Ultraortodossi, il pellegrinaggio senza regole diventa un massacro

“Si tratta di uno dei disastri civili più duri che Israele abbia mai conosciuto”. Le vittime sono 45, i feriti centinaia; polizia e forze di sicurezza sono sotto assistenza psicologica così come i sopravvissuti. Le foto e i video in Rete sono angoscianti: “Vi prego di non pubblicarne più, le famiglie delle vittime stanno già soffrendo abbastanza”, ha chiesto il premier Benjamin Netanyahu dal Monte Meron, dove cadaveri coperti dai teli sono allineati poco distanti dal cumulo di oggetti rimasti a terra, occhiali e capelli schiacciati sotto il peso della calca. “Stavo andando a vedere l’accensione del falò, improvvisamente sono stato travolto da un’onda. I nostri corpi venivano trascinati via, le persone sono state sbalzate in aria, altre schiacciate a terra. Un bambino che si aggrappava alla mia gamba per salvarsi. È stato terribile”. David è uno delle centinaia di testimoni della scena infernale avvenuta giovedì alla ricorrenza di Lag B’Omer della comunità Haredi, annuale festa religiosa in onore del rabbino Shimon Bar Yochai, saggio del II secolo ritenuto autore dello Zohar, testo fondamentale del misticismo ebraico. A quanto ricostruito dalla polizia, i partecipanti della setta di Tolodot Aharon sarebbero scivolati sulla rampa che porta al piazzale sottostante. “C’erano dalle 7 alle 10 mila persone”, assicurano testimoni. “Urla, caos. Abbiamo pensato che ci fosse un allarme bomba”, ha raccontato un pellegrino a Channel 12 Tv.

Da altre ricostruzioni pare che a bloccare il cancello d’uscita a fine rampa fosse la polizia. “In quella fretta ci siamo buttati gli uni sugli altri. Ho visto persone morte accanto a me”, ha raccontato Maariv. All’incredulità generale e al dolore della comunità ortodossa e di Israele tutto – che domenica osserverà un giorno di lutto nazionale –, si aggiunge la domanda: come è stato possibile? Netanyahu ha promesso un’inchiesta. Polemiche e rimpalli di responsabilità non mancano. Ma c’è anche chi fa autocritica. Yossi Elituv, giornalista ortodosso direttore del settimanale Mishpacha e conduttore di Israel Radio, attacca la sua comunità per l’insofferenza mostrata alle misure anti-Covid. Già l’anno scorso le celebrazioni erano state ridotte causa virus e quest’anno il ministero della Sanità aveva sconsigliato – invano – di partecipare al pellegrinaggio e al festival che raccoglie la folla sul Monte Meron con canti, balli e falò fino all’alba, per evitare un nuovo dilagare di contagi. Alle celebrazioni si stima fossero presenti 100 mila persone. “La nostra comunità ha il dovere di imparare la lezione”, twitta Elituv che attacca l’organizzazione caotica del pellegrinaggio divisa tra sette chassidiche in competizione tra loro. “Il nostro primo e immediato compito è liberare il Monte dal controllo delle sette”, ha esortato il giornalista. “Lo Stato deve istituire un’autorità per gestire il sito”. Il riferimento è alla setta Tolodot Aharon, il gruppo con sede a Gerusalemme meglio organizzato e coeso della comunità ultraortodossa. Hanno eretto barriere sociali e culturali e ogni tipo di intervento negli affari interni è visto come un’usurpazione del loro sistema di credenze. Le tensioni erano iniziate giovedì pomeriggio, quando due persone erano state arrestate negli scontri con la polizia apostrofata come “nazista” mentre cercavano di far rispettare le regole anti-assembramento. Tuttavia, nonostante i 5 mila agenti, il governo non è riuscito a raggiungere un accordo su come gestire le celebrazioni, con il premier Netanyahu, secondo fonti a lui vicine, reticente nel far arrabbiare i politici Haredi con le restrizioni. Secondo l’editorialista di Haaretz, Anshel Pfeffer, la causa di ciò che è avvenuto è da ricercare nell’autonomia lasciata da “tutti i governi alla comunità Haredi non solo sulla tomba di Rabbi Shimon ma anche sui quartieri ultraortodossi di Gerusalemme e Bnei Berak”. Secondo il giornalista, “che le strutture traballanti intorno al complesso fossero inadeguate era emerso in due rapporti del controllore statale”. Ma il governo non ha agito “in un luogo in cui le leggi dello Stato semplicemente non si applicano”.

