Ddl Lega: scuse pubbliche dai pm

Matteo Salvini può ben definire “stronzi” e “lazzaroni che rompono le palle alla Lega” i magistrati e il sistema giudiziario italiano “un cancro da estirpare” e cavarsela in tribunale con la scusa del linguaggio colorito: ora coltiva anche la speranza che all’assoluzione che ha incassato qualche settimana fa in tribunale dove era chiamato a rispondere del reato di vilipendio, si aggiungano pure le scuse da parte di chi abbia osato trascinare lui o altri in giudizio senza ottenere una condanna.

Uno dei suoi fedelissimi, il deputato Daniele Belotti, vorrebbe infatti imporre ai magistrati di fare pubblica ammenda tutte le volte che un’iniziativa giudiziaria finisca con un’assoluzione. Par di capire insomma che di fronte alla notizia di reato, le toghe non debbano doverosamente procedere per accertare i fatti, ma predisporsi a cospargersi il capo di cenere. Ché per la Lega la responsabilità civile per i magistrati che sbagliano ed eventualmente il risarcimento per ingiusta detenzione, non bastano: serve l’harakiri per chi abbia osato semplicemente indagare.

Che Salvini voglia profondamente riformare la giustizia è cosa nota anche se pare rassegnato: “Non sarà questo governo disomogeneo a farla, ma quello che verrà, a guida centrodestra, per il quale sarà al primo posto”. Nell’attesa però scalda i muscoli con il disegno di legge firmato da Belotti che prevede l’istituzione delle “pubbliche scuse in caso di ingiusta accusa” da parte dell’amministrazione giudiziaria nei confronti dei soggetti che alla fine siano ritenuti non responsabili dei reati.

“In sintesi – si legge nella proposta – si introduce una sorta di atto di ammissione di responsabilità morale dello Stato al soggetto che è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o nei cui confronti è pronunciato provvedimento di archiviazione ovvero sentenza di non luogo a procedere”. Perché il processo e ancor prima le indagini sono “un calvario” e provocano “danni morali psicologici ed economici che non si possono cancellare, in particolare nei casi in cui i procedimenti diventano oggetto delle notizie di cronaca, bollando l’indagato come colpevole ancora prima che entri in un’aula di tribunale”.

E allora che fare? A parziale risarcimento morale basterà una dichiarazione della Corte di appello da rendere pubblica per mezzo della stampa, delle reti social o di altro mezzo di comunicazione “al fine di ottenere una riabilitazione, almeno parziale, della propria dignità e della propria immagine, per salvaguardare l’onore e il rispetto e riacquistare la sua reputazione sociale presso l’opinione pubblica”.

Fermati 9 su 10. Gli ex terroristi già in libertà vigilata

Non possono lasciare la Francia e hanno una sorta di obbligo di firma. Ma, nella sostanza, sono tutti liberi i dieci ex brigatisti fermati dalle autorità francesi, di cui sette arrestati mercoledì, due costituitisi ieri mattina e uno ancora “latitante”. La giornata di ieri era iniziata proprio con Luigi Bergamin (nella foto) e Raffaele Ventura che si sono consegnati con i loro avvocati al Palazzo di Giustizia a Parigi. Poi ha fatto effetto la richiesta dell’avvocata Iréne Terrel, che aveva chiesto l’uscita dallo stato di fermo sulla base della “affidabilità” e della “reperibilità” di tutti gli imputati: in sostanza, non c’è pericolo di fuga. L’unico a essersi dato alla macchia è Maurizio Di Marzio, per il quale il 10 maggio scatterà la prescrizione dai reati commessi in Italia. Da mercoledì prossimo inizieranno i processi davanti alla Chambre de l’Instruction della Corte d’Appello di Parigi, che dovrà entrare nel merito, caso per caso, delle richieste di estradizione formulate nei loro confronti dall’Italia. I nove ex brigatisti hanno già fatto sapere – come prevedibile – che si continueranno a opporre al ritorno in Patria.

“Nessuna vendetta: lo Stato non può fare finta di niente”

Gian Carlo Caselli, c’è chi ha definito l’arresto dei 7 ex brigatisti “vendetta di Stato”. Ha senso punire reati di 40 anni fa?

Gli argomenti di chi sostiene il contrario sono suggestivi, ma non esauriscono il problema. Perché c’è anche il diritto-dovere dello Stato italiano di non far finta di niente se in giro per il mondo ci sono assassini impuniti. Persone che non hanno mai fatto niente per riparare i danni causati. So che mi sto attirando le solite accuse – giustizialista, manettaro, forcaiolo – so altrettanto bene che è necessario cercare risposte diverse dalle manette per ricomporre una comunità lacerata dalle violenze. Ma guai a sminuire o cancellare il male con un colpo di spugna. Il male resta male.

