Sallusti è in malafede, per questo io lo sfido

Mi spiace dover ammorbare di nuovo il lettore con Alessandro Sallusti. Mi occuperei volentieri di questioni più serie e di personaggi meno squallidi. Ma, come dice lo stesso Sallusti, “quando è troppo è troppo”. Nel suo editoriale (Il Giornale, 24.4) Sallusti mi definisce in modo molto condiscendente “un bravo scrittore”. Un bravo scrittore? Chi è stato per più di trent’anni, almeno ad ascoltare Wikipedia, una delle più importanti firme dell’Europeo? Chi è stato, sempre ad ascoltare Wikipedia, la firma più importante del Giorno di Zucconi e Magnaschi? Chi è stato, accanto a Feltri, uno dei protagonisti della straordinaria stagione dell’Indipendente? Chi ha scritto libri che vengono ripubblicati in terza, quarta, quattordicesima edizione a distanza di trent’anni? Chi ha fatto reportage dall’Unione Sovietica, dal Sudafrica dell’apartheid, dal Giappone, dall’Iran di Khomeini, dall’Egitto di Mubarak, mentre l’orizzonte fisico e culturale di Sallusti non è mai andato oltre il lago di Como? Oggi lavoro al Fatto, un giornale che si autofinanzia, il genio Sallusti dirige un quotidiano che, pur avendo alle spalle la poderosa “famiglia Berlusconi” (bisogna definirla così) deve essere parecchio in male arnese se i suoi giornalisti sono stati messi in “contratto di solidarietà”. Il premio Montanelli alla carriera e alla scrittura chi l’ha preso, Sallusti o io? Il premio Paolo Rizzi alla carriera chi l’ha preso, Sallusti o io? L’Ambrogino d’oro, che viene conferito a chi ha “ben meritato” della patria lombarda, chi l’ha preso, Sallusti, che, come me, è nativo di Como, o io? Ma questo è solo l’antipasto. Sallusti si appoggia al “bravo scrittore” per insinuare che io avrei fatto “dell’odio contro Berlusconi la stupida ragione” della mia vita e che questo odio deriva dal fatto di “non essere stato ammesso ai benefici che il principe dispensa ai suoi cortigiani”. Ora, Feltri, Berlusconi imperante, mi propose per tre volte di andare al Giornale, Belpietro, sempre Berlusconi imperante, due, Alessandro Sallusti quattro. L’ultima volta che Sallusti mi propose di andare al Giornale, fu in modo formale, tanto che era presente il direttore amministrativo Di Giore, proponendomi un contratto di 16.000 euro al mese per otto pezzi, infinitamente di più di quanto mi desse, e mi possa dare, il Fatto. Una proposta quasi corruttiva. E io dissi di no. Inoltre fu lo stesso Sallusti, durante una simpatica bicchierata con cui aveva trasformato una mia sfida a duello, a dire alla donna che mi accompagnava, Chiara Ceccuti, “Sai, Massimo, ha rinunciato a miliardi”, intendendo con ciò che quella rinuncia derivava proprio dal fatto di non aver voluto entrare nel giro berlusconiano.

Come fa allora Alessandro Sallusti a dire che il mio odio antiberlusconiano nasce dal fatto di non poter essere entrato nel giro dell’uomo di Arcore? Un mio amico pokerista, Adolfo Levi, diceva: “io gioco contro tutti, tranne che contro la sfiga”. Io l’ho trasformato in “io gioco contro tutti, tranne che contro chi è in malafede”. Perché chi è in malafede è imbattibile, anche perché crede, sinceramente crede, proprio come Montanelli disse di Berlusconi, voglio dargli questa attenuante, alle proprie menzogne.

Sallusti è un uomo che si è ucciso a furia di vendere la propria dignità, peggio delle puttane da strada che peraltro oggi quasi non esistono più essendo entrate, in un modo o nell’altro, nei salotti buoni. Però. Come dice ancora Sallusti “quando è troppo è troppo”. Contro certi soggetti non c’è che la violenza. In “modica quantità” naturalmente (Marco “stai sereno”): un cazzotto sul grugno a spaccargli il naso e a fargli saltare la dentiera, un sinistro allo stomaco e, mentre si piega per il dolore, un destro alla mascella per rompergliela (“Ho un sinistro da un quintale e il destro, vi dirò, solo un altro ce l’ha uguale ma l’ho messo k.o. Mi ricordo di sei mascelle rotte, ragazzi che botte, che notte quella notte”, Fred Buscaglione). Ma io non posso scazzottarmi alla pari con Sallusti perché, come Feltri, come Belpietro, ha alcune guardie del corpo pagate dai contribuenti e non si capisce in ragione di che poiché non sono personaggi istituzionali. Propongo quindi, come già una volta, qualcosa che è al limite della legalità ma che un tempo regolava i rapporti fra uomini d’onore: un duello. Alla pistola. A Sallusti lascio il primo colpo. Ma, a differenza della prima volta, se lo sbaglia, non tirerò, come mi ero ripromesso, in aria, non avrò misericordia. Non si trinceri vilmente il Sallusti come fece l’altra volta affermando che il match non sarebbe alla pari perché io ci vedo poco o nulla. In quest’anno di lockdown, annoiandomi a morte, andavo tre volte alla settimana al poligono di tiro e sono in grado di colpire un bersaglio a 30 metri, la distanza stabilita per un duello alla pistola, a occhi chiusi, è il caso di dirlo. E quindi Alessandro Sallusti ci faccia vedere se oltre alla dignità ha perso anche le palle.

