Ermini: “Mi avvisò Davigo” (poi ringraziato dal Colle)

Fu il vicepresidente del Csm David Ermini il canale di Piercamillo Davigo per informare il Quirinale dell’esistenza dei verbali dell’ex legale dell’Eni, Piero Amara, sulla presunta “loggia Ungheria”. Verbali sui quali il pm di Milano, Paolo Storari, sostiene di essere entrato in contrasto con i vertici della sua procura già nella primavera del 2020, perché per sei mesi avrebbe chiesto inutilmente di effettuare le iscrizioni di indagati e poi per “autotutela” si rivolse a Davigo. Quest’ultimo sostiene di aver ricevuto i verbali da Storari, che lamentava un’eccessiva attesa nell’avvio delle indagini. A quel punto Davigo ne parla con il vicepresidente del Csm, David Ermini, al quale mostra la copia dei verbali. Ermini si presenta personalmente al Quirinale. Il giorno successivo riferisce a Davigo che il Quirinale lo ringraziava e che non c’era bisogno per il momento di attuare ulteriori iniziative. Ermini conferma al Il Fattosoltanto di aver parlato con Davigo. Il Quirinale invece non ha commentato in alcun modo la vicenda, per rispetto delle indagini in corso. Fonti qualificate del Csm, tuttavia, negano un incontro personale tra Davigo e Mattarella, che non avrebbe mai visto né letto i verbali in questione al pari del suo consigliere giuridico Stefano Erbani.

Qualcuno però parlò con il Presidente Mattarella e qualcosa si mosse con la cautela imposta dal Qurinale di non interferire con le indagini in corso per non violare qualsiasi prerogativa istituzionale. A sua volta, ieri il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, ha negato di aver mai saputo che Davigo fosse entrato in possesso dei verbali in questione. Non solo. Il Fatto è in grado di ricostruire che il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi sarebbe stato soltanto informato da Davigo della vicenda – ma senza fargli il nome del pm Storari – e a sua volta lo stesso Salvi ne parlò con il procuratore di Milano, Francesco Greco, anche perché nei verbali Amara citava un componente del Csm, Marco Mancinetti. La procura di Milano inviò a Salvi i verbali su Mancinetti per i necessari approfondimenti disciplinari. Greco e Salvi però non discussero il merito dell’indagine (si parlò soltanto in linea generale dell’esistenza di una sorta di nuova P2). Inchiesta sulla quale, peraltro, necessitava una valutazione in relazione alla competenza, poiché gran parte delle condotte ipotizzate si erano svolte a Roma. In quel frangente sono iniziate le frizioni tra Storari, Greco e il procuratore aggiunto Laura Pedio, per le iscrizioni e le ipotesi di reato. Quella che viene presa in considerazione è la violazione della cosiddetta legge Anselmi, la 17 del 25 gennaio 1982: si discute su quante persone (su circa 74 nomi) andrebbero iscritte nel registro degli indagati. La posizione della procura di Milano è di procedere con cautela, iscrivendo Amara e altri due presunti affiliati, che si erano autodenunciati, per poi verificare le singole posizioni. Amara promette di depositare una fotocopia: non lo farà mai.

Ma torniamo ai verbali giunti a Roma. Verbali molto delicati anche sotto il profilo politico, perché Amara sostiene di aver favorito Giuseppe Conte, in quel momento presidente del Consiglio, quando nel 2012 invitò il suo amico Fabrizio Centofanti ad affidargli un incarico per conto della Acquamarcia spa. La vicenda, già vagliata dalla procura di Milano, non ha mostrato alcun profilo di illiceità, ma inserire il nome dell’allora presidente del Consiglio in un contesto “massonico” in stile P2 non poteva che produrre un effetto destabilizzante. È importante sapere se anche questo dettaglio, politicamente sensibile proprio per il suo effetto, sia stato portato a conoscenza del Quirinale o del Csm. E mentre la procura di Brescia valuta l’apertura di un fascicolo, il procuratore generale Salvi annuncia iniziative disciplinari per “violazione del segreto”. “Non c’è stato nulla di irrituale”, replica Davigo, poiché Storari – che si dice pronto a riferire al Consiglio – si rivolse a lui proprio per il suo ruolo istituzionale e “il segreto non è opponibile ai consiglieri del Csm”. Salvi ha aggiunto che Davigo parlò di “contrasti” alla Procura di Milano su un “fascicolo molto delicato, che, a dire di un sostituto, rimaneva fermo” ma “mai” gli disse del fatto che avesse la disponibilità delle copie di verbali di interrogatorio resi Amara alla Procura di Milano.