Adriano Sofri ha scritto: “Che ve ne fate di questi arresti?”.

Si farà quello che è previsto dalla legge dello Stato italiano, distinguendo caso per caso. E se questi soggetti saranno estradati in italia, potranno constatare che il nostro – con tutti i suoi limiti e difetti – è uno Stato democratico che ha saputo rispettare anche i diritti di coloro che lo volevano abbattere.

Dopo 40 anni Macron ha seppellito la cosiddetta “dottrina Mitterrand”. Era una scelta di civiltà o un atto di ostilità francese?

Si giustificava con l’idea di accogliere rifugiati che avevano rotto col passato e iniziato una seconda vita, ma in realtà c’era una discriminazione piuttosto arrogante nei confronti del nostro Paese. La grandeur francese non veniva a patti con la derelitta Italia perché disprezzava la nostra amministrazione della giustizia, ma il giudizio era fondato su una deformazione della realtà. I terroristi volevano costringere l’Italia, un attentato dopo l’altro, a gettare quella che definivano “la maschera della democrazia” e a mostrare il vero volto fascista.

La nostra risposta al terrorismo non ha mai oltrepassato il confine della corrispondenza ai principi e ai precetti costituzionali (lo ha più volte detto la Consulta). Non fu così ovunque. Le faccio l’esempio degli Usa nel 1969 e del processo alla pantera nera Bobby Seale, accusato di associazione sovversiva: il giudice lo fece legare sulla sedia e imbavagliare col nastro adesivo.

In Italia la legislazione premiale e la norma sulla dissociazione sono stati strumenti utili per sconfiggere il terrorismo. Ma sono anche corresponsabili dei segreti e dei vuoti nella memoria storica italiana?

Non c’è dubbio che la legge sulla dissociazione sia stata generosa: sulla base di una semplice dichiarazione di abbandono della lotta armata e di una generica ammissione di colpa, concedeva benefici robusti di commutazione e riduzione della pena. Quasi tutti i terroristi degli anni 70-80 sono ormai fuori dal carcere o godono di semilibertà. Gli esiliati in Francia peraltro non hanno approfittato nemmeno di questa opportunità.

Pensa che gli arresti aiuteranno a scoprire nuove verità sugli Anni di piombo?

Due dei 7 arrestati erano implicati nelle azioni criminali, ancora piene di misteri, contro Calabresi e Cirillo. È chiaro che gli arresti risolvono solo una parte del problema: ora bisogna avere il coraggio di fare chiarezza sulle contiguità, a volte persino coperture, che un certo mondo ha riservato a chi praticava la violenza politica. Cito il cardinale Martini: “Chi di noi ha l’età per ricordare i primi tempi della contestazione (fine anni 60 – inizio anni 70) sa che la noncuranza e la leggerezza ostentata anche da chi avrebbe avuto la responsabilità di giudicare e di punire, rispetto ad atti minori di vandalismo e disprezzo del bene pubblico, ha aperto la via a gesti ben più gravi e mortiferi”.

L’Italia chiedeva da anni l’estradizione dei terroristi. Cosa è cambiato?

Non molto, credo, solo che a lungo andare gutta cavat lapidem (la goccia scava la roccia). Ricorda la favola del topolino e dell’elefante: l’elefante prova a sradicare un albero e non ci riesce, il topo gli tira la coda e finalmente l’albero cade. E qualcuno pensa che sia merito del topolino.

Sarà una svolta per l’arresto degli altri terroristi all’estero?

Non so, ma so che è pericoloso dimenticare cosa è stato il terrorismo, non solo per chi ha vissuto lutti e sofferenza. È stato una minaccia per i diritti e le libertà di tutti noi. Abbiamo rischiato un’involuzione in senso reazionario, non si è realizzata perché abbiamo fatto resistenza con le armi della democrazia. Guai a dimenticarlo e a non coltivare gli antidoti contro eventuali colpi di coda.

