Cinesi, nazisti e vegani: le battute non fanno lo stesso effetto a tutti

Commentando la gag di Striscia sui cinesi, il giornalista M. B. (non importa chi sia) ha twittato: “Una mia zia nel 1968 andò a visitare il Giappone. Alla base del monte Fuji dei bambini che non avevano mai visto degli occidentali ridevano schiacciandosi gli occhi per farli a palla. Ridere delle differenze e di ciò che conosciamo poco è un modo per non averne paura. In più effettivamente i cinesi parlano italiano con la L al posto della R, e noi in cinese non diciamo niente di giusto mai. Si potrebbe fare così: parlarsi poco per evitare di offendersi, non scherzare, non discutere, non confrontarsi. Per alcuni è rispetto. Per me no. Se non rido mai di qualcuno è perché non me ne frega niente, non voglio averci a che fare, mi è indifferente o mi disgusta. Meno rispetto, più curiosità. Meno orgoglio, più serenità. Il mondo è grande e sempre più multiforme: se ci smolliamo tutti un po’ secondo me è meglio. FINE Scusate. Postilla. Non guardo Striscia e Iene da molti anni per scelta. Sono certo che fosse una brutta battuta”. Le repliche a questa generalizzazione demenziale non si sono fatte attendere. Adriano: “Ma che paragone è? Pure tu con il reverse racism? Uno è uno sfottò di un bambino verso una signora che non ha mai subito discriminazione per avere gli occhi tondi. L’altro è una stereotipo razzista usato per denigrare una comunità discriminata da sempre (in occidente). È l’abc”. Giulia: “Eh Matteo perché infatti non c’è NESSUNA differenza tra dei bambini e degli adulti che lavorano in una tv nazionale con un programma che va in onda in prima serata NESSUNA”. Andrea: “Ma poi metterei il focus sul fatto che hanno il cazzo piccolo, fa molto più ridere e infonde ottimismo in noi caucasici”. Davide: “Ci dispiace tanto per il razzismo subito da tua zia. Chiedile se vuole spiegarmi cosa sia il razzismo, grazie”. Mauro: “Le stesse battute fatte da persone diverse cambiano significato. Se sei per strada e ti chiamano ‘ehi spaghetti’ è diverso se è il tuo vicino di casa vegano o un neonazista”. Simona: “Se vuoi ridere dei difetti degli altri devi riderne con loro, non di loro”. Focafica: “Hai dimenticato la parte finale dove ci riveli che sei ironico ed è tutto uno scherzone”. Emanuele: “Sembra il classico aneddoto inventato della zia razzista”. Ugo: “Quindi se uno si comporta come un bambino educato 60 anni fa, ha ragione. Ok”. Stephanie: “Anche se vai in Africa trovi bambini che sono incuriositi dal colore della nostra pelle e dei nostri capelli, perché siamo diversi da loro, ma la differenza è che non vivi discriminazioni. Se vivi discriminazioni per quello, fidati che non ridi”. John: “I bambini giapponesi degli anni 60 cresciuti (immaginiamo) in un contesto rurale hanno la stessa consapevolezza e quindi i loro gesti hanno lo stesso peso di due adulti con almeno 30 anni di carriera alle spalle in prima serata su una delle emittenti più importanti in Italia”. Anna: “Mi pare sia appurato che gli asiatici abbiano gli occhi a mandorla e che non pronuncino la r come noi. C’è bisogno di fare questi siparietti offensivi per esorcizzare ‘quello che non conosciamo’? Seriamente?”. Snakebyte: “Immagino che ora ti sei sentito vendicato”. Michela: “Giustificare i comportamenti di persone adulte con ‘ma i bambini lo fanno’ è una delle argomentazioni più idiote che ho letto”. Meinewage: “Quindi, dato che i neri sono neri, la ‘black face’…”. Porno: “Vieni a ridermi in faccia prendendomi in giro per il mio aspetto e giocando su stereotipi vecchi di secoli e vedi quanti calci in culo ti prendi”. Gaetano: “Non guardi Striscia. Quindi da dove origina tale riflessione?”. Dario: “La banalità del boh. Fine”. Ma M.B. è in buona compagnia: sul tema ha preso un granchio anche John Cleese, come vedremo. (7. Continua)

 

Huawei è fuori dal 5G di Tim

Era stato preannunciato a luglio del 2020 e ora è arrivata l’ulteriore conferma: lo spazio di manovra della cinese Huawei per la realizzazione del 5G in Italia si riduce sempre più.

