Irlanda, sacerdote ucciso ed evirato: l’ultimo, grande giallo di Banville

Il meccanismo del giallo in John Banville, grande romanziere d’Irlanda, luccica come un prisma. Il mistero ha tante facce e da ognuna arrivano raggi splendenti. Dalla scrittura alle dinamiche più intime dei personaggi. Con Delitto d’inverno (traduzione di Irene Abigail Piccinini) siamo alla fine del 1957. Nel villaggio di Ballyglass è stato ucciso con furia selvaggia un prete. Lo hanno pugnalato e poi evirato. Uno scempio avvenuto nella dimora più importante della zona, quella del colonnello Osborne. Dettaglio non secondario in quel Paese: padre Thomas, figlio di un combattente dell’Ira, era ospite benvoluto di una famiglia di protestanti. Una contrapposizione secolare che vale anche al pub: “Il Bushmills in teoria era il whiskey preferito dai protestanti, mentre il Jameson era la scelta dei cattolici. Strafford lo considerava ridicolo, l’ennesima assurdità di un ammasso di mitologie minori sui cui prosperava il paese”.

Strafford è il poliziotto chiamato a risolvere il rompicapo. Arriva nella contea di Wexford, sud-est dell’Irlanda, da Dublino. Altra anomalia: l’ispettore Strafford è un protestante che si è arruolato in un corpo tradizionalmente cattolico. Non solo. L’omicidio del sacerdote viene camuffato da incidente per ordine del potente arcivescovo, Sua Grazia McQuaid. Il poliziotto realizza di essere alle prese con un caso impossibile, nella fredda campagna irlandese. Il centro di tutto è casa Osborne, così pare: il colonnello, la moglie svitata, la figlia irrequieta, il figlio svogliato. Strafford ha come l’impressione che ognuno reciti una parte e nasconda un pezzetto di verità, nella magnifica cupezza dell’inverno irlandese. Come dice Eliot, citato dall’arcivescovo: “Il genere umano non può reggere troppa realtà”.

O’Connor, le storie migliori nascono tra casa e pollaio

C’è qualcosa di disturbante e allo stesso tempo ammaliante nei racconti di Flannery O’Connor. Il lettore abituato a storie rincuoranti potrebbe avvertire disagio, ma non riuscirà a staccarsene. Da O’Connor si diventa dipendenti.

I dieci racconti contenuti in Un brav’uomo è difficile da trovare, prima e unica raccolta pubblicata in vita nel 1955, ora splendidamente ritradotti da Gaja Cenciarelli per minimum fax, sono deliziosamente grotteschi. A tratti somigliano a parabole, ma anziché consegnare una morale colgono la materica tragicità del quotidiano e la drammatica meschinità umana. La cornice è la Georgia di O’Connor, terra rurale, remota, spietata, razzista seppur largamente cattolica.

Un evaso in fuga massacra senza alcun motivo un’intera famiglia incrociata nelle campagne; tre ragazzini incendiano per pura cattiveria la proprietà di una devota di Dio le cui preghiere a nulla varranno; un’anziana offre la figlia ritardata a un sinistro vagabondo mutilato che accetta il dono salvo poi abbandonarla per strada, una giovane donna senza una gamba si fa infinocchiare e depauperare del suo bene più prezioso, l’arto artificiale, da un venditore di Bibbie che a tutto crede tranne che al Signore. Credere, nei racconti di Flannery, non basta per salvarsi, men che mai che se la fede è fanatismo o ipocrisia, a meno che Dio, che è grazia e mistero, non intervenga con effetto straniamento offrendo chance di riscatto e redenzione. Se la possibilità non è colta l’esito è nefasto.

