“Io, massone giallorosa, sono pronto a sfidare Mastella a Benevento”

C’è un guaio giallorosa a Benevento. Avanza nel centrosinistra la candidatura di Luigi Diego Perifano, stimato avvocato sannita ma anche ex maestro venerabile della loggia massonica “Federico Torre” di Benevento. Insomma: alle prossime Amministrative, Pd e Cinque Stelle potrebbero candidare un massone contro il sindaco Clemente Mastella. La scelta sarebbe sconsigliata dalle norme del Movimento sulle candidature, che non ammettono affiliazioni massoniche (e infatti i grillini preferiscono la consigliera comunale Anna Maria Mollica). Il M5S è già stato scottato dalla beffa di Catello Vitiello, massone in sonno espulso dal Movimento prima delle Politiche ma eletto lo stesso alla Camera grazie al marchio grillino e poi passato ai renziani di Italia Viva. Intanto il venerabile Perifano non si cura di queste quisquilie, lui non ha ancora sciolto la riserva: “Sono stato sollecitato alla candidatura da alcune parti della società civile beneventana, chiedono un mio impegno diretto per affrontare Mastella. Non ho ancora deciso, sto valutando se ci sono le condizioni politiche”.

Perifano, lei è davvero il maestro venerabile di una loggia massonica affiliata al Grande Oriente Italia?

Non sono più maestro venerabile ma non rinnego i miei trascorsi, lo sono stato per tre anni Per saperlo basta digitare il mio nome su Google.

Non la mette in imbarazzo in vista della candidatura?

Per me la frequentazione del Grande Oriente Italia è stata un’esperienza formativa. Personalmente ho stretto mani solo a persone perbene. Comprendo che ci sia ancora un pregiudizio diffuso nei confronti della massoneria, ma la mia affiliazione non toglie nulla alle mie convinzioni politiche e ai valori culturali in cui credo: uguaglianza, solidarietà, progresso. Nella vita faccio l’avvocato, non mi occupo di operazioni occulte.

Il “pregiudizio” è anche nei Cinque Stelle, che non ammettono candidature di massoni.

Ma io non sarei il candidato del Movimento 5 Stelle, piuttosto di un’ampia coalizione. Non sappiamo ancora quale sia l’arco politico a sostegno della mia candidatura, ma non ci sono solo Pd e Cinque Stelle: con me ci sarebbero sei liste civiche. Io peraltro mi sento più vicino al mondo che sta a sinistra del Partito democratico: c’è una grande e luminosa tradizione storica di intrecci tra comunisti, socialisti e Libera Muratoria (l’antica società massonica, ndr). Io guardo a quella tradizione e a quei valori.

A Benevento c’è una luminosa tradizione massonica anche grazie a Raffaele De Caro, ex ministro liberale e nonno di Umberto Del Basso De Caro, ex sottosegretario e notabile del Pd sannita. Sono questi ambienti che sponsorizzano la sua candidatura?

Guardi, Benevento è una città di 60mila abitanti. Io faccio l’avvocato cassazionista da più di 20 anni, per motivi professionali o di interesse politico capita spesso di incrociare altre persone.

Vi conoscete tutti.

C’è un rapporto di rispetto, ma non ho la tessera del Pd, non sono iscritto a partiti. Sarei un candidato civico.

Accordi difficili: Pd e 5S insieme solo ai ballottaggi

Uniti in tutti i comuni, ma al secondo turno. È questa la strategia di Enrico Letta per uscire dal pantano in cui si sono cacciati Pd e Movimento 5 Stelle, nel tentativo di trovare un’intesa per le prossime elezioni comunali d’autunno, quando andranno al voto anche grandi città come Roma, Milano, Napoli, Torino e Bologna.

Viste le difficoltà a trovare candidati unitari fin da subito, meglio spostare l’orizzonte un po’ più avanti, pur mantenendo costanti i tavoli di confronto.

Già due giorni fa sia Letta che Giuseppe Conte avevano declassato le Amministrative come “un passo intermedio”, ben consapevoli dei guai a finalizzare da subito quel progetto di “ampio campo progressista” che dovrebbe unire 5Stelle e centrosinistra. E ieri Letta, intervistato da Massimo Giannini sul sito di La Stampa, ha ribadito che l’accordo s’ha da fare, ma ci vorrà tempo: “Io vorrei che in tutti i comuni andassimo apparentati al secondo turno, dimostrerebbe che il percorso di alleanza tra Pd e M5S sta avendo buoni risultati. Non mi straccio le vesti se immediatamente non risolviamo tutti i problemi”. Tradotto: presentarsi separati al primo turno non è un dramma, ma unirsi al ballottaggio darebbe forza al progetto.

 

Bologna Incognita Renzi

L’intesa al secondo turno si può trovare a Roma e Milano, dove l’accordo al primo turno è naufragato, ma anche altrove. A Torino e Bologna, per esempio, città in cui il Pd ha annunciato la via delle primarie. Non senza polemiche, perché un po’ per le misure anti-contagio e un po’ per scelta, il partito sta organizzando una consultazione metà online e metà ai gazebo, previa registrazione sul portale internet dei dem. La cosa non piace molto a Isabella Conti, il nome forte dei renziani a Bologna che sfiderà Matteo Lepore, attuale assessore in quota dem. Conti teme che frammentare la partecipazione possa danneggiarla, proprio ora che un sondaggio commissionato da Italia Viva a Emg Acqua la stima a soli 4 punti di distanza da Lepore. Motivo per cui i renziani si stanno agitando nel tentativo di convincere il Pd a rivedere le regole delle primarie.