 

I “simpson”, la questione “Apu”, i Monty Python e le battute di Pryor

Abbiamo visto come sia facile prendere abbagli quando si giudica la comicità. I comici di professione non ne sono immuni, sia perché non sono ferrati sulla teoria, e quindi dicono cazzate; sia perché tendono a giustificare tutto con il criterio della risata: benché sia essenziale per il successo di un comico, la risata non è un criterio di giudizio sui contenuti, dato che si ride come per riflesso, e si evita di ridere per i motivi più diversi. La sensibilità di oggi, più rispettosa verso le differenze, induce le produzioni a premettere disclaimer ai film di epoche trascorse, per avvisare gli spettatori sugli anacronismi culturali divenuti inaccettabili (in Via con vento, per esempio, un’introduzione ricorda che il film rappresenta il Sud degli Stati Uniti come se non fossero esistiti gli orrori della schiavitù); e a scegliere doppiatori della stessa etnia dei personaggi. Negli Usa, spiega Hari Kondabolu, autore del documentario Il problema con Apu (shorturl.at/sCEIM), da 30 anni chi viene dall’India è spesso schernito con riferimenti ad Apu Nahasapeemapetilon, un personaggio dei Simpson, per doppiare il quale Hank Azaria, attore americano di origine ebraica, imitava Peter Sellers che imitava un indiano in Hollywood Party (shorturl.at/admBJ). Azaria si è pentito di aver contribuito agli stereotipi razzisti su chi proviene dall’India: “Parlavo con dei ragazzi indiani nella scuola di mio figlio, volevo avere una loro opinione. Un 17enne, che non ha mai visto i Simpson, sa però cosa significhi Apu. Praticamente è soltanto un insulto. Tutto quello che sa è come la sua gente viene vista e rappresentata in questo Paese. Chiedo scusa per questo”. Il commento di John Cleese al pentimento di Azaria è stato un passo falso, nel nuovo contesto contemporaneo. Con sarcasmo, Cleese ha twittato: “Non volendo essere superato da Hank Azaria, vorrei scusarmi a nome dei Monty Python per tutti gli sketch in cui abbiamo preso in giro gli inglesi bianchi. Siamo spiacenti per qualsiasi dispiacere potremmo aver causato”. Ma le battute di Richard Pryor sui nigger, legittime, se fatte da Woody Allen sarebbero razziste. L’anno scorso, Cleese si era scagliato contro il politically correct, che secondo lui soffoca la creatività comica perché “devi fare attenzione alle parole che puoi o non puoi usare.” (No, le puoi usare tutte, ma non per fare del razzismo.) “Essere gentili diventa una sorta di indulgenza verso le persone ipersensibili, che si offendono più facilmente.” (No, l’offendersi non è un criterio. Si tratta di non essere razzisti, e di replicare alle critiche nel merito.) Poi, siccome negli Usa chi è consapevole delle ingiustizie sociali è detto “woke”, Cleese ha aggiunto: “Non so come potrebbe essere una battuta ‘woke’, a parte persone che sono gentili le une con le altre. Sarebbe toccante, ma non molto divertente.” Strano che dica così, dato che le gag surreali dei Monty Python erano già “woke”, cioè non razziste e non ingiuste (shorturl.at/vIL56). Ma Cleese ha in testa un’equivalenza sbagliata (woke = non offensivo) che lo fa sragionare. Di qui la sua stupida battuta su Azaria, come se la discriminazione della minoranza indiana e il privilegio degli “inglesi bianchi” fossero paragonabili. Cleese: “Occorre capire che le parole dipendono dal contesto”. Ovvio, ma una gag razzista degli anni 20 è razzista anche oggi. Il contesto non cambia il razzismo delle espressioni: ne cambia la percezione. Negli Usa, alcune nuove sit-com sugli immigrati (Pen15, Ramy) non usano stereotipi razzisti (come il clichè dell’immigrato represso che ambisce all’American way of life): scritte e interpretate da immigrati, trattano dei loro problemi reali (Noor, 2021). È una grande conquista. (8. Fine)

 

Mail Box

 

 

Lo stadio nel Recovery: al peggio non c’è limite

È pur vero che i nostri politici ci hanno abituato a tutto il peggio possibile, ma resto comunque basito di fronte alla notizia (confermata dall’onnipresente ministro Franceschini) secondo la quale ben 95 milioni del Recovery Plan sarebbero destinati a “riqualificare” lo stadio della Fiorentina. Panem non circenses!
Giuseppe Sibella Bergamo

 