Grillo jr & C., la nuova strategia: col rito abbreviato salta il confronto

Lo scenario:in caso di rinvio a giudizio gli avvocati dei quattro ragazzi indagati per la violenza sessuale di gruppo che sarebbe avvenuta a Porto Cervo, nell’appartamento di famiglia di Ciro Grillo, potrebbero chiedere il rito abbreviato.

Questa strategia potrebbe avere ripercussioni importanti sul procedimento. Il rito abbreviato, che comporta uno sconto di pena di un terzo in caso di condanna, prevede che il processo si celebri con le prove raccolta fino a quel momento dal pm. Il che significa, in caso di violenza sessuale, che la vittima non potrà più replicare o aggiungere altro rispetto a quanto già dichiarato fino a quel momento. La vittima potrebbe quindi non avere più la possibilità di dare la propria versione sui nodi più contraddittori della vicenda.

Nei mesi scorsi la questione è stata affrontata fra i magistrati che si occupano del caso a Tempio Pausania, il procuratore Gregorio Capasso e la sostituta Laura Bassani. Al termine di un confronto su posizioni talvolta differenti, la decisione finale è stata quella di non chiedere un incidente probatorio, una scelta procedurale che avrebbe permesso un confronto fra la vittima e gli indagati in tutti quei punti dei rispettivi racconti in cui i fatti sono descritti in modo diverso. È ancora una possibilità a disposizione del giudice, che potrebbe ancora richiedere come integrazione un confronto fra le parti o una perizia. Ma terminata la fase preliminari questa possibilità svanirà.

I fatti, come è noto, risalgono alla notte del 16 luglio del 2019. Ciro, figlio di Beppe Grillo, sta festeggiando in Sardegna la fine della maturità insieme ai tre amici, Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria. Al Billionaire conoscono due ragazze milanesi, S.J. e R.B., e alla chiusura del locale le invitano nella casa di Grillo. R.B. si addormenta sul divano, intontita dall’alcol. A raccontare il resto della serata ci sono due versioni dei fatti. Quella di S.J.: la ragazza viene prima violentata da Corsiglia, intorno alle 6, e in seguito dagli altri tre, intorno alle 9. I ragazzi negano tutto. Corsiglia dice di essersi addormentato dopo un rapporto consenziente con lei. Gli altri tre raccontano invece di un rapporto di gruppo consenziente, filmato con il telefonino. Del filmato – e questo è uno dei nodi da approfondire – non c’è traccia nella denuncia della vittima. Un altro elemento importante riguarda l’abuso di alcol: per gli inquirenti la vittima poteva essere ubriaca, dunque non in grado di esprimere un consenso. Grillo, Capitta e Lauria devono rispondere anche di una seconda violenza sessuale, per essersi scattati dei selfie osceni accanto a, R.B., priva di sensi.

Dal caso Genovese a Ciro, riecco il duo Giletti-Corona

Adesso sappiamo che Beppe Grillo, nell’ormai noto video suicida, una verità l’aveva detta: dei quattro indagati, almeno uno coglioncello lo è per davvero. E senza bisogno di leggere le carte. A quanto pare, infatti, Vittorio Lauria, quello che dei quattro viene puntualmente descritto dalla stampa come “il meno abbiente” sembrerebbe essere anche il meno furbo. Si tratta infatti dell’unico indagato che ha pensato bene di rilasciare al telefono delle dichiarazioni sul presunto stupro della ragazza in Sardegna. E di rilasciarle, qui sta il bello, a una persona ai domiciliari che poco più di un mese fa diceva di sé “Sono uno psicopatico”: Fabrizio Corona. Il custode ideale di qualunque confidenza, soprattutto se quella confidenza potrebbe costare un futuro nelle patrie galere. Fabrizio Corona che ad aprile, dopo essere rientrato in carcere per l’ennesima volta, esce dal carcere per l’ennesima volta tra spettacolari atti di autolesionismo e una diagnosi di incompatibilità col regime carcerario per ragioni psichiatriche. Insomma, è troppo compromesso da un punto di vista della salute mentale per sopportare il carcere, ma fuori dal carcere torna lucidissimo.