L’“omaggio” di B. al sogno comunista

Ma allora ha ragione Silvio, a Mediaset sono tutti comunisti, infatti l’omaggio più affettuoso al centenario del Pci arriva dalla galassia di Cologno: Il sogno di una cosa, in onda su Focus stasera e domani 1° maggio. Toni Capuozzo si è inventato un road movie, genere principe della nostalgia; ha caricato il vecchio compagno di Fgci, Vanni De Lucia, a bordo di un pulmino Uaz e insieme hanno fatto il giro dei luoghi simbolo di quello che fu il partito comunista più forte dell’Europa occidentale. Dalle Frattocchie alla Bolognina passando per Sesto San Giovanni, il Lingotto, l’Italsider, la Romagna rossa di Ligabue, la tomba di Pasolini a Casarsa… Un atlante di illusioni, pentimenti, rimpianti e speranze dure a morire. Il gioco delle parti pare semplice; Vanni è l’attempato Don Chisciotte ancora pronto a caricare contro i mulini a vento del neocapitalismo; Toni è il disincantato Sancho Panza, orfano degli ideali giovanili. In realtà, nell’alternarsi di autofiction (benvenuta anche in tv), reportage, materiali d’archivio, Il sogno di una cosa conserva un tenace filo, naturalmente rosso: il secolo breve del Pci narrato come doppia sudditanza; prima all’Unione Sovietica, poi alle frange terroriste degli anni di piombo. Un fil rouge ideologico che svela come Toni Capuozzo, amando segretamente l’ideologia, sia rimasto più comunista di quanto non immagini (gli ex comunisti sono come gli ex fumatori: l’ossessione cambia di segno, ma resta lì), e spiega il tono agrodolce del suo viaggio al termine del Pci. Che poi, per capire, è un tono giusto. Nel corso del XX secolo c’è stata una mutazione del blocco sociale, la classe operaia non è andata in paradiso ma su Facebook; e con le cose sono cambiate le visioni, le utopie, i sogni. Bacchettone e sognatore, il Partito Comunista Italiano riuscì a fare concorrenza perfino alla Chiesa, e per questo oggi fa soprattutto tenerezza, come un anziano campione costretto al ritiro. La politica del Terzo millennio è nata senza sogni, e si vede.

Quel “collare” nato con il Covid

Il lettore Marco Lupezza, avendomi sentito dichiarare a RadioRadio che mi sarei fatto vaccinare, me ne ha chiesto gentilmente conto visto quel che ho sempre scritto e pensato sul Covid.

Gli ho risposto: “La ragione è molto semplice: non vorrei che le Autorità, ormai abituate a calpestare ogni diritto costituzionalmente garantito, violassero anche quello dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge e quindi facessero una discriminazione fra vaccinati e non vaccinati impedendo a questi ultimi ogni possibilità di movimento”. Detto fatto. Adesso per circolare ci vuole un “certificato verde”. Nella confusione generale non si capisce se valga anche per chi ha fatto solo la prima dose del vaccino e quale Entità sia abilitata a fornirlo. Il vaccino quindi l’ho fatto. Tolta di mezzo l’Aria del minus habens Davide Caparini e affidata la cosa a Poste Italiane, tutto si è svolto nel migliore dei modi possibile. L’hub scelto era la “Fabbrica del Vapore”, un luogo che in pre Covid era destinato a grandi eventi e quindi particolarmente adatto per il necessario distanziamento sociale. Il percorso vaccinale è stato veloce (me la sono cavata in un’ora), efficiente, e con una certa attenzione da parte degli addetti alle comprensibili e umane ansie degli anziani vaccinandi, anche quelli che erano adibiti allo spostamento delle persone, quindi la manovalanza più bassa.

Effetti collaterali non ne ho avuti, per ora. Però sarebbe azzardato dire che sto meglio di prima del vaccino. Mi sento molto più fiacco, stanco e debole. Ed è ovvio, in fondo mi sono autoinoculato una modica quantità di Covid, quindi una malattia che non avevo, per evitarmene gli effetti più gravi. Cosa che già di per sé mi pare poco ragionevole perché nella mia fascia d’età, i morti per Covid sono un numero abbastanza limitato. E adesso ci sono da aspettare i fatidici 14 giorni entro i quali si manifesta, in modo letale, il trombo amico, anche se l’indicazione dei 14 giorni è del tutto vaga perché a causa della velocità con la quale sono stati preparati i vaccini non possiamo sapere se l’evento si possa presentare fra cinque o sei mesi in conseguenza del vaccino oppure, in modo del tutto naturale, perché, data l’età, è venuta la tua ora.

La mia posizione quindi non cambia. Resto convinto che la reazione al Covid-19 sia stata sproporzionata e che gli “effetti collaterali” dei lockdown siano più nocivi, per la salute, dello stesso virus.

In tutta questa storia colpisce come le Autorità di quasi tutti i Paesi democratici abbiano calpestato diritti costituzionalmente garantiti, dalla libertà di movimento a quella dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, senza che ci sia stata una qualche reazione dell’opinione pubblica. C’è anche stato un che di sadico piacere, soprattutto da parte di alcuni governatori, come il campano De Luca, nel darci ordini ancora più stringenti di quelli che venivano dalle Autorità nazionali. Mansueti come buoi ci siamo fatti mettere al collo quello che il lettore Lupezza chiama “un collare”. Tutto ciò senza che gli adoratori quasi mistici della Costituzione abbiano emesso un vagito. Si dirà che questa riduzione in schiavitù della cittadinanza è avvenuta in modo legale. Può essere. Del resto chiunque abbia studiato Giurisprudenza sa che nella Costituzione c’è tutto e il suo contrario e che ci sono sempre i modi per aggirarla. Dice per esempio l’articolo 32 della Costituzione: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario”, ma aggiunge subito dopo “se non per disposizione di legge”. Ed ecco che l’articolo 32 va a farsi fottere. L’articolo 3 è famoso perché sancisce solennemente l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, ma poi si impone di fatto il “collare vaccinale” e anche l’articolo 3 va a farsi fottere.