Riaperture, parla Salvini e la scienza impallidisce
“Ci sarà un o.d.g. della maggioranza sulla questione del coprifuoco, per rivedere le restrizioni già a maggio”, ha esultato Salvini dopo aver spazzato via ogni resistenza. Nessuno ormai dubita più delle competenze in materia del Felpato che ha conseguito il diploma di maturità classica. Sappiamo, infatti, che la formazione umanistica fornisce gli strumenti essenziali per raggiungere qualsiasi conoscenza. Il premier, prima di decidere, ascolta le proposte del Felpato, che sa di greco e di latino ed è quindi in grado di “dialogare” con i grandi maestri del passato: ecco la genesi del “rischio ragionato” e della prossima abolizione del coprifuoco. Invece coloro che sono contrari alle riaperture, come Andrea Crisanti, professore ordinario di Microbiologia a Padova e Massimo Galli, direttore delle Malattie infettive al “Sacco” di Milano e docente alla Statale, così come gli esperti del Comitato tecnico-scientifico – tra cui Fabio Ciciliano e il direttore della Prevenzione del ministero della Salute, Giovanni Rezza – non possono certo vantare i titoli accademici del Felpato, la cui cultura classica ha potenziato a pieno le sue abilità cognitive. Per convincere Draghi, infatti, gli basta citare un antico aforisma: “l’allentamento delle restrizioni tutta la pandemia si porta via”. L’affermazione evidenzia in modo inequivocabile quanto la cultura classica abbia contribuito ad arricchire la personalità del Nostro e a nobilitare le sue iniziative politiche.
Maurizio Burattini

 

La fatica dei giornalisti a dare meriti ai 5 Stelle
Ho sentito dichiarare dalla Annunziata che il merito del Recovery Fund è di Gentiloni (sottintendendo che Conte non c’entra niente) e un altro bravo giornalista dichiarare che nel Lazio la sanità sta andando bene perché è di competenza della Regione, mentre la raccolta rifiuti a Roma va male perché è responsabilità del Comune non sapendo, o peggio facendo finta di non sapere, che il problema non è la raccolta ma il luogo dove sversarla che è chiaramente di competenza regionale…
Antonio De Amico

In un momento di crisi, tutti devono aiutare
Ho ascoltato il programma Agorà. Concordo pienamente con l’intervento del giornalista del Fatto relativo all’aiuto economico che noi tutti dovremmo dare a coloro che ora si trovano in difficoltà. È un pensiero che ho da tempo e questa mattina ho trovato conferma che forse è possibile fare. La mia idea è semplice, forse più semplice di una patrimoniale. Sperimentare di vivere con 1.000 euro al mese: noi tutti, che abbiamo un’entrata sicura potremmo trattenere mille euro e regalare la somma residua ai nostri concittadini. Forse si riuscirebbe a recuperare una bella somma. Penso che si possa fare, dopotutto è un sacrificio che si richiede solo per un mese. È un’idea che ho da tanto tempo, e oggi ho avuto conferma che è possibile condividere. Grazie al vostro giornalista.
Gianna Pezzano

Perché celebrare Dante se poi si parla in inglese?
Sono ancora fresche d’inchiostro le centinaia di pagine dedicate dai giornali per ricordare il settimo centenario della morte di Dante, il padre della lingua italiana. Già tutto dimenticato… Apro il giornale e leggo “Road map per Recovery plan”, “fast track”, “lockdown”, “wedding planner”, “catering”, “location”, “online”, “stalking”, “social network”, “cancel culture”, “catcalling”, “bodyshaming”, “soft power”, “smart working”, “millennials”, “cocktail bar”, “privacy”… No, non leggo il New York Times, ma un più casereccio quotidiano italiano, che però mi obbliga a tenere il dizionario inglese-italiano a portata di mano. Proposta provocatoria (ma non troppo): l’anno prossimo invece di Dante, celebriamo l’anniversario di Shakespeare, saremmo più coerenti…
Gianluigi De Marchi

 

Diritto di replica

Gentile direttore, preciso che l’iniziativa di chiedere l’accesso agli atti relativi al decreto sulle riaperture è ancora oggetto di valutazione. In particolare sto raccogliendo adesioni e competenze per analizzare i dati in modo indipendente e oggettivo.
prof. Andrea Crisanti

 

Ieri, fidandomi della mia memoria (evidentemente sballata), ho fatto scrivere sul Fatto che nel 1981, scoperte le liste della P2, i pm Colombo e Turone andarono ad avvertire il presidente Pertini. In realtà all’epoca non erano pm, ma giudici istruttori e si recarono dal premier Forlani. Da Pertini, presidente della Camera, erano andati 7 anni anni prima i pretori Almerighi, Brusco e Sansa per informarlo dello scandalo petroli. Me ne scuso con i lettori e con gli interessati.

m.trav.

Scuola aperta al 70%. Una scelta che non favorisce gli studenti

In tempi di pandemia, di morti, di difficoltà dell’economia e di tante scelte necessarie su tanti fronti potrebbe sembrare non importante.

Oggi la scuola superiore passa dal 50% al (minimo) 70% delle presenze con ingressi scaglionati. Questa scelta, a un mese dalla conclusione dell’anno scolastico, obbliga qualche milione di persone a ribaltare la propria organizzazione quotidiana.

È vero che tante di queste persone sono adolescenti, teenager, persone poco influenti, gente che si può adattare.