E così, dopo essersi procurato il numero di telefono di Vittorio Lauria, lo chiama – pare – senza palesargli le sue intenzioni di cedere la telefonata a un programma tv, e registra la chiamata all’insaputa del ragazzo. Sembra che anzi, Corona gli abbia espresso solidarietà per la bufera mediatica, recitando con abilità la parte del “ci sono passato anche io”. Il fesso gli spiffera tutto (“la ragazza aveva bevuto”, “Grillo non doveva fare quel video” etc…) e la domenica si ritrova le sue confidenze in onda da Giletti. Strano, eppure Fabrizio sembrava così affidabile. Chi l’avrebbe mai detto.

Insomma, Corona esce dal carcere, va ai domiciliari e si riforma all’istante la coppia di cronisti d’assalto Corona/Giletti, dopo il precedente successo della trattazione in tandem del caso Genovese, tra denunce varie, diffide, presunte stuprate portate in tv con cachet e mediazione di Corona. E, non bastasse, nella giornata di giovedì un durissimo richiamo di Agcom recitava così: “Nella seduta di oggi il Consiglio dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, all’unanimità, ha adottato una delibera di richiamo nei confronti de La7 per il programma Non è l’Arena in merito alle trasmissioni dedicate al caso Alberto Genovese. (…) La trattazione del caso non sempre ha assicurato il doveroso equilibrio tra informazione e rispetto della riservatezza delle indagini e dei diritti alla dignità, all’onore e alla reputazione delle persone. (…) Al di là del legittimo diritto di cronaca e della rilevanza sociale del tema, tornare sulla stessa vicenda per così tante volte ha portato all’estrema pubblicizzazione del dramma personale, enfatizzando e spettacolarizzando eventi che in definitiva hanno amplificato le sofferenze delle stesse giovani donne coinvolte (…). Il confronto fra diverse tesi non sembra essere stato adeguatamente garantito, in quanto la lunga ‘serializzazione’ della vicenda ha inevitabilmente ingenerato, anche nello spettatore più attento, il rischio di confusione tra i ruoli delle parti coinvolte, determinando sia una sorta di vittimizzazione secondaria sia, in definitiva, la perdita dell’efficacia informativa e sociale dell’approfondimento”.

Proprio come avevamo scritto giorni fa sul Fatto, la trattazione superficiale e sguaiata a Non è l’Arena di un evento drammatico come la violenza sessuale può generare ulteriori sofferenze alla vittima (il triste fenomeno della vittimizzazione secondaria, appunto).

Massimo Giletti, mollato il caso Genovese, sta adottando lo stesso schema con il caso Grillo: testimonianze della ragazza su posizioni sessuali e rapporti orali trascritte sul megaschermo dietro di lui, e telefonate agli indagati affidate a Fabrizio Corona che registra le conversazioni e le cede – si presume con un cospicuo accordo economico di base – allo stesso Giletti. Una condotta che potrebbe anche essere valutata sul profilo penale, tra le altre cose.

Se uno è incompatibile col regime carcerario, viene insomma da chiedersi se l’altro sia compatibile col regime dell’informazione. Nel frattempo, tra Grillo che fa il video, Lauria che parla con Corona, l’avvocato di Lauria che lo molla perché l’assistito parla con Corona, le amiche di Lauria che raccontano di aver visto il video del presunto stupro con conseguente ulteriore sospetto che i ragazzi siano colpevoli pure di revenge porn, possiamo dire che sulle responsabilità penali nella vicenda si esprimeranno eventualmente i giudici. Sulla pura e semplice strategia difensiva mi esprimo già io: Chernobyl ha fatto meno danni.

Autostrade, da Cdp&C. l’ultima offerta. La palla passa ai grandi soci di Atlantia

Per conoscere l’epilogo della telenovela sul cambio di proprietà di Autostrade per l’Italia (Aspi) bisognerà attendere la fine del mese. Ieri si è riunito il cda di Atlantia, la holding controllata dai Benetton che ha l’88% di Aspi. Il consiglio (ancora in corso mentre andiamo in stampa) dovrebbe convocare per il 30-31 maggio l’assemblea degli azionisti che deve esprimersi sull’ultima offerta della cordata guidata da Cassa depositi e prestiti con i fondi Blackstone e Macquarie.