Ieri è intervenuto anche Ermini, parlando a nome del Consiglio superiore della magistratura: “Il Csm è del tutto estraneo a manovre opache e destabilizzanti, ma è semmai obiettivo di un’opera di delegittimazione e condizionamento tesa ad alimentare la sfiducia dei cittadini verso la magistratura. Auspico la più ferma e risoluta attività d’indagine da parte dell’autorità giudiziaria al fine di accertare chi tenga le fila di tutta questa operazione”. Il vicepresidente del Csm conclude: “Una funzionaria del Consiglio, in seguito alla perquisizione nella sede consiliare in ordine alla diffusione di materiale istruttorio coperto da segreto, è stata immediatamente sospesa dal servizio. Eventuali sue responsabilità o di altri per condotte individuali non riferibili al Consiglio sono oggetto di indagine da parte dell’autorità giudiziaria competente”.

Ce l’hanno Durigon

Fate finta di non sapere niente e immaginate questa scena. Il sottosegretario 5Stelle all’Economia parla con Beppe Grillo dell’inchiesta sul figlio per stupro e gli dice di non preoccuparsi perché “il generale che fa le indagini lo abbiamo messo noi”. Nell’ordine, accadrebbe questo: telegiornali, giornali e talk sparerebbero la notizia a reti ed edicole unificate per almeno tre settimane consecutive; destre e sinistre invocherebbero la testa del reprobo e subito il premier Draghi e il ministro Franco convocherebbero il sottosegretario per cacciarlo a pedate dal governo; Sgarbi, Sallusti, Belpietro, Giletti e Santoro direbbero che loro l’avevano detto che le indagini erano compiacenti; Stampubblica intimerebbe a Enrico Letta di rompere ogni dialogo presente e futuro col M5S; il giornale di De Benedetti scriverebbe che è tutta colpa di Conte.

Invece, a dire che “il generale che fa le indagini l’abbiamo messo noi”, è stato il sottosegretario leghista all’Economia Claudio Durigon, parlando – a quanto pare – delle indagini sui 49 milioni di fondi pubblici fatti sparire dal suo partito, costringendo la Procura di Milano a ribadire piena fiducia nei finanzieri che conducono l’inchiesta. Infatti, intorno al caso, regna un meraviglioso silenzio. Solo i 5Stelle e Calenda chiedono le dimissioni, mentre l’interessato – invece di spiegare le sue parole immortalate in una registrazione dal sito Fanpage – minaccia fantomatiche “dieci querele” (a chi, visto che ha fatto tutto da solo?). Salvini tira in ballo Grillo e i 5Stelle (che non c’entrano nulla perché Durigon ha fatto tutto da solo). E il giornale di De Benedetti gli va dietro: “I Cinque stelle attaccano Durigon dopo le tensioni con la Lega sul video di Grillo”. Si ripete tale e quale il giochetto seguìto al video di Grillo: il Tempo riporta una frase di Salvini su un “qualcosina” che gli ha spifferato la sua avvocata e senatrice Bongiorno sul presunto stupro di gruppo, la sottosegretaria M5S Claudia Macina domanda cosa sia quel “qualcosina”, tutti chiedono le dimissioni della Macina anziché di Salvini e della Bongiorno e la ministra Cartabia redarguisce la Macina anziché Salvini e la Bongiorno. Noi ovviamente, non avendo alcun dubbio sull’integrità e la probità di Draghi, immaginiamo che avremo presto sue notizie e che intanto il ministro Franco ritirerà le deleghe al sottosegretario (la Guardia di Finanza dipende proprio dal Mef). Intanto, già pregustiamo la prossima puntatona (almeno una) di Non è l’Arena, il programma senza macchia e senza paura di Massimo Giletti. Possibilmente con una telefonata-trappola a Durigon organizzata dal consulente Fabrizio Corona che, per camuffarsi e incastrarlo meglio, gli fa l’accento svedese.

Per alimentare l’auto a batteria si utilizza petrolio o carbone

“Quando il 72% dell’elettricità sarà prodotta con zero emissioni allora avrà senso rendere di uso comune la mobilità elettrica. Che senso ha guidare un’auto a batteria se per ricaricarla si brucia petrolio o carbone? Nel frattempo si dovrà lavorare per non farsi trovare impreparati, installando migliaia di colonnine di ricarica”. Una spiegazione sintetica quanto ficcante del momento storico che viviamo: quasi costretti, in primis dalle istituzioni Ue, ad abbracciare una rivoluzione tecnologica che sappiamo essere ancora acerba. A darla non è un costruttore che ancora vuole spremere soldi dai motori termici, bensì un emerito professore universitario di fisica che risponde al nome di Roberto Cingolani. Il quale, ove ce ne fosse bisogno, riesce a essere ancora più chiaro: “Se si considera anche l’anidride carbonica che si deve consumare per estrarre il litio, fare le batterie e cambiare il processo di manifattura, l’auto elettrica si è dimostrata un po’ meno verde di quanto si possa pensare”. L’attuale ministro per la transizione ecologica, per inciso, dimostra la sua coerenza anche quando afferma che la strada energetica del futuro è lastricata di rinnovabili e, magari un po’ più in là, di idrogeno.

