenti e dalle pitture di Pietro Bernini, Belisario Corenzio, Battistello Caracciolo, Cosimo Fanzago, Giuseppe Bonito, Francesco De Mura e moltissimi altri. Una pietra miliare nella storia del credito, e della sua funzione sociale, una storia in cui miseria e nobiltà, disperazione e generosità si intrecciano in modo indissolubile: e forse proprio per questo ormai estranea a un mondo bancario che di sociale (anzi, di umano) non ha davvero più nulla.

Ci sarà tempo per interrogarsi sulla strategia di Intesa San Paolo, che fonda le pompose Gallerie d’Italia e poi mette sul mercato pezzi unici d’Italia, avviandoli alla privatizzazione, alla lottizzazione, alla rimozione dalla storia e dalla cultura collettiva.

Ora, però, la priorità è salvare il Monte di Pietà: come chiede la Napoli che da giorni manifesta per strada, cercando disperatamente di attirare l’attenzione di un Paese che si è appena messo nelle mani del Banchiere per eccellenza.

La prima cosa che il Ministero della Cultura dovrebbe fare, sarebbe applicare l’articolo 56 del Codice dei Beni Culturali negando a Intesa San Paolo l’autorizzazione a vendere un bene che è ancora sostanzialmente demaniale: infatti, quando (nel 2002) Banca Intesa (soggetto privato) ha ereditato il Monte di Pietà dal Banco di Napoli (soggetto pubblico) l’edificio era già stato vincolato (nel 1995) come bene culturale, e quindi (nel 2003) le sue raccolte furono dichiarate indivisibili e inamovibili. La via maestra è, allora, politica: con quale faccia il ministro Franceschini potrebbe ripresentarsi a Napoli dopo aver autorizzato una banca ricca e potente a privatizzare un luogo simbolo della cultura, della pietà, dell’arte partenopee? È dunque al vertice del Ministero della Cultura che devono indirizzarsi le trasparenti pressioni di chi ha a cuore il futuro di Napoli.

Una seconda cosa che bisogna chiedere, alla Soprintendenza di Napoli e alla Direzione Generale Archeologia e Belle Arti del Ministero, è quella di vincolare la destinazione del complesso: escludendo che vi si possano collocare alberghi o condomini di lusso o centri commerciali, legandolo invece a una destinazione non incompatibile con la sua storia, e cioè ad una destinazione culturale.

Infine, sul medio e lungo periodo la soluzione definitiva potrebbe venire da un acquisto pubblico: evidentemente per un prezzo tenuto ragionevolmente basso grazie al potere dello Stato di proibire la vendita a privati. Se il Ministero della Cultura lo comprasse, potrebbe unirlo al complesso dei Girolamini (che dista 400 metri, e dunque 5 minuti a piedi), appena divenuto istituto autonomo. Si verrebbe così a creare uno straordinario polo della cultura, dell’arte e della storia sociale della città di Napoli: un luogo in cui studiare e conoscere le forme assunte, tra Cinque e Settecento, dalla sollecitudine per la povertà materiale e spirituale della più grande metropoli italiana. Sarebbe anche un modo concreto, per il Ministero, di chiedere scusa a Napoli per il saccheggio della Biblioteca dei Girolamini scoperto nel 2012, e denunciato da chi scrive su questo giornale. Quel massacro fu possibile grazie alla cecità, alla pavidità e al servilismo dei vertici romani del Ministero: ed è giunta l’ora di riscattarsi.

Certo, potrà sembrare paradossale che sia il tanto vituperato Stato a salvare un monumento messo in pericolo dalla speculazione di una banca: la retorica corrente vorrebbe che fosse vero esattamente l’inverso, e cioè che fossero le generose e buone banche a soccorrere le esangui casse pubbliche, nell’interesse generale. Ma è, appunto, vuota retorica: banche e banchieri non danno, ma prendono. Non salvano nemmeno le loro stesse proprietà: figuriamoci un Paese.

Gennaro Musella. L’imprenditore ucciso dai clan e il “malloppo” in arrivo dall’Europa

E chi se lo ricorda più quel 3 maggio del 1982? Non fa nemmeno cifra tonda. Una specie di numero grigio. Fosse il quarantesimo anniversario… E invece vorrei qui ricordarlo. Per la storia che finì quel giorno. La storia di Gennaro Musella, imprenditore salernitano trasferitosi in Calabria negli anni settanta. Una vicenda esemplare. Musella, padre di quattro figli, aveva portato tutta la famiglia a Reggio, coltivando progetti di sviluppo della sua impresa che avrebbero fatto il bene della Calabria. Si stimava che la sua fosse la seconda impresa di edilizia marittima del sud. In qualsiasi contesto bisognoso di occupazione sarebbe stato accolto come un pubblico benefattore. Ma non era quello il caso. Lo ebbe ben chiaro quando partecipò alla gara per costruire il nuovo porto turistico di Bagnara, mar Tirreno nella provincia di Reggio. Preparò il suo progetto con perizia e amore, convinto di avere qualità, strutture e genio per vincerlo.