La cordata pubblica, incaricata dal governo di rilevare il controllo del concessionario per chiudere la ferita aperta dal Morandi ha lasciato invariata la valutazione di Aspi a 9,1 miliardi. I vertici di Atlantia chiedevano di portarla a 9,5 miliardi per convincere i fondi azionisti a votare sì. Le modifiche riguardano invece solo alcune partite finanziarie (le ticking fee, che remunereranno il capitale fino alla chiusura dell’operazione, a inizio 2022): circa 180-200 milioni. Atlantia chiedeva anche di inserire nel prezzo i 350 milioni di ristori Covid. La richiesta non è stata accolta, ma non vuol dire che quei soldi non arriveranno.

Questa storia è paradossale. Nel nuovo Piano economico finanziario (Pef) proposto al ministero – che sarà anche quello del concessionario a guida pubblica – Aspi ha incorporato negli aumenti tariffari fino a fine concessione (nel 2038) anche 332 milioni come “ristoro” per il calo di traffico causato dalle restrizioni Covid nel 2020. L’Authority dei trasporti ha riconosciuto che Autostrade deve essere ristorata, come gli altri concessionari anche se non avrebbe avuto diritto a quei soldi perché la sua generosa concessione prevede di doversi almeno accollare il rischio traffico. L’Authority, invece, ritiene che la pandemia sia un caso eccezionale e a maggio emanerà un decreto per regolare gli indennizzi. Che saranno, manco a dirlo, a carico degli utenti e finiranno, via dividendo, agli azionisti di Atlantia.

La gestione Benetton è stata disastrosa garantendo ai soci profitti stellari anche a scapito della manutenzione, ma quella pubblica – se resta lo stesso Pef, bocciato dall’Authority perché troppo generoso – non garantirà tariffe più basse agli automobilisti e Altantia uscirebbe di scena con una plusvalenza finanziaria (a bilancio valuta Aspi 6 mld). Tutto, comunque, dipenderà dall’assemblea. Benetton e soci vogliono vendere, ma per vincere in assemblea dovranno convincere almeno uno dei grandi fondi azionisti.

Morandi, la verità nella chat del fantacalcio: “Facevamo controlli soltanto con i binocoli”

Il Ponte Morandi è appena crollato e la verità cancellata dai documenti ufficiali si fa strada in un luogo impensabile, la chat aziendale del fantacalcio dei dipendenti di Spea, la società incaricata del monitoraggio delle opere autostradali: “Sono stato a Genova tre anni e le pile e le stilate della pila non le abbiamo mai viste. In passato da quello che so non hanno mai fatto ispezioni alla parte media della pila… boh… comunque un bel casino”.

La chat di Whattsapp è stata sequestrata dalla Guardia di Finanza e fa parte del materiale acquisito agli atti dell’inchiesta sulla strage. L’autore di quel messaggio si chiama Daniele Facchinei, è un dipendente della sede Spea di Bari e fra il 2009 e il 2011 ha prestato servizio proprio presso l’ufficio genovese della società. Dopo aver lasciato il capoluogo ligure è rimasto in contatto con i vecchi colleghi attraverso uno dei più classici passatempi dell’uomo medio italiano, che passa attraverso aste, voti ai giocatori di calcio e classifiche delle squadre costruite tra amici e colleghi. A incuriosire i finanzieri del Primo Gruppo di Genova è proprio questo: mentre il viadotto Polcevera era perfetto sui documenti ufficiali, l’assenza di reali verifiche sembra una verità assodata in un contesto informale e rilassato come il gruppo WhatsApp legato al gioco calcistico. Fra i partecipanti alla chat c’è anche Emanuele De Angelis, il progettista che ha curato il progetto di retrofitting del ponte Morandi, documento che rassicurava il ministero con dati falsi. A confermare il sospetto è lo stesso Facchinei, interrogato il 2 luglio del 2020: “Non ricordo di ispezioni ravvicinate sul Polcevera con l’uso di piattaforme rialzate o altri mezzi speciali. La procedura utilizzata erano ispezioni da terra fatte con binocoli”.

