Folla di tifosi invade Milano. A Napoli coprifuoco violato

“La gioia dei tifosi interisti è più che comprensibile, lo dico da tifoso (seppur di un’altra squadra). Mi chiedo però perché a Milano, in Darsena o in Brera, sia necessario transennare le vie per evitare assembramenti e veicolare i flussi di persone e in piazza del Duomo possano riversarsi in migliaia in modo incontrollato”. Ad anticipare ieri ciò che sarebbe accaduto di lì a poco, con l’esplosione della gioia dei tifosi interisti per il 19° scudetto della squadra di Conte per le strade di Milano era stato su Facebook il segretario generale di Confcommercio Milano, Marco Barbieri, aggiungendo una critica: “Non voglio giudicare quale delle due scelte sia più giusta per contenere i contagi ma mi stupisce vedere come si usino pesi e misure diverse in una situazione di emergenza comune – ha scritto Barbieri –. Bar e ristoranti non possono aprire i loro locali, pur garantendo distanziamento e sanificazione, ma gli viene concesso il solo utilizzo dello spazio esterno. Parchi e piazze invece posso riempirsi in modo incontrollato e senza alcuna precauzione sanitaria”.

In effetti a vedere le immagini e i video della folla di trentamila tifosi esultanti soprattutto in Piazza Duomo, tra mascherine calate, abbracci e balli, la situazione è apparsa ieri fuori controllo, proprio nel giorno in cui l’Italia festeggiava il primo calo dei morti per Covid-19 negli ultimi sette mesi: 144 nelle ultime 24 ore su 9.148 casi. D’altra parte era stata la stessa società nerazzurra non appena conosciuto il risultato a chiedere ai tifosi di attenersi alle regole del governo anche “nel momento della festa di tutti gli interisti”. “Una gioia che si sprigiona genuina ma che invitiamo a esprimere nella maniera più responsabile possibile: siamo Campioni anche in questo”, era stato l’invito – inascoltato – dell’Inter. In barba alle norme anti-assembramenti infatti già pochi minuti dopo la fine di Sassuolo-Atalanta, che ha sancito la vittoria matematica dello scudetto, migliaia di tifosi dell’Inter hanno buttato giù le transenne anche davanti al monumento di Vittorio Emanuele e hanno invaso Piazza Duomo con i soliti cori contro Juventus e Milan, abbracci, salti e canti, mascherine abbassate e nessun distanziamento sociale. Mentre nel resto della città c’era chi festeggiava in macchina con clacson impazziti, bandiere e cori. Ma non è stato soltanto lo scudetto dell’Inter a restituire la voglia di “normalità” dopo le aperture del governo.

L’intero weekend del 1° maggio, sebbene il tempo non sia stato clemente per i festeggiamenti, è stato caratterizzato da numerose violazioni delle misure anti-pandemie. In tutta Italia sono state 93.096 le persone controllate il Primo maggio dalle forze dell’ordine: 1.965 quelle sanzionate, quasi il doppio del giorno prima e 177 denunciate (il 30 aprile erano state 30). Secondo il Viminale le verifiche anti-covid hanno riguardato anche 12.960 attività ed esercizi commerciali: 90 titolari sono stati sanzionati, 39 le chiusure.

Solo a Napoli sabato i carabinieri hanno multato 55 persone per non aver rispettato le norme anti-contagio. La gran parte perché non indossava la mascherina. Particolare attenzione è stata dedicata al rispetto del coprifuoco, che nei quartieri di Chiaia e Mergellina alle 22 non era stato rispettato con diversi pub, ristoranti e pizzerie che ancora servivano la clientela. Multe anche per chi è rimasto a consumare in strada cibi e bevande, anche dopo la chiusura delle attività, ma dopo le 22. A Roma sono state circa 50 le situazioni illecite multate dalla municipale nel weekend. Assembramenti, mancato uso della mascherina e vendita di alcolici oltre l’orario consentito le principali irregolarità. Una decina i minimarket sanzionati, di cui uno sottoposto a chiusura. Mentre 25 persone sono state multate per aver partecipato a due feste private: da quella nel bungalow appositamente affittato per l’occasione, a quella in centro con 14 persone.

B., zero complotti: l’audio smentisce la sentenza politica

La macchina del fango contro i giudici della Cassazione che, nel 2013, hanno condannato definitivamente Silvio Berlusconi per frode fiscale, processo Mediaset-diritti tv, viene ricostruita questa sera da Report di Sigfrido Ranucci su Rai 3.

Una macchina del fango che, l’estate scorsa, ha avuto come cassa di risonanza la tv dell’interessato, Mediaset, dove l’audio di un morto, il giudice Amedeo Franco, relatore di quella sentenza in Cassazione, è stato usato per dimostrare che la condanna di Berlusconi fu politica. Una bufala, già smascherata, e che stasera viene sviscerata nella ricostruzione di Report con parti inedite di quell’audio del giudice Franco, il quale parla, registrato, con Berlusconi, pochi mesi dopo la condanna.