Se poi vincesse Lepore, la convergenza coi 5 Stelle sarebbe senz’altro più semplice fin da subito (“Almeno a Bologna e Napoli possiamo andare insieme già al primo turno”, è la versione di Francesco Boccia), mentre con la Conti il rinvio dell’accordo al ballottaggio toglierebbe più di un imbarazzo a Italia Viva.

 

TorinoNervi tesi

Allo stesso modo, a giugno il Pd sceglierà il suo candidato a Torino, dove in corsa c’è Enzo Lavolta – ben disposto verso i 5S – ma il grande favorito è Stefano Lo Russo. Per intendersi, uno che due giorni fa ha descritto la città come “immobile” negli anni di Chiara Appendino e che non ha gran voglia di apparentamenti, visto che tuttora è capogruppo del principale partito d’opposizione in Comune. La scelta dei dem di procedere con la consultazione interna non è per nulla piaciuta alla sindaca, che più volte nei mesi scorsi, anche dalle colonne del Fatto, aveva chiesto che Pd e M5S lavorassero a un’intesa per evitare “di regalare la città alla destra”. Ora Appendino si sfoga definendo “una presa in giro” l’eventuale rinvio dell’accordo al ballottaggio, perché “se ci sono le condizioni per un’intesa la si fa subito”.

L’input da Roma però è chiaro, soprattutto dal versante dem, con Boccia che da giorni sottolinea come le primarie non compromettano la strada dell’accordo e continua a sperare in una soluzione unitaria, prima o dopo.

 

Napolil’alleanza c’è

Ben diverso è il discorso su Napoli. Qui il tavolo tra 5 Stelle e Pd è l’unico che potrebbe portare a un candidato unitario già verso metà maggio. La prima scelta sarebbe il presidente della Camera Roberto Fico, che ha frequenti contatti con l’ex ministro di area Pd Gaetano Manfredi per mettere le basi dell’alleanza. Proprio Manfredi è la più accreditata alternativa al veterano di 5 Stelle, ancora combattuto perché diviso tra la responsabilità di prendere in mano una città in enorme difficoltà finanziaria – servirebbe una mano dal governo, ma le comunali sono prima della manovra finanziaria – e la possibilità di dare una mano e rafforzare, con la sua scelta, l’asse tra M5S e Pd. D’altra parte non è un segreto che Fico abbia sempre rappresentato l’anima più a sinistra del Movimento.

Il confronto dunque va avanti e tra i dem e il M5S c’è pure un primo documento – “Una nuova speranza per Napoli” – che vorrebbe diventare il punto di partenza di un programma condiviso. Lo ha presentato il segretario napoletano del Pd Marco Sarracino e sarà emendato nelle prossime settimane, cercando di limare i punti più controversi, per esempio sui rapporti con la Regione di Vincenzo De Luca. Nulla però per cui valga la pena impiccarsi e mandare all’aria un’alleanza che, almeno qui, sembra cosa fatta.

Ombre rosse. Gli arresti di Parigi (e gli anni di piombo)

 

 

 

Pro “Una vendetta? Non direste le stesse cose per i fascisti delle stragi”

Achi dice che la carcerazione di un vecchio, dopo cinquant’anni, si chiama vendetta e non giustizia; che a mezzo secolo dai fatti, i loro protagonisti sono cambiati; che non si può perseguitare a vita i militanti delle Br, delle altre formazioni combattenti e i condannati per l’omicidio di Luigi Calabresi, rispondo ponendo una domanda: direste le stesse cose a proposito di fascisti, poliziotti e generali coinvolti nelle stragi e nella strategia della tensione? Carlo Maria Maggi, indagato per piazza Fontana e condannato per la strage di Brescia, era negli ultimi suoi anni vecchio e malato: motivi sufficienti per farlo restare impunito? Molto avanti negli anni è anche il generale Gianadelio Maletti, regista del servizio segreto militare negli anni dell’eversione nera: siete felici che resti tranquillo a fare “l’espatriato” in Sudafrica? Dopo tanti anni, non sono “cambiati” anche Maggi e Maletti? Eppure: è giusto che Maggi abbia scontato la sua pena; e sarebbe giusto che Maletti tornasse in Italia a rivelare i suoi segreti. Io voglio sapere e voglio giustizia: su piazza Fontana, sull’Italicus, sulla strage di Bologna. Voglio sapere e voglio giustizia anche dopo 40 anni, anche dopo 50 o 60: ci sono ferite che il tempo non può lenire. Voglio verità e giustizia sulla morte di Pinelli e su quella di Calabresi. Come posso pretenderle per l’uno, senza chiederle per l’altro? La giustizia non può essere selettiva: inflessibile per i “neri” e chi dentro gli apparati dello Stato li ha allevati, finanziati, protetti; e benevola con chi ha ucciso in nome della “giustizia proletaria” e dunque giustificato e da alcuni perfino ammirato. Chi assolve i crimini di una parte, di fatto legittima anche quelli del suo avversario. Perché la giustizia è una. Se si toglie la benda dagli occhi, muore il principio dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge. Possono darmi del “manettaro” quelli che eseguivano sentenze di morte? Certo, per gli uni e per gli altri la pena non dev’essere tortura o vendetta: un giudice deciderà, secondo le condizioni di salute e i percorsi individuali, chi può stare in cella, o in ospedale, o a casa. Ma comunque soggetto alla giustizia, l’imperfetta giustizia degli uomini, non all’arbitrio di una sgangherata “dottrina Mitterrand” disegnata per chi non avesse ricevuto condanne definitive e commesso delitti di sangue e finita per proteggere invece come “esule” chi ha ucciso e mai rinnegato la lotta armata.