Solo allora le emissioni di quelle che ora ci vengono dipinte come le auto della provvidenza si avvicineranno allo zero. Ma ci vorrà tempo, e tappe di avvicinamento progressive. Quelle che la frenesia di politici sprovveduti e zelanti addetti ai lavori sta bruciando troppo in fretta.

Inghilterra: è l’ora della guida autonoma

Guida autonoma o assistita? Questo è il dilemma con cui il governo britannico si sta misurando in questi giorni. In realtà, per il ministero dei trasporti il problema non si porrebbe affatto: “Gli automobilisti potrebbero vedere auto a guida autonoma sulle strade britanniche entro la fine dell’anno” ha annunciato in questi giorni il Department for Transport, specificando che il via libera alla guida autonoma varrebbe solo sulle autostrade e rispettando il limite di velocità di 60 km/h.

Le auto a guida autonoma di cui parla il DfT sarebbero quelle equipaggiate con il sistema di guida assistita che permette all’auto di mantenersi all’interno della propria corsia (ALKS, Automated Lane-Keeping System) e a giusta distanza dagli altri veicoli.

Un sistema che però, secondo l’associazione delle compagnie assicurative britanniche, non permetterebbe ancora di definire un veicolo propriamente “a guida autonoma”: tali ALKS “per come sono attualmente proposti dal governo, non sono autonomi” ha dichiarato l’associazione in un comunicato di risposta, “sono dei sistemi di guida assistita che contano sulla capacità del guidatore di riprendere il controllo”.

La ministra dei Trasporti Rachel Mclean, invece, definendo la decisione come un passo in avanti importante “nell’uso sicuro delle auto a guida autonoma nel Regno Unito, per futuri viaggi più sostenibili, facili e affidabili”, ha assicurato che il governo sta lavorando affinché questa tecnologia rispetti tutte le norme di sicurezza per essere applicata.

Le dichiarazioni del governo britannico sono invece state salutate con entusiasmo dalla SMMT, che nel Regno Unito rappresenta l’intero settore automobilistico: “L’industria automobilistica accoglie con favore questo passo fondamentale per consentire l’uso di veicoli automatizzati sulle strade” ha dichiarato il Ceo dell’associazione Mike Hawes, “i sistemi di guida automatizzati potrebbero prevenire 47.000 incidenti gravi e salvare 3.900 vite nel corso del prossimo decennio attraverso la loro capacità di ridurre la più grande causa di incidenti stradali, ovvero l’errore umano”.

 

I motori termici sono il terreno di battaglia tra i big d’Europa

Bloccare la vendita di nuovi veicoli a benzina, diesel e ibridi entro il 2035 e favorire, per legge, quelli 100% elettrici: a chiederlo sono 32 fra aziende e organizzazioni (fra cui la nostrana Enel X e la svedese Volvo, ma anche l’Ikea), attraverso una lettera destinata alla Commissione europea e all’Europarlamento. Il tutto in barba al principio di neutralità tecnologica che dovrebbe orientare le scelte politiche, anche in tema di tutela ambientale.

A firmare la missiva sono state perlopiù realtà che hanno interessi economici diretti o indiretti collegati alla diffusione dell’automobile a batteria. Mancano, invece, le firme delle principali organizzazioni ambientaliste del mondo e dei costruttori dell’automotive, inclusi quelli che maggiormente stanno puntando sull’elettrico: segno che forse le certezze su un futuro della mobilità fatto esclusivamente di modelli a batteria a scapito di quelli termici/ibridi a bassissime emissioni non sono poi così solide?

“Fissare un obiettivo di CO2 per i costruttori di veicoli con emissioni di zero grammi per chilometro entro il 2035 sancirebbe l’eliminazione graduale delle auto a benzina e diesel (compresi gli ibridi)” sostengono i 32. I veicoli elettrici “offrono ora l’opportunità di sostituire i motori a combustione interna e inaugurare una nuova era di mobilità a zero emissioni”. C’è però un particolare che sfugge ai mittenti: la mobilità elettrica non è a zero emissioni, né di CO2, né di ossidi di azoto, né di particolato. E non lo sarà fin quando la produzione di energia elettrica non sarà totalmente rinnovabile, cosa che non avverrà prima di qualche decennio. Nella missiva si sorvola pure sui danni ambientali derivanti dall’estrazione e trasporto delle materie prime che servono per costruire le batterie, a cominciare da litio e cobalto, che hanno un impatto devastante sull’ecosistema. Nemmeno un cenno, poi, allo sfruttamento del lavoro minorile perpetrato nelle miniere di cobalto del Congo, denunciato da Amnesty International e documentato dal The Guardian. Il tutto fingendo che la costruzione dell’infrastruttura di ricarica sia carbon neutral.