L’inedito riguarda Gianni Letta, l’eminenza grigia dei governi di “Mister B.”, che prima del processo sarebbe andato dall’allora presidente della Cassazione Giorgio Santacroce, anche lui morto. “È andato Gianni Letta da Santacroce e ci ha detto: ‘Ormai avete quel collegio lì e ve lo tenete. Abbiamo un relatore assolutamente sopra le parti’ (Franco, ndr)”. Queste le parole di Berlusconi a Franco che si ascolteranno stasera.

Berlusconi, sempre riferendosi a quei giorni del suo processo, racconta un altro fatto: “Il procuratore di Cassazione, andiamo a toccarlo con un nostro amico”. Il riferimento è ad Antonio Mura, oggi procuratore generale di Roma, allora sostituto procuratore generale della Cassazione. Berlusconi, come dice nell’’audio che trasmetterà Report, avrà anche trovato chi si è prestato ad avvicinare il magistrato, ma certamente senza successo. Mura chiese e ottenne la conferma della condanna di Berlusconi, chi scrive ha seguito quel processo, la sua requisitoria fu minuziosa, impeccabile. Stasera andranno in onda anche le interviste, tra gli altri, ai giudici di quel collegio della sezione feriale della Cassazione: il presidente Antonio Esposito e i giudici Ercole Aprile e Claudio D’Isa. Parlano con Report avendo già testimoniato in procura a Roma, che ha chiuso a marzo scorso l’indagine, coordinata dal procuratore aggiunto Paolo Ielo, stabilendo che la formazione del collegio che giudicò Berlusconi fu regolare, altro che complotto politico. Esposito, Aprile e D’Isa confermano davanti alle telecamere quanto rivelato dal Fatto Quotidiano su cosa successe in camera di consiglio: Franco provò a registrare, ma un clic maldestro mise in allarme i colleghi. Uno di loro, Giuseppe De Marzo, andò in bagno dove era andato in tutta fretta Franco e lì trovò il registratore abbandonato dal magistrato per provare a non farsi scoprire.

“In quell’occasione, racconta Aprile, lui, (Franco ndr), mise la mano alla tasca, si sentì un gracchiare, un… come se stesse registrando. Si alzò in piedi, di scatto, e scappò in bagno. Noi lì per lì rimanemmo gelati”. E D’Isa: “Dopo un po’ di tempo, subito dopo uscì dalla camera di consiglio per il bagno anche un altro collega, il collega De Marzo, rientrò con un apparecchietto, l’ha trovato nel bagno”.

Servizi: Renzi attaccava Conte e incontrava la spia all’autogrill

Un incontro in un autogrill sull’autostrada, tra un agente di rango come Marco Mancini e Matteo Renzi. In un momento particolarmente delicato della vita politica italiana, in cui cominciano le manovre per far cadere il governo di Giuseppe Conte. Lo racconta Report in un servizio di Giorgio Mottola che andrà in onda questa sera su Rai3. Il contatto avviene il 23 dicembre 2020, in un parcheggio dell’autogrill di Fiano Romano, nei pressi di Roma, e dura – secondo Report – una quarantina di minuti.

Mancini è un agente del Dis, l’agenzia che coordina Aisi e Aise, cioè i servizi segreti che si occupano rispettivamente dell’interno e degli esteri. Ha una lunga storia. Una brillante carriera nel Sismi (il servizio segreto militare predecessore dell’Aise) di cui diventa capo della Divisione controspionaggio, braccio destro del direttore Nicolò Pollari. Una forte esposizione mediatica, quando il 5 marzo 2005 riporta in Italia la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena, liberata dopo il suo sequestro in Iraq e dopo una corsa all’aeroporto di Baghdad che costa la vita a un collega di Mancini, Nicola Calipari. Una condanna a 9 anni nel febbraio 2013 per sequestro di persona (l’imam Abu Omar, rapito a Milano dalla Cia), poi annullata dalla Cassazione dopo una pronuncia della Corte costituzionale che interviene allargando i confini del segreto di Stato.

Oggi Mancini è caporeparto al Dis. Un ruolo che gli va stretto. Da tempo punta a una funzione più operativa, dentro l’Aise o l’Aisi. In subordine, spera almeno di essere nominato vicedirettore del Dis, accanto al direttore Gennaro Vecchione e al posto di Carmine Masiello che avrebbe potuto essere nominato sottocapo allo Stato maggiore della Difesa. Per alcune settimane, Mancini ha buone possibilità di fare il salto. Ha il sostegno di Vecchione e non gli sono ostili neppure i Cinquestelle, consigliati dal magistrato antimafia Nicola Gratteri. Alla fine però non se ne fa niente: il premier Conte avvia un giro di poltrone dentro i servizi, ma Mancini resta al suo posto. Nei mesi precedenti era esplosa una dura contesa sui servizi di sicurezza. Prima sulle regole per la proroga dei vertici, poi sulla delega affidata dalla legge al premier, infine sulla Fondazione per la cybersecurity. Tutto precipita dopo il consiglio dei ministri sul Recovery del 7 novembre 2020, interrotto per il tampone falso-positivo al Covid della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese prima che si voti.