Anch’io ho fatto parte di uno dei movimenti degli anni Settanta (il Ms-Mls di Milano), ma sono convinto che la lotta armata non sia figlia di quei movimenti, ma li abbia uccisi, “professionalizzando” la violenza. Su una cosa sembrerebbero aver ragione i miei amici che protestano contro gli arresti francesi: in Italia la giustizia è stata efficace con alcuni (i “rossi”) e impotente con altri. È vero: sono rimasti impuniti i neonazisti, i politici e i funzionari dello Stato protagonisti della guerra segreta combattuta a colpi di attentati, stragi, tentati golpe, omicidi politici, accordi con la massoneria, la criminalità, la mafia. Ma l’impunità di alcuni non può giustificare la benevolenza per altri: può pretendere giustizia per tutti solo chi è rigoroso con tutti. In Italia, comunque, non c’è stata una guerra civile tra “rossi” e “neri”, né tra “proletari” e Stato. Per questo non ha senso parlare di pacificazione, di soluzione politica (come faceva Cossiga), di riconciliazione sudafricana. In Italia c’è stata una guerra asimmetrica, in cui i neonazisti allevati dagli apparati dello Stato hanno ammazzato gente che stava in una banca, su un treno, in una piazza, in una stazione. E poi un’altra guerra in cui alcuni gruppi hanno preso le armi per uccidere poliziotti, giudici, politici, giornalisti. Che riconciliazione è mai possibile? Solo quella volontaria e privatissima tra vittime e carnefici.

Gianni Barbacetto

 

Contro “Lotta Continua, la mia gioventù: sbaglia chi scrive che fu terrorismo”

Come dice il proverbio: se gli dai un dito si prendono la mano. Ieri l’editoriale del Giornale sugli arresti di Parigi indicava nei partigiani dell’Anpi e nella Fgci i custodi delle armi e dei piani insurrezionali cui avrebbero attinto i primi brigatisti. Semplificazione grossolana di una vicenda complessa, il cui fine è affermare una filiazione diretta comunismo-terrorismo. Con altrettanta disinvoltura Repubblica, insieme a quasi tutti gli altri media, ha inserito Lotta Continua tra le sigle del terrorismo, al pari delle Brigate Rosse. Pazienza se ciò stride con l’aver ospitato per un decennio fra i suoi editorialisti Adriano Sofri, il coimputato di Pietrostefani.
Il caso vuole che proprio questa settimana il Venerdì, magazine di Repubblica, intitoli una bella copertina, elegiaca e nostalgica, “dalla parte della barricata”. È dedicata alla Comune di Parigi che compie 150 anni, tre volte il tempo dei moti sovversivi di casa nostra: i reati commessi nel 1871 dai comunardi possono sfumare nella benevolenza.
Non è smemoratezza, al contrario: è una speciale, accanita, perdurante ostilità che posso ben descrivere essendone anch’io, nel mio piccolo, un frequente bersaglio in quanto ex di Lc non pentito.
La mancata abiura delle scelte compiute in gioventù, previa confessione dei dettagli mancanti sulle pratiche violente messe in atto da una formazione disciolta 45 anni or sono, tuttora suscita moti di furia in non pochi miei coetanei. Come a dire, a dirci: voi che avete condiviso la storia degli anni di piombo e occultato le malefatte compiute dai gruppi in cui militavate, per ciò stesso siete indegni di occupare uno spazio pubblico; tanto più se continuate a criticare il potere che vi ha risparmiati e perfino concesso il palcoscenico. Riconoscete le vostre colpe, se volete aspirare a un magnanimo perdono. Ma intanto tacete e fatevi da parte.
Quel titolone “Anni di piombo ultimo atto” che occupava tutta la prima pagina, sproporzionato, certo, voleva risuonare come un redde rationem. Né più né meno del salviniano “La pacchia è finita” riesumato con gusto su Dagospia.
Ho militato in Lotta Continua dal 1973 fino al 1976. Poi, per altri tre anni, ho scritto sull’omonimo quotidiano. Ricordo bene la raccomandazione rivoltami da Claudio Rinaldi, uno dei più bravi direttori della mia generazione, anche lui passato dall’esperienza di Lc: “Se vuoi fare il giornalista devi dimostrare di aver posto fine a quel sodalizio e non esitare a raccontarne le pagine oscure”. Respinsi il consiglio di Claudio e ci guardammo in cagnesco per un bel po’, salvo vivere una riconciliazione durante la dolorosa malattia che se lo portò via troppo presto.
Nel 1993, arrivato a La Stampa da vicedirettore, mi fu assegnata la stanza di Carlo Casalegno, assassinato dalle Br. A proposito di quel delitto nel 1977 avevamo scritto parole inequivocabili su Lotta Continua. Ci valsero minacce dall’ala militarista del movimento, che si prolungarono negli anni seguenti. Per certi versi, segnarono il nostro passaggio all’età adulta, il ripudio della violenza rivoluzionaria come strumento di emancipazione. Ma cosa volete che importi ciò a chi oggi identifica Lotta Continua con il terrorismo? Cosa volete che gli importi se quella nostra battaglia politica scongiurò il passaggio alla lotta armata di molti giovani tentati di intraprenderla? Cosa volete che gli importi se favorimmo la dissociazione e la consegna delle armi di chi ci era finito dentro?
Gli arresti di Parigi non curano una ferita ancora aperta, ma la perpetuano.

