Il patto tra Letta e Conte: “Neo-5S nel centrosinistra”

“L’importante è che Conte abbia detto che il M5S ci sarà”. Scherza Enrico Letta, quando il collegamento con Giuseppe Conte salta per la seconda volta. Ma sorridendo il segretario del Pd riassume il senso della diretta pomeridiana su Zoom voluta da Goffredo Bettini, “Verso le Agorà”, e introdotta da Massimiliano Smeriglio, che mette insieme Letta, Conte e Elly Schlein. Prove tecniche di “campo largo progressista” come lo definiscono i partecipanti. Con l’avvocato che per la prima volta colloca chiaramente il M5S a sinistra. E pazienza se in serata con l’Adnkronos aggiusterà parzialmente il tiro: “Il M5S manterrà la sua vocazione trasversale, e ha una chiara determinazione ad allargare il campo anche a temi dell’elettorato moderato”. Letta tira comunque un sospiro di sollievo.

Però sarà un percorso a medio termine, per un’alleanza che deve compattarsi per le Politiche. “Le Amministrative saranno solo un passaggio” teorizza il segretario dem, consapevole come l’avvocato che per le Comunali non ci potrà essere un’intesa compiuta. Lo stesso Conte lo aveva detto in mattinata: “I tempi non sono maturi per una alleanza a tutto tondo”. Troppi gli ostacoli in troppe città, a cominciare da Roma, dove dem e grillini correranno divisi. E poi Conte non è ancora è il capo dei 5Stelle. Serve altro tempo, e si evince anche dal tentativo di Bettini di pungolare gli altri, sia spingendo sulla sua idea di amalgama, sia invitando a cominciare a pensare al dopo Draghi. Letta è su una linea diversa: per un campo più largo e per un sostegno convinto al governo. Sarà un caso, ma per buona parte del dibattito il padrone di casa si fa cogliere con le mani nei capelli.

Di sicuro Conte neanche nomina le Comunali. Promette di stare per chiudere il sospiratissimo piano di rifondazione del M5S: “Ancora qualche giorno per il processo ricostituente”. Il tempo di aspettare la sentenza di oggi della Corte d’appello di Cagliari, presso cui il reggente Vito Crimi ha presentato ricorso contro la nomina di un curatore speciale per il Movimento. Se venisse accolto Crimi verrebbe riconosciuto come rappresentante legale del M5S, e Davide Casaleggio dovrebbe consegnare i dati degli iscritti, necessari per votare vertici e il Statuto dei 5Stelle, insomma per far partire l’era Conte.

Ma con una piattaforma diversa da quella di Casaleggio, conferma l’avvocato nella diretta web, “perché bisogna chiarire che la responsabilità politica deve essere distinta dalla gestione tecnica”. E d’altronde ieri Rousseau si è ufficialmente offerta a “liste civiche” che vogliano utilizzarla. Ma Conte pensa già ad altro. Al nuovo M5S dove “competenza e capacità” saranno fondamentali, “perché uno non vale l’altro”. Soprattutto, colloca i 5Stelle nel centrosinistra. Certo, “sinistra e destra sono categorie che hanno perso un po’ delle originali connotazioni” sostiene. Però il Movimento, assicura si può rivelare “senz’altro di sinistra”, perché “ha espresso una carica progressista, forse la più efficace, rispetto allo status quo”. Per rafforzare la sua tesi l’ex premier arriva ad assolversi per le scelte sui migranti ai tempi del governo gialloverde: “Non è mai successo con un mio governo che un porto rimanesse chiuso, alla fine sono sbarcati comunque”. Rivendica il no al Mes, pungendo ovviamente Matteo Renzi: “Qualcuno ora si nasconde, ma era una soluzione inadeguata”. Ma tutto il suo discorso promette una linea politica antitetica “al neo-liberismo arrogante”. Una piattaforma per “questo campo con Pd e Leu, alternativo al sovranismo delle destre”. Chiude qui, il premier del governo “che è morto di freddo” sibila Bettini, sarcastico con chi lo accusava di gridare al complotto.

Un fantasma, come quello di Beppe Grillo, che nessuno nomina. Letta invece arrotonda gli angoli. “Io immagino tutti e tre, io, Giuseppe ed Elly, in una piazza grande, davanti a tanti elettori”, dice. Però subito precisa: “Cito Elly e Giuseppe, ma credo che si dovrebbe allargare il campo ad altri soggetti”. La strada è solo all’inizio.