Invece lo perse. L’appalto andò a una impresa siciliana. Questioni di prezzo, di massimo ribasso. Musella non era uno stupido e capì d’istinto che quel prezzo non era sostenibile da un’impresa sana. E contestò scientificamente la propria esclusione a opera dell’azienda vincitrice, legata a Carmelo Costanzo, uno dei celebri “cavalieri del lavoro” che allora impazzavano nell’economia meridionale godendo di altrettanto celebri appoggi mafiosi. Come fa a mettere questa cifra per il personale se con il contratto collettivo di lavoro il costo minimo degli operai è molto più alto? Come fa a mettere questi costi delle materie prime se un quintale di qualità minima al più basso prezzo di mercato costa molto di più di quel che figura nel preventivo? Insomma tanto precisamente obiettava e tanto decisamente evocava il broglio che costrinse a rifare la gara. Allora succedeva. Oggi sarebbe impossibile, facce di bronzo crescono. Musella si preparò al nuovo bando. Ma avrebbe vinto un’altra azienda catanese legata al gruppo Graci, di nuovo i cavalieri del lavoro. Stavolta non fece in tempo a verificare i conti della concorrenza perché prima della chiusura della gara, giusto quel 3 maggio, venne fatto saltare in aria, una bomba esplose sulla sua mercedes alle 8 e mezzo del mattino.

La giustizia chiuse i battenti su quell’omicidio. Secondo un rapporto dei carabinieri vi era di mezzo un potente clan reggino, i De Stefano, voglioso di fare un favore al boss catanese Nitto Santapaola e all’imprenditoria etnea, sua alleata e ormai protesa al di fuori della Sicilia. Fin qui abbiamo però “solo” e giustamente ricordato un imprenditore onesto e coraggioso.

Ma credo che se mi è venuto in mente proprio lui sia anche per un’altra ragione. Ed è che ci stiamo preparando con qualche timore a gestire i fondi in arrivo dall’Europa per rimediare al disastro sociale e sanitario in cui siamo stati precipitati dalla peste cinese. E ci chiediamo (non tutti, in realtà) come evitare che questi fondi finiscano nelle mani dei clan, che siano le loro imprese a vincere appalti e soprattutto subappalti.

Ebbene, io sogno cento, mille Gennaro Musella al servizio della nostra pubblica amministrazione che, in chiusura di ogni gara, ma proprio di ogni gara, quando si metteranno a confronto le varie offerte, impediscano alle oche giulive di andare diritte sulla busta contenente il prezzo più vantaggioso. E prima che sia proclamato il vincitore si mettano a fare il quarto grado ai numeri. Come è possibile la somma “x” con tot operai a questo salario? Con tot quintali a questo prezzo d’acquisto? Questa sarebbe la selezione ideale. Non le scartoffie che stroncano qualunque imprenditore onesto, ma le competenze che stroncano qualunque imprenditore mafioso. Ecco, ora mi è più chiaro perché mi è venuto in mente quel 3 maggio di 39 anni fa. Perché parla al nostro futuro prossimo. Non solo alla memoria.

 

Iraq e Unesco. Mosul dopo l’Isis vuole di nuovo la sua moschea

L’Unesco ha annunciato che un progetto presentato da otto architetti egiziani ha vinto il concorso internazionale per la ricostruzione dello storico complesso della moschea Al-Nouri di Mosul. Il complesso è una componente chiave del progetto “Revive the Spirit of Mosul” per la ricostruzione dell’antica città dopo la sua liberazione nel 2017 dallo Stato Islamico. Il progetto vincitore “Courtyards Dialogue” – frutto del lavoro un team guidato da Salah Hareedi, professore di architettura nella facoltà di Belle Arti dell’Ateneo di Alessandria – è stato uno dei 123 presentati da architetti di tutto il mondo. La moschea, dove l’ex leader dell’Isis Abu Bakr al-Baghdadi, fece la sua prima apparizione pubblica il 4 luglio 2014, è stata sostanzialmente distrutta durante la battaglia per la liberazione di Mosul del 21 giugno 2017 tra jihadisti da una parte e forze irachene e Usa dall’altra. La moschea, che risale al 1172, era famosa per il suo minareto pendente, che era stato uno degli ultimi elementi originali rimasti. Mentre i testimoni dicono che l’Isis fece esplodere la moschea durante la battaglia prima che la città fosse riconquistata dalle forze governative e un video lo conferma, Daesh ha affermato senza prove che la struttura è stata distrutta dai raid aerei statunitensi. L’Unesco lanciando un concorso internazionale per la ricostruzione del complesso della moschea Al-Nouri aveva chiesto ai partecipanti di presentare un progetto – entro marzo – che tenesse conto della conservazione delle strutture in piedi della sala di preghiera della moschea, della loro integrazione nel piano e del ripristino di una serie di edifici storici. I membri del team hanno studiato la storia della moschea, la vita sociale nelle aree circostanti il complesso e il clima della zona, lavorando duramente per soddisfare la visione dell’Unesco per la rinascita della moschea come fonte di speranza per i residenti di Mosul e dell’Iraq in generale. Il nome “Courtyards Dialogue” è stato scelto perché il progetto non si limita alla moschea, ma include anche un’area adiacente che coinvolgerà edifici scolastici, una sala per seminari e un museo per la moschea.

 

La Total è green per finta: non riduce i veleni ma pianta alberi

In Repubblica del Congo, Total sta facendo crescere delle piccole piante di acacia, destinate ad un grande avvenire: dovranno trasformare in foreste gli altopiani sabbiosi Batéké, al confine con il Gabon, per salvare il pianeta e sviluppare la regione. È uno degli ultimi progetti green della multinazionale francese che punta a diventare la “major dell’energia responsabile”. Da un anno a questa parte, il gruppo energetico dice di voler puntare alla neutralità carbonica nel 2050, perché “il cambiamento è in atto”. Questo suo obiettivo non gli impedisce comunque di aumentare la sua produzione di combustibili fossili del 15% entro il 2030. A questo ritmo i termometri del pianeta esploderanno. Per limitare l’innalzamento delle temperature al di sotto degli 1,5°C, gli esperti ritengono che sia necessario ridurre immediatamente la produzione di idrocarburi. Total invece ha trovato un modo per ridurre le sue emissioni senza ridurre immediatamente la produzione di idrocarburi: “Total – si legge nel suo ultimo rapporto sul clima – intende bilanciare l’impronta di carbonio delle proprie attività attraverso delle emissioni negative”.