Joyce Carol Oates, che firma la postfazione, specifica come non si tratti “di racconti raffinati in stile New Yorker, nei quali non accade nulla se non nella mente dei personaggi, ma racconti nei quali succede qualcosa di irreversibile nella sua portata, che spesso coincide con la morte violenta”. Il simbolismo è tratto distintivo e riguarda spesso i colori, come il giallo, metafora di santità e purezza ma anche di perdizione e corruzione mentre il rosa in varie sfumature – boccoli lampone, capelli oro e rosa, i fianchi screziati di rosa della collina – richiama la sensualità.

Idolatrata in America – l’impietoso Harold Bloom la salva, Kurt Vonnegut e Raymond Carver la stimano, Nick Cave e Quentin Tarantino la adorano, Bruce Springsteen, che la scoprì durante la lavorazione di Nebraska dice: “Le sue storie mi facevano pensare all’inconoscibilità di Dio e suggerivano una spiritualità tenebrosa” – O’Connor, cattolica ortodossa cresciuta nella sperduta Milledgeville, nella fattoria di famiglia dove allevava galline, oche e decine di pavoni, suo animale feticcio che nella simbologia cristiana rappresenta il Cristo redentore, è maestra nel mescolare comicità e orrore e servirsi della fede come lente per interrogare la natura umana, individuale e universale.

L’happy end non è mai contemplato forse anche in virtù del fatto che la sua stessa vita fu breve, solitaria e dolorosa, spezzata a 39 anni dal lupus eritematoso e da un tumore. Convinta che nessuno avrebbe mai scritto una biografia su di lei (si sbagliava), “le vite trascorse tra la casa e il pollaio sono così poco eccitanti da non vendere neanche una copia”, Flannery è invece diventata un culto.

“Il pianeta notturno a colori”: i segreti degli animali quando brancolano nel buio

La notte non è mai stata così luminosa. Né gli animali così colorati. Su Apple TV + c’è la seconda stagione de Il pianeta notturno a colori, sei nuovi episodi narrati da Tom Hiddleston. Potenza del chiaro di luna e, ancor più, delle telecamere ultrasensibili alla luce, il risultato è sorprendente, giacché osservare nottetempo gli animali equivale a spiarli dal buco della serratura: gli elefanti usano la proboscide come rabdomanti, i canguri cercano cangure scopo accoppiamento, e come dimenticare gli ippopotami affamati, la leonessa disperata per i due cuccioli scomparsi, i falchi pellegrini in picchiata e il gufo reale che si pappa i ragni, l’orso polare e l’aurora boreale della prima stagione?

Usando ottiche abitualmente impiegate per le osservazioni astronomiche e camere low-light, le troupe di Earth at Night in Color hanno catturato l’intero spettro, dalla luce bianca (visibile) alla luce infrarossa (invisibile), quindi hanno collaborato con Nulight Studios per eliminare il rosa e il rosso, e consegnarci un ossimoro di grande fascino: la luce del buio, che fa finalmente anche di noi umani animali notturni, capaci di guardare per la prima volta nell’oscurità.

Se da Netflix a National Geographic, i documentari sulle fiere abbondano, e non difettano di qualità, questa serie prodotta dalla specializzata in fauna Offspring Films cambia le carte in tavola: “La notte. Un mondo oscuro che nasconde più della metà degli animali del nostro pianeta”, intona Tom Hiddleston, ed è una promessa di felicità che abbraccia sei continenti.

Non brancoliamo più, dunque, ma ci facciamo gli affari loro, dai pinguini al plancton, dai tarsi ai puma, dalle foche ai giaguari.

Un peep-show per grandi e – sebbene la catena alimentare non sia anemica – piccini, che sarebbe piaciuto anche al leopardi del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa telecamera ultratecnologica?

 

The Handmaid’s Tale, la resistenza è donna

The Handmaid’s Tale fa pensare al mito di Sisifo. È dai primi episodi che June spinge il masso fin sulla cima della montagna e ogni volta è costretta a ricominciare da capo, a subire altri soprusi, altro dolore, altre sofferenze. Quanta violenza potrà sopportare ancora? E quanta ne potrà sopportare lo spettatore? Qualche risposta arriverà con la quarta stagione, che dal 29 aprile è disponibile su TimVision a 24 ore dalla messa in onda in America.