Un “house organ” dove il principe diventa Padre Pio

Arab News è il primo quotidiano in lingua inglese dell’Arabia Saudita. È stato fondato nel 1975 e oggi è una delle 29 pubblicazioni prodotte dalla Saudi Research & Publishing Company (SRPC), una sussidiaria del Saudi Research & Marketing Group (SRMG). Tutte compagnie saldamente in mano alla famiglia reale saudita, o almeno a quella parte che per evitare di finire al confino in qualche sperduto villaggio nel deserto si è piegata ai voleri del principe ereditario Mohammed bin Salman.

Con l’avvento di Mbs, Arab News è diventato un house organ personale del principe. Impossibile trovare una notizia “vera”, giornalisticamente parlando, ma solo stucchevoli peana dove Mbs è ritratto come una sorta di Padre Pio islamico. Appare sempre in immagini auliche – con quel sorriso che non può non far correre un brivido nella schiena – con la tradizionale kefiah bianca e rossa e la jallabja bianca mentre fa ampi gesti con la mano e lo sguardo che si spinge lontano.

Sotto la testata – sia in carta che online – il suo motto, il suo spirito guida, così recita: “La voce del cambiamento della regione”. Nonostante gli sforzi editoriali i follower dell’edizione online restano inchiodati a meno di 20 mila, e questo segnala che – fatte le debite tare dei follower stranieri come chi scrive – non sembrano in molti a essere interessati a questo strumento di propaganda, utilizzato nell’ultimo anno soprattutto a vendere il prodotto che sta più a cuore a Mbs: Vision 2030, il programma di sviluppo del Fondo sovrano saudita per cercare di contenere la dipendenza economica dell’Arabia Saudita dal petrolio e aprire il Paese ad altri investimenti, soprattutto stranieri. Promesse con ambiziosi e costosi progetti di diversificazione che devono però ancora essere mantenute.

I parenti messi agli arresti, il coinvolgimento nell’omicidio di Jamal Khashoggi, hanno fatto di Bin Salman una persona “non gradita” negli Usa e in molti altri Paesi. Vicende che hanno allontanato i possibili partner e investitori stranieri dal Paese che trae il suo nome dalla famiglia regnante, come se la Gran Bretagna si chiamasse Windsor. In ogni caso siamo ben lontani dalle aspettative del governor del Fondo sovrano, Yasir al-Rumayyan, che l’anno scorso prevedeva di avere 2 trilioni di dollari in asset in gestione entro il 2030, il che lo avrebbe reso il più grande fondo patrimoniale del mondo.

La macchina della propaganda è comunque ben oliata. Questi alcuni titoli dell’edizione di ieri di Arab News: “I sauditi sono più fiduciosi su come Vision 2030 sia la strada giusta”, “Vision 2030 ed energia: perché ha avuto successo e avrà un futuro luminoso” e naturalmente una sterminata intervista di Mohammed bin Salman al giornalista Abdullah Al-Mudaifer. Fra i commenti ieri ne spiccava uno che paragonava il principe a Victor Hugo, come se la Pravda ai tempi dell’Urss avesse paragonato Leonid Breznev a Fëdor Dostoevskij.

L’ultima di Renzi il Saudita: editorialista di Arab News

Matteo Renzi ha un nuovo lavoro. Non pago delle attività di senatore, leader di partito, imprenditore, conferenziere, componente del FII Institute saudita e della Royal Commission per AlUla, adesso l’ex premier è anche editorialista per Arab News, storico quotidiano con sede a Riyad e considerato molto vicino al regime. Un ruolo che conferma il recente trasporto di Renzi per il mondo arabo, sancito da numerose trasferte – ultima delle quali il Gran premio di Formula 1 in Bahrein – e dalla ormai celebre definizione di “Nuovo Rinascimento” che il leader di Italia Viva dedicò all’Arabia Saudita del suo amico principe Bin Salman.