In altre parole, parte della strategia della multinazionale si basa sulla “compensazione di C02”. Sul nostro pianeta, il ciclo del carbonio è la base dell’equilibrio climatico: alberi, mari e suolo “compensano” il CO2 rilasciato in natura. L’idea è dunque di moltiplicare i “pozzi di assorbimento del carbonio” naturali per compensare parte delle emissioni antropiche e recuperare in questo modo la neutralità carbonica preindustriale. All’origine di questo principio ci sono climatologi e ambientalisti. Chi inquina lo ha subito adottato. Nel caso della compensazione “artificiale” all’interno di un mercato, ogni tonnellata di CO2 assorbita permette di acquisire un “credito di carbonio” da parte di un ente certificato. Questo “diritto a inquinare” è stato inventato alla fine degli anni 80. “Dopo il boom della metà degli anni 2000, il mercato del carbonio ha rallentato – spiega la sociologa Alice Valiergue -, ma gli affari riprendono e le promesse di neutralità aziendale hanno alimentato un volume record di transazioni”. Nel 2020, malgrado la pandemia Covid-19, i volumi potrebbero superare quelli del 2019. In teoria, Total, se riesce a ottenere un numero di crediti di carbonio pari alle tonnellate di CO2 che emette con le sue attività, potrebbe rivendicare la neutralità carbonica senza modificare il suo modello di produzione fossile. La multinazionale è al primo posto per le emissioni di CO2 tra le aziende del CAC40, principale indice di borsa francese, con circa 450 milioni di tonnellate di CO2 rilasciate ogni anno. Per eliminare milioni di tonnellate di CO2, “il modo più efficace oggi, per meno di 10 dollari la tonnellata, è la riforestazione”, ha spiegato Patrick Pouyanné, AD di Total, al forum Rencontres économiques di Aix-en-Provence, nel 2019. “Le foreste sono strategiche”, conferma una fonte interna. Del resto anche i concorrenti, Shell, BP o ENI, si interessano ormai alle foreste. Per portare a termine il suo progetto, il gruppo francese ha creato una nuova business unit, la Total Nature Based Solution, con un budget di 100 milioni di euro all’anno. Il primo grande progetto è stato presentato a marzo: la creazione di una foresta di quasi 40.000 ettari sugli altopiani Batéké, nella Repubblica del Congo. “Rappresenterà un pozzo di assorbimento di carbonio di oltre 10 milioni di tonnellate di CO2 assorbite in vent’anni”, assicura Total.

Su carta, il progetto, realizzato in collaborazione con il governo di Brazzaville, è lodevole: “Gli altipiani Batéké in Congo offrono un formidabile mezzo di lotta contro il cambiamento climatico per il pianeta e un’opportunità unica di sviluppo socio-economico per il paese”, sostiene Bernard Cassagne, AD di Fôret Ressources Management, partner di Total nel progetto. Ma sarà difficile mantenere le promesse. Primo grosso problema: la Terra non è abbastanza grande. Secondo le proiezioni del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC), in un mondo senza deforestazione e in cui sarebbero stati piantati alberi un po’ ovunque, le foreste e i suoli potrebbero assorbire quattro gigatonnellate di emissioni di CO2 entro il 2050, appena sufficienti a compensare le nostre emissioni non riducibili, per pervenire all’equilibrio climatico. “Le aziende che investono nelle foreste dovrebbero farlo per contribuire alla neutralità del pianeta non per annullare la propria impronta”, osserva César Dugast, della società di consulenza Carbone 4. Total dovrebbe cioè piantare alberi per compensare le emissioni di CO2 degli allevamenti o dell’agricoltura. C’è anche un altro problema: un albero non vale un barile. In sostanza, quando Total emette una molecola di CO2, una parte di essa rimarrà nell’atmosfera per un tempo molto lungo, fino a diversi secoli, e per tutto questo tempo contribuirà al riscaldamento globale. L’albero, invece, cattura la molecola di CO2 solo lungo il suo variabile arco di vita. E per compensare le emissioni del gruppo, le acacie di Total dovrebbero vivere almeno 100 anni. Ma il tasso di mortalità degli alberi potrebbe aumentare in modo significativo con il riscaldamento climatico. Con l’aumento di due gradi della temperatura del pianeta, la maggior parte delle foreste potrebbero persino perdere il loro ruolo di “pozzi di assorbimento di carbonio”. Sarà così per i tre quarti delle foreste tropicali, come dimostrato da una ricerca di un team internazionale di 225 scienziati pubblicata nel maggio 2020 sulla rivista Science. “Un’azienda non può contare sulle foreste per ridurre le proprie emissioni a lungo termine”, sostiene Julia Grimault, responsabile del progetto “foresta, agricoltura e clima” dell’Istituto di Economia per il clima (I4CE). “La neutralità ecologica è diventata uno slogan – aggiunge l’economista Harold Levrel, specialista del CIRAD, Centro di ricerche agricole per lo sviluppo -. A livello di Total, la neutralità è irraggiungibile”. In realtà Total ne è consapevole: “La riforestazione non è una soluzione di compensazione prioritaria nella lotta contro il cambiamento climatico”, ammette un dirigente del gruppo. Una cattiva idea che si è fatta comunque strada nelle teste dei superdiplomati manager della multinazionale. Ma convertire un albero in tonnellate di carbonio su un foglio di calcolo è una sfida.