Gad Lerner

“La madamina Sì Tav pagata dai partner di Fs”

Lavorare per conto di un progetto, la Torino- Lione, e poi portare in piazza migliaia di persone a sostegno di quello stesso progetto, tacendo sui propri interessi diretti. C’è riuscita – accusano i No Tav – Simonetta Carbone, titolare di un’agenzia di relazioni pubbliche di Torino che ha ottenuto nell’agosto 2018 un affidamento da 90mila euro dalla Lyon-Turin Ferroviaire (Ltf), poi diventata Tunnel Euralpin Lyon Turin (Telt). Scritti così, questi nomi diranno poco: da una parte abbiamo una delle animatrici delle “madamime”, il gruppo di donne della Torino bene che nel novembre 2018 ha organizzato una manifestazione, a cui hanno partecipato circa 25mila persone, a sostegno dell’Alta velocità, mesi dopo la formazione del primo governo marchiato M5s, all’epoca ancora molto contrario all’opera (l’esecutivo di Giuseppe Conte cambiò idea pochi mesi dopo).

Dall’altra abbiamo le due società italo-francesi che si sono succedute nella progettazione e nella costruzione della grande opera. Sembrerebbe un conflitto d’interessi, ma il movimento No Tav azzarda di più: “Chi avrebbe immaginato che a tirare i fili delle marionette in arancione ci fosse niente di meno che la società promotrice del Tav?”, scrivono sul loro sito, notav.info, mettendo in collegamento diretto l’affidamento ottenuto dalla madamina nell’agosto 2018 e gli eventi del novembre 2018. In sostanza i flash-mob ‘spontanei’ organizzati per il sì al Tav, salutati da tutti i giornali come risveglio democratico e civile, erano pagati direttamente dalla società che dovrebbe realizzare il Tav. Una pantomima con figuranti e claque”.

Frasi ritenute “offensive e diffamatorie” dal Comitato Sì Torino, l’organismo creato dalle madamine che si dice “a disposizione per mostrare i suoi conti, dai quali risulta chiaramente l’inesistenza di qualsiasi rapporto, in particolare di tipo economico, con la società costruttrice del Tav”. Carbone, la diretta interessata, afferma che i suoi rapporti con Telt erano cominciati già nel 2014 con Ltf “a seguito di regolari bandi di gara pubblici, per fornire un servizio di rassegna stampa su tutte notizie e le prese di posizione sulla vicenda Tav. Avanzare il sospetto che questo fatto abbia condizionato e influenzato la mobilitazione a sostegno del Tav è falso e diffamatorio”. Contattata dal Fatto, afferma che il comitato si è autofinanziato e di non dover sentirsi in colpa se lavora per il Tav e ne è anche una sostenitrice.

“Non solo la loro indipendenza politica è stata smentita pochi mesi dopo, al primo turno elettorale”, dice la consigliera regionale M5s Sarah Disabato ricordando la candidatura di una di loro, Giovanna Giordano Peretti, in una lista a sostegno di Sergio Chiamparino (fu un flop). “Oggi si aggiunge anche questo dettaglio imbarazzante”, conclude l’esponente pentastellata nella sua analisi.

6 mesi, 9 o un anno: per i primi vaccinati l’incognita immunità

Tecnicamente il Green Pass, vale a dire il certificato verde digitale, che permetterà ai cittadini della Ue di circolare liberamente nei Paesi membri nel corso della pandemia, sarà pronto dal 1° giugno. Sarà però necessario attendere probabilmente fino alla fine del mese affinché, una volta adottato il regolamento al termine dei negoziati tra Parlamento europeo e Consiglio, il pass diventi operativo, oltre a essere un diritto di ogni cittadino. Ma per quanto tempo sarà valido? La domanda allarma molti operatori sanitari che hanno completato il ciclo vaccinale nel primo periodo della campagna, a partire da gennaio. Ed è direttamente collegata alla durata della protezione dalla malattia indotta dal vaccino.