Nei giorni scorsi, Tim ha inviato all’azienda una lettera che contiene la disdetta del contratto redatto a inizio 2020 per la partecipazione alla rete Ran (Radio Access Network), in sintesi l’insieme delle apparecchiature necessarie per inviare il segnale ai dispositivi mobili e viceversa. Non è stata completamente una sorpresa, se si tiene conto che già a luglio era stata esclusa dalla procedura per la manifestazione di interesse sulla gara per la Core Network, la rete su cui viaggia il traffico, che sarà aggiudicata entro giugno.

La scelta dipenderebbe dalla volontà dell’operatore di aggiornare l’approvvigionamento alla luce del nuovo contesto politico, ma anche per la volontà di semplificare, riducendo la scelta a soli due fornitori. Il tutto sulla base di una attenta analisi costi-benefici. A contribuire, però, molto probabilmente c’è anche la crescente complessità degli iter autorizzativi quando si utilizzano componenti extra-Ue su asset strategici nazionali, dalla Golden Power al perimetro cibernetico che sta entrando in vigore in queste settimane. Meglio e più pratico, insomma, nonostante la fine dell’ostentazione dell’ostilità trumpiana, favorire aziende europee e contribuire a una filiera che sia il più possibile indipendente (basti pensare alle difficoltà che si stanno registrando in questi mesi nel reperire i semiconduttori). Così restano “in gara” la svedese Ericsson e la finlandese Nokia. Alla prima passa la realizzazione del 60% della rete che secondo lo schema iniziale avrebbe dovuto essere affidato a Huawei, al secondo il restante 40%. Resta aperta all’azienda di Shenzen l’opportunità di partecipare alla gara per la rete Tim in Brasile.

Huawei, comunque, è stata attaccata da ogni lato. Nel primo trimestre del 2021 ha registrato un calo delle entrate del 16,5%, complici le sanzioni statunitensi e lo stop alle forniture e ai fornitori Usa, la crisi di reputazione e la cessione del brand Honor (smartphone di gamma) a novembre. Salgono gli utili, ma dovuti per lo più a tagli (è stata chiusa anche la divisione cloud e intelligenza artificiale) e al pagamento di royalties. Ora, secondo alcuni rumors, nonostante le prestazioni brillanti in cina, Huawei sarebbe pronta a sbarcare in Borsa. “Il 2021 sarà un altro anno difficile – ha detto in un comunicato il presidente del gruppo Eric Xu –. Qualunque siano le sfide che dobbiamo affrontare, rimarremo resilienti. Non solo per sopravvivere, ma per durare”.

Tutti schedati ‘in real time’: la legge Ue è piena di buchi

Si dice “fatta la legge, trovato l’inganno”, stavolta però l’inganno lo si intravvede già nella proposta. La scorsa settimana la Commissione europea ne ha presentata una per regolare l’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale nell’Ue. Un pacchetto di regole interessante, con giuste intuizioni, che cerca di contemperare il diritto alla privacy dei cittadini con quello a innovare di servizi e industria. L’Intelligenza Artificiale include, tra le sue applicazioni – per le quali vengono proposte norme che includono multe fino al 6% del fatturato – anche il riconoscimento facciale, ovvero la capacità delle macchine di analizzare i tratti somatici dei cittadini e quindi identificarli attraverso le immagini. Questa tecnologia viene inserita tra quelle che saranno sottoposte a una rigida stretta, segnalate con livelli di rischio altissimo.

Eppure, dopo sole poche ore, alcuni gruppi per i diritti civili hanno iniziato a sollevare diverse contestazioni. Così come formulato, infatti, il regolamento presenta maglie troppo larghe e un eccesso di discrezionalità. In particolare, la rischiosità riguarda l’utilizzo dei “sistemi di identificazione biometrica remota in spazi accessibili al pubblico” in real time, in pratica il ricorso alle telecamere per cercare in giro una persona che ha compiuto un reato fornendo al sistema una immagine e facendogli scansionare in tempo reale i volti di tutti coloro che entrano nel raggio di ripresa delle telecamere. Ebbene, nonostante sia indicata come una tecnologia “inapplicabile”, la proposta prevede delle eccezioni. Si legge “tre” ma in realtà sono almeno 32.

“L’uso di tali sistemi ai fini dell’applicazione della legge dovrebbe essere vietato” spiega la proposta normativa, tranne che per la ricerca di potenziali vittime di reati, compresi i bambini scomparsi, specifiche minacce alla vita o all’incolumità fisica di persone o per attacchi terroristici e l’individuazione di “autori o sospettati dei reati di cui alla decisione quadro del Consiglio 2002/584/ GAI 38 se tali reati sono punibili nello Stato membro interessato” con una pena detentiva “di almeno tre anni”.