La serie creata da Bruce Miller è tratta da Il racconto dell’ancella, il romanzo distopico di Margaret Atwood ambientato nella Repubblica di Gilead. Formatosi negli Stati Uniti dopo il golpe messo in atto da un gruppo di estremisti religiosi, Gilead è un regime totalitario e maschilista in cui le donne vengono relegate al ruolo di mogli, serve (le Marta) oppure ancelle se sono ancora in età fertile.

Il racconto segue la protagonista June, una giovane donna che viene catturata insieme alla figlia mentre tenta di scappare in Canada. A Gilead viene separata dalla piccola e assegnata al comandante Fred Waterford, uno degli uomini che ha conquistato il potere dopo il colpo di stato. Il suo nuovo nome è Difred: se June era una donna, Difred è un oggetto finalizzato unicamente alla procreazione.

In una società in cui il tasso di natalità ha toccato i minimi storici, il compito delle ancelle è quello di consentire ai comandanti di mettere al mondo dei figli e alle loro mogli di crescerli. La fecondazione avviene attraverso la Cerimonia della Procreazione, in pratica uno stupro legalizzato durante il quale June è costretta ad accoppiarsi con il comandante Waterford sotto gli occhi dei servi e tenendo per mano la moglie Serena Joy.

All’inizio della serie June è questo: una vittima inerme. Un vittima del sistema di Gilead, di Fred e Serena, della perfida zia Lydia che ha il compito di controllare le ancelle. Con il procedere degli episodi, però, la sua consapevolezza e il suo coraggio aumentano. June scopre che esistono dei movimenti clandestini di resistenza e comincia a collaborare con loro. Un percorso che giunge a compimento quando, nell’ultima puntata della terza stagione trasmessa nel 2019, riesce a caricare 86 bambini su un volo diretto in Canada.

The Handmaid’s Tale 4 esce a due anni di distanza e riparte da lì. June, rimasta ferita durante la fuga dei bambini, è costretta a scappare insieme alle altre ancelle. Sullo schermo vediamo un personaggio completamente diverso da quello che avevamo conosciuto all’inizio della serie. Le esperienze terribili che ha vissuto a Gilead l’hanno trasformata in una donna fredda e spietata che non ha paura di combattere con le stesse armi che i nemici hanno usato contro di lei.

Con l’aiuto di altre donne – la resistenza è praticamente solo femminile – June riesce ad avvelenare un gruppo di comandanti ma per l’ennesima volta viene catturata e torturata. L’escalation di violenza sembra non avere fine. L’inquietudine strisciante delle prime puntate si è progressivamente evoluta in una tensione che nel corso della quarta stagione diventa quasi insopportabile: una bomba che sembra continuamente sul punto di esplodere e non esplode mai.

La macchina da presa, sempre vicinissima al volto della protagonista, rende con estremo realismo la sua rabbia e le sue sofferenze. Da personaggio June si è trasformata in un simbolo: non ha accettato le regole di Gilead, non è diventata Difred, non ha rinunciato alla sua identità e per questo motivo viene castigata in eterno. Eppure resiste e continua a combattere.

The Handmaid’s Tale vede Elisabeth Moss, già nota per il ruolo di Peggy Olson in Mad Men, nella parte di June Osborn. Nel cast anche Yvonne Strahovski (Serena Joy), Joseph Fiennes (Fred) e Ann Dowd (la zia Lydia). Nella quarta stagione prenderanno più spazio i personaggi di Janine e Rita, interpretate rispettivamente da Madeline Brewer e Amanda Brugel. La serie prodotta da Mgm ha vinto nove Emmy e due Golden Globe ed è stata rinnovata per la quinta stagione.