Nei giorni seguenti comincia il bombardamento di Renzi sulla cybersecurity e sulla delega governativa ai servizi. Conte l’ha tenuta per sé, come permesso dalla legge che nel 2007 riforma le agenzie di sicurezza (infatti anche il predecessore Gentiloni non l’aveva ceduta ad altri). Renzi insiste perché la passi a un sottosegretario. A questa richiesta si accoda parte dei dem. Proprio il 23 dicembre Renzi lo ripete all’Aria che tira, su La7. Poi va a Rebibbia a visitare Denis Verdini. Infine incontra Mancini in autogrill.

Conte cederà soltanto il 21 gennaio 2021, quando passa la delega all’ambasciatore Pietro Benassi. Troppo tardi. Il 13 gennaio si sono già dimesse le tre ministre di Italia viva. E il 26 gennaio il governo Conte cade. Il servizio di Report nasce per caso. Una insegnante che il 23 dicembre 2020 si era fermata all’autogrill di Fiano Romano filma Renzi con il telefonino. Di cosa parla? Non lo sappiamo. Mancini non ha risposto a Report. Renzi risponde celiando: Mancini gli avrebbe consegnato per Natale i Babbi di cioccolato, specialità romagnole, come romagnolo è Mancini. Poi il senatore adombra versamenti segreti di Report in Lussemburgo. E racconta che è stato l’agente del Dis a raggiungerlo, anche se la testimone oculare, intervistata da Report a volto coperto, sostiene invece che sia arrivato prima Mancini. Ambienti vicini a Renzi spiegano al Fatto che il leader Iv si incontra regolarmente con Mancini dal 2016 e che quel 23 dicembre i due avevano un appuntamento già fissato e saltato perché Renzi se ne dimentica e parte per Firenze; recupera all’ultimo momento, pregando Mancini di raggiungerlo all’autogrill sull’autostrada. Ma – giurano – quel giorno non si parlò di nomine.

“La politica banalizza, io sciolgo i nodi difficili e ho creato una banca”

Lei aveva fatto tutto, anche il Recovery prima del Recovery.

Il presidente Napolitano mi chiese di buttar giù qualche idea per un piano per l’Italia. Parliamo di dieci anni fa.

E Corrado Passera mandò al Quirinale 150 pagine con tutte le cose messe in fila. Lei era Draghi prima di Draghi.

Davo un contributo al mio Paese. Un dovere civile.

La passione per la politica già ardeva dentro.

Incontestabile.

La voglia di far vedere cosa si sa fare.

Mi è rimasto il dispiacere perché sono uno che non ce l’ha fatta in politica.

Il banchiere che la politica ha rifiutato.

Non sono riuscito a rendere comunicabili i due mondi.

Con Monti è stato ministro per lo Sviluppo economico e le Infrastrutture.

Ho dato il massimo, con il piacere di vedere nel tempo i frutti di quella faticaccia.

Ha pensato di farsi il suo partito. L’ha chiamato Italia Unica.

Non sono riuscito a farmi capire o, forse, ciò che dicevo non interessava. Avevo Renzi da un lato e Grillo dall’altra. Loro semplificavano, banalizzavano la realtà. Io magari articolavo troppo.

Lei complicava.

Resto convinto che non ci sono soluzioni semplici per problemi complessi.

Quante batoste. Però sempre con stile.

La passione civile è rimasta integra.

Ricorda quando si imbavagliò davanti Montecitorio per protestare contro l’Italicum?

Che sofferenza quel gesto, io non ci ero abituato.

Si imbavagliò così bene che sembrò vittima di un rapimento dell’Anonima.

Quella legge elettorale era pessima e la protesta doveva essere clamorosa.

Pensò anche di fare il sindaco di Milano.

Vedevo enormi margini di miglioramento della città mentre quasi tutti si accontentavano dell’esistente. Avevo osato dire che molte periferie erano ignobili. Presi atto che non c’era spazio per me fuori dai due grandi raggruppamenti.

Era perfetto per il governo dei migliori.

Mai piaciuta questa storia dei migliori.

Gli italiani sono spesso caciaroni. Lei troppo puntuale.

Guardi che ho guidato le Poste.

In effetti le Poste sono l’Italia.

Un magma di disorganizzazione e inefficienza. Eppure quando le indicazioni sono state corrette quel popolo che agli occhi di tutti appariva abulico e nullafacente, clientelare, si è ripreso il proprio destino, ha ritrovato l’orgoglio e ciascuno ha fatto quel che doveva. Le Poste perdevano un miliardo l’anno adesso guadagnano un miliardo l’anno.

La Lombardia per vaccinare ha dovuto chiedere alla Poste il software.

Da ex capo dei postini una bella soddisfazione.

Che “scuorno”.

Da lombardo uno scuorno vero e proprio.

Passera era banchiere e banchiere è ritornato.

Era il momento di provare a inventare un nuovo paradigma di banca.

È nata Illimity.

Senza i vincoli degli sportelli tradizionali, con una libertà di movimento incomparabile nel settore.