“Volvo intende segnare il passo nella transizione verso la mobilità a zero emissioni”, dice il responsabile della sostenibilità, Anders Kärrberg. “Tuttavia, per accelerare questa transizione sono necessari anche una chiara direzione e un sostegno da parte del governo”. Non più tardi di qualche mese fa era stata la stessa casa svedese a sottolineare come le vetture elettriche non siano emission-free e che prima di generare benefici ambientali rispetto a un’auto convenzionale debbano percorrere decine di migliaia di chilometri. Ma solo se rifornite con elettricità verde.

 

 

“Io tossico, salvato dal fan con la dose di adrenalina”

Due minuti nell’aldilà. Fu dichiarato morto, la breaking news rimbalzò nelle radio. Era la notte tra il 22 e il 23 dicembre 1987. Los Angeles. Al Franklin Carlton Hotel la sarabanda tossica delle rockstar era al climax. Insieme a Slash e Steve Adler dei Guns N’Roses e Robbin Crosby dei Ratt, Nikki Sixx si decise per un’ultima dose di eroina (“il mio vero amore”). Il cuore si fermò di colpo, il bassista fondatore dei Mötley Crüe vide il suo corpo dall’alto, un balletto extrasensoriale che lo avrebbe poi indotto a parlare di “resurrezione” tout-court, con gli ultrà cattolici sdegnati per la frase “Solo io e Gesù ci siamo riusciti”. Sally, la ragazza di Slash, gli praticò la respirazione bocca a bocca. Lo salvò un infermiere rockettaro, sparandogli in petto un siringone di adrenalina, in puro stile Pulp Fiction.

In ospedale lo riportarono sulla Terra: a casa, invece, tornò nell’auto di due fans che l’avevano già pianto. Il regalo di quel Natale, per Nikki, fu la vita. Ne parlò in un libro senza filtri, The Heroin Diares, che torna ora nel decennale dall’uscita anche in edizione italiana per Il Castello. Sixx parla della sua rinascita in esclusiva con il Fatto. “Sono pulito e non bevo un goccio da vent’anni. Il mio percorso di guarigione era iniziato in quella notte. La cura? Affrontare i propri demoni, rifiutando l’idea seducente dell’autodistruzione. Io ero un privilegiato, non avrei dovuto sentirmi solo, smarrito e pronto a buttarmi via con un ago. Ero una rockstar, lavoravo duro con la band. Votato a rispettare i fans che fanno sacrifici per venirci ad ascoltare. Eppure, d’un tratto fui costretto a chiedermi in che modo fossi passato dallo scolarmi un paio di birre al diventare un tossicomane perso. Eroina, coca, acidi. Potevo crollare in qualunque momento, lì sul palco”. Accadeva di tutto, ai Mötley Crüe. Un’altra notte Nikki, esanime, fu gettato in un cassonetto da un pusher. E nell’84 il loro cantante Vince Neil si schiantò in auto: sopravvisse, ma all’altro mondo ci finì il passeggero, Razzle, batterista degli Hanoi Rocks. Non c’era limite allo sperpero dell’esistenza. “Il recupero è complicato, lungo, pieno di insidie. Comincia con uno scatto mentale, la scintilla per la terapia. Ti dici: ok, basta con questa merda. Devi ammettere le tue insicurezze, conviverci, e prendere coscienza delle cazzate che hai combinato per noia. Paure, dolore, allucinazioni. Ma è il corpo che soffre le pene dell’inferno, finché, un bel giorno, ti senti libero dalla dipendenza. Il tuo cuore smette di sanguinare, acquisti chiarezza, visione. I mostri se ne sono andati”. Per questo Heroin Diaries, spietato documento autobiografico di un anno nel tunnel, è stato adottato in molti istituti d’America.