“A casa tutti bene”, Muccino approda alla serialità

Gabriele Muccino dirige a Roma A casa tutti bene – La serie, un family drama in otto episodi realizzato da Sky e Marco Belardi per Lotus Production ispirato al suo film omonimo campione di incassi del 2018. Un segreto legato a una dolorosa vicenda del passato torna all’improvviso nelle vite dei Ristuccia, proprietari di un rinomato ristorante romano a Trastevere. I genitori Alba e Pietro vengono aiutati nella gestione dai figli Carlo, Sara e Paolo mentre nessuno sa dove si trovi Paolo, il fratello artista. Un evento inaspettato sconvolgerà gli equilibri generali quando i Mariani, un altro ramo della famiglia, reclameranno un posto all’interno dell’attività, minacciando di far riemergere un terribile segreto dal passato dei Ristuccia che ha ancora profonde conseguenze nelle vite di tutti. In scena Laura Morante e Francesco Acquaroli nei ruoli dei genitori; Francesco Scianna, Silvia D’Amico e Simone Liberati in quelli dei figli, e tra gli altri Euridice Axen, Emma Marrone , Antonio Folletto, Valerio Aprea, Sveva Mariani, Laura Adriani, Alessio Moneta e Milena Mancini.

Pietro Castellitto, Matilda De Angelis, Filippo Timi, Isabella Ferrari, Tommaso Ragno e Maccio Capatonda sono gli interpreti principali di Robbing Mussolini, un film Netflix ambientato durante il ventennio fascista diretto da Renato De Maria e prodotto da Angelo Barbagallo per Bibi Film. Dopo le riprese a Roma, Monte Soratte, Ruda e Tarvisio la troupe si è trasferita da qualche giorno a Trieste.

A Trieste si gira anche La ragazza ha volato, una coproduzione italo-croata diretta da Wilma Labate e sceneggiata dai fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo dove Nadia (Alma Noce) un’adolescente “scomoda” che vive e cresce nella città crocevia di varie culture coltiva una solitudine da cui uscirà in un modo inatteso.

Rifkin’s Festival, Woody Allen batte pure l’ostracismo

Un film di Woody Allen è buona cosa: perché è di Woody Allen e perché, non raramente, è un buon film. Rifkin’s Festival soddisfarebbe entrambe le condizioni, se nella seconda parte non si sfaldasse un po’, e se al posto di Elena Anaya ci fosse un’attrice meno insignificante. Nondimeno, un film di Woody Allen al cospetto dell’ostracismo di cui è fatto oggetto nella deriva del #MeToo è una buonissima cosa: libertà di espressione contro arbitrio d’oppressione, e che ci sia lo zampino produttivo tricolore è dunque meritorio.