Andando a spulciare la decisione del Consiglio cui si fa riferimento, ci si trova di fronte ad almeno 32 reati che vanno dalla partecipazione a un’organizzazione criminale al traffico di stupefacenti e armi e organi ed esseri umani e arte, fino alla la frode, il riciclaggio, la falsificazione di monete. E ancora: criminalità informatica, ambientale, lesioni, razzismo, rapina, truffa, racket, contraffazione, pirateria, stupro, furti e così via. Praticamente tutto, o poco meno. A questo punto la commissione riconosce in parte i limiti. “Alcuni – si legge – sono in pratica probabilmente più rilevanti di altri” e il ricorso al riconoscimento “sarà prevedibilmente necessario e proporzionato in misura molto variabile” e quindi “dovrebbe essere soggetto a un espresso e specifico autorizzazione da parte di un’autorità giudiziaria o di un’autorità amministrativa indipendente”. Possibile anche l’uso senza autorizzazione in caso di urgenza “debitamente giustificata” e “limitato al minimo assoluto necessario”.

Proprio l’assenza di una norma specifica ha in parte contribuito allo stop che il Garante della Privacy italiano ha dato al sistema di riconoscimento facciale voluto dal Viminale, denominato “Sari Real Time”. Il rischio è che dia vita a “una forma di sorveglianza indiscriminata di massa”. Il sistema Sari, già in uso alle forze dell’ordine italiane, ha da due componenti indipendenti, Sari Enterprise e Sari Real Time. La prima permette il confronto delle singole immagini con quelle già presenti nei database; la seconda, invece, utilizzerebbe il sistema di cui abbiamo parlato sopra. Sull’attivazione di quest’ultima, l’autorità presieduta da Pasquale Stanzione ha dato parere negativo: “Realizzerebbe – si legge – un trattamento automatizzato su larga scala che può riguardare anche persone presenti a manifestazioni politiche e sociali, che non sono oggetto di ‘attenzione’ da parte delle forze di polizia”. Nonostante il ministero spieghi che le immagini verrebbero immediatamente cancellate, resta il trattamento dei dati biometrici di coloro che sono presenti nello spazio monitorato per generare modelli confrontabili con quelli dei soggetti inclusi nella cosiddetta watch list . “Si passerebbe – conclude – dalla sorveglianza mirata di alcuni individui alla possibilità di sorveglianza universale”.

Manca poi una legge che ne stabilisca limiti chiari, come “i criteri di individuazione dei soggetti che possono essere inseriti nella watch list, le conseguenze in caso di falsi positivi o la piena adeguatezza del sistema nei confronti di persone appartenenti a minoranze etniche”. È stato comprovato, infatti, che i sistemi automatici tendono a cadere in errore quando hanno a che fare con alcune etnie rispetto ad altre. Altro elemento di cui la Commissione Ue non sembra tener conto.

La guerra dei “vecchi” per silurare Donnet subito

Le vicende finanziarie italiane si evolvono sempre come guerre di potere tra soliti noti che appassionano i giornali. Quella che si combatte sulle Generali è ancora più italiana perché riguarda ultra-settantenni che i giornali li possiedono o ne sono grandi inserzionisti. Quindi tutti fingono di girare intorno al problema.

La situazione è questa. L’obiettivo è silurare l’ad Philippe Donnet prima della scadenza del mandato, nel 2022. Il fronte che lo vuole fuori è composto dal 73enne editore del Messaggero, Francesco Gaetano Caltagirone (5,65%), seguito dall’85enne patron di Luxottica Leonardo Del Vecchio (4,84%) e dai Benetton (3,98%). Insieme superano il primo azionista Mediobanca, che con il 13% da sempre detta legge a Trieste. Il fronte “italiano” vuole Donnet fuori, e ha aspettato l’assemblea di ieri sui conti 2020 per avviare il terzo anno di mandato di Donnet riducendo così la sua buonuscita. Ieri Caltagirone non si è presentato in assemblea dando il segnale di sfratto. Donnet prova a resistere ma la battaglia è ormai sul suo successore. L’ad di Medibanca Alberto Nagel lo difende solo per difendere il suo potere su Trieste: per metterlo sotto pressione Del Vecchio è persino salito in Mediobanca divenendone primo azionista; per questo Nagel non farà le barricate e pensa già al successore, individuato nell’ad di Poste, Matteo Del Fante.

Ma cosa vogliono farne di Generali? Nessuno lo sa. Donnet è accusato di una gestione personalistica e poco incisiva, di averne ridotto il peso internazionale limitandosi a operazioni legate alla rivale Axa o insensate come la conquista di Cattolica, decisa solo per aiutare Mediobanca e Intesa Sanpaolo a conquistare Ubi. La compagnia triestina ha una redditività più bassa delle sue rivali, ma i suoi azionisti, desiderosi di non perdere potere, ne hanno sempre frenato lo sviluppo. Non è chiaro come l’andazzo dovrebbe cambiare. Per ora sembra soprattutto una storia di ricchi uomini anziani annoiati.