A ciascuno il suo mestiere.

Eravamo in 15, siamo in 700. Con 4 miliardi di attivo.

Deve fare il banchiere e basta.

È una banca giovane, che sostiene il talento imprenditoriale, dà fiducia a chi la merita. Non giudica, promuove. Secondo me il merito non è mai in conflitto con la solidarietà. E così la libertà di impresa non è l’antitesi del- l’uguaglianza.

In famiglia hanno fatto un sospiro di sollievo quando ha lasciato Roma e i palazzi della chiacchiera.

Un sospirone. Ho capito che stavo chiedendo troppo a loro e ho cambiato strada.

Chi lascia la via vecchia per quella nuova… eccetera, eccetera.

Questa è la mia sesta vita (le prime cinque le ho descritte in un libro).

Cinque figli.

Due più grandi, tre più piccini.

Una curiosità: una sua figliola si chiama Luce. Un nome che sfonda tra i ricchi.

Io ne conosco solo un’altra col nome di mia figlia.

Ah.

Non mi sembra una notazione fondamentale.

Perché ho banalizzato e lei è per la complessità.

Se la questione è difficile mi dice che senso ha farla facile?

A viale Mazzini è sempre il giorno della marmotta

Caro direttore, il 31 marzo scorso sono stati pubblicati da Camera, Senato e Rai i bandi per nominare i componenti del prossimo Cda: due consiglieri nominati dalla Camera, due dal Senato e uno eletto dai dipendenti aventi diritto. L’ad e il consigliere rimanente spettano all’azionista di maggioranza. A ogni rinnovo di vertice della Rai sembra di assistere al film “Ricomincio da capo” (“Il giorno della marmotta”) in cui il protagonista si sveglia trascorrendo la giornata ripetendo le cose fatte il giorno precedente.

Tutto assume il sapore del gossip intorno ad un’azienda che invece meriterebbe di essere trattata con serietà per il rispetto dovuto ai cittadini che pagano il canone, verso le 13 mila persone che ci lavorano e il significativo indotto.

Il dibattito si concentra solitamente su quale consigliere sarà piazzato da questo o quel partito, si immaginano assetti che preludono spartizioni incluse nel prezzo e nemmeno troppo nascoste, ma nessuno mai si chiede davvero di cosa abbia bisogno la concessionaria del servizio pubblico radio televisivo multimediale per rispondere pienamente e in modo efficiente alle esigenze di un Paese, che alla luce degli effetti della pandemia, dovrà avere il coraggio di cambiare in modo rispettoso dell’ambiente il modello di sviluppo visto che l’attuale Parlamento non si è degnato di mettere mano alla riforma della Rai cambiando i criteri di nomina del Cda attraverso uno dei tanti modelli duali trasformati in proposte di legge che ingialliranno presto in qualche cassetto ben chiuso, perché non provare almeno a cambiare il paradigma fin qui utilizzato?

Sarebbe interessante che il Parlamento, prima di analizzare (forse) i cv e votare, svolgesse una approfondita riflessione e un serio dibattito per capire che Rai si ha in mente almeno per i prossimi tre anni: cosa conterrà il nuovo contratto di servizio? Quale il suo progetto? Quale la sua missione di servizio pubblico in un contesto di mercato, di innovazione tecnologia in continuo e profondo mutamento?

Ogni candidato dovrebbe dunque presentare un suo progetto di servizio pubblico prossimo venturo: come attuarlo, attraverso quali e quante risorse, con quale assetto e modello industriale, come immagina di posizionare la Rai nella galassia dei servizi pubblici europei.

Questo lavoro di selezione potrebbe in ipotesi essere coadiuvato dalla Vigilanza che poi trasmetterebbe tutto alle Camere per il voto finale.

Senza nulla togliere a nessuno, la Rai si merita consiglieri indipendenti, senza conflitti di interessi e competenti, chiamati a servire l’azienda con spirito di servizio e per il rilancio della stessa, in grado di ascoltare anche le “voci di dentro”, quelle dei dipendenti, e tramutare quelle voci in politiche gestionali e industriali insieme all’ad. Questo aiuterebbe anche il nuovo ad, scelto con lo stesso criterio: il progetto che consegna il profilo, auspicabilmente proveniente dall’azienda, dove pure esistono competenze e professionalità in grado di affrontare le tante sfide industriali ed editoriali.

Sognare non costa niente, quello che costa è di solito il risveglio.

 

“Un errore censurare gli artisti: i dirigenti dovrebbero tutelarli”

“Quando si mette in atto un tentativo di censura come quello che abbiamo visto il 1° maggio con Fedez è sempre un errore. E la Rai ha commesso uno sbaglio enorme”. Roberto Zaccaria è uno che la macchina di viale Mazzini la conosce molto bene, dato che ne è stato presidente dal 1998 al 2002 nonché, in precedenza, consigliere di amministrazione dal 1977 al 1993. E la sua Rai si è trovata spesso al centro di polemiche. Come, ad esempio, una puntata di un programma di Adriano Celentano in cui il “molleggiato” attaccò i trapianti. O un’ospitata di Eminem da Raffaella Carrà. Ma durante la sua presidenza diverse trasmissioni erano sotto l’occhio del ciclone: Daniele Luttazzi, Enzo Biagi, Michele Santoro. “La censura è sempre sbagliata”.