Insomma non c’è stato alcun segno di ribellione. Questa passività è dovuta in prima battuta alla perdita di vitalità e istintualità dell’uomo occidentale. Io mi rallegro, lo confesso, quando sento di qualche delitto di gelosia. Vuol dire che un po’ di vita e di sangue ci sono ancora. Le nuove usanze vogliono invece che se tu torni a casa e trovi tua moglie a letto con l’amante gli presenti il biglietto da visita. Siamo grandi difensori della dignità della donna, ma ci sono stati tanti episodi in cui una ragazza veniva stuprata quasi nel centro di una città e tutti voltavano la testa da un’altra parte. Insomma non siamo più abituati a mettere a repentaglio la pelle, la nostra preziosa, schifosa, pelle.

E questo ci porta al secondo argomento. Si tratta della non accettazione della morte nel mondo contemporaneo. Morire è proibito, vietato e quasi osceno, come se non fosse la sola cosa certa della vita. In passato non era così. Nel Medioevo, nei “secoli bui”, vediamo che il rapporto dell’uomo preindustriale con la morte è completamente diverso dal nostro, direi quasi opposto. “L’accettava. Noi l’abbiamo invece scomunicata. Interdetta. Proibita. Dichiarata pornografica (…) Tanto che non azzardiamo nominarla nemmeno nei luoghi, nelle sedi, nelle occasioni in cui non ci si può esimere dal parlarne, basta leggere i necrologi dei quotidiani: ‘la scomparsa’, ‘la perdita’, ‘la dipartita’, ‘si è spento’, ‘ci ha lasciato’, ‘è mancato all’affetto dei suoi cari’, ‘i parenti piangono’ e così via, la parola morte a indicare ciò che veramente è successo non c’è mai” (La Ragione aveva Torto?). Come nota Philippe Ariès autore di Storia della morte in Occidente: “È la prima volta che una società onora in modo generale i suoi morti rifiutando loro lo stato di morti”. Ma tutti questi interdetti, divieti, scomuniche della morte, tutti questi silenzi, significano in realtà una cosa sola: una paura della morte quale nessuna epoca del passato aveva conosciuto in eguale misura. “A differenza che nel passato, la morte è oggi vissuta come un fatto solo individuale e quindi irrevocabile e definitivo. Staccato ormai dai cicli della natura e delle stagioni, circondato da un mondo di oggetti inerti, che non si autoriproducono, ma caso mai vengono sostituiti, cui si sente sinistramente omologo, inserito in modo anonimo in una comunità troppo vasta, sfuggente e sostanzialmente estranea per conservarvi il senso di un destino collettivo, indebolito nel sentimento della continuità della famiglia ormai ridotta nelle dimensioni e nel significato, depauperato, per il progressivo allontanarsi dalla sua natura animale, della coscienza della specie, l’uomo tecnologico sente la propria morte come una tragedia individuale, esclusiva, totale e quindi più paurosa che mai”.

Oggi c’è una pandemia di panico. E con la paura della morte addosso, sottile ma continua proprio nella misura in cui l’indecenza viene in tutti i modi negata e respinta, si vive male.

E adesso, cari lettori del Fatto, andate a farvi angosciare da Draghi, che non a caso è stato soprannominato Don Abbondio, dal comitato tecnico scientifico, dal miles gloriosus Figliuolo reduce da mille battaglie mai combattute e dai media che in questo terrorismo irragionevole hanno avuto un ruolo devastante.

 

Mail box

 