Per evitare tentazioni, Nikki è passato anche per un cambio di scenario: dal villone dorato californiano alle solitudini del Wyoming. In una casa rurale con vista montagne, con la moglie Courtney e la figlia Ruby Sixx si ritempra in attesa che la pandemia non ostacoli più il progetto del Reunion Tour dei Mötley Crüe negli stadi, carovana metal con Def Leppard, Poison e Joan Jett. “Nessuno deve rischiare la salute, ci muoveremo quando il mondo sarà tornato a posto. Ci faremo il mazzo per offrire un supershow, lontani dal mito luciferino di sex, drugs e r’n’r degli anni Ottanta”. Nel frattempo, Sixx è alle prese con una nuova sortita da scrittore: “sarà il mio libro del cuore”. Vuole scoprire la verità sulle sue origini siciliane, “e il Fans Club italiano si sta dando da fare per me”. Perché “Nikki Sixx” non è un nome d’arte, ma la seconda identità sui documenti, dopo la rinuncia a quella anagrafica, Franklin Carlton Serafino Feranna Jr. “Quando nacqui, nel ‘58, mio padre aveva quarant’anni. Mia madre solo 18. Questa era già una sfida nella società dell’epoca, per non dire nella mia famiglia. Avevo solo tre anni, papà se ne andò da noi”.

La madre passò da un compagno all’altro, in un quadro di disagio domestico che indusse il piccolo, tirato su a whisky e canne, a farla arrestare. “Mi parlavano di mio padre come di un poco di buono. Ho un solo ricordo di lui, mentre si allontana. Poi un giorno trovai la sua tomba, ci andai con il mio fratellastro. Adesso sto scoprendo che papà non era quel cattivo insensibile che mi avevano venduto”. Ora c’è da risalire l’albero genealogico. “Mio nonno Serafino e nonna Francisca sbarcarono a Ellis Island nel 1908, sul piroscafo ‘Perugia’. Sto seguendo le loro tracce a ritroso, ma mi perdo. Il paese della Sicilia da cui provenivano potrebbe essere Calascibetta, in provincia di Enna. Un giorno andrò lì. Se negli archivi si troverà qualcosa dei Feranna, o Faranna, avrò fatto pace con quella parte di me che non ho mai conosciuto”.

Il falso scoop su Kamala costa il posto alla cronista

Una bufala ‘anti Kamala Harris’ del New York Post, tabloid di Rupert Murdoch, viene ripresa e rilanciata da media di destra e da politici ‘trumpiani’ e diventa virale, nonostante le smentite: la vicenda dà la misura di come la polarizzazione della società americana resti elevatissima, sei mesi dopo la sconfitta elettorale di Donald Trump e cento giorni dopo l’insediamento di Joe Biden.

L’attacco alla Harris, la prima donna vicepresidente, afroamericana per parte di padre e indiana per parte di madre, raggiunge l’acme in vista del discorso di mercoledì di Biden al Congresso in plenaria: dietro al podio dell’oratore, lo scranno della presidenza è, per la prima volta in assoluto, occupato da due donne: la Harris, che presiede il Senato; e Nancy Pelosi, la speaker della Camera, che, 15 mesi or sono, stizzita, stracciò platealmente, davanti alle telecamere, il discorso di Trump sullo stato dell’Unione. Il 23 aprile il New York Post, in un articolo firmato Laura Italiano, scriveva che i minori migrati negli Usa ricevevano in dono una copia di un libro della Harris per bambini, I supereroi sono ovunque, in un kit di benvenuto in una struttura di accoglienza a Long Beach, in California. S’è parlato di migliaia di copie del libro acquistate per darle ai minori, ma s’è poi chiarito che la storia nasceva da un’unica copia del libro vista nella stanza di un minore, che l’aveva ricevuta in un kit omaggio confezionato con libri, alimenti e indumenti regalati dalla gente. La Italiano, giornalista esperta, cronista giudiziaria, stimata e apprezzata in redazione, s’è dimessa, denunciando di essere stata costretta a scrivere una falsa storia sui migranti e sulla vicepresidente: “Ho sbagliato a non opporre adeguata resistenza… Mi dispiace andarmene… Ma questo per me è il punto di rottura”.

Da quando Murdoch ha messo Keith Poole a dirigere il NYP, malumori serpeggiano in redazione e almeno otto giornalisti se ne sono andati, compresa la corrispondente dalla Casa Bianca Ebony Bowden. Poole arriva dal Sun di Londra, un altro tabloid dell’impero Murdoch. Il New York Post, in passato, aveva appoggiato il presidente Trump – Murdoch aveva spesso accesso al presidente –, salvo però criticarlo specie dopo l’assalto al Congresso del 6 gennaio, condotto da facinorosi suoi sostenitori. Tom Cotton, senatore dell’Arkansas, ultrà trumpiano, aspirante alla nomination repubblicana 2024, s’interroga su Twitter: “I democratici spendono i soldi dei contribuenti per comprare il libro della Harris e darlo agli immigrati illegali?“; poi fa sparire il messaggio. Prima che la storia fosse chiarita, la notizia era stata ripresa dalla Fox, pure di proprietà di Murdoch: Tucker Carlson, uno dei giornalisti più ascoltati da Trump, e altri commentatori hanno citato l’articolo del NYP nei loro show; e il corrispondente della Fox dalla Casa Bianca Peter Doocy ha chiesto alla portavoce di Biden Jen Psaki se la Harris ci avesse guadagnato qualcosa, manipolando poi la risposta. Anche la Fox ha poi fatto mezza marcia indietro. Come su un’altra falsa notizia, sui piani di Biden contro il cambiamento climatico: “Dite addio ai vostri hamburger”. Citato dal New York Times, Juan Williams, giornalista conservatore, ma moderato, riconosce che le storie su Harris e Biden erano “false”, ma spiega che “i social di destra ne vanno matti, perché permettono di prendersela con i Democratici”.