Zaccaria, che idea s’è fatto del caso Fedez?

Ho ascoltato la telefonata e anche l’intervento dell’artista sul palco: non ci possono essere dubbi sul fatto che ci sia stato un tentativo di censura bello e buono. Tra l’altro portato avanti in maniera piuttosto goffa. Anche se vi fossero le migliori intenzioni, non si può mai giustificare un risultato censorio. Anche perché la Rai, oltre al pluralismo, deve tutelare la libertà di espressione, specialmente dei suoi artisti.

Si è tirato in ballo il fatto che l’argomento in questione, il ddl Zan e i diritti delle persone lgbt, non c’entrassero con i temi del lavoro…

Assolutamente sbagliato. Un artista da un palco può dire quello che vuole e gli deve essere garantita la libertà di farlo. Non esiste un perimetro. Come quando a Sanremo qualcuno dice che si debba parlare solo di canzoni. Non è vero. Le canzoni parlano della vita e la vita comprende tutto, anche le idee politiche. La tutela della libertà d’espressione degli artisti è sacra. Ricordo quando si diceva che Celentano deve cantare e non fare monologhi. Ma Celentano è un tutt’uno: il cantante, l’artista e le sue idee. Così come Fedez: se lo inviti, devi prendere tutto il pacchetto, non si può scindere l’artista da quello che pensa.

Se lei fosse ancora presidente della Rai, come si sarebbe comportato?

Non avrei fatto telefonare da altri, ma mi sarei preso la responsabilità di chiamare l’artista in prima persona. L’unica cosa che si poteva fare era responsabilizzarlo. Dirgli: guarda, il pubblico è enorme e l’occasione importante, pensa bene a quello che dirai, che sarà sotto la tua responsabilità e poi decidi con la massima libertà. Responsabilizzarlo, senza superare il confine. Anche perché, ripeto, la Rai deve difendere la libertà d’espressione, tutelata oltretutto dall’articolo 21 della Costituzione. Un passaggio della Carta che non vale solo per la stampa, ma per tutti.

Secondo lei Fedez ha fatto bene a divulgare l’audio della telefonata?

Guardi, io starò sempre dalla parte degli artisti. Lui ha scelto la strada della franchezza e della trasparenza, col merito di aver fatto emergere il problema. L’effetto di aver divulgato l’audio è sicuramente positivo anche per tutti quei casi di censura rimasti nascosti, che noi non conosciamo. A un artista o a un intellettuale non si può mettere il sale sulla coda, non lo si può condizionare sui contenuti. Per gli artisti non vale la par condicio.

Vengono in mente certe ospitate di Roberto Benigni. O le battute di Beppe Grillo sui socialisti dal palco di Sanremo…

Tutti episodi che sono ricordati come grandi momenti della televisione italiana. È perfino sbagliato chiedere prima a un artista quali saranno i contenuti del suo intervento. Anche perché se viene detta una cosa, anche forte, dopo si può sempre rimediare. O chiedere scusa. Dalla censura, invece, non si torna indietro. L’errore è irrimediabile.

L’episodio evidenzia il fatto che in Rai le pressioni della politica sono sempre più forti? L’azienda è sempre più ostaggio dei partiti?

Le pressioni e le interferenze della politica ci sono sempre state e ci saranno sempre. Anche ai miei tempi non erano da meno. La differenza la fanno gli uomini che in quel momento dirigono l’azienda. Spetta a loro tenere la barra dritta e non farsi influenzare o tenere sotto scacco.

Fedez spacca la Rai e i partiti Battaglia prima delle nomine

È bastato Fedez per far esplodere la politica e uno dei suoi campi da gioco, la Rai. Sono stati sufficienti il breve ma drittissimo discorso dal palco del Primo Maggio del rapper, assieme a un suo video, che denuncia il (presunto) tentativo di censura da parte di quella tv pubblica che tutti i partiti giurano di voler cambiare ma che tutti i partiti lottizzano, senza sosta. Quella Rai che a giugno vedrà il rinnovo del suo Consiglio di amministrazione.

Ed è la vera partita dietro le note in cui tutti urlano il no alla censura e con cui il Pd, i 5Stelle e Giuseppe Conte invocano una legge di riforma di viale Mazzini, di cui però finora si erano dimenticati pur stando al governo. Ma le schegge del tutti contro tutti tra i partiti si vedranno nella commissione di Vigilanza sulla Rai, dove è stato convocato il direttore di Rai3, Franco Di Mare. Dovrà “riferire” della tempesta provocata dall’intervento di Fedez al concerto trasmesso sulla Rai, in cui ha attaccato la Lega per la sua ostilità al ddl Zan, la proposta di legge del Pd che vuole punire le discriminazioni basate su genere e orientamento sessuale.