Le rivelazioni del dipendente Spea confermano ciò che la Procura di Genova sospetta da tempo: tutta la macchina dei controlli delle opere autostradali si fonda su una falsificazione “sistemica”. Al punto che durante l’interrogatorio il tecnico mette in guardia i militari su rischi che potrebbero riguardare altri viadotti, ispezionati nella stessa maniera: “Il Sori, il Cantarena, il Nervi e il Bisagno” (ponti liguri sulla A12 e sulla A10). Quest’ultimo, in particolare, è da tempo oggetto delle proteste degli abitanti della zona per la caduta di calcinacci e pezzi di cemento.

Diasorin, indagati l’ad Rosa e Venturi del San Matteo

Notizie riservate veicolate da un alto dirigente dell’ospedale S.Matteo di Pavia e da un vertice della multinazionale Diasorin. Accusa: insider trading. Ieri, la Procura di Milano ha chiuso l’indagine. Due gli indagati: il presidente del S. Matteo Alessandro Venturi e l’ad di Diasorin Carlo Rosa, entrambi già accusati a vario titolo dalla procura di Pavia di peculato e turbata libertà nella scelta del contraente rispetto alla sperimentazione dei test sierologici fatta da Diasorin con il S. Matteo e acquistati dalla Regione. Prima che il 7 aprile fosse data comunicazione della conclusione dei test, Venturi, secondo i pm, ha veicolato la notizia al leghista Andrea Gambini, presidente dell’istituto Besta di Milano, e a Francesco Bombelli, nel Cda del Besta in quota Regione. Sia Gambini sia Bombelli (non indagati) avranno una sanzione amministrativa. Hanno incassato dalle notizie riservate, il primo 1.500 euro il secondo 1.300. Carlo Rosa darà l’info a un conoscente. L’indagine si è alimentata anche delle chat acquisite dalla Procura di Pavia.

Rifiuti: Zingaretti commissaria, Raggi va al Tar

Lunedì mattina la Regione Lazio, salvo colpi di scena, commissarierà il Comune di Roma sul fronte dei rifiuti. Ma il Campidoglio ha già pronta l’impugnativa con la quale si rivolgerà al Tar del Lazio per sospendere il provvedimento e far decidere a un giudice amministrativo chi ha ragione. La decisione plateale del governatore Nicola Zingaretti dà il via alla guerra di carte bollate con Palazzo Senatorio. Il governatore, un mese fa, aveva firmato un’ordinanza che imponeva al Comune di trovare una discarica all’interno del proprio territorio dove portare i rifiuti, rimasti senza “casa” all’indomani dell’arresto dell’imprenditore monopolista, Valter Lozza e della dirigente regionale, Flaminia Tosini. Discariche che la Regione non ha mai previsto in otto anni di pianificazione. Cosa ne sarà dell’immondizia romana? Il Campidoglio – è l’indiscrezione che circola – chiederà di riaprire la discarica di Colleferro (di proprietà della Regione) che venne chiusa con un anno di anticipo rispetto alla capienza effettiva.

Letta e i rischi ragionati: non sbaglia lui

Enrico Letta al Messaggero: “Se sbagliamo il Primo maggio, richiudiamo e ci giochiamo l’estate”. Fermi tutti. “Se sbagliamo”, chi? Letta intende dire se sbaglia la maggioranza di governo, sostenuta convintamente dal Pd e dal suo segretario? Dunque, Letta intende dire che la decisione di tenere aperta quasi tutta l’Italia nel ponte del Primo maggio lui l’ha condivisa personalmente (altrimenti avrebbe detto non “se sbagliamo”, bensì “se sbagliano”)? Perciò Letta intende dire che la responsabilità del liberi tutti nelle 48 ore che si annunciano tra le più assembrate dell’intero anno – insieme a Pasqua (dove però era tutto chiuso) e a Ferragosto – lui l’ha concordata sulla base del “rischio ragionato” enunciato dal premier Mario Draghi? In tal caso, Letta intende assumersi (insieme a Draghi, il M5S, Salvini, Renzi, eccetera) la piena responsabilità politica di quello che gravemente afferma subito dopo il “se sbagliamo”? Ovvero: “Richiudiamo e ci giochiamo l’estate”? A questo punto, tuttavia, il “rischio” assunto da governo e maggioranza non parrebbe al contrario abbastanza irragionevole se la scommessa, per così dire, prevedesse in caso di sconfitta la perdita dell’intera posta: un altro lockdown