Ok al Recovery dopo l’ultima lite con le Regioni. Oggi a Bruxelles

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza è pronto e oggi sarà inviato a Bruxelles. L’obiettivo è avere un via libera già il 18 giugno, nella riunione dell’Ecofin, per poter accedere entro l’estate alla prima tranche di anticipo dei fondi, che potrebbe arrivare a 25 miliardi nel 2021. Ieri il premier ha portato il piano da 191,5 miliardi in Cdm per la “presa d’atto” finale, dopo l’illustrazione al Parlamento (che non l’ha potuto discutere). Con esso anche il decreto legge che istituisce il fondo complementare al Recovery plan da 30,6 miliardi che finanzierà, fino al 2033, i progetti che per i tempi di realizzazione o per la natura degli interventi non potevano entrare nel Piano, tra cui anche l’alta velocità Salerno-Reggio Calabria. Per il 2021 il fondo potrebbe essere alimentato con un primo finanziamento fino a 5 miliardi (ma la cifra potrebbe essere inferiore, le stime sono in corso). Ha però dovuto incontrare anche le Regioni che, per tramite la ministra Mariastella Gelmini, ha chiesto di poter convocare la Conferenza unificata. Il Cdm è stato così sospeso per quattro ore e il ministro dell’Economia Daniele Franco ha illustrato il testo ai governatori. Tensione c’è stata anche sul fondo complementare, con alcune modifiche arrivate in extremis. Poi, il via libera. A Bruxelles, ieri sera, risultavano arrivati i piani di Francia, Germania, Portogallo, Grecia e Slovacchia. La Commissione ha due mesi per esaminarli.

A maggio bisognerà invece mettere a punto il decreto sulla governance del Piano, con il nodo politico ancora da sciogliere della composizione della cabina di regia che, a Palazzo Chigi, avrà la supervisione. Sempre a maggio sono attesi il varo del decreto Imprese sulla base dell’ultimo scostamento di bilancio e i decreti su Pa e semplificazioni. Poi entreranno nel vivo riforme come il fisco e la concorrenza, da completare entro luglio, e la giustizia, attesa entro settembre. In realtà la riforma del processo civile e penale è già stata incardinata da più di un anno in Parlamento ma – a dare la misura dell’entità dell’impresa – si registra in commissione alla Camera un nuovo rinvio degli emendamenti sul ddl penale. Spetterà alla ministra Marta Cartabia sbrogliare la matassa: una proposta sulla prescrizione è attesa nelle prossime settimane.

Ritorno in ufficio per gli statali: via il limite del 50%

Apartire dalla prossima settimana, molti dipendenti statali che oggi operano da casa potrebbero essere costretti a tornare in sede. O quantomeno non ci sarà più l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di garantire lo smart working ad almeno il 50% degli addetti che possono svolgere le loro mansioni anche a distanza. Lo ha deciso il ministro Renato Brunetta, che ha fatto entrare la norma nel decreto Proroghe approvato ieri dal Consiglio dei ministri.

In buona sostanza, da maggio gli uffici pubblici potranno organizzarsi in autonomia, dunque anche proseguire con il lavoro agile semplificato, ma non saranno tenuti a rispettare soglie minime. Questo nuovo regime transitorio varrà fino al 31 dicembre, nel frattempo la materia dovrà essere regolata in maniera definitiva nel contratto collettivo del pubblico impiego, che sarà negoziato e firmato in questi mesi.

Le ragioni alla base di questo cambiamento vanno rintracciate in quel concetto caro a Brunetta sin dai tempi del governo Berlusconi: la Pubblica amministrazione deve funzionare, quindi il lavoro da remoto va bene solo se può assicurare l’efficienza nei servizi, altrimenti si torna in presenza. “Fino a dicembre – ha spiegato il ministro – potranno ricorrere allo smart working a condizione che assicurino la regolarità, la continuità e l’efficienza dei servizi rivolti a cittadini e imprese. Un percorso di ritorno alla normalità, in piena sicurezza, concordato con il Comitato tecnico scientifico e compatibile con le esigenze del sistema dei trasporti”.

Con questa mossa si realizza la prima traduzione in pratica del “Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale”, firmato con grande enfasi lo scorso 10 marzo dal ministro della Funzione pubblica appena insediato e i tre sindacati confederali alla presenza di Mario Draghi. In quel documento si diceva che “con riferimento alle prestazioni svolte a distanza, porsi nell’ottica del superamento della gestione emergenziale mediante la definizione, nei futuri contratti collettivi nazionali, di una disciplina che garantisca condizioni di lavoro trasparenti”.