La “Bidenomics” punta ai dimenticati, la base di Trump

Dimenticati, left behind, esclusi. Tante volte sono stati definiti così i cittadini dell’America più povera e più lontana dal racconto dei media. Un’America variegata e spesso divisa, il cui malcontento ha alimentato da una parte l’ascesa di Trump e dall’altra il rafforzamento dell’ala sinistra dei Democratici. Proprio a quest’America si è rivolto Joe Biden nel suo discorso al Congresso, sottolineando che il 75% dei posti di lavoro creati dal suo piano infrastrutturale non richiederà un titolo universitario. Anche attraverso questa narrazione prende forma la Bidenomics.

Al Congresso è stato appena presentato l’American Families Plan, un piano da 1.800 miliardi di dollari. Di questi, 800 sono crediti d’imposta per combattere la povertà infantile e sostenere la cura dei bambini. Gli altri mille miliardi sono nuove spese per famiglie e istruzione, oltre a una “piccola” voce (80 miliardi) per potenziare il fisco americano. I provvedimenti sul campo includono un rafforzamento degli asili nido e dei college di comunità, nuovi sussidi per gli studenti e un programma di congedo retribuito.

Questo piano si aggiunge all’American Jobs Plan, una pioggia di 2.300 miliardi per rinnovare e potenziare le infrastrutture. Biden ha ricordato che nel passato questo genere di investimenti, “che solo il governo era nella posizione di fare”, è stato un grande volano di crescita. Le voci di spesa sono edifici, servizi pubblici e trasporti, ma anche infrastrutture immateriali: tecnologia, ricerca, cura degli anziani e dei disabili. Puntando sull’economia della cura, si allarga il significato di “infrastruttura” oltre i confini tradizionali.

Un altro punto importante è la lotta alla crisi climatica, declinata non come un sacrificio, ma come l’opportunità per creare un’economia più forte. Accanto alla modernizzazione di 20mila miglia di autostrade e alla riparazione di 10mila ponti, si progettano infatti l’efficientamento energetico degli edifici e la costruzione di una rete di 500mila stazioni di rifornimento per le auto elettriche. Un tema che si accompagna al rafforzamento della rete elettrica, la cui fragilità è drammaticamente emersa in Texas a febbraio.

I piani per le famiglie e per le infrastrutture si inseriscono nel solco tracciato dal primo pacchetto di stimolo economico dell’amministrazione Biden, l’American Rescue Plan. Questa legge, approvata l’11 marzo, iniettava 1.900 miliardi nell’economia per combattere gli effetti della pandemia. Il suo fine immediato era assistenziale: ricordiamo i 1.400 dollari a persona e l’estensione dei sussidi per i disoccupati. Ma ora è chiaro che il nuovo presidente non ha voluto solo mettere una pezza sulla crisi per poi tornare al business as usual: il Rescue Plan gettava i semi per una rinnovata stagione di intervento pubblico. Anche se con qualche contraddizione, torna uno Stato che non è solo una stampante di soldi, ma un attore che dà una direzione all’economia con una visione autonoma rispetto alle dinamiche di mercato (“noi, il popolo, siamo il governo”, dice Biden).

Questo cambio di rotta si è visto con l’innalzamento a 15 dollari del salario minimo per gli appaltatori federali: un passo verso un salario minimo nazionale più alto. E nella nuova visione dell’Amministrazione ci sono anche l’aumento delle tasse sui ricchi e lotta all’evasione. Le maggiori tasse colpiranno chi guadagna più di 400mila dollari all’anno e sono state presentate come un modo per non aumentare il deficit. Ma lo stesso Biden lascia trapelare che in questo modo si vogliono ridurre le disuguaglianze: “È tempo per le imprese e per l’1% degli americani più ricchi di iniziare a pagare la loro giusta parte”.