Coproduzione Italia-Spagna realizzata da The Mediapro Studio, Gravier Productions e la nostra Wildside, inquadra Mort Rifkin (Wallace Shawn), un ex professore di cinema e aspirante scrittore, che accompagna la moglie addetta stampa Sue (Gina Gershon, perfetta, ossia liftata come tante romane signore di cinema) al festival del cinema di San Sebastian: lei si legherà ancor più al giovane, tronfio e banale regista Philippe (Louis Garrel) che assiste, lui s’invaghirà della cardiologa Joana (Elena Anaya). Due solitudini che non s’uniscono più e in nuce quella dello stesso Allen, che affida al sodale di lungo corso Shawn la sua visione del mondo: non scriverà nulla, ovvero continuerà a stracciare pagine su pagine, che non sia all’altezza di Dostoevskij; seguiterà a porsi domande sul senso dell’esistenza; persevererà nel considerare la Settima Arte la prosecuzione della vita per altre forme. Il piano metacinematografico, assistito dalla transizione dal colore al bianco & nero della fotografia di Vittorio Storaro, fa sì che la cornice meramente festivaliera si allarghi per ospitare un ritratto cinefilo tout court: Mort rinviene i momenti salienti e le persone fondamentali della sua storia “nei” film di Welles (Quarto potere), Fellini (8 ½), Godard (Fino all’ultimo respiro), Truffaut (Jules e Jim), Bergman (Il settimo sigillo), Buñuel (L’angelo sterminatore). L’umorismo è della partita, Mort ne ha per tutti, dal contendente Philippe, di cui bersaglia il qualunquismo vanaglorioso, a sé stesso, ipocondriaco per amore, pardon, infatuazione. E la Morte bergmaniana che gli raccomanda la colonscopia per dilazionare l’appuntamento non si batte. Certo, altre cose non vanno, ma negli affanni, cardiaci e romantici, di Mort, nel suo prender fiato a bocca aperta, nel suo dibattersi e non rassegnarsi come si possono non avvertire gli ultimi trascorsi di Woody, che il malcelato foglio di via statunitense ha costretto al Grand Tour europeo, con risultati altalenanti: il mediocre Vicky Cristina Barcelona (2008), l’ottimo Midnight in Paris (2011), l’imbarazzante To Rome with Love (2012) e ora il discreto Rifkin’s Festival. Ritrovarlo ottantacinquenne in sala corrobora la ripartenza del comparto cinematografico, e nello spleen di Mort apre alla speranza: chi trova un film trova un tesoro. O, almeno, una seconda possibilità. Dal 6 maggio con Vision Distribution, lunga vita a Woody.

 

“Dalla pesca al teatro” – Giuseppe Zeno, divo da fiction

Come cattivo si è guadagnato un posto di tutto rispetto nel pantheon televisivo (“a volte mi fermano e riconoscono per ruoli di anni fa”); come buono, romantico, frasi in love, carezze e sentimenti positivi ha toccato altri milioni di spettatori su Rai1 con Mina Settembre; quindi teatro, tanto teatro (“ogni tanto qualche collega mi viene a vedere, si stupisce delle mie qualità, e mi offre la sua ricetta per il futuro: ‘Dovresti fare cinema’”).

Giuseppe Zeno ha 44 anni, voce e atteggiamento di chi ha navigato nella vita, di chi conosce i tempi e la pazienza, e non è una metafora: “Mio padre aveva un peschereccio e dagli otto anni ho passato l’estate in barca; poi sono diventato ufficiale di Marina”.

È cresciuto a Ercolano, da lei definito “un teatro all’aperto”.

Tutta la zona è così, dove le dinamiche emotive investono la quotidianità; (ci pensa) a Ercolano avverti l’influenza diretta e indiretta del Parco archeologico, il valore di una storia, con l’unico problema, reale, di farla arrivare direttamente a tutti, di sfruttare gli insegnamenti di Gramsci quando parlava di nazional-popolare senza snobismo. D’identificazione.

Quando ha scoperto Gramsci?

(Tono stupito) Ma ho 44 anni!

Chi ha un riflettore su di sé spesso teme il potere delle proprie parole…

(Sorride) Diciamo che a volte mi sono trovato dei titoli di giornali improbabili; con il tempo ho imparato a stare più attento.

I suoi tanti ruoli nelle fiction l’hanno vincolata rispetto al cinema?

Una sera a un collega, grande talento, gli domandai: “Come mai ti sei legato alla soap opera?”. E lui, tranquillo, mi spiegò il confine: “Esistono attori che lavorano e attori che non lavorano. Io lavoro”. Questa lezione me la porto dietro, non la dimentico; (ci pensa) e poi quanti sono i film che negli ultimi tempi hanno creato o segnato dei ruoli?

Quali, secondo lei?

Forse Tre metri sopra al cielo con Scamarcio, La meglio gioventù, Romanzo Criminale, Le fate ignoranti e L’ultimo bacio.

Di questi, quale le sarebbe piaciuto?

Non ne sento la mancanza, e se non ne ho fatto parte, forse è perché non ero nel periodo giusto.

La preoccupa?