Brunetta però pare essersi portato parecchio avanti, infatti il suo intervento prevede novità anche per il periodo successivo alla pandemia, il cosiddetto ritorno alla normalità che si vuole favorire proprio con questo primo passo. Per le pubbliche amministrazioni, infatti, viene confermato il dovere di dotarsi a regime di Piani operativi sul lavoro agile (Pola), ma anche qui i tetti minimi di smart working attuali vengono ritoccati al ribasso: per gli enti che approvano il Pola, quindi individuano quali mansioni possono essere svolte anche fuori dagli uffici, salta la soglia del 60%; per quelli che non lo approvano, era prevista l’asticella di garanzia al 30%, ma ora diventa del 15%.

Sullo smart working dei dipendenti pubblici, reso necessario dalla pandemia, è nata nell’ultimo anno una retorica della “vacanza retribuita”, alimentata la scorsa estate da un intervento del professor Pietro Ichino. In realtà la maggior parte degli statali – medici, infermieri e forze dell’ordine – non ha mai smesso di lavorare in presenza, mentre il mondo della scuola si è riorganizzato con la didattica a distanza per far fronte alle chiusure.

Il lavoro agile per i dipendenti statali era stato introdotto come sperimentazione già nel 2015, con l’obiettivo di raggiungere il 10% nel triennio. Tuttavia, prima che fosse forzato dal Covid, aveva coinvolto una parte infima del pubblico impiego: appena l’1 per cento. A partire dalla primavera del 2020, dopo che i primi provvedimenti lo hanno spinto, ha superato un terzo della platea, arrivando al 37% secondo una recente rilevazione dei consulenti del lavoro. Come ha fatto notare a gennaio un report della Banca d’Italia, la nostra Pubblica amministrazione fa fatica a funzionare con i dipendenti a distanza più che altro per la bassa digitalizzazione dei servizi e la scarsa alfabetizzazione digitale del personale.

Lavoro a distanza, lo scontro del futuro

Il segnale del ministro Renato Brunetta è coerente con il personaggio. Come se dicesse al personale della Pubblica amministrazione “rientrate dallo smart working in ufficio perché siete dei fannulloni”. Dossier e analisi sono più complesse e anche per questo al ministero del Lavoro di Andrea Orlando è stata istituita solo pochi giorni fa una commissione di lavoro per sbrogliare i nodi del lavoro a distanza.

I dati disponibili al momento sono mediamente ottimistici, anche se un po’ di problemi e di criticità sono già evidenti e, dal fronte delle imprese, si pone già la domanda: ma la produttività ne guadagna?

L’Osservatorio. Prendiamo il rapporto dell’Osservatorio del Politecnico di Milano: se prima del Covid i lavoratori che lavoravano a casa erano 570 mila, a marzo del 2020 sono schizzati a 6,5 milioni, di cui 1,85 nel pubblico impiego. Dopo l’estate sono scesi a 5 milioni per poi risalire a 5,35 milioni, circa un quarto della forza lavoro complessiva.

Quanto a criticità e benefici, il rapporto – basato su un campione di 1.001 lavoratori – mostra più lati positivi che negativi. Il 73% ha valutato “buona o ottima” la propria capacità di concentrarsi nelle attività lavorative, il 76% l’efficacia della prestazione e il 65% il supporto all’innovazione. Le aziende hanno apprezzato la diffusione delle competenze digitali (71%), il superamento dei pregiudizi verso lo smart working (65%), il ripensamento dei processi aziendali (59%).

Con la seconda fase della pandemia, da settembre in poi, si è verificato un parziale “richiamo” del personale in azienda soprattutto per promuovere “il senso di appartenenza” o “favorire la socializzazione” e promuovere “la collaborazione” mentre nella Pa la motivazione principale è stata “favorire le comunicazioni interne”.

I lavoratori. Per quanto riguarda i lavoratori, un secondo report basato su 8600 interviste riporta le impressioni avute da chi, spesso per la prima volta, si è trovato a lavorare a distanza. E qui, nonostante meno del 50% ha riscontrato criticità, non è tutto positivo. Si ritrova una forte componente (35%) che lamenta un “senso di impotenza e isolamento”, seguito da “sconforto con stati di ansia e/o paura” (32%), oppure frustrazione (27%) e irritabilità (25%).

Chi manifesta maggiori criticità è la componente femminile del lavoro che riscontra tassi più alti degli uomini quanto a impotenza, isolamento o frustrazione. La rilevanza della questione femminile emerge anche dalla ricerca Cgil. Le donne soffrono il maggior carico di lavoro che comporta la collocazione a casa, la fatica a distinguere lavoro produttivo e lavoro di cura.