Gli esperti possono prevedere la capacità di assorbimento di una monocultura a crescita rapida. Ma piantare milioni di palme o di eucalipti non è la migliore soluzione per il pianeta. “L’ottimizzazione dell’impronta di carbonio può essere disastrosa per la biodiversità, i suoli e il ciclo dell’acqua”, sostiene Arnaud De Grave della start up EcoTree. La scelta migliore sarebbe di ricorrere ai metodi più conservativi. Ma gli industriali hanno piuttosto “interesse ad adottare metodi di ottimizzazione per generare più crediti di carbonio possibile”, spiega Alain Karsenty, economista del CIRAD. Stando ai suoi calcoli, Total spera di ottenere 10 milioni di crediti di carbonio nel corso dei prossimi vent’anni, pari a 10 milioni di tonnellate di CO2 assorbite in questo arco di tempo. “È comunque del C02 che non finirà nell’atmosfera nel 2040. Meno carbonio significa meno riscaldamento globale”, sostiene un dipendente di Total, prendendo le difese del gruppo. Se Total non riuscirà a “compensare”, sarà riuscito almeno a guadagnare del tempo prima che arrivi il punto di non ritorno. Anche gonfiando i pronostici, la nuova foresta di Total “compenserà” solo lo 0,1% delle emissioni annue del gruppo al ritmo attuale. Anche se Total raggiungesse il suo obiettivo di 5 milioni di tonnellate di CO2 assorbite ogni anno nel 2030, grazie a un investimento colossale di oltre un miliardo in dieci anni, arriverebbe solo all’1%. Ma l’azienda ci crede: “Noi industriali viviamo in un mondo artificiale in cui si controlla quasi tutto – ha detto un ex manager di Total – e vogliamo far entrare la lotta contro il riscaldamento globale in questo algoritmo. Non è cinismo, è convinzione”.

 

Bitcoin. Non è una moneta, ma un nuovo modo di investire che non difende i propri risparmi

A sentire alcuni pretesi esperti, una quota dei propri risparmi andrebbe messa in bitcoin, ormai sdoganato come un investimento alla stregua di altri. Esso fungerebbe addirittura da riserva di valore. Sconsiglio caldamente dal dare retta a tali esortazioni, di soggetti quasi sempre in conflitto d’interesse: intermediari che guadagnano sulle compravendite o docenti di corsi sulle cosiddette criptovalute, sciaguratamente anche in ambito universitario.

Chiariamo, dunque, alcuni punti. Il Bitcoin non è una moneta o valuta. Non è un mezzo di pagamento, che è una delle tre funzioni della moneta. Né è un’unità di conto, altra funzione precipua della moneta: in nessuna parte del mondo i prezzi di merci e servizi sono espressi in bitcoin, salvo forse in ambito criminale: tariffario di un killer, listino di materiale pedopornografico ecc. Alcuni accettano pagamenti in bitcoin, ma mica li usano nei loro listini. Analogamente negozi di Roma o Venezia da decenni accettano pagamenti in dollari, avendo però i prezzi base in euro, in passato in lire.

I bitcoin e le altre criptovalute rientrano in una nuova categoria di investimenti, aggiuntasi a quelle tradizionali: immobili, azioni e valute, ma quelle vere: euro, dollaro, yen ecc. In particolare il bitcoin è un’attività altamente speculativa, soggetta cioè a sbalzi di prezzo vistosi e repentini. Come un crollo del 40% in due giorni nel dicembre 2017. Può anche salire molto e, quindi, poi precipitevolissimevolmente cadere o comunque correre tale rischio. Tutto ciò mal si concilia col fungere da riserva di valore, terza funzione della moneta, che alcuni in buona o mala fede gli attribuiscono.

Riserva di valore per eccellenza sono i contanti, come ripete alla noia la banca centrale tedesca, la Bundesbank; e quindi gli euro per un italiano. Tutto sommato anche i dollari o le sterline, benché con fluttuazioni di cambio. Volendo l’oro, che presenta analogie in negativo col bitcoin: non è una moneta, è privo di valore legale, esiste sulla terra in quantità limitata. In compenso poggia su una storia lunga qualche migliaia in più di anni. Come si spiega il successo del bitcoin? Per cominciare con un pot-pourri di misteri sulla sua origine, assurde analogie con l’estrazione dell’oro, pulsioni anarco-liberiste, mitologie algoritmo-informatiche ecc. Su ciò si è sviluppato il meccanismo tipico delle bolle speculative, con rialzo che tira rialzo, tanto che si leggono baggianate del tipo “il valore del bitcoin è destinato a crescere nel tempo” (Corriere della Sera, 1-3-2021). Cosa invece tutt’altro che scontata. Un’autorevole scuola di pensiero lo ritiene anzi una versione digitale delle catene di sant’Antonio o schema Ponzi.

Poi ognuno è libero di comprare bitcoin come di dedicarsi al trading online; anzi, non si vedono differenze sostanziali. Si può guadagnare tanto o perdere tutto. Buona fortuna!

 

 

 

Tassare i ricchi più dei poveri. Stavolta non seguiamo gli Usa?