L’editoriale d’esordio di Renzi è di qualche giorno fa ed è disponibile nella versione online del quotidiano. Titolo: “AlUla can be the city of the future, as well as of the past”; AlUla può essere la città del futuro, così come del passato. L’articolo contiene una sbrodolata di elogi per la città saudita, al centro di un progetto di urbanistica green di cui si occupa la già menzionata Royal Commission. Renzi si affida subito alle citazioni, scegliendo di aprire le sue 5 mila battute con l’immarcescibile “la bellezza salverà il mondo”, prima di avventurarsi in un parallelo tra AlUla e la storia di Matera.

Secondo Renzi – e qui ci permettiamo di tradurre dall’inglese, sperando di non scalfire prosa e contenuto dell’elaborato – “negli anni ‘50 Matera era povera e trascurata tanto che gli abitanti furono spostati in alcuni nuovi quartieri residenziali”, finché negli anni ‘80 non si decise per una “rinascita” attraverso “investimenti pubblici e privati”. Tutto questo per dire che oggi AlUla può seguire quel modello di città in cui “una comunità moderna vive in armonia con il suo passato”.

AlUla è allora “una grande opportunità”, anche grazie all’irreprensibile lavoro della Corona: “AlUla e l’Arabia Saudita stanno seguendo un approccio community-inclusive e culture-first”. Il Regno, insomma, citato come esempio di inclusività sociale oltreché di attenzione per la cultura. Prepariamoci, perché nei prossimi decenni “AlUla sarà un museo vivente” e il progetto della Royal Commission di cui Renzi fa parte è “assicurare che gli abitanti della regione siano centrali nel successo a lungo termine della città”.

Un inno ai diritti civili che prepara il lettore a una certa enfasi letteraria che sopraggiunge quando Renzi immagina l’imminente età dell’oro della regione: “L’obiettivo è connettere la comunità di AlUla con il resto del mondo in una maniera che rinforzerà, ispirerà e soddisferà le persone e il Regno per le generazioni a venire”. E siccome c’è ancora spazio per un paio di frasi fatte, meglio ribadire che “AlUla può diventare una città del futuro, non solo del passato”; d’altra parte – Renzi lo ripete proprio – “la bellezza salverà il mondo” e quindi, per sillogismo aristotelico, presto AlUla salverà un po’ tutti noi.

Da notare come il giornale, a fine articolo, inserisca due annotazioni. La prima è la stessa che compare nella pagina personale di Matteo Renzi sul sito di Arab News, quella in cui viene annoverato tra i “columnist” del quotidiano e in cui saranno raccolti i suoi articoli. Accanto alla foto di Matteo, c’è la sua presentazione (non è chiaro se autoprodotta): “Matteo Renzi è ex sindaco di Firenze, ex primo ministro italiano e componente del board della Royal Commission for AlUla”. Con comodo oblio per gli attuali incarichi politici nel nostro Paese, evidentemente trascurabili di fronte ai nuovi impegni sauditi.

La seconda annotazione, in corsivo, è un avviso che si utilizza di solito quando i giornali ospitano contributi di persone che potrebbero pensarla in maniera diversa rispetto alla linea editoriale: “I punti di vista espressi dagli autori di questa sezione sono personali e non necessariamente riflettono la linea di Arab news”. Frase di rito, ma vista la volatilità politica del personaggio meglio mettere le mani avanti. Pure in Arabia Saudita.

Grillo Jr, le difese sfidano S.: “Per 2 su 4 era la prima volta”. Allusioni su un vecchio caso

Il rischio concreto, ragiona una fonte impegnata sul caso, è che questa guerra senza esclusione di colpi sia davvero solo l’inizio. E che lo stillicidio di indiscrezioni sul caso di Porto Cervo in corso su tv e giornali unito all’intrusione della politica, possano riproporsi un domani con effetto anche più amplificato in un’ aula giudiziaria.

Da due anni le difese dei quattro ragazzi – Ciro Grillo, Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria – hanno lavorato su una ricostruzione dei fatti alternativa rispetto a quella formulata dell’accusa: la notte del 16 agosto 2019, in casa Grillo non ci sarebbe stata alcuna violenza sessuale, ma un rapporto consenziente. Lo dimostrerebbe lo spezzone di un filmato girato con il telefonino, interpretato in modo alternativo da accusa e difesa. E, contestano, il consenso sarebbe dimostrato anche da un altro dettaglio (anche questo contestato): la vittima, S. J., studentessa milanese, la mattina dopo sarebbe andata a prendere le sigarette insieme a due dei presunti stupratori. Due dei quattro ragazzi, agli inquirenti, hanno anche precisato che quello è stato il loro primo rapporto sessuale. Mentre, come riportato ieri dalla Verità, R. M., l’amica della vittima che si era addormentata ubriaca in salotto, ha dichiarato ai magistrati di aver saputo dall’amica che in passato avrebbe subito un’altra violenza.