Un discorso a cui Matteo Salvini aveva provato a fare muro già ore prima: “Il concerto è costato 500mila euro agli italiani, i comizi de sinistra sarebbero fuori luogo”. Ma Fedez ha parlato ugualmente. Anche se è stata dura, ha assicurato: “È la prima volta che devo inviare il testo di un mio intervento perché venga sottoposto ad approvazione politica. Ho dovuto lottare un pochino ma alla fine mi hanno dato il permesso di esprimermi con nomi e cognomi”. E ne ha citati diversi il rapper, partendo con quello di Andrea Ostellari, leghista a capo della commissione Giustizia in Senato: “Lui ha deciso che un disegno di legge già approvato alla Camera può essere bloccato da un singolo, cioè se stesso”. Ma Fedez ha elencato vari esponenti del Carroccio – “forza che lotta contro l’uguaglianza” – citando loro dichiarazioni contro i gay. E così ha spiazzato Salvini, che in una girandola di posizioni diverse ha anche proposto al cantante “un confronto”. Il prezzo più alto però lo paga viale Mazzini, che aveva provato a smentire il cantante. “È scorretto e privo di fondamento sostenere che la Rai abbia chiesto preventivamente i testi degli artisti” aveva sostenuto la terza rete in una nota “condivisa con l’ad Fabrizio Salini”. Fedez però ha subito replicato diffondendo il video della difficile telefonata con i dirigenti Rai prima del concerto, nel quale si sente una voce maschile che lo esorta “ad adeguarsi a un sistema”. E interviene anche il vicedirettore di Rai3, Ilaria Capitani: “Ritengo inopportuno il contesto”. Un filmato che spinge a schierarsi “con Fedez e contro la censura” molti leader politici, dal segretario del Pd Enrico Letta fino a Conte. E proprio l’ex premier rilancia l’idea di una riforma per sottrarre la Rai “alle ingerenze della politica, perché non saranno nuovi nomi a salvarla dagli antichi vizi”. Per questo propone una Fondazione come “azionista di riferimento”, o che almeno si discuta la proposta di legge del M5S. E poi c’è il presidente della Camera Roberto Fico, già al vertice della Vigilanza, che al Fatto dice: “Possiamo liberare la Rai dai partiti con una nuova legge sulla governance, ma non basta prendere posizione se poi non seguono i fatti”. Ma dall’altra parte c’è la destra che può rinfacciare ai giallorosa la governance scelta dal M5S.

Con i renziani di Iv che vanno in scia (“I vertici Rai li scelse Conte”). Invece viale Mazzini in una nota accusa Fedez di aver pubblicato una versione tagliata dell’intervento al telefono di Capitani, ex portavoce di Walter Veltroni da sindaco di Roma ed ex caporedattrice del Tg2. Mentre Salini giura: “In Rai non esiste e non deve esistere nessun ‘sistema’, e su questo sarà fatta luce”. Di questo parlerà Di Mare, nominato nel 2020, in piena epoca giallorosa. Perché in Vigilanza lo aspettano i partiti, quelli per cui i lottizzatori sono sempre gli altri.

Ma mi faccia

Libertà rinascimentali. “Oggi è festa di libertà” (Matteo Renzi, leader Iv, Twitter, 25.4). Molti gli rispondono: “No. Oggi è festa di Liberazione”. Ma non lo capiscono: lui stava parlando dell’Arabia Saudita.

Tamponi. “’L’auto di Draghi tampona automobilista a Roma: il premier scende e chiede scusa’. Non c’è altro da aggiungere” (Ettore Rosato, coordinatore Iv, Twitter, 21.4). “Tamponamento con macchina della scorta per il premier Draghi: che scende e si scusa. Confermandosi ancora una volta di uno spessore, anche umano, con pochi eguali” (Marco Di Maio, deputato Iv, Twitter, 21.4). Un altro premier sarebbe rimasto in macchina e avrebbe stirato e spianato l’automobilista. Lui no. Che spessore.

Rieccolo. “Cari Signori Giornalisti, questa mattina il Pronto Soccorso Covid19 del San Raffaele è vuoto. Vaccini, ricerca e soprattutto cure corrette e tempestive fanno la differenza” (Alberto Zangrillo, primario di rianimazione, Twitter, 30.4). Quindi l’unico malato di Covid resta Berlusconi, ma solo in orario tribunale.

La mala educaciòn. “Una strada cominciata con l’educazione alla fede di mamma Doralice e agli insegnamenti di papà Emilio, fascista ma non certo un fucilatore come volle far credere Umberto Bossi in una troppo accesa campagna elettorale. Poi il cursus honorum e la minuziosa ricostruzione di Gioventù studentesca e Comunione e Liberazione, scialuppe di salvataggio… ‘Se Berlusconi avesse cambiato l’Italia come avrebbe voluto, ora staremmo tutti molto meglio’…” (recensione dell’autobiografia del pregiudicato Roberto Formigoni, Giornale, 22.4). Avrebbe quantomeno abolito le galere. E pure i domiciliari.