Quanto all’efficacia il giudizio dei lavoratori, è positivo per più della metà degli interpellati. Le voci più gettonate riguardano l’autonomia, la responsabilità e l’efficacia. Giudizi condivisi anche dai manager. Non è un caso quindi che per il futuro il 51% delle grandi imprese stia valutando l’ipotesi di riorganizzare gli spazi, per differenziarli, ampliarli o anche ridurli. Solo l’11% pensa di non dover fare nulla.

Sindacato. Da un’analisi della fondazione Di Vittorio, condotta nel maggio 2020 su una platea di 6170 persone, emergeva una valutazione sostanzialmente positiva anche se le problematicità evidenziate non erano banali. Solo il 31%, ad esempio, ha lavorato in casa in una stanza tutta per sé con i due terzi costretti a inventarsi gli spazi. Positivi i giudizi sulla riduzione del pendolarismo, ma negativo il mancato rapporto con i colleghi o l’aumento dei carichi familiari (le donne).

Le tendenze. A conferma di questa possibile tendenza c’è uno studio McKinsey a cui ha dato grande risalto il quotidiano spagnolo El Paìs: “Oltre il 20% della forza lavoro nei Paesi sviluppati – si legge – sarà in grado di continuare a lavorare da casa dai tre ai cinque giorni alla settimana anche quando il virus è sotto controllo”. Secondo Pablo Claver, partner del Boston Consulting Group, il lavoro a distanza potrebbe raddoppiare nei 15 principali Paesi europei arrivando al 30% o 40%”. E questo, come si vede anche dalla grafica in pagina, avrà conseguenze complessive per il commercio elettronico, i viaggi di lavoro o gli acquisti di cibo a casa.

Produttività. Eppure proprio ieri il Financial Times si chiedeva se “lavorare da casa fa male alla produttività?” riportando un dossier di Deutsche Bank: “La nuova normalità del mondo post-Covid-19 potrebbe consistere in una media di due giorni di lavoro da casa e tre giorni in ufficio, ma sulla produttività ci sono domande ancora senza risposta”. DB cita un vecchio adagio del Nobel Robert Solow secondo cui gli aumenti di produttività dovuti ai Pc erano ovunque “tranne che nelle statistiche”. Errori, aspettative, effetti desiderati, ma che occorre attendere nel tempo e che complicano il quadro.

Dipende in larga parte dal tipo di attività, alcuni studi dicono che le attività creative, ad esempio, richiedono comunicazioni costanti.

Accordi. In un contratto del gruppo Tim, ad esempio, che ha validità fino al 31 dicembre 2021, si attua la distinzione tra “lavoro agile giornaliero” e “lavoro agile settimanale” con il primo riservato a chi lavora in autonomia e per progetti, e dunque basato su un massimo di due giorni a settimana, e il secondo che si applica a chi è eterodiretto e si basa sull’alternanza settimanale. Il gruppo Unicredit ha siglato un’intesa con i comitati aziendali europei che prevede il lavoro a distanza al 40% negli uffici centrali e al 20% nel “network”.

Le applicazioni possibili sono molte e diverse e le previsioni sulla produttività ancora incerte. Dipende dal calcolo dell’orario di lavoro – alcuni studi stimano che la giornata lavorativa sia aumentata, da qui la richiesta del “diritto alla sconnessione” – dai costi aziendali imputati agli immobili (che potranno ridursi) dall’eventualità che lavoro digitale significhi lavoro a migliaia di chilometri di distanza e a costi molto più bassi.

Lo smart working è dunque ancora un campo di battaglia in cui le parti si fronteggiano cercando di capire se questa possibile rivoluzione sociale e culturale possa avere più costi o più benefici. E come si vede dal rapporto della Deustche Bank, le grandi corporation si chiedono già chi dovrà pagare i possibili costi.

Guidò gratis la Film Commission. “Ma le fatture le ha pagate la Lega”

Fatture per poco di più di 10mila euro pagate dalla Lega di Matteo Salvini sul conto di Giuseppe Alessandro Farinotti, non indagato, quando era presidente della fondazione regionale Lombardia Film Commission (Lfc). Carica che da statuto è gratuita. Nell’estate 2018, Farinotti, giornalista e critico cinematografico, prende il posto del dimissionario Alberto Di Rubba, ex contabile del Carroccio oggi a processo con rito abbreviato a Milano per concorso in peculato. Il dato inedito e ritenuto di interesse dalla Procura, è emerso martedì durante l’udienza del processo ordinario dove è imputato l’imprenditore bergamasco Francesco Barachetti coinvolto nel caso dell’acquisto di un capannone a Cormano da parte di Lfc per 800mila euro.