I dati della letteratura scientifica disponibili fino a questo momento parlano di un periodo che va da sei a dodici mesi. E l’Ecdc, l’agenzia europea per il controllo e la prevenzione delle malattie infettive, finora ha detto che deve essere considerata una protezione per almeno sei mesi. “Qualsiasi decisione sulla durata del pass, come ha già chiarito la Ue, è legata al pronunciamento dell’agenzia – dice Fortunato Paolo D’Ancona, medico epidemiologo, ricercatore dell’Istituto superiore di sanità –. In realtà per ora parliamo di una indicazione orientativa, si ritiene infatti che il periodo di protezione dal virus possa essere più lungo, ma sarà necessario attendere ulteriori dati scientifici. Per questo ora siamo tutti in attesa di un nuovo parere dell’Ecdc, che diventerà la posizione ufficiale della Ue e a cascata dei Paesi membri”.

Per adesso, quindi, regna l’incertezza tra tutti coloro che – infermieri, medici, operatori sociosanitari, impiegati di aziende ospedaliere o di Asl – avendo ricevuto il vaccino nei primi mesi dell’anno, stanno cercando di capire come potranno utilizzare il green pass per muoversi. Il Parlamento europeo ha chiesto l’estensione della validità a un anno. Ma resta l’incognita rappresentata dalla durata della protezione. Durata che dipende dai nuovi passi avanti che saranno fatti dalle ricerche scientifiche. In Israele, per esempio, hanno realizzato un passaporto vaccinale della durata di sei mesi, prorogabili di altri sei. Ma in ogni caso, almeno in questa fase, non è possibile nemmeno ipotizzare di ovviare con il cosiddetto booster, la terza dose di vaccino, dopo aver fatto un test sierologico per verificare se si hanno ancora anticorpi.

“Nessuna istituzione internazionale ha ancora previsto il booster – spiega D’Ancona –. L’obiettivo adesso è completare la campagna vaccinale, raggiungendo la più ampia fascia di popolazione, in attesa di evidenze che ci suggeriscano quale è il momento per somministrare la terza dose. Nel frattempo le case farmaceutiche stanno già studiando sieri che garantiscano protezione anche di fronte alle varianti del virus”. L’azienda statunitense Moderna sta già verificando la possibilità di sviluppare un vaccino efficace sia contro le varianti sia come antinfluenzale. Ma come funziona il pass? Il certificato potrà essere digitale o in formato cartaceo. Attraverso un codice Qr attesterà l’avvenuta vaccinazione contro il Covid e il numero di dosi ricevuto. Oppure l’avvenuta guarigione nei precedenti sei mesi e la presenza dei relativi anticorpi (mediante test) o ancora l’esito negativo di un tampone. Anche se poi, comunque, ogni Stato membro a stabilire i requisiti di ingresso nel proprio territorio, dato che le competenze sulla sanità sono nazionali e la Ue può solo raccomandare. La fase di test del sistema europeo che consentirà di emettere i certificati dovrebbe iniziare il 10 maggio e vi prenderanno parte sedici Paesi europei, tra i quali, oltre all’Italia, Germania, Francia e Spagna. Altri otto Stati (Lettonia, Romania, Cipro, Irlanda, Portogallo, Polonia, Danimarca e Slovenia) dovrebbero partire con i test verso la fine di maggio, mentre altri cinque, tra cui il Belgio, hanno deciso di connettersi direttamente con la piattaforma in fase di attuazione. Nulla a che vedere con il pass nazionale per muoversi verso e tra le regioni rosse o arancioni per motivi di turismo o per recarsi a trovare amici o parenti.

Il certificato europeo non sarà comunque una bacchetta magica. Oltre che dalle regole che si daranno i vari Paesi la libera circolazione dipenderà anche dalla situazione epidemiologica.

Gli italiani intrappolati nell’India della variante

“Non ci sono difficoltà per gli italiani che risiedono in Italia e vogliono tornare. In questo momento viene chiesto a chi, come me, ha una casa e una residenza qui, di restare. E ha senso, considerando il rischio connesso alla variante indiana, che desta preoccupazione”, taglia corto l’imprenditore Nunzio Martinello, da Bangalore. Gli italiani che in questo momento vivono in India e non potranno tornare in Italia fino a nuovo ordine, contrariamente all’impressione generale, raccontano di non essere intenzionati a farlo. Una nuova ordinanza del ministro della Salute, firmata giovedì e in vigore fino al 15 maggio (e che riguarda gli arrivi in Italia da India, Bangaldesh e Sri Lanka) vieta l’ingresso a coloro che nei 14 giorni precedenti abbiano soggiornato in India, o vi abbiano transitato, “con eccezione dei cittadini italiani che abbiano la residenza anagrafica in Italia da data anteriore alla presente ordinanza, e non manifestino sintomi da Covid-19”.