e un’estate barricati in casa? È questo che intendeva comunicarci Letta? Ma nella malaugurata ipotesi, ventilata dalla virologia peggiorista dei Galli e dei Crisanti, le cose non andassero per il verso giusto (prima, durante e dopo il Primo maggio), Letta ci sta dicendo per caso che il governo Draghi, insieme alla maggioranza che convintamente lo sostiene, potrebbe ammettere: scusateci abbiamo fatto una cazzata, esercitando così l’etica della responsabilità di weberiana memoria, con le conseguenze del caso? Fermi tutti, ci assale un atroce dubbio. E se dicendo “se sbagliamo” Enrico Letta non avesse voluto dire se sbagliamo noi che abbiamo aperto quasi tutto? Bensì, se sbagliate voi (inteso come popolo italiano) ad assembrarvi stupidamente sulle spiagge e nelle piazze, perché poi sono cavoli vostri? E dunque poi non lamentatevi se “richiudiamo e ci giochiamo l’estate”, irresponsabili che non siete altro. Una complessa questione interpretativa che risale all’epoca dell’Inno di Mameli. Là dove il testo dice “stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte”. Pronti alla morte chi? Voi o noi?

Rai, ora si prepara una lottizzazione di vera “taglia XL”

 

“Si tratta di cogliere un’altra occasione cruciale per disegnare una Rai riconducibile alla versione aggiornata di ‘una nazione che sa parlare alla nazione’, con il linguaggio della trasparenza, della completezza e della contestualità, cioè del pluralismo”

(dall’intervento di Sergio Zavoli al Seminario sullo stato della tv in Italia, 24 novembre 2009 – Atti parlamentari, pagg. 37-38)

 

 

Più che una corsa a salire sul carrozzone Rai, stavolta sarà una gara a ostacoli quella che è scattata alla mezzanotte di ieri, dopo la scadenza dei termini per la presentazione delle candidature per il nuovo consiglio di amministrazione di Viale Mazzini. Ora la maggioranza extralarge che sostiene il governo Draghi si spartirà poltrone e poltroncine della radiotelevisione pubblica, al vertice dell’azienda, alla guida delle reti e delle testate giornalistiche, in base agli attuali rapporti di forza parlamentari. E non potrà fare a meno, ovviamente, di concedere qualche strapuntino anche all’unica opposizione superstite, quella della combattiva e smaniosa Giorgia Meloni, le cui pretese vanno dalla presidenza della Commissione di Vigilanza a quella della stessa Rai.

Non si fa fatica a immaginare che sarà, di conseguenza, una lottizzazione “taglia XL” all’insegna della più vieta partitocrazia. Ma si tratterà, comunque, di una “guerra dei bottoni”, come quella narrata dallo scrittore francese Louis Pergaud nel suo romanzo per ragazzi: per il semplice motivo che al Parlamento spetta nominare quattro consiglieri su sette, mentre il presidente e l’amministratore delegato saranno scelti dal governo su proposta del ministro dell’Economia, cioè del medesimo governo. Tutto ciò in forza dell’infausta “riformicchia” introdotta a suo tempo da Matteo Renzi che trasferì il controllo della Rai a Palazzo Chigi.

Il settimo componente, invece, verrà eletto dai circa diecimila dipendenti dell’azienda: dai 1700 giornalisti, rappresentati dal sindacato interno Usigrai, a cui s’aggiungono dirigenti, quadri e tecnici rappresentati dalle sigle sindacali esterne, quanto mai divise e sbandate. E con ogni probabilità, sarà il consigliere uscente Vittorio Laganà, un tecnico del suono che ha già lavorato con lodevole impegno nell’ultimo Cda e ha maturato una proficua esperienza.

Inutilmente l’Usigrai aveva proposto, per bocca del suo segretario Vittorio Di Trapani, un accordo fra tutte le categorie interne per esprimere un candidato unitario. Sarebbe stato un atto di coerenza, un freno alla lottizzazione partitocratica. Ma le divisioni, o meglio le faide sindacali, hanno impedito di raggiungere un accordo contro le candidature di bandiera.

La proposta dell’Usigrai sarebbe servita da “modello” per la politica, e in particolare per il governo, nella prospettiva di affrancare la Rai dalla sudditanza ai partiti, assicurando all’azienda una governance trasparente e competente. Basterebbe rispettare i requisiti previsti dal Testo Unico che disciplina il servizio pubblico, a cominciare dalla “notoria indipendenza di comportamenti”, per selezionare le candidature in lizza. Altrimenti, la maggioranza extralarge rischia di fare come e peggio di tutte le altre che finora l’hanno preceduta.