Però è una scelta che non li favorisce in nessun modo. Quel 20% di frequenza in più li farà stare a scuola fino alle 15 o alle 16, all’improvviso, arrivare a casa a orari improbabili (ce la faranno gli impeccabili trasporti italiani?) studiare di meno, stressare di più. Qualcuno che ancora si teneva legato con sporadiche e sollecitate presenze mollerà del tutto.

Non staranno meglio, non impareranno di più.

Nel nostro Istituto professionale gli studenti svolgono 32 ore settimanali, in molta parte giungono dalla Provincia con i mezzi pubblici. Questo significa che molti di loro, a causa degli ingressi scaglionati, staranno in giro fino alle 16-18 del pomeriggio. Tutto ciò nell’ultimo mese di scuola, a un mese e mezzo dall’Esame di Stato. Chiediamo loro di stare in classe fino a sette ore consecutive. Sì, sette ore. Facciamo saltare esperienze e laboratori in collaborazione con Enti esterni.

I ragazzi si possono adattare? Ma certo!! Gli insegnanti si possono adattare? Ma certo!! Le famiglie si possono adattare? Ma certo!! Però questa decisione a chi serve? A chi fa bene?

Quale meccanismo ha prodotto questa scelta? Quale logica?

Dal nostro punto di vista non si vedono vantaggi.

Vorremmo far presente che questa decisione non è una firma svolazzante che si posa elegantemente su un foglio bianco. A noi arriva come una imposizione incomprensibile che calpesta, per cambiare, la dignità di chi nella scuola vive e lavora. Manda un messaggio chiaro: non importa. Voi (i giovani, il sapere, il benessere, la crescita, la scuola…) non contate né come persone né come istituzione.

Allora Mattarella chiede unità e unità sia, i problemi gravi sono altri.

Però in questa decisione manca, a nostro avviso, senso della realtà.

Noi che la viviamo ogni giorno, oggi, non possiamo tacere.

 

C’è l’anti-malaria, ma non fa notizia

Quando si vive una tragedia, sembra che la vita si sia fermata, che null’altro riesca a meritare la nostra attenzione. Così sta accadendo con il Covid. La realtà è una e una sola. Eppure, intorno a noi ci sono altre sofferenze e, per fortuna, anche tanti eventi positivi. Una notizia apparsa solo su una colonna di Bbc News che, per l’impatto che avrà sulla salute mondiale, in altri momenti avrebbe meritato le prime pagine. E invece non è stata ripresa da organi di stampa, neanche dalla Rete. Un vaccino contro la malaria, messo a punto da un team dell’Università di Oxford, ha dimostrato nelle prime sperimentazioni di essere efficace al 77% e potrebbe essere un importante passo avanti contro la malattia, forse quello definitivo. Il vaccino più efficace fino a oggi aveva infatti mostrato solo il 55% di efficacia negli studi condotti sui bambini africani. La malaria uccide più di 400.000 persone all’anno, per lo più bambini dell’Africa subsahariana. Per confermare i risultati verranno ora condotti studi più ampi su quasi 5.000 bambini di età compresa tra cinque mesi e tre anni in quattro Paesi africani. Un traguardo che è apparso irraggiungibile per anni. Annualmente i casi di malaria nel mondo sono più di 200 milioni, 229 milioni nel 2019 con 409.000 decessi e la proiezione futura è senz’altro peggiore. Infatti il continuo riscaldamento del pianeta sta producendo un costante incremento dei casi, poiché la zanzara anofele, che attraverso le sue punture permette la trasmissione della malattia, sta invadendo le terre che diventano climaticamente a lei ottimali. Anche questo nuovo vaccino è frutto di una collaborazione tra ricerca e industrie. Troppo presto, però, per cantare vittoria. Bisognerà, come sempre, superare i problemi economici, troppo spesso legati a quelli brevettali. Il timore è che il percorso che porti all’utilizzo in larga scala, possa essere lento.

 

“Vanno tassati gli extra-profitti ottenuti durante la pandemia”

Pierpaolo Bombardieri è il segretario generale della Uil da luglio 2020. Celebrerà il Primo Maggio davanti al centro Amazon di Rieti. Un’occasione per rilanciare la proposta di tassare gli extra-profitti ottenuti dalle grandi imprese durante la pandemia.

Segretario, come dovrebbe funzionare questa tassa?

Big Pharma, i produttori di mascherine, Amazon hanno realizzato più utili rispetto agli scorsi anni grazie all’emergenza sanitaria. Va posto un tributo solo su quella parte in eccesso, come propose Keynes per la ricostruzione dopo la guerra mondiale. Oggi negli Usa si discute di aumento delle tasse sui profitti. Il governo Draghi lo condivida e lo porti al G20.

Che fare con i proventi?

Investimenti e solidarietà per i lavoratori più colpiti dalla crisi, le partite Iva e chi è sprovvisto di ammortizzatori sociali.

Oggi sarete ai cancelli di Amazon. I sindacati tentano di recuperare un ritardo nell’intercettare i problemi di chi lavora nelle consegne?

C’è una difficoltà a intercettare questi lavoratori anche perché spesso non lavorano in sede fissa, ma la nostra presenza serve a dire che ci siamo. Poi c’è un atteggiamento delle aziende che fanno di tutto per tenere i sindacati fuori.