Il silenzio di Draghi sul salario minimo

Nel suo Piano, Draghi tace sul salario minimo, norma di civiltà e punto importante del programma del M5S, oltre che richiesta Ue, obbligo etico in una crisi che colpisce soprattutto i più indifesi arricchendo i più ricchi e cartina al tornasole per quel Pd che ormai ha perso anima e sostanza. Peccato che il Pd non si sia mai occupato del problema, intento com’è a fare concorrenza alla destra peggiore, insieme alla Cgil di quel Landini che avverserà il salario minimo come ha avversato il reddito minimo, per paura di perdere il suo potere contrattuale che vale molto di più del suo dovere di difendere i più deboli. Nei 6 Paesi europei dell’Est il salario minimo non arriva a 700 euro. In Grecia, Portogallo e Malta è di poco sopra i 700. In Slovenia e Spagna sopra i 1.000. In Francia, Germania, Belgio, Olanda e Irlanda sopra i 1.500, ma con costo della vita molto più alto. L’art. 36 della Costituzione stabilisce che “Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Peccato che troppi se lo siano dimenticato! Per fortuna il reddito minimo di cittadinanza stabilisce una soglia minima sotto cui non si può scendere, 780 euro, ma siccome è applicabile solo a chi ha la residenza italiana, restano fuori i migranti clandestini sottopagati su cui nessuno esercita controlli e i tirocinanti privi di contratti nazionali o retribuzione minima. Il risultato è che il 13 % dei lavoratori italiani percepisce salari sotto i minimi contrattuali: “record negativo”! Con 209 miliardi a disposizione per l’economia forse era il caso ripartire dai più sfruttati e svantaggiati. Ma il Draghi che secondo Grillo “aiuta i poveri”, lo ha dimenticato come ha dimenticato il reddito minimo. Sarà un caso?

Viviana Vivarelli

 

Il Reddito ai mafiosi? Non con un fisco efficace

La notizia di mafiosi che percepivano il reddito di cittadinanza non fa che avallare quello che ho scritto spesso: se il fisco e la riscossione avessero le banche dati dei redditi dei contribuenti aggiornate, prima dell’emissione delle cartelle esattoriali, questo fatto grave non sarebbe accaduto.

Stefano Masino

 

DIRITTO DI REPLICA

Gentile direttore, ho letto la replica del dottor Vergine alla mia lettera inviata su un articolo da lui scritto a tema la mia ex partecipazione in Wadi Venture Management Sarl. Mi preme rassicurare il dottor Vergine che sarei contento se per appurare la notizia della vendita della mia partecipazione in Wadi Venture Management Sarl per un totale controvalore di 2500 euro nessuno avesse violato il Tuf ma la notizia fosse giunta dal fatto che lui stesso abbia creato un account (cosa lecita) nel registro delle imprese lussemburghesi per seguire il mio nominativo e verificare le mie eventuali partecipazioni (ad oggi inesistenti) in società lussemburghesi perché finalmente il suo giornale, così come gli altri giornali e tanti altri soggetti avrebbero finalmente appreso che non ho tesori in Lussemburgo né peraltro in altri paesi esteri. Detto questo il dott. Vergine non contento di aver saputo che il mio presunto tesoro in Lussemburgo ammontava a una mia ex partecipazione di 2.500 euro (peraltro regolarmente dichiarata nella sezione partecipazioni estere della mia denuncia dei redditi) continua in un’opera di persuasione collettiva riguardante altri presunti tesori laddove dichiara che “Wadi Venture Management Sarl controlla una società chiamata Wadi Venture Sca il cui capitale sottoscritto non è altrettanto esiguo: al 31 dicembre 2019 ammontava infatti a 2,1 milioni di euro. Anche questa cifra non è menzionata nell’articolo, ma nella sua precisazione il dott. Carrai dev’essersi dimenticato di citarla. Per il resto – conclude il giornalista – l’articolo non fa riferimento ad alcun illecito commesso attraverso queste Società lussemburghesi.”

Preso atto che anche Il Fatto Quotidiano oltre alla Corte di Cassazione si è reso conto che “nessun illecito è stato commesso attraverso queste Società lussemburghesi” mi occorre rendere edotto il giornalista che Wadi Venture Management Sarl dove io detenevo il 12,5% delle azioni (e quindi ero lontano da controllarla), partecipazione che abbiamo appurato valesse 2500 euro, non controlla affatto Wadi Venture Sca come da lui erroneamente dichiarato perché ne detiene 1 azione su 2.175.001 azioni. Anche un bambino può capire che chi detiene 1 azione su 2.1 milioni di azioni non controlla un bel nulla. Le altre azioni sono detenute dagli investitori della società (io non ero tra questi) che hanno sottoscritto le quote di questa Sca per investire in start up in Israele. Wadi Venture Management Sarl aveva e ha (sempre che i soci della Sca non ne revochino il mandato), in virtù di questa unica azione ordinaria detenuta, la gestione di questi investimenti (mi preme precisare che neppure 1 euro mi è stato mai accreditato né come compenso né come dividendo). Nel caso questi investimenti avessero (e me lo auguro per loro) un futuro luminoso i soci della Wadi Venture Management Sarl (nella loro funzione di manager degli investimenti nelle start up) avranno una minoritaria partecipazione agli utili rispetto agli investitori della Sca che avranno la maggioranza dei ritorni. Loro, non più io che non ne sono più socio. Funziona così in tutto il mondo per fare investimenti nel venture capital. Con la differenza che nel resto del mondo si viene applauditi perché si rischia e in Italia si viene denigrati.