La trickle-down economics non ha mai funzionato. È il momento di far crescere l’economia in modo inclusivo, dal basso verso l’alto e allargando il ceto medio”. Davanti al Congresso, mercoledì il presidente degli Usa Joe Biden ha liquidato così la teoria economica che ha dominato gli Usa negli ultimi 40 anni: l’idea che ogni misura a vantaggio dei ceti più abbienti stimolerà l’economia con effetti positivi che un po’ alla volta verranno avvertiti da tutti (uno “sgocciolamento”, appunto, verso il basso). Questa fallace teoria ha spinto negli anni a ridurre le tasse alle imprese – con l’aliquota per l’imposta sui redditi delle società scesa dal 46% nel 1979 al 21% oggi e quella massima sui redditi più alti scesa dal 70% nel 1979 al 37% – ma è stata smentita dai dati. Un recente studio della London School of Economics sugli effetti della riduzione delle tasse a ricchi e imprese negli ultimi 50 anni in 18 Paesi mostra come queste riforme abbiano sì aumentato il reddito dell’1% più ricco della popolazione, ma che l’effetto sulla crescita e sugli investimenti sia stato pari a zero. Lo è stato pure l’effetto sugli investimenti della sforbiciata senza precedenti alle tasse sulle imprese introdotta nel 2017 da Trump, con un taglio dell’aliquota sui redditi delle imprese dal 35% al 21%,con un costo per le casse dello Stato di 2.000 miliardi di dollari. Le imprese non hanno aumentato gli investimenti ma i dividendi e il riacquisto di azioni per pompare il valore in Borsa: una manna per gli azionisti.

“È il momento per le imprese e l’1% più ricco di pagare quello che è giusto”, ha detto Biden. Finanziare il piano di investimenti in infrastrutture da duemila miliardi e i 1.800 miliardi destinati alle spese per infanzia, famiglie e studenti toccherà a chi sta in cima alla piramide sociale: imprese (specie multinazionali) e chi ha un reddito superiore ai 400 mila dollari. Dietro la riforma fiscale c’è la volontà di trasformare la società e la direzione dell’economia, con nuove tasse solo per i più ricchi per finanziare la transizione ecologica, le infrastrutture, il sostegno alle famiglie e creare posti di lavoro ben retribuiti.

Gli Stati Uniti riscoprono così la progressività fiscale: aumento dell’imposta sui redditi delle imprese dal 21 al 28%, introduzione aliquota minima globale al 21% per tassare i profitti delle multinazionali americane all’estero, aumento dell’aliquota più alta sui redditi dal 37% al 39,6%, ma soprattutto aumentare l’aliquota sulle plusvalenze (“capital gains”) dal 23,8% al 43,4% per chi ha un reddito oltre il milione di dollari, una misura che interesserà solo lo 0,3% più ricco. Sono i super benestanti infatti ad avere beneficiato maggiormente del sistema attuale. I 400 americani più ricchi erano soggetti a un’aliquota effettiva inferiore al 25% nel 2018, più bassa di quella pagata sia dal ceto medio che dai più poveri. Questo perché il reddito dei super ricchi deriva principalmente dal capitale (dividendi, plusvalenze azionarie o su immobili) e non dal lavoro. Questa classe ha visto la sua ricchezza esplodere con la pandemia. Mentre 20 milioni di americani perdevano il lavoro, i 650 più ricchi hanno visto aumentare la propria ricchezza di mille miliardi (4mila miliardi quella totale stimata). Tra gli impiegati che rischiano la vita nei lavori essenziali c’è chi paga più tasse in proporzione dei super ricchi che lavorano da casa. Un’ingiustizia a cui Biden vuole mettere fine, restituendo progressività al sistema fiscale e chiedendo a chi ha di più di contribuire di più alla ripresa.

L’aumento della progressività fiscale riscontra il favore degli americani. Un recente studio del Fondo monetario internazionale mostra che chi ha sofferto direttamente gli effetti negativi è favorevole. Gli ultimi sondaggi mostrano come due americani su tre approvino l’aumento delle tasse su imprese e redditi alti per finanziare nuove spese per infrastrutture, infanzia, famiglie e studenti

Gli Usa si apprestano dunque a ridisegnare il proprio sistema fiscale in ottica progressiva. E in Italia? Nel discorso di insediamento al Senato, Mario Draghi ha ricordato come sia obbligatoria “una revisione profonda dell’Irpef con il duplice obiettivo di semplificare la struttura del prelievo, riducendo il carico fiscale e preservando la progressività”. Il sistema fiscale italiano presenta le stesse problematiche di quello americano, dove alcuni redditi da capitale (plusvalenze azionarie/affitti da immobili) sono tassati con aliquote massime ben inferiori a quelle su redditi da lavoro. Una scelta politica che, come negli Usa, aiuta i più ricchi. Va rafforzata la progressività sui redditi, sia da lavoro che da capitale, assorbendo i regimi sostitutivi.

La pandemia offre l’opportunità di fare scelte ambiziose. Crescere sì, ma tutti insieme. Gli Usa ci indicano la strada: solo stavolta non la seguiremo?