Il ministro Andrea Orlando ha aperto un tavolo con Amazon. Si troverà l’accordo?

Come sindacalista devo essere fiducioso. Il governo deve esprimere posizioni, la convocazione è una cosa positiva.

Già 185 morti sul lavoro nei primi tre mesi 2021. La sicurezza sembra sparita dai radar politici?

Se ne parla poco e male, ma con il governo Conte abbiamo fatto due accordi che hanno permesso all’economia di ripartire. Ora abbiamo lanciato la campagna “zero morti sul lavoro”, perché con la ripartenza il rischio è che si tenda a fare presto sacrificando la sicurezza. Dobbiamo invece investire sulla cultura della prevenzione ed eliminare le gare al massimo ribasso.

La riforma degli ammortizzatori sociali non decolla. C’è il rischio che non si faccia?

Il rischio è che si vogliano creare tutele universali facendole ricadere sulla fiscalità generale. Dobbiamo creare un sistema assicurativo, in cui tutte le imprese versano in un salvadanaio da utilizzare in caso di crisi.

Rider e non solo: buon 1° maggio, ma senza diritti

Per tutti i rider d’Italia oggi sarà un Primo Maggio di lutto: giovedì sera è morto, a 38 anni, Antonio Prisco, uno dei maggiori protagonisti della loro battaglia contro lo sfruttamento delle piattaforme delle consegne a domicilio. Napoletano, appassionato attivista della Nidil Cgil, negli ultimi anni era stato fondamentale nelle vittorie ottenute dal sindacato in tribunale. Proprio sulla base della sua testimonianza, il 30 dicembre 2020, i giudici di Bologna hanno condannato la piattaforma Deliveroo per l’algoritmo discriminatorio nei confronti di chi sciopera. Il suo nome è citato in tre passaggi di quella storica ordinanza: ai magistrati aveva raccontato di aver cancellato un turno di lavoro con un preavviso inferiore alle 24 ore previste dai regolamenti e che per questo era stato declassato di cinque punti nel ranking, convincendo così il Tribunale. Tutti i movimenti che rappresentano i fattorini lo hanno ricordato.

Questo primo maggio è anche l’occasione per fare il punto su quanto accaduto in quasi cinque anni di mobilitazioni, durante i quali i rider hanno portato a casa diversi risultati: dalla legge nel 2019 al riconoscimento dei contratti da parte di Just Eat, che ha assunto i primi rider in diverse città e sta iniziando a pagarli con stipendi orari. Ciononostante, resta però uno dei segmenti più fragili per quanto riguarda tutele e diritti. Le altre app, infatti, continuano ad adottare il modello del lavoro autonomo e delle retribuzioni a consegna, continuando ad applicare l’accordo firmato con l’Ugl, sindacato che ha accettato tutte le condizioni imposte dalle aziende. Lottano ancora, nonostante il loro lavoro sia stato fondamentale per la sopravvivenza della ristorazione sia nel lockdown sia nelle ore di coprifuoco.

Insomma, il settore delle consegne è, ancora una volta, quello con maggiore tensione sociale e in molti paragonano la logistica di oggi a ciò che, nei decenni passati, è stata la fabbrica.

La galassia di Amazon, per dire, ha scioperato a fine marzo per chiedere sia al colosso di Jeff Bezos sia a tutte le imprese satellite di discutere i turni di lavoro e i tempi frenetici che i lavoratori sono costretti a rispettare nei magazzini e nelle strade. Un’organizzazione che a volte non lascia il tempo nemmeno di andare al bagno, dicono. I corrieri raccontano di trasportare anche più di 150 pacchi al giorno. Convocata dal ministro Andrea Orlando, Amazon ha partecipato a un tavolo due settimane fa, ma non ha assunto precisi impegni. Tra le richieste, anche quella di farsi garante delle condizioni di lavoro nelle ditte esterne che gli forniscono servizi di consegna. Sullo sfondo resta il contratto nazionale della logistica che deve essere rinnovato e la reticenza delle aziende a concedere maggiori diritti ai loro addetti, che pure sono considerati essenziali.

Nonostante,poi, la pandemia abbia obbligato pubbliche amministrazioni e imprese a intensificare le sanificazioni degli ambienti, chi lavora nelle imprese di pulizie – che hanno registrato di conseguenza una impennata della mole di lavoro – continua a vedersi negato il diritto a un rinnovo del contratto collettivo, dunque a un aumento in busta paga. L’accordo delle multiservizi, che riguarda – tra gli altri – le addette che si occupano dell’igiene negli ospedali, non viene aggiornato da 8 anni. Lavorano per poco più di 7 euro all’ora, in un settore con un massiccio ricorso ai contratti part time inferiori a venti ore settimanali (oltre il 70%). “Le associazioni di imprese – spiega Cinzia Bernardini della Filcams Cgil – vogliono maggiore flessibilità di orario e ridurre le tutele per la malattia. Non siamo disponibili”.