Chi era costui? “Con Salvini tornerebbe il lockdown” (Enrico Letta, segretario Pd, La Stampa, 1.5). Altrimenti mica starebbe con lui al governo.

Signora mia. “Gli affari segreti di Conte” (Domani, 29.4). “Nell’affare dell’hotel di lusso Conte lavorava col bancarottiere” (ibidem, 30.4). Un avvocato che assiste clienti nei guai con la giustizia: roba da matti, dove andremo a finire.

Il Signor Bonaventura. “Lavoro, 750 mila nuovi posti” (Repubblica, 26.4). Dài, ragazzi, facciamo buon peso e arriviamo a un milione di nuovi posti di lavoro. Sennò poi Berlusconi s’incazza.

Il Pregiudizio Universale. “Troppi pregiudizi sulla Lombardia. Non pretendo le scuse, ma le accuse sono state ingiuste” (Letizia Moratti, FI, vicepresidente e assessore al Welfare e alla Salute della Regione Lombardia, Verità, 26.4). In effetti, una Regione che ha come presidente Fontana e come vicepresidente la Moratti potrebbe persino andare peggio di così.

Quante volte, Figliuolo? “Giorno record dei vaccini, Travaglio non si arrende: ‘Lontane le 500 mila dosi’. Il ‘Fatto contro Figliuolo, ma i numeri lo sbugiardano: toccata quota 508 mila” (Giornale, 1.5). Già, peccato che Figliuolo i 500 mila vaccini al giorno li avesse promessi il 21 marzo per tutti i giorni della seconda metà di aprile e siano arrivati solo a maggio. Un ritardo di appena due settimane, con circa 3 milioni di vaccini in meno di quelli annunciati. Che sarà mai. Intanto la Germania, che con Arcuri e prima di Figliuolo era dietro e poi alla pari dell’Italia, ora vaccina il doppio di noi. Quindi chi ha sbugiardato chi?

Par disGuido. “Fare il sindaco di Roma sarebbe giocare tutti i giorni una finale di Champions League. Per i romani Guido Bertolaso sindaco sarebbe un incubo, io non sono una persona facile, non sono propenso al compromesso” (Guido Bertolaso dopo le dimissioni da consulente della Regione Lombardia, L’aria che tira, La7, 29.4). Prima i lombardi, poi i romani: un po’ per uno.

Il Merlo del Ponte. “’Sul Ponte sullo Stretto c’è una relazione e sarà inviata al Parlamento’. Da meridionale a meridionale: è un’occasione unica” (Francesco Merlo, Repubblica, 29.4). Per la mafia e la ‘ndrangheta sicuramente.

Figaro qua Figaro là. “Calenda conteso dai due poli. Il leader di Azione presenta il suo piano-mobilità. Pd e Forza Italia lo corteggiano già ora in vista del secondo turno” (Repubblica-cronaca di Roma, 27.4). Praticamente se lo strappano di mano.

Il titolo della settimana/1. “Smettetela di perseguitare Silvio malato” (Pietro Senaldi, Libero, 29.4). Uahahahahah.

Il titolo della settimana/2. “Sentenza dei giudici: si può insultare Berlusconi ‘delinquente’e ‘malavitoso’” (Giornale, 24.4). No, è un po’ diverso: si possono citare le sentenze definitive che gli danno del delinquente e del malavitoso.

Il titolo della settimana/3. “Se non allora quando? Perchè siamo state zitte sul presunto stupro di Ciro Grillo?” (Camilla Baresani, Domani, 27.4). Magari perchè è presunto?

Il titolo della settimana/4. “Draghi chiede lealtà a Salvini” (Repubblica, 28.4). Se l’ha fatto veramente, è spiritosissimo.

Covid ed ecologia, il cambio di visione necessario parte da “Pacha Mama”

Vale la pena riprendere questo pamphlet di Giuseppe De Marzo scritto qualche mese fa, nel pieno della prima ondata pandemica. Vale la pena in questi giorni in cui la discussione nazionale è monopolizzata dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, presentato come svolta economica e sociale dell’Italia e dell’Europa.

Al di là della polemica di piccolo cabotaggio che imperversa nella politica italiana, infatti, quel Piano, fitto di impegni generici alla transizione ecologica e digitale, non sembra rappresentare davvero un’indicazione di svolta economica e sociale. Svolta di cui l’Europa, dopo la crisi pandemica e dopo la lunga e strisciante crisi scaturita dal 2008, avrebbe estremamente bisogno.

De Marzo, che vanta una lunga esperienza nel campo dei movimenti sociali, a livello mondiale con le popolazioni indigene e rurali del Sudamerica e nel campo del “mutuo soccorso” in Italia grazie alla Rete dei Numeri pari promossa da Libera di don Ciotti (che scrive la prefazione al libro), propone un altro approccio. Propone, infatti, di assumere fino in fondo quello che il Covid ha rivelato, “la fragilità” delle diverse società del pianeta, la vulnerabilità dei corpi e delle vite che, al tempo stesso, manifestano una interdipendenza inestricabile tra loro e con il pianeta. E quindi occorre “un’alleanza” tra le lotte per l’equità sociale e la salvaguardia ecologica del pianeta, occorre scommettere sul principio che si manifesta, sulla scia delle idee della premio Nobel Elinor Ostrom, superiore per efficacia sociale ed economica, “la cooperazione”. Lo spirito che anima il libro è “un’etica della Terra”, che non conosce il concetto di “scarto” prodotto dalle attuali organizzazioni sociali, come denuncia instancabilmente papa Francesco. La natura, o Pacha Mama, come la chiamano gli indigeni, al centro del cambiamento: “È questo il cambio di visione di cui abbiamo bisogno”.