Mutui under 35. Ecco la garanzia di Stato che aiuta banche e imprese

Una doppia spinta per aiutare gli under 35 “a mettere su famiglia e comprare casa”. Insomma, realizzare il sogno di una vita (sempre che lo sia ancora e non valga più solo per i genitori). Il governo Draghi ha così proposto una nuova misura che permetterà ai giovani non solo di ottenere un mutuo con garanzia statale, ma di accendere il finanziamento senza versare alcun anticipo. In pratica, non servirà più avere dei soldi da parte e a fare da garante ci penserà lo Stato. Ma sul come, quando e quanto i dettagli ancora non ci sono: la misura va ancora scritta. Il governo sa che può contare sulle risorse già esistenti del Fondo mutui prima casa, gestito da Consap, la cui dotazione residua è di oltre 155 milioni di euro (il plafond iniziale era di oltre 825 milioni), rivolto però solo agli under 35 titolari di lavoro atipico e giovani coppie, il cui meccanismo prevede il rilascio di garanzie a copertura del 50% della quota capitale per mutui ipotecari fino a 250.000 euro. Una misura che, istituita nel 2011, è rimasta sepolta per anni nei cassetti delle filiali. Chiaro il motivo: le banche avrebbero dovuto concedere un mutuo a tassi agevolati nettamente inferiori a quelli allora in vigore. Poi nel 2015, da quando è diventato operativo il nuovo Fondo, le condizioni sui tassi sono diventate peggiorative per i mutuatari (è stato eliminato lo sconto) e le banche, che non ci rimettono più, hanno iniziato a concedere i mutui agli under 35. In 6 anni, il Fondo ha accolto 209.500 richieste di garanzia, di cui 43.613 solo nel 2020. Il 60% di queste fatte giovani tra i 20 e i 35 anni. Ora, però, per capire se la nuova misura sarà vantaggiosa per i giovani, bisognerà conoscere tassi e condizioni. Si possono, però, intanto valutare le conseguenze più che positive sul settore bancario (aumenterà il numero di clienti) e su quello immobiliare che potrà riprendersi un po’ dalla lunga crisi che lo flagella. E gli under 35? Questo aiuto per comprare casa è veramente la misura giusta per loro in questo momento storico e sociale? Il dibattito in corso vede gli stessi giovani non più disposti, come hanno fatti i propri genitori, a indebitarsi fino a 30 anni per comprare casa. Un acquisto considerato da molti come una zavorra che li bloccherebbe, disincentivando la mobilità lavorativa. Ma l’elemento più divisivo è considerare il mutuo come una forma di welfare. Per mettere su famiglia e fare figli non serve necessariamente una casa di proprietà. Ne basterebbe anche una in affitto a prezzi calmierati.

 

I 25mila espropriati della Pedemontana: 12 anni senza ristori

Era il 19 gennaio 2009 quando il Cipe approvò il progetto definitivo dell’autostrada Pedemontana Lombarda e quasi 35 mila lombardi proprietari di terreni, case e fabbriche vennero avvisati che loro proprietà sarebbero state espropriate per lasciare spazio alla costruzione di un’infrastruttura che – è bene ricordarlo – avrebbe dovuto essere completata entro Expo 2015. Da allora, solo 10 mila di loro sono stati indennizzati e solo il 30% dell’opera è stato realizzato.

Gli altri 25 mila proprietari, da oltre 11 anni sono ostaggi di Pedemontana, prigionieri in casa loro senza poterla vendere o ristrutturare perché sarebbero soldi buttati, senza poter fare un progetto di vita, senza sapere se, quando e quanto potranno ottenere per questo sacrificio. Giustamente la legge mette un limite a questa condizione di sospensione dei diritti dei cittadini: 7 anni, prorogabili “per un periodo di tempo che non supera i due anni”. Se entro quel termine – già lunghissimo per chi lo vive – lo Stato o chi per lui non ha acquisito la proprietà delle aree su cui dovrebbe realizzare l’opera vuol dire che non è in grado di realizzarla e le aree devono essere liberate dal vincolo. Questa è la legge e dovrebbe valere per tutti, ma come in altri casi non vale per Pedemontana.

I 7 anni sono passati e ne sono passati anche altri 4 grazie a due proroghe, ma già la seconda probabilmente illegittima, perché se la legge dice che la proroga “non deve superare i due anni” non intende certo dire “due anni per volta”, altrimenti l’avrebbe scritto. Senza dimenticare che proprio per tutelare i cittadini la legge prescrive che la proroga è ammessa “per cause di forza maggiore e altre giustificate ragioni”. L’opera è ferma perché dal 2010 i soci non versano il capitale sociale previsto dal contratto con lo Stato.

Il termine sarebbe definitivamente scaduto il 19 gennaio. Da quel giorno, 25 mila lombardi avrebbero dovuto tornare proprietari di ciò che è loro. Ma ancora una volta Pedemontana fa legge a sé. A inizio anno, infatti, Pedemontana e Concessioni autostradali lombarde (Cal), consci che una nuova proroga non è possibile, si rivolgono al ministero delle Infrastrutture chiedendo la riapprovazione del progetto del 2009 senza modifiche “ai soli fini dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio”: un spudorato artificio per far ripartire gli espropri daccapo per altri 7 anni. Il ministero – avendo a che fare con Pedemontana, a cui non ha mai imputato la sistematica e ultradecennale violazione della convenzione – si fa dire dal capo della struttura Autostrade (che guarda caso è stato per molti anni nel collegio sindacale proprio di Pedemontana) che non serve nessun intervento da parte sua o del Cipe e che i lombardi possono arrangiarsi: lo dice uno dei decreti Covid. Peccato che il decreto non valga per Pedemontana, perché non si applica agli espropri già prorogati e definitivamente scaduti. Cal però fa finta di non saperlo e, visto che glielo dice il ministero, rinnova gli espropri. Quali sono le motivazioni di forza maggiore? Il Covid, anche se l’opera è ferma da dieci anni e più.

Ma è sul massimo del danno che viene il bello. Gli espropri vengono prorogati anche per la tratta D, nonostante la revisione della Convenzione, sbandierata nell’atto di proroga, dica che quella tratta non si farà forse mai e, certamente, non nel corso del periodo della proroga. Dell’atto, che pure è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, non c’è comunque traccia sul sito di Cal. E neanche i ristori ai proprietari, che la legge prevede per le proroghe, sono citati. Tanto nessuno si cura di loro.