Ieri avrebbero scioperato anche i lavoratori agricoli; poi è stata revocata l’iniziativa perché il ministro Stefano Patuanelli ha rassicurato i sindacati Flai Cgil, Fai Cisl e UilA sui sostegni a una categoria che nel 2020 ha perso 2 milioni di giornate lavorative. Finora hanno ricevuto bonus solo durante la primavera del 2020, inizialmente erano anche stati esclusi dal Reddito di emergenza. Per un anno hanno vissuto il paradosso di essere fondamentali come non mai, ma più poveri. Adesso sperano che questo primo maggio non sia riempito solo di retorica.

Confindustria assalta i miliardi del recovery

Da oltre un anno sembra che Confindustria non abbia che questo pallino. Una pressione costante che si ripete a ogni uscita pubblica. S’intende la richiesta dei capataz di Viale dell’Astronomia di coinvolgere i privati nelle mitiche “politiche attive”, cioè dare alle agenzie per il lavoro i fondi destinati ai centri pubblici pe l’impiego. Un’insistenza fortissima durante il governo Conte-2, e che in parte sembra continuare anche ora.

L’ultima uscita in ordine di tempo è del presidente della Confindustria in persona. Dalle pagine del Corsera, Carlo Bonomi ha attaccato la prossima riforma del settore. A dire suo – e di chi compone la sua squadra – sarebbe sbilanciata a favore del pubblico ed escluderebbe i privati. L’uscita ha una sua logica. Osservazione curiosa, visto che negli ultimi anni le agenzie private di “somministrazione lavoro” hanno incassato centinaia di milioni di euro statali. Quasi sempre chiamate in causa dalle Regioni per mettere una toppa proprio alla storica debolezza delle strutture pubbliche, quelle sì, davvero penalizzate dalla carenza di investimenti e personale stabile. La realtà è che Confindustria ha letto la parte del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) – che deve impiegare i 190 miliardi e rotti del Recovery plan – dedicata alle politiche del lavoro.

La partita che si sta aprendo con la Missione 5 del nostro piano è un nuovo potenziale affare e le ex agenzie interinali vorranno mettere le mani su una fetta il più consistente possibile dei 6 miliardi destinati al sostegno all’occupazione. Di questi, 4,4 andranno alle “politiche attive” e alla formazione, solo 600 milioni ai centri per l’impiego, il resto diviso tra imprenditoria femminile e sistema duale. Parlando con il Corriere, tenendo fede alla cifra stilistica fondata sulla lamentela, Bonomi ha detto che “Vere politiche attive questo Paese non ne ha mai fatte. E come si pensa di risolvere? Assumendo nella Pubblica amministrazione. Non ne usciremo finché non si accetta che l’intervento del privato può servire”. Stessa posizione espressa dal suo vice Maurizio Stirpe cinque giorni prima.

Il Pnrr trasmesso alle Camere il 25 aprile, però, aveva già recepito queste richieste, proprio nel passaggio sul rafforzamento dei centri per l’impiego: “Favorire – si legge tra le proposte – l’integrazione con il sistema di istruzione e formazione anche attraverso la rete degli operatori privati”. E questa non è una novità inserita dopo l’insediamento di Mario Draghi a Palazzo Chigi, ma un’impostazione contenuta già nel piano approvato il 12 gennaio dal governo Conte, che pure veniva accusato di velleità “stataliste” dagli ambienti confindustriali. “Le modalità di calcolo delle spese ammissibili, del rimborso a processo e risultato e la relazione con gli operatori privati sono definite a livello nazionale”, diceva la bozza dell’esecutivo uscente, dando per scontato un ruolo retribuito delle agenzie private nelle politiche attive. Se è vero quindi che con il Reddito di cittadinanza sono state previste 11.600 assunzioni nei centri pubblici, così da raddoppiare un organico finora risibile, le agenzie private non sono affatto state escluse.

Il business della somministrazione in Italia vale alcuni miliardi di euro e impiega circa 12 mila posti di lavoro interni (poco più dell’attuale organico dei centri per l’impiego pubblici). Abbiamo 80 aziende, capitanate da colossi come Adecco, Manpower, Randstad e Gi Group. Rispetto al pubblico hanno un’arma in più: possono fornire manodopera “in somministrazione” alle imprese – 607 mila le assunzioni nel 2020 – e lo fanno soprattutto per quelle grandi del Nord; pensiamo al traffico di interinali dei grandi hub di Amazon o delle fabbriche di Stellantis (il colosso nato da Fca e Peugeot). Il successo di queste agenzie si concentra nelle aree con maggiore domanda di lavoro e la specializzazione è sulle competenze medio-alte. Non di rado, però, le Regioni le hanno incaricate di colmare le loro carenze e svolgere servizi pubblici dietro corrispettivo. Uno degli esempi più lampanti è la Garanzia Giovani, il programma europeo per combattere la disoccupazione degli under 29. Oggi gli iscritti presi in carico hanno superato 1,3 milioni: di questi, circa 325 mila sono gestiti dalle agenzie per il lavoro. Per le attività di orientamento dedicate a ognuno di questi ragazzi, i privati ottengono rimborsi di circa 35 euro l’ora, cifra che sale se si passa alla formazione. Ma i soldi pubblici finiti nelle tasche private con Garanzia Giovani sono soprattutto i rimborsi dei tirocini: aziende di ogni tipo (non le agenzie, in questo caso) hanno ospitato stagisti incassando indennità mensili; in pratica, hanno ottenuto lavoro gratuito in cambio dell’impegno a formare i ragazzi on the job, cosa che spesso non è avvenuta e non risulta siano stati effettuati controlli stringenti.