Riuscirà il “Governo dei Migliori” a interrompere questa pratica e a invertire la tendenza? A giudicare dal toto-nomine, si dovrebbe rispondere di no. C’è il fondato timore che il governo Draghi subisca le pressioni e i condizionamenti dei suoi stakeholder, gli azionisti e i “portatori d’interessi”, politici, confindustriali e familiari, che puntano a “piazzare” le proprie bandierine sulla Rai e magari a mettere le mani nella cassa.

 

Dice Gesù. La vita è la vite: germoglio e flusso, non una “cosa” da piazzare

Gesù dice ai suoi discepoli: Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla (Gv 15,1-8). L’immagine della vite e dei suoi tralci era comune per chi ascoltava Gesù ed è molto presente nella Bibbia. Che cos’è il tralcio? È il ramo giovane delle viti. È detto anche germoglio se non è ancora lignificato, e sarmento se invece è secco e staccato dalla pianta. La lingua ci aiuta a capire, dunque. Ci sono due parole: una per indicare un tralcio giovane, attaccato alla vite, vivo, e una per indicare un tralcio staccato, e dunque morto.

Qui Gesù fa comprendere come la vita non è una “cosa” da piazzare da qualche parte. La vita è un flusso, un processo, una germoglio. La vita –quella materiale e quella dello spirito – riguarda le connessioni, i passaggi fluidi. Non ha nulla di rigido, né di sterile. La vita non è sarmento. L’idratazione che è propria del vivente non è un “innaffiare” dall’esterno, ma un nutrimento interno che attraversa le radici e scorre dentro. E a che cosa porta questo processo nutritivo della linfa? Al frutto. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto. C’è un principio biologico e organico che regola la vita di fede.

Una vita senza frutti è sterile. La nostra vita non deve essere un legno secco. Gesù insiste: Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Il fuoco divora ciò che è secco. In poche righe viene dipinto un dramma: il fallimento bruciante della vita.

Intuiamo la verve polemica di Gesù che insiste sulla vite vera. Ci sono infatti viti (e vite) fake. Guai a considerare il Vangelo un insieme di buone pratiche da fare, di comandamenti da osservare scrupolosamente. Guai a considerare la tradizione spirituale come un sacco di pietre da portare addosso spostandole da una parte all’altra, guai a esaurirla a “pizzi e merletti” da custodire in un museo. Se la fede produce vite rinsecchite, scarsamente idratate interiormente, impaurite, rigide e lignificate, allora – per usare le dure parole di Gesù – non resta che attendere: il Padre mio, che è l’agricoltore verrà e taglierà il tralcio. No: amato, l’uomo esiste, ed è amando che si afferma.

E così guai a considerare la vita senza l’intelligenza dinamica del processo in corso, della crescita, del miglioramento. In particolare, la vita sociale e politica: non dimentichiamo che secondo la tradizione profetica il frutto che il Padre si attende dalla vite è la giustizia: la vigna del Signore degli eserciti è la casa di Israele… Egli si aspettava giustizia ed ecco… grida di oppressi (Is. 5, 7).

Ci sono però tagli buoni, dice Gesù: quelli della potatura, la parziale recisione dei rami per sopprimere parti invecchiate o malate della pianta. Occorre liberarsi dei vicoli ciechi, senza paura. Il Padre, infatti, ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Quante potature ci hanno aiutato a essere più umani! Non c’è frutto buono senza potatura.

La vita – e innanzitutto quella dello spirito – è un processo nutritivo, uno scorrere interno, una idratazione continua. E questo è possibile, dice Gesù, se Dio scorre nelle nostre vene e nei nostri polsi, se la sua vita divina tocca ogni aspetto della nostra esistenza: fisico, psicologico, affettivo, morale, socio-politico e spirituale. Qui è il vero “segreto” della preghiera: il link attivo, la connessione. Ed è in questa connessione che è glorificato il Padre mio, dice Gesù. Aveva ragione Ireneo di Lione nel suo trattato contro le eresie: “La gloria di Dio è l’uomo vivente”.