Stupirsi forse no, indignarsi però sì, e reagire anche, come annunciano gli ostaggi eterni dell’eterna incompiuta del Nord. Dopo 11 anni l’opera è ferma (da cinque) a poco più di un terzo (30 km su 90 km) del tracciato che dovrebbe tagliare in due la Brianza. Il bilancio è drammatico. Oltre un miliardo di euro di contributi dello Stato che ha pagato l’80% dei lavori eseguiti, lasciando che la società incassi il 100% dei carissimi pedaggi e che le banche socie si ripaghino al 7% i prestiti fatti da loro stesse. Mezzo miliardo di euro di capitale dei soci mai versato (prima la Provincia di Milano e ora Regione Lombardia, in piccola quota le banche che all’aumento di capitale “di rischio” hanno preferito un prestito che vale oro).

In un Paese normale il contratto sarebbe stato stracciato e la società portata in tribunale. La procura di Milano ci ha provato, ma è stata zittita da Maroni nel 2017 che da presidente della Lombardia ha garantito i rischi delle banche con oltre 200 milioni. Recentemente la Regione s’è impegnata ancora a versare nelle casse di Pedemontana altri 350 milioni di euro per facilitare il prestito delle banche, facendoseli dare da FNM in cambio della vendita di Serravalle. Una voragine.

Leonardo si espande in Europa: gli indizi di una svolta filo Usa

“L’operazione ha senso sul piano industriale. Gli unici dubbi riguardano il prezzo e la governance”. Parlando con alcuni esponenti della City milanese, è questo il parere pressoché comune dopo che, la scorsa settimana, Leonardo ha annunciato l’acquisto del 25,1% di Hensoldt, la controllata del private equity KKR, leader nel campo della cybersecurity e della gestione dei dati. Effettivamente, il titolo Leonardo non sembra entusiasmarsi troppo: in Borsa scambia in area 6,79 euro, poco sopra il prezzo dei giorni pre-annuncio.

Tra più negativi spiccano gli analisti di Intesa SanPaolo: “Sebbene ci sia una forte logica industriale e strategica dietro l’accordo”, il premio del 47,6% sul prezzo attuale che valuta il gruppo 12 volte i suoi utili lordi rende l’operazione “costosa”. Un certo scetticismo è stato espresso anche da Banca Akros, specie sulla capacità di “estrarre sinergie significative dall’operazione poiché ogni Paese è molto geloso della tecnologia sovrana”. Il tema della governance è sollevato in particolare da Citibank, che ricorda come Hensoldt sia partecipata per il 25,1% dal governo tedesco, il che rende improbabile per Leonardo ottenerne il controllo: è probabile, però, che non sia stata questa la ratio dell’acquisizione.

Entrando nel capitale di Helsoldt, infatti, il gruppo guidato da Alessandro Profumo non solo consolida la sua posizione come fornitore strategico di elettronica per gli Eurofighter, ma punta a diventare il primo operatore europeo nel comparto dei radar. È in quest’ottica che va letta l’acquisizione del 30% di GEM elettronica – società italiana che produce radar 3D di piccole e medie dimensioni, sensori elettro-ottici e sistemi inerziali per il settore marittimo, avionico e terrestre – appena pochi giorni prima l’annuncio dell’operazione su Helsoldt: l’accordo permette a Leonardo, nel 2024, di acquisire il controllo di GEM. Il veloce consolidamento di Leonardo nel settore europeo della difesa potrebbe spiegarsi col tentativo di restituire appeal al titolo dopo la decisione di marzo di rinviare la quotazione a Wall Street della controllata DRS. A oggi non è chiaro il motivo del dietro-front: l’ad Profumo aveva motivato la scelta con i tagli Usa nel settore della difesa, ma non ha convinto pienamente gli operatori di mercato, visto il clima di crescente instabilità delle relazioni tra Washington e Russia e Cina. Il danno tuttavia è stato riassorbito anche perché, rinviando l’operazione, Leonardo ha rinunciato sì a incassare tra 0,6 e 0,8 miliardi di dollari, ma ha dimostrato di essere in buona salute finanziaria e quindi di non essere a rischio aumento di capitale.

Rimane la questione dell’elevato prezzo pagato per la quota di Hensoldt e che forse può trovare una chiave lettura sia nelle prospettive di crescita del settore della difesa in Europa, ma anche nel significato geostrategico dell’operazione. “È evidente che abbia avuto il beneplacito del governo tedesco, segno della volontà di maggiore cooperazione strategica tra Roma e Berlino e il riconoscimento del valore di Leonardo nell’ambito della sicurezza tecnologica. Ma c’è di più dietro l’operazione – spiega Lorenzo Castellani, docente di storia delle Istituzioni Politiche alla Luiss – L’operazione rappresenta anche un presidio dell’ancoraggio atlantico dei due paesi considerando che l’85% del fatturato di Leonardo è composto da vendite agli apparati militari di Usa, Regno Unito e Ue”. Stando a Castellani, “gran parte della classe dirigente italiana sogna un’integrazione maggiore con la Francia sia politica che economico-finanziaria, ma dal punto di vista produttivo il legame più forte è coi tedeschi”. L’operazione Leonardo-Hensoldt insomma potrebbe sancire un nuovo corso della politica estera dell’Unione in chiave più filo-atlantica. Si tratta di speculazioni ovviamente, ma agli osservatori più attenti non è sfuggita la lettera che la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e l’alto rappresentante Josep Borrell hanno inviato ai leader dei 27 a corredo del report per il Consiglio europeo: vi si nota che Pechino “ha proseguito la svolta autoritaria”. Una bella retromarcia rispetto all’accordo commerciale firmato solo a dicembre.