La ricostruzionedelle difese rischia però di traballare su tre elementi di fondo. Il primo riguarda l’alcol. Uno dei quattro indagati, Vittorio Lauria, ha rilasciato un’intervista andata in onda a Non è l’arena: S. J. “non è stata forzata a bere, ma ha bevuto un quarto di bottiglia di vodka per sfida”. Tentava di difendersi ma, anche fosse, quelle parole potrebbero avallare lo stato di ubriachezza della ragazza, dunque incapace di difendersi. Non a caso a intervista avvenuta Lauria è stato mollato dal suo difensore, Paolo Costa.

L’altro nodo riguarda la superiorità fisica: “3 vs 1”, scrivono i ragazzi in un messaggio intercettato. Corsiglia ammette un primo rapporto con S. J., ma consenziente: “Poi mi sono addormentato, non so cosa hanno fatto dopo”. Dopo quel momento c’è l’episodio della vodka e il secondo rapporto, fra gli altri tre e la ragazza. C’è infine il dettaglio delle foto oscene accanto alla seconda amica che dormiva, R. M. Quegli scatti costano a Grillo, Capitta e Lauria una seconda accusa di violenza sessuale.

Lannutti contro Casellati, la guerra finisce in Consulta

Il senatore Elio Lannutti è pronto ad arrivare fino alla Corte costituzionale. Ché Sua Presidenza Maria Elisabetta Alberti Casellati gli ha bocciato una serie di emendamenti volti a trattenere in servizio oltre l’età di pensione i magistrati, gli avvocati e i procuratori dello Stato e pure i medici sì indispensabili in epoca di Covid. Con valutazioni di inammissibilità o improponibilità a ripetizione che lo hanno mandato su tutte le furie. Fino a convincerlo che le sue prerogative di parlamentare siano state di fatto state menomate e senza uno straccio di motivazione. E allora? Ha deciso di sollevare un conflitto di attribuzione alla Consulta per rivendicare il diritto che le sue proposte vengano almeno discusse e messe ai voti. Perché proprio attraverso gli emendamenti si esercita quello ius variandi in cui “ogni singolo parlamentare esprime una delle forme di esercizio della funzione legislativa, alla luce del principio democratico e pluralista che connota il suo ruolo di rappresentante della Nazione”.

Pompei, si lancia nel vuoto e muore. Indaga la Procura

Tre segni di presunte coltellate all’addome, caviglie fratturate, lesioni compatibili con un lancio nel vuoto, il referto del pronto soccorso dell’ospedale San Leonardo di Castellammare di Stabia, dove la povera Grazia Severino è arrivata con l’ambulanza del 118. La ragazza avrebbe compiuto 24 anni oggi, è stata ritrovata dai sanitari nel tardo pomeriggio, nel cortile di un condominio, vicino a un box, a meno di 400 metri dal Santuario della Madonna di Pompei. Non viveva lì, ma dall’altra parte della città. Il suo borsone era rimasto sul finestrone al quarto piano, le cose riposte in ordine. È morta poco dopo il ricovero in ospedale. Le ferite da taglio all’addome, superficiali, non sarebbero la causa della morte, c’è il sospetto siano state autoinflitte, lei era in cura psichiatrica, è stata sentita la dottoressa che l’aveva in cura. Un tentativo di violenza sessuale sarebbe smentito dall’assenza di tracce evidenti di stupro, i pantaloni erano abbottonati. Indagano i carabinieri e la Procura di Torre Annunziata guidata da Nunzio Fragliasso.

Class action contro l’ateneo di Angelucci: “Pagata la nuova retta nonostante il Covid”

Le norme del governo per l’allungamento dell’anno accademico non valgono per l’Università Telematica del San Raffaele, l’ateneo privato di proprietà del Gruppo della famiglia del deputato di Forza Italia (e re delle cliniche), Antonio Angelucci. Nel decreto Milleproroghe, infatti, l’esecutivo ha inserito una norma che consente di spostare la fine dell’anno accademico dal 30 marzo al 15 giugno: una sorta di concessione per rimediare ai disagi generati dall’emergenza sanitaria e consentire agli studenti di mettersi in regola con gli esami e per alcuni anche di laurearsi senza figurare come fuori corso. E se molte università hanno eseguito la disposizione, consentendo agli studenti di sostenere esami e laurearsi senza finire fuori corso, al San Raffaele di Angelucci questa possibilità può essere concessa solo agli studenti che hanno sostenuto tutti gli esami entro dicembre 2020.