La nota della Guardia di finanza illustrata in aula, oltre ai pagamenti della Lega, spiega il tentativo di Farinotti, al momento estraneo all’inchiesta di Milano, di affidare a Di Rubba, ormai ex presidente di Lfc, una consulenza da 70mila euro per curare gli aspetti amministrativi della fondazione. Il tutto, ha ricostruito l’accusa in aula, si svolge tra l’estate e l’inverno del 2018. In totale la Lega, secondo la Procura, verserà a Farinotti poco più di 10mila euro. In cambio l’allora presidente di Lfc si impegnerà a fornire le sue professionalità nel mondo dei media e nell’organizzazione di convegni.

Email e chat acquisite dalla Procura di Genova illustrano meglio la vicenda. L’incarico di presidente di Lfc è da sempre gratuito. Nessun compenso per Farinotti il quale, suo malgrado, in quel periodo del 2018 si trova tra le mani la patata bollente del contratto definitivo da firmare per l’acquisto del capannone. Firma che avverrà il 13 settembre del 2018. Pochi giorni prima, il 30 agosto, Farinotti invia una email all’assessore alla Cultura del comune di Milano, Filippo Del Corno, per accreditare la consulenza a Di Rubba. Scrive: “Caro Filippo (…) ti prego, considerami sempre il Farinotti artista (…). Per tua conoscenza (…) ho deciso di nominare Alberto Di Rubba consulente amministrativo della Film Commission. Come sai io lavoro gratis (…). Devo essere liberato del fardello amministrativo burocratico (…). Di Rubba ha dimostrato di saper controllare tutti quegli aspetti”. Del Corno è entusiasta e risponde: “Trovo un’ottima idea avere Di Rubba come consulente”. Farinotti invia l’intera conversazione all’assessore regionale alla Cultura Stefano Bruno Galli, indagato per riciclaggio nell’inchiesta di Genova sui 49 milioni della Lega. Firma del rogito e consulenza a Di Rubba. Farinotti nei primi mesi di mandato si occupa anche di questo. Nell’autunno 2018, secondo l’accusa che legge le note sulle chat estrapolate dai cellulari di Alberto Di Rubba e di Andrea Manzoni, il presidente Farinotti chiederà un ristoro economico ai contabili di Salvini. Lo scrive prima a Di Rubba, che si mostra favorevole. In altre chat Di Rubba ne parla con Manzoni. Il secondo contabile (anche lui a processo in abbreviato), fedelissimo del tesoriere leghista Giulio Centemero, pensa di pagare Farinotti con la Dea Consulting, società di Bergamo riferibile ai due contabili. Poi decide che a pagare Farinotti sarà la Lega. Cosa che avviene con contratto.

I pagamenti però si fermano a gennaio 2019. In quel periodo Di Rubba, che il 3 ottobre aveva inviato a Lfc la sua offerta di consulenza, ritira la candidatura. Rubinetti chiusi e marcia indietro. Il tutto è collegato, secondo la Procura, a ciò che avviene il 10 dicembre 2018, quando i pm di Genova perquisiscono gli uffici dei contabili sequestrando Pc e cellulari. Nell’unico verbale di Farinotti del 23 luglio 2020 davanti ai pm di Milano, l’ex presidente di Lfc spiega l’iter della consulenza mancata, svela che a proporgli la presidenza fu Attilio Fontana, ma non parla dei soldi ricevuti dalla Lega. La consulenza sarà affidata ad altri. Il 21 marzo la società di Barachetti, imprenditore legato ai destini del duo Di Rubba-Manzoni, emette fattura a Lfc per 70mila euro. Che quel pagamento dovesse ristorare Di Rubba per la mancata consulenza non è provato, ma la Procura la ritiene una pista investigativa di grande interesse.

B. è solo malato di terrore. Voci di FI: “Silvio sta bene”

“Èancora ricoverato per gli strascichi del Covid”. Così l’avvocato Federico Cecconi ha risposto, due giorni fa, a chi gli chiedeva notizie sul suo cliente più illustre: Silvio Berlusconi. È ormai da 23 giorni è ricoverato al San Raffaele di Milano, dove è entrato il 6 aprile. Quello che doveva essere solo un controllo per la solita aritmia e certi valori sballati si sta dunque trasformando in una lunga degenza. “Mi limito a dire che è ancora ospedalizzato”, ha aggiunto il legale. “Se l’ho trovato avvilito? A nessuno fa piacere stare in ospedale tre settimane”.