Nel mettere in soffitta la trickle down economics di reaganiana memoria, Biden ha affermato che il nuovo corso serve per “vincere il 21° secolo” e la competizione con la Cina. Una posizione che è stata criticata da alcuni, come l’economista Dani Rodrik, e che mette insieme politica economica e politica estera. Rivelando che nelle stanze di Washington non si progetta solo la ripresa degli scambi, ma una nuova politica di potenza.

Immigrazione, sostegni, farmaci: Sleepy Joe diventa illusionista

Un piano ambizioso: oltre 4 mila miliardi di dollari per infrastrutture, transizione energetica e riscrivere il patto sociale attraverso l’ampliamento di assistenza sanitaria, sussidi, congedi e istruzione. A cui vanno aggiunti 1.900 miliardi di dollari per gli aiuti post-pandemia. Joe Biden era a suo agio mercoledì nel primo discorso al Congresso riunito a 100 giorni dall’insediamento, tra gli scranni che sono stati casa sua per anni. Tra i punti toccati, non tutti però sono risultati esenti da forzature o falsità. L’Associated Press li ha passati al fact checking:

Il numero degli illegali

Biden ha voluto far passare il concetto che la legge sull’immigrazione serva a regolarizzare chi già vive negli Usa illegalmente: 11 milioni persone. Cioè la “stragrande maggioranza degli immigrati” che resta a visto scaduto. Affermazione infondata. Secondo l’Ap non esiste un conteggio ufficiale. Stando alle stime del governo nel 2018 erano 11,4 milioni, è vero, ma non si è mai distinto tra immigrati illegali e legali con visto scaduto. Secondo il Center for Migration Studies di New York nel 2018 sarebbe stato il 46% degli immigrati a restare oltre la scadenza, dunque molto meno di “una vasta maggioranza”. Biden ha ricordato che “da vicepresidente, Obama mi chiese di risolvere le cause profonde dell’immigrazione” attraverso il Piano che “aiutava le persone a restare nei propri Paesi”. Il Piano, a detta di Biden “stava funzionando, ma poi Trump l’ha cancellato”. Così il presidente ha annunciato di “ripristinarlo chiedendo ad Harris uno sforzo diplomatico per occuparsene”. Niente affatto. Obama ha affrontato il picco di immigrazione dall’America Centrale, ma non ha abbattuto povertà e violenza endemiche della Regione, nonostante lo sforzo di centinaia di milioni di dollari degli americani, anche sotto la presidenza Trump. A marzo, secondo i dati Ap i minori non accompagnati alla frontiera Usa sono stati 19 mila: il picco più alto. Biden ha proposto 861 milioni di dollari in aiuti, rispetto ai 506-750 milioni degli ultimi sei anni.

Il “plauso” bipartisan

Per Biden intorno al suo piano di rinascita ci sarebbe “un ampio consenso di economisti bipartisan, tutti concordi “che ciò che propongo aiuterà la creazione di posti di lavoro e genererà una crescita storica”. Affermazione non esatta. Se è vero che in generale il piano di Biden ha ricevuto appoggio persino dal capo economista di Trump, Kevin Hassett, non sono mancate le critiche bipartisan. A partire dal capo economista di Obama, Larry Summers, che ha avvisato che il pacchetto di aiuti rischia di creare un tasso di inflazione che non si vedeva da decenni. Questo perché le proposte su infrastrutture e famiglie significano sostanziali aumenti delle tasse societarie. Questione questa criticata dalle società, dai grandi investitori e dagli economisti conservatori. Secondo l’ex direttore del Congressional Budget Office, Douglas Holtz-Eakin, “la Casa Bianca non dovrebbe concentrarsi su chi paga più tasse, ma su quanta parte dell’economia viene tassata”.

L’accordo sugli assegni

Biden ha ricordato l’intesa tra Democratici e Repubblicani sull’assegno di 1.400 dollari all’85% delle famiglie. In realtà il Gop si è opposto a questa parte del American Rescue Plan perché esagerato rispetto ai 600 dollari forniti da Trump.

Farmaci per tutti

Come per l’immigrazione, Biden ha usato un escamotage per rabbonire i critici del Medicare dalla sua parte: “Non aiuterà chi ne ha bisogno, ma ridurrà il costo dei farmaci per tutti”. Una chimera. In primis perché il disegno di legge del presidente della Camera, Nancy Pelosi al Senato non passerà. C’è da dire che i Repubblicani nelle risposte tra lodi al Piano Covid, alla crescita economica e occupazionale sotto Trump hanno fatto peggio di Biden.