Arthur Miller, attraverso un suo personaggio, sosteneva: “Non è quello che fai, ma come lo fai”. Io cerco di mettere del rispetto nel mio lavoro, perché so quali sono stati i sacrifici, le ansie, le rinunce, e le paure.

Quali rinunce?

Dai 19 anni in poi, invece di divertirmi e studiare, lavoravo come cameriere fino alle due di notte, poi di giorno pensavo ai provini.

Una laurea a cosa sarebbe servita?

Magari a niente, però mi affascina la cultura, mi seduce.

Insomma, è passato da ruoli da super cattivo a super romantico come in Mina Settembre.

Eh, ma sono i cattivi a radicarsi maggiormente, sono loro a creare fascino nel pubblico.

Però Mina Settembre è stata da record…

In generale, all’inizio, il successo non se lo aspetta nessuno, non esiste una ricetta…

Detto questo.

Ho imparato a leggere i segnali, soprattutto quando si prova in teatro o si gira, e se c’è la giusta alchimia, se ci si diverte, se funzionano i meccanismi, allora tutto questo si trasmette all’esterno.

Però oramai la realtà di queste fiction è molto edulcorata, sembra tutto sempre perfetto, senza problemi.

La vita va anche romanzata.


La Piovra non c’è più.

In Mina Settembre l’abbiamo affrontata in maniera indiretta: se parliamo del disagio di una madre che non porta la figlia a scuola, ci occupiamo del fenomeno, dell’aspetto conclamato; e comunque la criminalità organizzata, oggi, si esprime meno attraverso la pistola e maggiormente con i “colletti bianchi”.

Un #MeToo al maschile, con lei c’è stato?

(Silenzio) Be’, in passato è capitato, però me lo aspettavo, e prima o poi pensavo potesse accadere; ho solo salutato, e me ne sono andato.

Le manca il mare?

Non tanto, ci ho passato veramente tanti anni

Esperto di pesce.

Senza esagerare: noi pescavamo gamberi e scampi, poi certo conosco la differenza tra un’orata e un dentice, ma non vado oltre.

Le basi.

(Ride) Allora so come sgamare se il pesce è di mare o d’allevamento; ho già dato, e tanto, quindi ora ne faccio volentieri a meno.

Non le manca nulla, di allora?

Solo la malinconia di quei momenti, quando stai in solitudine, quando sei obbligato a staccare il cervello dai perenni stimoli

Chi è lei?

Mi piacerebbe essere un artista, certamente sono un lavoratore e un padre di famiglia.

Abu Mazen rinvia il voto in Palestina: “Colpa di Israele”

Veti e pretesti incrociati tra l’Autorità nazionale palestinese e Israele hanno permesso ad Abu Mazen, presidente della Cisgiordania e leader dello storico partito Fatah, di posticipare ancora una volta le elezioni. Decisione che il movimento islamico estremista Hamas, al potere nella Striscia di Gaza dal 2006, ha definito “un golpe”. Dopo 15 anni dall’ultimo voto nei Territori occupati, che secondo l’Onu comprendono oltre alla Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme est, sembrava quella buona. Ma il 22 maggio e il 31 luglio, le date fissate per le consultazioni parlamentari e presidenziali, non faranno la storia. Il motivo della decisione di Abu Mazen è il silenzio di Israele che si arroga il diritto di concedere o meno l’andata alle urne dei palestinesi che abitano a Gerusalemme est, la maggior parte dei quali non ha la nazionalità israeliana ma solo la residenza. Israele ha annesso unilateralmente Gerusalemme est contro la decisione dell’Onu che ha stabilito quella parte della città debba divenire capitale dello Stato di Palestina. I residenti arabo-palestinesi di Gerusalemme est possono votare per le Municipali, ma non lo fanno, non riconoscendo l’autorità di Israele. Israele ha motivato la non decisione perché non è stato ancora formato il governo dopo le elezioni di fine marzo. Un escamotage per impedire il voto sapendo che Abu Mazen non avrebbe mai accettato l’esclusione dei gerosolimitani arabo-palestinesi dalle elezioni e per impedire ad Hamas – che dopo la guerra-lampo con Fatah avvenuta 15 anni fa esercita con pugno di ferro il controllo di Gaza – di trarre vantaggio dalla frattura consumatasi negli ultimi mesi all’interno di Fatah. Secondo i sondaggi, il gruppo estremista islamico bollato di terrorismo dall’Occidente avrebbe ottenuto un successo tale da mettere in pericolo l’egemonia ventennale del partito fondato da Yasser Arafat. Ma a mettere in forse la vittoria di Fatah ci sarebbe stata anche la nuova lista “Libertà” creata proprio dal nipote di Arafat, Nasser al Kidwa.