Marco Carrai

Ringrazio il dottor Carrai per la ulteriore precisazione che non smentisce quanto riportato nell’articolo. Da parte mia non è in corso alcuna “opera di persuasione collettiva riguardante altri presunti tesori” a lui riferibili: l’articolo evidenzia il fatto che la mappa dei recenti viaggi all’estero del senatore Renzi coincide con quella degli interessi economici della ISS Global Forwarding, multinazionale di Dubai che tra le varie filiali ne ha una in Italia, nel cui cda siede Carrai. Il passaggio sulla Wadi aveva come unico scopo quello di segnalare al lettore che Carrai già in passato si era ritrovato in società in cui coesistevano interessi italiani, israeliani ed emiratini. Tutta questa attenzione sarebbe stata superflua se il senatore Renzi avesse chiarito i motivi dei suoi viaggi. Per quanto riguarda il legame tra Wadi Venture Management Sarl e Wadi Venture Sca, è sempre il registro delle imprese lussemburghesi a chiarire che Wadi Venture Management Sarl è “socia amministratrice generale” di Wadi Venture Sca ed è stata fondata con l’obiettivo di “sottoscrivere, acquisire partecipazioni e gestire queste partecipazioni in Wadi Ventures Sca”.

Ste. Ve.

Un laureando: “Che futuro mi aspetta qui? Pure il gatto mi dice di scappare”

Caro “Fatto Quotidiano”, sono uno studente universitario al primo anno di Magistrale: la pandemia è stata dura e non accenna a finire. Qualche giorno fa sono tornato in università dopo mille controlli e prenotazioni e validazioni e mascherina ben incollata al viso per tutto il giorno. Già questo per noi studenti significa tantissimo.

So che non dimenticate noi universitari e soprattutto i ragazzi del liceo e giù a scendere. Grazie.

Vi mando anche questa mia piccola riflessione.

Se Silvio Berlusconi dovesse davvero diventare presidente della Repubblica non riuscirò più a resistere. Già ora sembra che pure il gatto, quando miagola, mi dica di cambiare Paese. Una volta incontrai Massimo Cacciari in metropolitana e, parlando della cosa, gli dissi che ero andato un anno in Inghilterra e che lì la qualità della vita italiana se la sognano. Qui è tutto bello sì, le strade, i palazzi, il clima, le piazze, l’arte… ma sono giovane, che futuro mi offre il mio Paese? Sarà tutto così bello quando si tratterà di lavoro, uffici pubblici, scuole, mutuo?

Vi leggo ogni mattina.

Francesco Leone,
Un affezionato giovane lettore

La Casellati e l’uso disinvolto dei voli di Stato: è lecito?

Il 28 aprile, Repubblica ha dato notizia che, dal maggio 2020, la presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati – che del “berlusconismo” è stata sempre alfiere (dalle battaglie a sostegno delle leggi ad personam alla manifestazione da parlamentare innanzi al Tribunale di Milano di protesta contro i magistrati che giudicavano Berlusconi per il “caso Ruby”) – ha utilizzato per ben 124 volte (un volo ogni tre giorni) il prestigioso “Falcon 900” dell’aeronautica militare con una spesa che, secondo il “verde” Bonelli, si aggirerebbe sulla consistente cifra di un milione di euro. Per 97 “viaggi di Stato”, il “Falcon” ha volato sulla rotta Roma-Venezia e ritorno e, cioè, il tragitto casa-lavoro della Casellati che è residente a Padova.

La giustificazione addotta – rischio Covid e motivi di salute che impediscono lunghi viaggi in auto – non sembra convincente atteso che la tratta in questione è servita da voli di linea e da treni Av con misure ad hoc per evitare il contagio. Ciò posto, la questione è la seguente: il presidente del Senato, come le altre quattro alte cariche dello Stato, può utilizzare il volo di Stato (“aereo blu”) senza dover chiedere alcuna autorizzazione in virtù dell’art. 3 dl n° 98/2011 e di una direttiva del presidente del Consiglio (all’epoca Berlusconi) che stabilisce che “il trasporto aereo di Stato è sempre disposto in relazione alla finalità di conferire certezze nei tempi e celerità nei trasferimenti per attendere più efficacemente allo svolgimento dei compiti istituzionali e per garantire il livello di sicurezza”?

La disposizione è alquanto ambigua e, comunque, non sembra comprendere “il trasferimento” casa-lavoro atteso, anche, che il presidente del Senato ha la sua “residenza ufficiale” in Roma nell’appartamento istituzionale a ciò destinato (Palazzo Giustiniani) e ciò proprio allo scopo di assicurare la costante presenza nella Capitale della seconda carica dello Stato e consentire che le sue altissime funzioni si svolgano nel più efficiente dei modi, con celerità senza eccessivo dispendio di tempo ed energie.