 

76 anni (tutti) vissuti da ragazzo immortale

Quando il giorno di Natale del 1997 Giorgio Strehler, fondatore del Piccolo Teatro di Milano, muore di infarto a settantasei anni si annusa nell’aria “l’odore della fine di un’epoca.” Un’epoca che Cristina Battocletti distilla in 400 pagine (compendio di un impressionante lavoro di ricerche e di testimonianze) che corrono via con la seduzione di un romanzo. Giorgio Strehler. Il ragazzo di Trieste. Vita morte e miracoli, in libreria per La nave di Teseo, racconta senza reticenze la parabola di uno dei più grandi registi del nostro teatro tanto che l’autrice deve convenire che “Strehler è la più grande contraddizione montata su due gambe che si possa immaginare. Per lui è impossibile non spendere superlativi assoluti e molto spesso di segno opposto.” Dietro il genio della scena che torturava di prove i suoi attori e che era capace di scatti d’ira da far tremare le assi del palcoscenico si racconta di un uomo in lacrime quando vedeva Ladri di biciclette o una scena di Fermata d’autobus con Marilyn Monroe, che amava intrattenersi con i gialli Mondadori comprati in edicola. Dietro la celebrità che dava del tu al presidente francese Mitterrand e che collezionava storie d’amore sempre sotto i riflettori, si racconta di un uomo con un passato familiare tragico. Il padre morto di tifo quando lui aveva tre anni, la mamma violinista di fama costretta a interrompere la sua carriera per accudirlo. Nato nella periferia marina di Trieste il 14 agosto 1921, Strehler si trasferirà giovanissimo a Milano ma la sua città natale è un imprinting fatale. Scrive Battocletti: “Da Trieste aveva ereditato il senso dell’apocalisse e dell’angoscia, di un sentimento sempre sull’orlo del baratro”. La sua vena crepuscolare è tanto leggendaria che Arbasino si divertirà a storpiare il nome di Piccolo Teatro in Piccolo Tetro. Il teatro di via Rovello – il primo interamente pubblico e inaugurato con Paolo Grassi nell’immediato dopoguerra – negli anni dei trionfi sarà soprattutto la casa di due autori feticcio: Carlo Goldoni e Bertolt Brecht. È proprio grazie al commediografo veneziano che Strehler contrae la febbre del teatro. Una passione che dopo l’Accademia dei Filodrammatici trasformerà, dopo le prime regie da Pirandello e Camus, in una professione totalizzante. Strehler sente Goldoni vicino al suo essere perché “ha colorato di profondità la commedia dell’arte, dando spessore umano alle maschere.” Il suo Arlecchino servitore di due padroni è nel Guinness grazie alla performance acrobatica di Ferruccio Soleri, più di 2mila repliche all’attivo. Dopo che ottiene da Bertolt Brecht l’esclusiva di rappresentazione, Strehler diventa il massimo esegeta del drammaturgo tedesco. Nell’Italia democristiana degli anni 50 e 60 le opere del comunista Brecht provocano pruriti censori ma Strehler e Grassi tengono duro. L’opera da tre soldi e Vita di Galileo (in odore di blasfemia tenta di sabotare la messa in scena dell’opera, tra gli altri, l’allora monsignor Montini, futuro papa Paolo VI) sono successi clamorosi. Da Brecht passa la carriera internazionale di Milva, che Strehler strappa dal palco di Sanremo per proiettarla, con recital di poesie e canzoni, a una rara dimensione intellettuale. Del resto, le sue doti di demiurgo erano già state collaudate trasformando una sua allieva (con la quale ebbe una relazione che suscitò scandalo all’epoca perché lui divorziato) in una diva della canzone. Ornella Vanoni ha detto di sé che è stata “una ragazza inventata”. Tra le sue compagne anche Valentina Cortese, che diresse più volte (memorabili I giganti della montagna da Pirandello e Il giardino dei ciliegi da Cechov). Strehler resta indimenticato per la perfezione che esigeva in scena, persuaso com’era che il teatro “vive nel momento in cui lo vedi, già quando si chiude il sipario è sparito. Almeno nella musica si registra, la scrittura esiste, la pittura esiste. Il teatro vive quell’attimo.” Per questo, come ammette la stessa Battocletti, Strehler andava visto. “Chi oggi fa del teatro sa purtroppo che, nonostante la sua fatica, carne e sangue, nessuno lo aspetterà per stendere lenzuola di inchiostro come accadeva per quel ragazzo immortale di Strehler”.