Mosca sanziona Sassoli, lui di rimando cita Tolstoj

La Russia reagisce a misure dell’Ue contro suoi cittadini legate anche al caso Navalny e vieta l’ingresso a David Sassoli, presidente del Parlamento europeo, e ad altre sette personalità europee. La misura suscita una levata di scudi nell’Assemblea di Strasburgo e nelle Istituzioni europee, oltre che in Italia e ovunque nell’Ue. Anche gli eurodeputati della Lega esprimono solidarietà al presidente Sassoli “e a tutti gli altri rappresentanti Ue inseriti nella black list dal ministero degli Esteri della Russia”: in una nota, scrivono che “le sanzioni ingiustificate e le intimidazioni non sono la risposta per normalizzare i rapporti e aiutare il dialogo”. La Lega è spesso critica dell’atteggiamento dell’Ue verso la Russia e ha sovente contestato l’imposizione di sanzioni, che innescano ritorsioni: la solidarietà a Sassoli appare significativa, ma inevitabile.

L’annuncio delle decisioni di Mosca è stato dato ieri mattina dagli organi di stampa russi: Interfax spiega la misura come “una risposta alle misure limitative introdotte il 2 e 22 marzo verso sei cittadini russi”. I nomi di spicco sono Sassoli e la Jourova, vicepresidente per i valori e la trasparenza della Commissione europea. Il resto è una caccia all’uomo nei Baltici e colpi a salve in Francia, Germania e Scandinavia. Sassoli, su Twitter, scrive: “Non sono benvenuto al Cremlino. Lo sospettavo… Nessuna sanzione o intimidazione fermerà il Parlamento europeo o me dalla difesa dei diritti umani, della libertà e della democrazia. Le minacce non ci zittiranno. Come ha scritto Tolstoj, non c’è grandezza dove non c’è verità”. Nei confronti di Sassoli e della Jourova, la risposta solidale dell’Europa è immediata e pressoché unanime. Il commissario all’economia Paolo Gentiloni giudica le sanzioni “tanto ingiustificate quanto inutili”. Il leader liberale europeo, ed ex premier belga, Guy Verhofstadt, nota: “Sassoli e Jourova sono in buona compagnia: io sulla lista nera russa ci sono da anni. Quanto peggio deve andare prima che l’Ue vada oltre le sanzioni simboliche e colpisca gli oligarchi intorno a Putin?”. La guerra delle sanzioni e delle ritorsioni tra Bruxelles e Mosca va avanti dal 2015 dopo le prime sanzioni europee contro la Russia in seguito all’annessione della Crimea; e s’è recentemente ravvivata con il riaccendersi delle tensioni al confine tra Russia e Ucraina e in parallelo all’inasprimento del clima fra gli Usa e la Russia, per l’Ucraina, ma anche per il ‘caso Navalny’ e per le ingerenze russe nella campagna presidenziale Usa 2020.