Non sembra, inoltre, che possano, in alcun modo, rientrare nel richiamato art. 1 e nella citata direttiva i sei viaggi Roma-Alghero e ritorno effettuati nell’agosto 2020 per trasportare la Casellati in vacanza in Sardegna. In proposito, Alessandro Di Battista ritiene che la Casellati “dovrebbe dimettersi all’istante”.

Certo che questo (e altro) sperpero di denaro pubblico si poteva evitare sol che il precedente Parlamento avesse approvato la proposta di legge presentata alla Camera il 30 settembre 2016 da alcuni deputati “grillini” che – “attoniti per un impiego disinvolto di voli di Stato da parte di esponenti del governo e di altre autorità pubbliche per uso tutt’altro che istituzionali” – proponevano che i voli di Stato, “limitati” alle cinque alte cariche dello Stato, fossero “concessi unicamente per finalità istituzionali” e che “in ogni caso non è ammesso il trasporto aereo di Stato per le tratte nelle quali sia presente un collegamento aereo o ferroviario diretto e idoneo ad assicurare il trasferimento in tempi e in orari compatibili con gli impegni istituzionali”.

Ma quello che è più grave è che tale progetto di legge, ripresentato il 12 luglio 2018, “dorme” dal 25 marzo 2019 presso la commissione Affari costituzionali della Camera.

In attesa che, dopo un sonno di oltre due anni, la commissione dia segni di risveglio, non resta che sperare che la corte dei Conti, adita dal Codacons, apra un’indagine sul possibile danno erariale, in un periodo, peraltro, di grave crisi economica e sociale.

 

Libertà non significa assenza di regole, specie in pandemia

Il 25 Aprile siamo stati sopraffatti dalla barbarie di una movida senza limiti e regole nemmeno di buon senso, partecipata da chi, con tutta evidenza, del valore e del significato della Liberazione non sa proprio nulla. Abbiamo visto molte piazze italiane stracolme di persone incuranti del fatto che siamo nel bel mezzo di una pandemia. In particolare abbiamo assistito a ciò che è avvenuto a Firenze, in piazza Santo Spirito, dove di fatto era impedito il passaggio ai residenti. Tutto questo in nome delle libertà delle persone.

Ma cosa è la libertà? Si può limitare in nome di un valore più grande? Se sì, fino a dove? Ha ancora senso parlare di autolimitazione in nome del principio più alto del bene comune? La salute del prossimo e soprattutto dei più deboli e fragili è oggi percepita come bene comune e come interesse generale?

Le scene a cui abbiamo assistito il 25 aprile portano a concludere che per molti la libertà individuale senza alcun limite sia un diritto indiscutibile che non può e non deve sottostare a nessuna regola. Anzi, pare che esso si incarni nel diritto di non curarsi di alcun dispositivo di sicurezza per evitare la diffusione dell’infezione da Sars-Cov-2, rischiando di contagiare e mettere a repentaglio la salute e la vita degli altri.

Dopo gli assembramenti che si sono formati in molte piazze d’Italia, la domanda che ci poniamo e che dovrebbe interessare tutti, soprattutto chi governa a qualunque livello, è se può esistere un diritto senza la sua limitazione.

La libertà a cui abbiamo assistito impotenti e attoniti non ci piace, la riteniamo licenza di un demos irrazionale e dal volto quasi ferino. I fatti sono talmente gravi da aver indotto il presidente dell’Ordine dei medici di Firenze a parlare di questione morale. È davvero libertà quella che invocano coloro che, senza alcun rispetto e pensiero per gli altri, e violando leggi e regole vigenti, deturpano il vivere civile senza alcuna responsabilità e senza la percezione di quali siano le ricadute delle loro azioni?

Il presidente del Consiglio, durante il suo ultimo intervento alla Camera, ha parlato di valori civili e ha detto di essere certo che “l’onestà, l’intelligenza, il gusto del futuro, prevarranno sulla corruzione, la stupidità e gli interessi costituiti”. Presidente Draghi, sono questi i valori civili? È così che prevarranno? È possibile che la Repubblica democratica, che ha come mortali nemici la demagogia e la licenza, non sappia o non voglia mettere in atto i giusti e necessari rimedi?

La giustizia, la cura, l’attenzione sono indispensabili e urgenti. Qualunque Recovery sarà superfluo se prima non ci occupiamo tutti insieme – cittadini e istituzioni – della pericolosa deriva imboccata da troppi cittadini e se non ritorniamo al pensiero e alla pratica della cura dell’altro e della cosa pubblica.

Forse, a questo siamo giunti anche perché da decenni altro non facciamo che mercimonio di tutto, anche dei nostri centri storici, del nostro passato, della cultura e di tutta la bellezza che la nostra storia urbana ed extra urbana ci ha regalato, e perché le decisioni sono prese quasi esclusivamente tenendo conto degli interessi economici.