Il problema riguarda semmai alcuni casi specifici, come alcuni italiani partiti per adottare bambini in India. La prima ordinanza firmata da Speranza a inizio settimana prevedeva eccezioni importanti, ad esempio un genitore che si debba ricongiungere con un figlio minore. Nel giro di poche ore la seconda ordinanza, firmata giovedì, ha invece bloccato padri come Claudio Maffioletti, 46 anni, di Mumbai, che stava per partire per vedere la figlioletta di cinque mesi, nata in Italia: “Ce ne facciamo una ragione, ma sto cercando di capire la ratio dietro a una rettifica a così stretto giro. Non riesco a trovarla. Certo, mi dico che magari alla luce di esperienze come quelle vissute con le varianti provenienti da Brasile e Sudafrica siano state acquisite delle informazioni al riguardo. Ma la verità è che il discrimine rispetto all’Aire, cioè tra residenti in Italia o in India, non si comprende fino in fondo”. La voce è calma e fiduciosa: “Al momento mi trovo a Goa in una casa prestata da amici. La situazione qui è più tranquilla rispetto a Mumbai, ma cerco di uscire il meno possibile, se non per fare la spesa. In attesa che la situazione si sblocchi”.

Da un lato all’altro del Paese, anche gli italiani di Chennai sono perplessi, spiega Sauro Mezzetti, che vive ad Auroville: “Parliamo, per il Tamil Nadu, di circa 200 italiani. Il provvedimento è stato accolto con sconcerto, e anche con rabbia, perché discrimina gli italiani residenti qui, ci fa sentire cittadini diversi. Perché parliamoci chiaro: il rischio è lo stesso per chi è in India di passaggio e chi vi risiede e vuole fare ritorno in Italia”. Peraltro pochissime tra le sue conoscenze avevano intenzione di rientrare, precisa Mezzetti: “Parliamo soprattutto di chi, data la situazione, ha perso il lavoro, oppure chi ha genitori anziani e malati: su tutti pende l’interrogativo su quando e come potranno fare ritorno” puntualizza. “L’India è così vasta che gli scenari sono molti diversi: a Delhi ad esempio la situazione è drammatica. Qui al sud i casi aumentano”.

Quattro regioni richiudono già AstraZeneca, ok per la 2ª dose

A una settimana dalle prime riaperture, si torna a chiudere un po’. Da lunedì la Val d’Aosta, che ha il maggior numero di nuovi casi anche se in calo, passa dall’arancione al rosso; Sicilia, Calabria e Basilicata vanno dal giallo all’arancione e lì trovano la Puglia (confermata) e la Sardegna (rossa fino a domani). Le altre Regioni restano in giallo. Per la prima volta dopo sette settimane aumenta, sia pure di poco, l’indice di riproduzione del virus Rt: da 0,81 a 0,85 tra il 7 e il 20 aprile. Ma questo “rientra in una situazione che può essere definita stabile”, ha spiegato il professor Gianni Rezza, direttore della Prevenzione alla Salute.

Anche la discesa dell’incidenza (i nuovi casi), secondo il report settimanale diffuso ieri, frena un po’. Si passa da 157 a 146 casi in 7 giorni ogni 100 mila abitanti al 25 aprile. I contagi crescono in alcune regioni del Centro Sud: in Basilicata (Rt a 1,02) e in Sicilia (1,05) ma anche in Campania (1,08) e Molise (1), dove però il rischio è ritenuto basso. Naturalmente non sono infezioni degli ultimi giorni, per lo più risalgono “alla prima decade di aprile” scrivono ministero della Salute e Istituto superiore di sanità, quindi ai giorni di Pasqua e della successiva riapertura di gran parte delle scuole (7 aprile).

La fascia d’età che segna il maggiore incremento di infezioni è quella che va da 0 a 9 anni. Continuano invece a diminuire tra i meno giovani, specie gli over 80 già vaccinati per oltre l’80% con una dose, che al momento si infettano meno dei 70/79enni e dei 60/69enni. Scende l’età mediana dei contagi: da 43 a 42 anni in 7 giorni. E quella dei primi ricoveri: da 67 a 66 anni. I dati migliori sono quelli che arrivano dagli ospedali: anche l’occupazione delle terapie intensive è tornata sotto la soglia d’allerta del 30% (ieri era al 29%). La superano otto Regioni contro 12 una settimana prima. Resta purtroppo una lunga scia di decessi, ieri 263, che non si esaurirà in pochi giorni.

 

Vaccini anche agli under 60 richiami con Astrazeneca

Il ministro Roberto Speranza e il commissario Francesco Figliuolo hanno annunciato ieri con soddisfazione l’avvenuto superamento, giovedì, del “muro” delle 500 mila vaccinazioni in un giorno. Poco meno di 4 milioni di italiani hanno avuto due dosi.

Per i richiami si proseguirà con AstraZeneca anche per chi ha meno di 60 anni. Il vaccino è stato raccomandato qualche settimana fa per la popolazione over 60, pur in assenza di indicazioni in tal senso da parte dell’agenzia europea Ema, ma chi ha fatto la prima dose farà anche la seconda. Sono soprattutto dipendenti della scuola e delle forze dell’ordine. Il piano vaccinale si semplifica. “Quei rari eventi avversi – ha spiegato ieri il professor Rezza – si erano manifestati in persone al di sotto dei 60 anni che avevano ricevuto la prima dose. Per ora, fortunatamente, non c’è evidenza di effetti avversi con la seconda dose”.