Sono fonti interne al suo ambiente, però, a far capire che Berlusconi non sta poi così male. Anzi, starebbe piuttosto bene. Questa lunga degenza, iniziata magari per un malessere reale, si starebbe quindi prolungando al solo scopo di tenerlo lontano dalle aule di giustizia, dove sono in corso i tre dibattimenti (a Milano, a Roma e a Siena) del processo Ruby-ter. Soprattutto da Siena, dove i giudici sono già pronti a emettere la sentenza. Il pubblico ministero, Valentina Magnini, ha chiesto per Berlusconi già più di un anno fa, il 13 febbraio 2020, una condanna a 4 anni e 2 mesi per corruzione in atti giudiziari, ritenendo provato che abbia pagato il pianista Danilo Mariani (coimputato) per indurlo a rendere falsa testimonianza sulle feste del bunga bunga nel 2010 ad Arcore. Poi Berlusconi ha chiesto di rendere dichiarazioni spontanee in aula, com’è diritto di ogni imputato. Ma non si è più presentato, facendo slittare per cinque volte la sentenza. Motivi di salute, legittimi impedimenti. Eppure negli ultimi giorni diversi deputati e senatori l’hanno sentito al telefono, perché lui stesso ha voluto farsi raccontare Mario Draghi alle prese con la presentazione in Parlamento del Recovery plan. “Che impressione hai avuto? Che idea ti sei fatto?”, le domande che alcuni forzisti si sono sentiti rivolgere dal loro leader, il quale ha voluto, sempre al telefono, serrare i ranghi del partito sul voto contrario alla sfiducia al ministro Roberto Speranza. Raccontano che si è pure raccomandato per l’inserimento dei diritti degli animali in Costituzione: una sorta di lodo Dudù. Ieri, di fronte all’ipotesi di una visita fiscale in ospedale mandata dal Tribunale, in sua difesa è intervenuto il direttore di Libero, Pietro Senaldi: “Smettete di perseguitare Silvio malato”. Invece della sentenza in arrivo (e della condanna in giudicato), preferisce sperare di salire al Quirinale. Ieri ne ha riparlato Antonio Tajani: “Pure Salvini ha detto che sarebbe un ottimo presidente. Ha le carte in regola”.

Deleghe: porti a Iv, grandi opere a 5S e alla Lega le sue Olimpiadi

Sono stati i partiti che più hanno spinto per affossare il Conte-2 a favore del governo Draghi e oggi passano all’incasso per quel che riguarda il ‘ricco’ ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili. Al viceministro Teresa Bellanova (Italia Viva), infatti, il titolare di Porta Pia Enrico Giovannini ha affidato deleghe ambite e pesanti: autotrasporto e motorizzazione, coordinamento dei commissari straordinari per le opere ferroviarie (le più onerose del pacchetto: 60,8 miliardi di euro su 82,6) – un vero pallino dei renziani fin dal piano “Sblocca Italia” che voleva 100 commissari –, contratti di lavoro di settore (fra cui figurano Ccnl significativi per numero e quindi elettoralmente importanti: ferrovieri, logistica, edili), partecipazione del Ministero al Cipess (l’ex Cipe, il microgoverno che definisce la politica economica del paese, specie delle grandi opere). Tutto questo senza però dimenticare i porti, su cui Italia Viva si sta spendendo molto, guidata dalla deputata Raffaella Paita, moglie di Luigi Merlo, ex presidente del porto di Genova oggi manager del gruppo svizzero Msc, primo attore della logistica portuale in Italia. A partire dalla risoluzione e dai disegni di legge propugnati a fini di deregulation in materia di dragaggi dei fondali inquinati, come raccontato ieri dal Fatto.

Insomma, i porti sembrano assai cari ai renziani che vengono così accontentati. Erano cari anche alla Lega, ma negli equilibri di maggioranza il viceministro Alessandro Morelli ha dovuto mollare il colpo. La contropartita però era un must per il Carroccio: coordinamento degli interventi per le Olimpiadi di Milano-Cortina del 2026. Parliamo di opere complessive per un valore di quasi 1 miliardo di euro e che comprendono infrastrutture, come la Pedemontana, assai care alla Lega e agli enti locali guidati dal Carroccio. Al leghista anche coordinamento dei commissari straordinari per le opere stradali (10,9 miliardi di euro), edilizia scolastica e revisione del Codice della strada.

Anche al terzo sottosegretario, Giancarlo Cancelleri, il pentastellato più appassionato alle grandi infrastrutture (a partire dal Ponte sullo Stretto di Messina), sono andate materie gradite, con la vistosa eccezione del Cipess: sorveglianza sulle grandi opere, monitoraggio sulle incompiute e loro ultimazione, coordinamento dei restanti commissari, edilizia abitativa.

Insomma, nell’attribuire le deleghe il neoministro Giovannini ha usato il Cencelli delle passioni: a ogni partito le sue. Solo che queste valgono potere e gestiscono miliardi.