Firenze è uno dei tanti esempi. Santo Spirito e la sua Basilica sono prese d’assedio. Il sagrato e le sue scalinate sono diventati insignificanti luoghi di continua movida, come se niente rappresentassero se non un comodo salotto nel quale consumare cibo e bevande. I monaci sono addirittura costretti a utilizzare le panche della chiesa per proteggere il sagrato da chi lo martoria e lo deturpa in ogni modo. Il 25 Aprile hanno suonato a distesa le campane per chiedere aiuto e sperare che qualcuno si accorga di cosa sta accadendo.

 

PNRR, il pubblico impiego è sempre più un privilegio

A pagina 60 del Pnrr si legge che, pur rimanendo il concorso la modalità ordinaria per l’accesso al pubblico impiego, sono affiancati per il reclutamento “programmi dedicati agli alti profili: giovani dotati di elevate qualifiche (dottorati, master, esperienza internazionale) da inserire nelle amministrazioni con percorsi rapidi, affiancati da una formazione ad hoc”.

Con questa perplessa previsione si ammette che titoli post laurea o esperienze internazionali consentono di derogare al concorso pubblico e garantiscono l’ingresso nei posti dirigenziali della pubblica amministrazione ad elementi molto giovani (un master si raggiunge in media sui 27 anni).

Motivi di opportunità e profili costituzionali consigliano un meditato recesso da quell’impostazione. Già ora le pubbliche amministrazioni soffrono l’immissione di molti dirigenti esterni di modestissima capacità, ma di fortissima raccomandazione nominati ex art. 19 c. 6 d. lgs. 165/01. I funzionari interni ai quali non viene riconosciuta neppure una vicedirigenza e che vanterebbero molto spesso migliori titoli dei nominati perdono motivazione ed interesse. La fuga o il ripiegamento in alcune amministrazioni è frutto della sciagurata gestione del personale con indecorose ricadute sulla credibilità operativa dell’apparato.

Il sistema del Pnrr porterebbe a risultati peggiori.

Il possesso di un master, di un dottorato o di un’esperienza internazionale (neppure qualificata) vale quale documento che dichiara la chiusura di un percorso culturale di apprendimento, inidoneo però ad attestare se di quelle acquisizioni si possa fare, e in concreto si faccia, buon uso e, soprattutto, se il soggetto abbia raggiunto un grado di maturità che legittimi l’assunzione di responsabilità dirigenziali. L’esperienza sul campo e il tempo necessario per acquisirla sono indispensabili, come dimostra l’efficiente e sicura operatività del maggiore comparto dell’Amministrazione: le Forze Armate. In quel contesto a nessuno verrebbe in mente di conferire per saltum il grado di colonnello a un brillantissimo tenentino che pure ha seguito con pieno merito i più importanti corsi di specializzazione e di strategia.

Quei titoli saranno opportunamente valutati e sicuramente agevoleranno la carriera, rispettando tuttavia la tempistica dei quadri d’avanzamento. Se ci si domanda, poi, chi sono i giovani muniti di dottorati, master ed esperienze internazionali è agevole rispondere che nella quasi totalità dei casi si tratta di figli di famiglie abbienti che si sono potuti permettere l’esborso d’ingenti somme per accedere a corsi post lauream. Il che si risolve nel favorire l’ingresso nella dirigenza pubblica di persone di elevato censo, consacrando un assetto preordinato a mantenere, per i meno abbienti, gli ostacoli di ordine economico e sociale che la Repubblica dovrebbe rimuovere: esattamente l’opposto di quanto prescrive l’art. 3 Cost!

La questione riguarda anche altri stati.

Il presidente Macron ha deciso di chiudere l’Ena (École nationale d’administration), dove pure si era formato, perché istituzione riservata ai figli di potenti famiglie e chiusa agli ingegni e alle competenze dei figli del popolo oltre che al territorio. L’intervento è stato salutato come benefico per il futuro delle istituzioni francesi. È veramente incongruo e perfino antistorico che il nostro Paese si muova in senso uguale e contrario. Ancora. Dalla fragilità di meccanismi che conferiscono piena legittimazione a un titolo di studio o a documentata esperienza deriva il pericolo, visibile ad occhio nudo, che procedure necessariamente vaghe consentiranno un ancora più spregiudicato uso di poteri nepotistici e tribali nella nomina dei futuri dirigenti, attraverso la ricerca di candidati dei quali si possiede già la fotografia e forse il dna.

Per quanti aspirano a posizioni subordinate ci sarà il gravoso e rigoroso concorso pubblico… Il sistema finirà per eludere e svuotare di ogni portata precettiva l’art. 97 Cost., parametro che la bassa politica nell’ultimo decennio ha cercato di dribblare inventandosi metodiche solo apparentemente selettive per assumere dall’esterno “amici” e “amiche”.