 

Veneto Chiesta ispezione sui test rapidi di Zaia

C’è infine da registrare che Luca Zaia, il presidente della Regione Veneto, dovrà rispondere alla commissione Sanità regionale sulla questione dei test rapidi sollevata dal professor Andrea Crisanti. Il Fatto ne ha scritto tempo fa e il tema è stato ripreso lunedì scorso da Report. Secondo uno studio di Crisanti, l’impiego massiccio di tamponi antigenici rapidi anche in ambienti come ospedali e residenze per anziani, dove il virus circola molto, potrebbe aver favorito la violenta seconda ondata dello scorso autunno. Come è noto i test rapidi, specie quelli di prima e seconda generazione, sono meno attendibili dei molecolari, in particolare per l’elevato rischio di falsi negativi. La Procura di Padova indaga su quei test, ma intanto un responsabile della Sanità veneta ha denunciato Crisanti per diffamazione. Il senatore Pd Vincenzo D’Arienzo con 20 colleghi ha presentato un’interrogazione al ministro Speranza per chiedere “un’urgente indagine ispettiva per fare piena chiarezza sulla validità dello studio del prof. Crisanti” sui test rapidi, che è in attesa di revisione da parte di una prestigiosa rivista scientifica britannica.

La “postina” e il caso Palamara

Quando a fine ottobre l’ex segretaria al Csm di Piercamillo Davigo, Marcella Contrafatto, secondo la procura di Roma, decise di inviare il plico con al Fatto Quotidiano, lo fece per una iniziativa spontanea o perché qualcuno la indusse a farlo? È una dei filoni d’indagine che la procura di Roma potrebbe decidere di avviare nelle prossime ore. Il punto è che Contrafatto è moglie del magistrato Fabio Massimo Gallo con il quale Luca Palamara inizio il suo percorso in magistratura da uditore, vicino prima a Mi e poi ad Aei, le correnti di Cosimo Ferri e Piercamillo Davigo. Nono solo Contraffato e suo marito vatano una conoscenza datata nel con Fabrizio Centofanti che, da un lato è coinvolto in alcune indagini con Amara, l’uomo che ha parlato della presunta loggia massonica in stile p2, e dall’altro con Palamara, con il quale è indagato per corruzione a Perugia. Una pista investigativa che in questo momento è al vaglio della procura di Roma. L’avvocato di Contraffato, Alessia Angelini, ieri non solo ha smentito le condotte attribuite alla sua assistita e precisa che è da anni legata sentimentalmente ad un ex magistrato, ha conosciuto il signor Centofanti in occasione di convegni e nell’arco di dieci anni, in sole due o tre occasioni la signora è stata ospite di eventi organizzati dal signor Centofanti, aperti a numerosi magistrati, avvocati e professori. Il rapporto tra Contrafatto e la famiglia del signor Centofanti si è interrotto dalla primavera-estate del 2017″. “Non vedo e non ho contatti di alcun genere con Marcella Contrafatto e il compagno Gallo dall’aprile 2017” dice al Fatto Centofanti “data in cui ho subìto una pesante perquisizione da parte della Gdf che ebbe grande eco sui giornali. Chiunque voglia anche in modo sibillino accostarmi a questa vicenda sarà perseguito dai miei legali in tutte le sedi giudiziarie nessuna esclusa”. Il punto è che la pubblicazione di questi verbali, ritenuti in parte inattendibili, avrebbe potuto innescare una valanga mediatica in grado di produrre, tra i tanti, un effetto: rendere Amara, agli occhi dell’opinione pubblica, un soggetto totalmente inattendibile.

Un dato, questo, che potrebbe incidere sulla sua credibilità (che resta sempre da valutare) dinanzi alla procura di Perugia dove Centofanti è indagato con Palamara. Uno scenario che gli inquirenti stanno per il momento soltanto valutando e che per ora non è sfociato in alcuna delega d’indagine.

“Regole infrante, le copiacce non dovevano essere ricevute”

Consigliere Ardita, secondo l’ipotesi di indagine lei sarebbe stato (insieme ad altre persone di altri settori) oggetto di un’attività di dossieraggio basata su accuse di Pietro Amara, false, nei suoi confronti. Perché?

Ritengo che si sia tentato di colpirmi perché in tutti gli incarichi istituzionali che ho ricoperto, compreso quello attuale, mi sono battuto perché non ci fossero santuari inviolabili.

Lei ha denunciato insieme al collega Antonino Di Matteo il “dossieraggio anonimo” e ha testimoniato a Perugia. Praticamente siete stati i primi soggetti istituzionali a tirare fuori in pubblico il tema dei dossier con i verbali di Amara.

Bisogna agire con trasparenza. Anche se ci sono cose false potenzialmente idonee a screditarci, bisogna formalizzarle quanto prima. Chi non ha nulla da nascondere non deve temere che quella cosa sia resa pubblica. Le accuse dei verbali riguardano numerosissime persone, quasi tutte molto più importanti di me. Sono certo che per ciascuna si potrà facilmente verificare la veridicità o falsità delle accuse e anche la genesi e gli interessi che le hanno determinate.

Come spiega il silenzio al Csm dopo le parole di Di Matteo. Non hanno capito? Qualcuno sapeva? Imbarazzi?