A marzo Usa e Ue con Gran Bretagna e Canada avevano annunciato sanzioni concertate contro personalità russe e cinesi (queste per la violazione dei diritti umani degli uiguri nello Xinjiang). Senza contare le tensioni create e le raffiche di reciproche espulsioni generate dai casi, veri o presunti, di spionaggio, in cui l’Italia ha avuto la sua piccola parte con la vicenda di Walter Biot, l’ufficiale della Marina accusato di vendere documenti allo spionaggio russo in cambio di denaro. Ma si sa che le cosiddette sanzioni diplomatiche, come le espulsioni di diplomatici e le limitazioni ai viaggi di personalità, fanno rumore, ma non fanno veramente danni ai rapporti bilaterali, diversamente dalle sanzioni economiche.

Colpendo Sassoli e la Jourova, i russi hanno mirato più in alto che mai finora. Italia e soprattutto Repubblica Ceca erano fra i Paesi indicati come possibile sede dell’incontro in campo neutro tra Biden e Putin, che non è stato ancora fissato.

Il Paese in crisi costante “ostaggio” di King Bibi

Tre giorni prima della scadenza del suo mandato per formare un governo, Netanyahu sta conducendo una guerra psicologica contro l’altra parte. Il suo obiettivo finale è impedire ai suoi rivali di raggiungere accordi che consentirebbero a Naftali Bennett e Yair Lapid e agli altri giocatori del blocco composto da sette partiti di ottenere il mandato dal presidente Reuven Rivlin. Se distolgono gli occhi dall’obiettivo di dare una svolta alla politica israeliana dopo 11 anni di regno di “King Bibi” e iniziano a perdersi nelle discussioni sulle sue proposte, Netanyahu raggiungerà il suo scopo: il mandato che gli verrà tolto sarà dato alla Knesset. Lì ha più possibilità – non necessariamente di formare un governo – di forzare le mosse verso una quinta elezione. Tre dei suoi avversari di oggi – Naftali Bennett, Gideon Sa’ar e Avigdor Lieberman – sono stati suoi stretti collaboratori nel passato e sanno bene che con Bibi non bisogna mai dire mai.

Le squadre negoziali di Yamina, Yesh Atid e New Hope stanno tenendo colloqui intensi da giovedì. Il collante della coalizione – che comprende sette partiti che vanno dalla destra fino alla Lista Araba – non può essere solo il motto “Tutti tranne Bibi”, serve un programma, intese chiare e accordo su ministri, presidente della Knesset e commissioni parlamentari. “Le probabilità sono ancora 50-50”, spiega una fonte di Yesh Atid coinvolta nei negoziati. “Tutto dipende da una decisione fondamentale che Bennett deve prendere, se vuole un governo di cambiamento o rinunciare a questa mossa. Oltre a questa decisione di base, ci sono ancora alcuni serie divergenze tra le parti, ma sembra che possano essere colmate”. Yesh Atid, Labour e Meretz – partiti di centrosinistra e sinistra – guardano con sospetto alla condotta dei partiti di destra Yamina e New Hope. I soci di Lapid sono preoccupati che se Bennett avesse lui il compito di formare un governo dal presidente la prossima settimana, potrebbe continuare i colloqui con Netanyahu nel tentativo di formare una coalizione di destra. Lapid insisterà quindi per ottenere lui stesso il mandato da premier se le trattative non si concluderanno entro martedì sera. Durante i negoziati, Lapid ha accettato di scendere a compromessi sulle dimensioni del prossimo gabinetto e sul numero di portafogli dati a Yamina e New Hope. Lapid ha espresso la volontà di includere 24 ministri nel prossimo esecutivo, dopo aver precedentemente affermato di volere un governo con non più di 18 ministri. Un altro problema che frena la conclusione di un accordo è il tentativo di rendere il nuovo governo un organo efficace. Ogni partito avrà lo stesso potere, con il gabinetto di sicurezza composto da un numero uguale di rappresentanti per ciascuna parte. Un problema più essenziale è se i partiti di destra accetteranno di fare affidamento sull’alleanza della Lista congiunta di tre partiti arabi per formare un governo. “Senza questo non c’è coalizione”, spiegano dal Meretz.