Napolitano & C., la frana del Pci deberlinguerizzato

È tempo di anniversari a sinistra, qualcuno celebrato, qualcuno meno. Ma c’è una ricorrenza su cui vale la pena tornare: i 35 anni della svolta dimenticata del Pci, il momento in cui si mandò in soffitta l’eredità di Enrico Berlinguer.

Nell’aprile 1986, il Pci celebra il suo XVII congresso. Passerà alla storia come “il congresso di Natta”, che viene confermato al vertice mentre il partito si dichiara “parte della sinistra europea”. Ma sotto le formulazioni c’è di più. È un Pci lacerato quello che discute a Firenze. Dopo la fine della “solidarietà nazionale”, solo il carisma di Berlinguer aveva impedito lo sfaldamento del partito, alle prese con una crisi di consensi e prospettive. Nei primi 80, l’iniziativa del segretario aveva restituito credibilità su nuovi pilastri: il ritorno alle vertenze operaie e alle istanze di giovani e donne, il “nuovo internazionalismo” senza l’Urss, l’“alternativa democratica” e soprattutto la “questione morale” lanciata dopo il terremoto dell’Irpinia; un atto d’accusa all’intera classe politica, un monito sulla degenerazione dei partiti. Un radicalismo intransigente mai digerito dai “miglioristi” come Napolitano e Lama, che avevano quindi approfittato della scomparsa del segretario nel giugno 1984 e della sconfitta al referendum sulla scala mobile nel 1985 per la resa dei conti.

Il Pci si era avviato così a congresso sotto la pressione delle correnti – diremmo oggi – e i colpi incessanti della grande stampa, che pretendeva abiure e sconfessioni: da una parte Repubblica di Scalfari, che raccomandava l’alleanza col Psi craxiano in uno schieramento liberalprogressista opposto alla Dc, dall’altra il Corriere della Sera, che metteva sul banco degli imputati la scarsa trasparenza. Tra chi la voleva cotta e chi la voleva cruda, già nell’estate del 1985 si era aperto un dibattito sulla possibilità di cambiare nome e simbolo al partito. Ma sarà poi una Commissione di 77 “saggi” a deciderne il destino.

“Il Pci deve affermarsi come forza di governo”, dirà a essi Natta. La principale novità dell’assise congressuale sarà quindi la proposta di un “governo di programma”, una formula politichese per dichiarare la fine della dura opposizione berlingueriana. Si cercava una via di uscita dall’isolamento degli anni del Pentapartito, accogliendo le istanze di moderazione della destra migliorista e proponendo le larghe intese ante litteram. Peccato che Psi, Dc &C. in quel momento pensassero a tutto – sono i mesi di Sigonella e del caso Sindona – tranne che a fare un governo col Pci. Ma tant’è. Nei nastri della Commissione c’è tutta la sostanza che non traspare all’esterno. Il leader del partito è Achille Occhetto, che dirige la stesura delle tesi congressuali e imprime alla svolta moderata del Pci l’eclettismo della sua retorica ‘nuovista’. Alle sue spalle, tutta la generazione che guiderà la sinistra nei decenni successivi, da Veltroni a Fassino. Ma il gran manovratore è Giorgio Napolitano, ansioso di archiviare il movimentismo berlingueriano: “È l’inizio di una fase nuova della nostra politica”, sentenzierà. Anni dopo rivendicherà Firenze come successo della sua linea “riformista”. Come dargli torto.

C’è chi capisce la situazione e non nasconde lo sconforto, come Ingrao. C’è chi appare spaesato, come D’Alema. Ma la linea che va maturando sarà chiara in prospettiva. Natta salverà l’unità, ma sancirà comunque la svolta, con il ritorno in segreteria di Napolitano: l’adesione alla “sinistra europea” – e quindi a una socialdemocrazia già in crisi sotto i colpi del neoliberismo – sarà il blando surrogato del defunto internazionalismo, mentre la proposta del “governo di programma” sarà il modo per finirla lì con la linea della “diversità”. Lo dirà chiaro e tondo Natta a Firenze: “Se il problema è la parola, facciamone pure a meno”.

Occhetto diventerà segretario nel 1988. Ci sarà un riavvicinamento con l’Urss, prima del crollo del Muro e la svolta della Bolognina. Ma nel 1986 ci sono già tutte le premesse della fine. A Firenze va in scena la deberlinguerizzazione del Pci, preso da un’ansia di legittimazione agli occhi dei rivali. Risultato: un’inarrestabile emorragia di voti; il partito al governo non ci arriverà mai. Sotto questa stella nascerà il Pds e il tornante del decennio avrà il sapore dell’occasione mancata: con Tangentopoli il sistema politico tutt’intorno crollerà, ma ad affermarsi sarà un imprenditore che aveva incantato gli italiani con le sue televisioni.