Ritengo siano ancora tutti increduli, ma confido sul fatto che se qualcuno sa qualcosa contribuirà a ricostruire in modo completo la verità.

Per i pm la mano che veicolava il verbale contro di lei potrebbe essere stata quella della ex segretaria del suo collega di corrente al Csm, Piercamillo Davigo. Lei conosceva immagino la Dottoressa Contrafatto. La vede più come un corvo o un semplice postino?

Sono sconcertato. La dottoressa Contrafatto è una persona semplice, non la ho mai ritenuta capace di strategie o cattiverie. La conosco da tempo ed è sempre gentile con tutti, non riesco proprio a vederla nel ruolo ideativo di corvo. Quindi il mio sconcerto è ancora maggiore.

La ex segretaria di Davigo sarebbe solo la persona che li ha spediti. I verbali di interrogatorio segreti di Amara sono usciti dalla procura di Milano. Al consigliere Davigo sarebbero stati consegnati da chi interrogava Amara, il pm Paolo Storari. Si può fare?

È chiaro che non si può fare. Non si possono estrarre copiacce non firmate di atti segreti e farli circolare. Le istituzioni operano in modo formale, con atti ufficiali e nel rigoroso rispetto del segreto. E la legge prevede i mezzi di risoluzione di ogni possibile conflitto fra colleghi di un ufficio. Non è certo quello di rivelare atti segreti privatamente, fuori da ogni ritualità, a chi non ha titolo per riceverli.

Davigo però potrebbe avere informato (genericamente, senza consegna dei verbali e tramite il vicepresidente del Csm David Ermini) il capo dello Stato.

Ritengo impossibile che il capo dello Stato o i suoi Uffici abbiano accettato di ricevere quelle copie informali acquisite in quel modo.

Invece sull’arrivo dei verbali non firmati da un pm al consigliere del Csm c’è stata un’anomalia?

Potremmo parlare più che di una anomalia, di una catena di anomalie, culminata con dei reati già contestati.

Lei ha avvertito un cambio di atteggiamento di Davigo o di altri al Csm verso di lei?

Ci sono state divergenze con Davigo riguardo all’attività consiliare, fino a giungere alla interruzione di ogni rapporto. Ma non ne voglio parlare qui. Lo farò in caso nelle sedi competenti senza temere niente e nessuno.

Ai primi di marzo del 2020 vi siete spaccati sulla nomina del procuratore di Roma. Le scelte possono essere state condizionate dai verbali poco attendibili e comunque non verificati sulla fantomatica Loggia massonica Ungheria?

Se fosse così sarebbe grave, ma sono certo che chi fa parte dell’organo di autogoverno ha gli strumenti per potersi difendere e reagire come ho fatto io. Sono dell’idea che l’unica strada è la trasparenza, come ha dimostrato il consigliere Di Matteo. Mi aspetto che si cerchi la verità fino in fondo, che ciascuno paghi per le responsabilità anche penali che si accerteranno.

Lei crede all’esistenza di logge massoniche occulte che condizionano la vita pubblica?

Certo che sono esistite e possono esistere, come ci ha insegnato l’esperienza della P2. E’ una possibile deviazione della democrazia. Ci sono anche lobby meno formali e altrettanto pericolose come una variante resistente a un possibile vaccino. Vanno debellate le une e le altre.

Davigo dice che non poteva mandare gli atti in prima commissione del Csm perché c’era lei.

Un consigliere non può mandare atti direttamente a una commissione, ma semmai deve passare dal comitato di presidenza. Inoltre può inviare atti, non copiacce senza firma. Chiunque riceva carte che hanno l’aspetto di copie trafugate ha un solo obbligo: rivolgersi all’ufficio giudiziario e formulare una denuncia come hanno fatto i giornalisti Massari e Milella e il consigliere Nino Di Matteo.

La “Loggia”. Perugia indaga per associazione segreta

La Procura di Perugia indaga per “associazione segreta”, ovvero per violazione della “legge Anselmi” (approvata dopo la scoperta della P2). Ipotesi di reato ereditata dalla Procura di Milano e mantenuta per valutare se possa riguardare magistrati della Procura di Roma.

La norma riguarda la creazione di “associazioni segrete, come tali vietate dall’articolo 18 della Costituzione” che, “anche all’interno di associazioni palesi, occultando la loro esistenza ovvero tenendo segrete congiuntamente finalità e attività sociali”, tengano “attività diretta a interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali”.

L’inchiesta è in capo al procuratore Raffaele Cantone e prende le mosse dalle dichiarazioni rese ai pm di Milano dall’ex avvocato esterno dell’Eni, Piero Amara, che parla di una presunta “loggia Ungheria”, di cui farebbero parte – a suo dire – magistrati, politici e alti rappresentanti delle istituzioni. La Procura guidata da Raffaele Cantone già da tempo ha inziato a valutare le parole di Amara cercando di distinguere il vero dal falso ma, soprattutto, se la presunta loggia esista davvero oppure no.

Per contestare questo tipo di reato è necessario provare quanto meno una affiliazione, un rituale e soprattutto il perseguimento di alcuni obiettivi tesi a danneggiare o a influire su organi dello Stato.