“Più che di un riposizionamento geostrategico dell’Ue, è probabile che la lettera sia il risultato di una tensione tra le varie anime di politica estera – spiega Andrea Gilli, ricercatore senior per il Nato Defence College – È però indubbio che l’Europa prima o poi dovrà decidere su quale piano porsi nell’arco dei prossimi 20-30 anni sia sul fronte dei valori, sia su quello delle nuove tecnologie”.

Finché c’è guerra c’è speranza: spese militari su pure col Covid

Non è ancora il momento, ma presto ci si renderà conto che sul piano economico l’impatto della pandemia non riguarderà solo l’aumento della disoccupazione (soprattutto nel commercio e nei servizi), ma anche il peggioramento dei conti pubblici. Il fatto che le finanze pubbliche saranno ancora a lungo sotto pressione per garantire la tenuta del tessuto sociale, non pare stia frenando i governi dall’aumentare la spesa nel settore della difesa. È quanto emerge da un recente report di Bank of America, secondo cui le tre principali potenze del Vecchio Continente – Francia, Germania e Regno Unito, in rigido ordine alfabetico – attraverso partecipate o società private, hanno stanziato un aumento medio del 5% della spesa militare dal 2020 al 2023.

Vediamo qualche dato. Lo scorso anno Londra ha annunciato un aumento della spesa nel settore della difesa di 16,5 miliardi di sterline per i prossimi 4 anni. Parigi ha stanziato quasi 40 miliardi solo per quest’anno (+4,5% sul 2019) destinando 15 miliardi allo sviluppo di applicazioni tecnologiche nel settore dell’aviazione sia militare che civile: il governo francese punta a raddoppiare il programma militare dal 2019 al 2025. La diffusione della pandemia aveva già offerto a Berlino il pretesto per includere nel pacchetto di stimolo fiscale circa 10 miliardi al comparto della difesa: nell’insieme il budget tedesco salirà quest’anno a 46,8 miliardi.

L’Italia non rimane certo a guardare: la spesa per la difesa è salita nel 2020 del 9,6% a 15,3 miliardi. L’escalation della spesa militare giunge come conseguenza dell’inasprirsi delle tensioni geostrategiche internazionali. Il fronte più caldo rimane naturalmente quello tra Usa e Cina, silenziando chi pensava che con l’avvicendamento alla Casa Bianca da Trump a Biden l’atteggiamento di Washington si sarebbe ammorbidito: in realtà l’impostazione dell’attuale presidente democratico punta a includere il maggior numero di paesi europei e asiatici in un asse di contenimento delle nascenti aspirazioni imperialiste cinesi. Una dinamica questa che si tradurrà in un inevitabile maggiore coinvolgimento militare dei paesi alleati. Emblematica è stata la rivitalizzazione del dialogo sulla sicurezza del cosiddetto “Quad” – il Quadrilateral Security Dialogue tra India,Giappone, Australia e Stati Uniti – istituito per la prima volta nel 2007-2008. Il governo di Canberra a tal proposito ha aumentato del 2% la spesa militare (per 42,70 miliardi di dollari) nel biennio 2020-2021. Particolarmente movimentato rimane anche il fronte russo, al punto che anche la Svezia ha approvato recentemente il piano di aumento del 40% delle spese militari nel periodo 2021-2025.

Sul piano dei singoli paesi, gli Stati Uniti rimangono il mercato più importante su scala mondiale assorbendo il 38% della spesa nel settore della difesa (746 miliardi di dollari, stando alle stime di IHS Markit). Tra i paesi europei membri della Nato – Francia, Germania, Italia e Regno Unito – la spesa complessiva è pari al 9,1% di quella mondiale. Principali mercati per gli europei sono: India, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Australia, Giappone, Brasile e Corea del Sud. All’interno del suo studio, Bank of America in particolare evidenzia come lo scorso anno la spesa nel comparto difesa abbia generato un aumento del 4% in controtendenza rispetto a quella nei beni capitali (-5%) e nell’aviazione civile (-28%).

Tra i principali player europei del settore spiccano BAE Systems, QinetiQ, Leonardo, Saab e Hensoldt (il cui 25,1% è stato rilevato dalla stessa società guidata da Alessandro Profumo) che insieme detengono l’80% del mercato. Il restante 20% è invece distribuito tra aziende operanti nel settore dell’aviazione civile come Meggitt, Rolls-Royce, Airbus, MTU e Safran. Leader assoluto nel mercato europeo è l’inglese BAE Systems con un fatturato nell’ambito della difesa di oltre 20 miliardi di euro nel 2020. Segue Leonardo con 11,9 miliardi previsti a cui dovranno sommarsi gli introiti aggiuntivi derivanti dalla partecipazione in Helsoldt le cui entrate vengono stimate a circa 1 miliardo.

Interessante rilevare come tra le singole realtà industriali vi siano differenze di natura commerciale a giudicare dalla provenienza dei principali committenti. Per fare un esempio il fatturato delle tedesche Hensoldt e Rheinmetall dipende per circa il 50% dagli ordini del governo di Berlino e lo stesso discorso per la svedese Saab e l’inglese QinetiQ (che devono rispettivamente il 36% e 60% del loro fatturato ai loro governo).

Sul versante opposto invece BAE Systems, malgrado sia domiciliata nel Regno Unito, genera il 45% delle vendite negli Usa. Nel gruppo degli “esterofili” anche Leonardo, Dassault Aviation e Thales. La società guidata da Alessandro Profumo e controllata dal Tesoro, in particolare, è esposta per il 28% sul mercato statunitense e per il 21% su quello europeo, mentre quello italiano vale appena il 17%.