C’è poi la galassia delle prestazioni che le agenzie per il lavoro ottengono “a risultato”, cioè quando trovano lavoro alla persona che assistono. L’assegno di ricollocazione, pensato con il Jobs Act e applicato poi ai percettori del reddito di cittadinanza, prevede un premio fino a 5 mila euro per l’operatore che è riuscito a ricollocare il disoccupato, compito che può essere svolto anche dal privato. Finora la misura non è decollata per una serie di ritardi, ma impostazioni simili esistono anche a livello locale, come la “Dote unica lavoro” della Lombardia a cui l’assegno di ricollocazione è in parte ispirato. E anche altri strumenti di politica del lavoro in Veneto, Emilia-Romagna, Piemonte e Toscana comprendono – in proporzioni variabili – un aiuto alla mano privata. “Le agenzie non sono state penalizzate in questi anni – fa notare Luigi Oliveri, dirigente di Veneto Lavoro (che comunque non è contrario a coinvolgerle) – Sarebbe vero se lo Stato avesse sperperato i fondi, ma in realtà la spesa nelle politiche attive da noi è molto più bassa di Germania e Francia, l’ultima volta che è stata comunicata era circa 700 milioni contro i miliardi degli altri Paesi. Al massimo, le agenzie possono dire di essere state chiamate sempre in programmi sperimentali e a scadenza, non a lungo termine”. Ed è forse questo l’obiettivo. Secondo Dario Guarascio, economista all’Università Sapienza di Roma, “l’interesse privato, in questa fase di disoccupazione crescente potrebbe essere appropriarsi di un pezzo di risorse pubbliche che oggi gestisce l’Anpal o le Regioni, occuparsi delle competenze medio-basse giustificando il tutto con il rapporto diretto con le imprese”.

In fondo, nonostante le politiche attive dovrebbero concentrarsi sui servizi al disoccupato – orientamento, formazione, motivazione – in Italia si sono quasi sempre tradotte in semplici sgravi alle assunzioni. Incentivi che la Confindustria continua a richiedere insistentemente in ogni occasione.

Rai, da “Pinuccio” a De Bortoli: tutti già in fila per il prossimo Cda

I giochi in Rai iniziano a quagliare. Ieri è scaduto il termine per la presentazione dei curricula dei candidati al Cda di nomina parlamentare. Oltre alla divertente candidatura di Pinuccio, l’inviato di Striscia la notizia specializzato in servizi sugli sprechi della tv pubblica, quando verranno resi noti (la prossima settimana) si potrà vedere quali sono i papabili dei partiti.

Il Pd, per esempio, punterà sull’ex Dc Silvia Costa (area Franceschini) o su Flavia Barca, sorella di Fabrizio, oggi all’ufficio studi di Viale Mazzini? Un passo indietro c’è l’ex direttrice di Rai Quirinale Daniela Tagliafico, oggi in pensione. Tutte e tre, a scanso di equivoci, si sono candidate. La Lega, da par suo, vuole confermare Igor De Biasio, su cui potrebbe convergere anche FI, così come Giorgia Meloni ricandida Giampaolo Rossi. Tra i curricula dovrebbe esserci anche quello di Francesco Storace, anche se non è chiaro in quale quota. E, come annunciato, pure Giovanni Minoli, che però a suo sfavore ha il braccio di ferro sui diritti de La storia siamo noi e l’essere il consorte di Matilde Bernabei della Lux Vide, casa di produzione che molto lavora con mamma Rai. Punto interrogativo, invece, per i 5 Stelle, i cui nomi sono ancora coperti. I pentastellati sembrano stare alla finestra, consapevoli di essere determinanti nella scelta dell’ad. Sul candidato al Cda dei dipendenti, invece, l’Usigrai, il sindacato dei giornalisti, ha scelto di appoggiare Riccardo Laganà. “Non è il momento delle candidature di bandiera, ma dell’unità. In questi anni Laganà ha lavorato bene e l’abbiamo sempre trovato al nostro fianco”, spiega Vittorio Di Trapani.

Sull’ad, nelle ultime ore, si è scatenato il giallo su un presunto incontro tra Eleonora Andreatta e Matteo Salvini. L’ex direttrice di Rai Fiction ora a Netflix vuole tornare in Rai, ma le manca una sponda nel centrodestra. Così Andreatta avrebbe incontrato Salvini in gran segreto una ventina di giorni fa per ottenere il via libera dal Carroccio, che non è arrivato. Da parte leghista, però, il faccia a faccia viene smentito. “Lei comunque non avrebbe mai il nostro appoggio”, si spiega. Salvini, invece, avrebbe visto altri manager interni, tra cui l’ex direttore di Rai1 Teresa De Santis. Mentre FI, con Maurizio Gasparri, va all’attacco di Andreatta: “Chi è uscito dalla Rai non può rientrare per guidarla, l’azienda non è una porta girevole”. Andreatta, però, resta un nome forte: ad affiancarla, come presidente, potrebbe essere Ferruccio de Bortoli. Un passo indietro, ma in ascesa, c’è Paola Severini Melograni, giornalista con un forte impegno sociale. E, in questo caso, a guidare l’azienda sarebbero due donne. Oppure Alberto Quadrio Curzio.

Altri nomi che si fanno sono Laura Cioli, ex ad del gruppo Gedi, Rcs e Carta Sì, un profilo sicuramente gradito a Mario Draghi. E Carlo Nardello, ora in Tim. Sugli interni, invece, favorito è sempre l’attuale direttore di Rai Cinema Paolo Del Brocco (centrosinistra) insieme al direttore della distribuzione Marcello Ciannamea (centrodestra).

Di reti e testate, invece, è ancora prematuro parlare, ma qualcosa si intravede: a Rai1 dovrebbe saltare Stefano Coletta, mentre in ascesa è data Monica Maggioni, forte di un buon rapporto col sottosegretario a Chigi Roberto Garofoli. Intanto, per non farsi mancare nulla, ieri una lite tra due cronisti di Raisport è finita in rissa e a Saxa Rubra sono arrivati carabinieri e un’ambulanza.

Una delle grandi novità della prossima stagione televisiva, però, non riguarda la Rai ma La7, dove potrebbe approdare Michele Santoro. L’ospitata da Lilli Gruber e la puntata sulla mafia con Enrico Mentana e Andrea Purgatori hanno fatto buoni ascolti. E se ci aggiungiamo le parole di Mentana (“questa è casa tua”) e il ringraziamento via Twitter di Andrea Salerno, s’intuisce che la tv di Urbano Cairo su Santoro stia facendo un pensiero. Si dice addirittura che gli sarebbe stata offerta la domenica sera, cosa che comporterebbe lo spostamento di Massimo Giletti. Il quale, a fronte di ciò, potrebbe decidere di ascoltare quelle sirene che ogni anno lo rivogliono in Rai e che pure adesso sono molto forti.

Open, i renziani contro i pm: “Cartabia mandi gli ispettori”

Indagare sulla fondazione Open, l’ex cassaforte del renzismo, e su tutto il Giglio magico, ai deputati di Italia Viva proprio non va bene: deve intervenire il ministro della Giustizia Marta Cartabia con “un’ispezione ministeriale” nei confronti dei pm di Firenze per capire chi abbia passato ai giornali le informazioni sull’inchiesta in corso e quanto sia stato speso per le perquisizioni. A chiedere l’intervento della Guardasigilli sono tre deputati renziani – Lucia Annibali, Roberto Giachetti e Catello Vitiello – con un’interpellanza alla Camera sull’indagine in corso. Tema da cui si dovrebbero tenere lontani anni luce per un palese conflitto d’interessi: l’inchiesta fiorentina riguarda la fondazione considerata dai pm “un’articolazione di un partito politico” (il Pd renziano) e vede indagati per finanziamento illecito il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, Maria Elena Boschi, Luca Lotti, Marco Carrai e il presidente di Open, Alberto Bianchi. Renzi aveva già attaccato la procura sull’inchiesta (“un assurdo giuridico, i pm cercano la ribalta mediatica”) ma non si è mai arrivati a tanto: oggi i renziani chiedono l’intervento di Cartabia.

Nell’interpellanza, i tre deputati di Iv attaccano la procura sulle perquisizioni nei confronti di membri della fondazione e di suoi finanziatori, sul merito dell’inchiesta e sulle notizie uscite sui giornali. In primis, Annibali, Giachetti e Vitiello si improvvisano esperti del diritto e definiscono le perquisizioni con “circa 300 agenti della Gdf” un dispiego di forze “sproporzionato rispetto alle operazioni da effettuare alcune delle quali verificabili anche tramite ordine di esibizione”. Secondo i tre deputati renziani non c’era alcun motivo di perquisire i finanziatori che sono “privati cittadini che, nel rispetto della normativa vigente, in seguito all’abolizione del finanziamento pubblico, hanno contribuito, tramite operazioni bancarie tracciate e trasparenti, con risorse proprie, al finanziamento di iniziative in capo a una Fondazione regolarmente registrata”. E siccome in seguito la Cassazione si è espressa sull’illegittimità di sequestri nei confronti di Carrai e Davide Serra (non indagato), i deputati chiedono a Cartabia il rendiconto dell’operazione: quante siano state “le unità delle forze dell’ordine impiegate” e “a quanto ammontino i costi”. Annibali&c. poi provano a “smontare” l’indagine: sostengono che le pronunce della Cassazione su Carrai e Serra “nei fatti smentivano l’impianto stesso dell’inchiesta” ma nonostante questo il 7 novembre i pm fiorentini si sono incaponiti mandando un avviso di garanzia a Renzi, Boschi e Lotti.

Infine se la prendono con chi ha passato a La Verità notizie sull’iscrizione nel registro degli indagati di Renzi e gli altri e sulla pubblicazione di appunti sequestrati a Bianchi: il giornale, è la tesi dei renziani, apprende le notizie “presumibilmente da fonti interne alla Procura”. Per questo chiedono – vista la “gravità del fatto” – che la ministra ordini un’ispezione per individuare “i responsabili della violazione del segreto d’ufficio”.