Per coloro che invece non sono riusciti a sostenerli tutti, anche per cause imputabili al Covid, non c’è niente da fare: dovranno iscriversi all’anno successivo e pagare la retta da 2.500 euro. Un giro d’affari niente male viste le migliaia persone iscritte. La decisione ha scatenato le proteste degli studenti che esasperati dal silenzio dell’ateneo, si sono infine rivolti a un legale. L’avvocato Andrea Barbieri ha infatti inviato una pec al Rettore e al Miur per diffidare l’Università e applicare la norma come avviene nelle altre accademie italiane. La risposta, però, è stata evasiva: l’Università ha chiesto un parere al ministero per capire la corretta applicazione della disposizione. Nel frattempo l’Ateneo ha ben pensato di chiedere il pagamento delle tasse agli studenti nonostante durante l’emergenza sia stato ridotto anche il numero di appelli. Ma questa decisione è solo l’ultima goccia di una situazione che per gli iscritti era già anomala prima dell’emergenza Covid. “Siamo un’università telematica – spiega Luca Chirico, uno dei rappresentanti degli studenti – e avremmo dovuto essere gli unici a non aver difficoltà in questa fase in cui tutto si svolge a distanza. E invece le cose sono peggiorate. La sensazione di molti studenti è che si paghi per avere in cambio disservizi”, dice Luca. Il Fatto ha provato a contattare più volte l’università nel tentativo di avere una versione dei fatti, ma non è stata fornita alcuna risposta.

La legge anticorruzione di Bergoglio: no a dirigenti condannati e prescritti

 

Tolleranza zero per i vertici corrotti della Curia romana, sia cardinali che laici. Papa Francesco ha stabilito, infatti, che i capidicastero e i dirigenti laici della Santa Sede e tutti coloro che hanno funzioni di amministrazione attiva giurisdizionali o di controllo e vigilanza dovranno sottoscrivere, al momento dell’assunzione e poi con cadenza biennale, una dichiarazione anticorruzione. In essa dovranno attestare di non aver riportato condanne definitive, in Vaticano o in altri Stati, di non aver beneficiato di indulto, amnistia o grazia e di non essere stati assolti per prescrizione. Di non essere sottoposti a processi penali pendenti o a indagini per partecipazione a un’organizzazione criminale, corruzione, frode, terrorismo, riciclaggio di proventi di attività criminose, sfruttamento di minori, tratta o sfruttamento di esseri umani, evasione o elusione fiscale.

I superiori vaticani dovranno, inoltre, dichiarare di non detenere, anche per interposta persona, contanti o investimenti o partecipazioni in società e aziende in Paesi inclusi nella lista delle giurisdizioni ad alto rischio di riciclaggio, a meno che i loro consanguinei non siano residenti o domiciliati per comprovate ragioni familiari, di lavoro o studio. Dovranno assicurare, per quanto a loro noto, che tutti i beni, mobili e immobili, di loro proprietà o anche solo detenuti, come pure i compensi di qualunque genere percepiti, hanno provenienza da attività̀ lecite. Significativa anche la richiesta “di non detenere” partecipazioni o “interessenze” in società o aziende che operino con finalità contrarie alla dottrina sociale della Chiesa.

Francesco ha stabilito, inoltre, che la Segreteria per l’economia potrà eseguire controlli sulla veridicità delle affermazioni messe nero su bianco dai dichiaranti, e la Santa Sede, in caso di dichiarazioni false o mendaci, potrà licenziare il dipendente e chiedere i danni eventualmente subiti. C’è, infine, una novità che riguarda tutti i dipendenti della Curia romana, dello Stato della Città del Vaticano e degli enti collegati: il divieto di accettare, in ragione del proprio ufficio, “regali o altre utilità” di valore superiore a 40 euro. “La fedeltà nelle cose di poco conto – ha sottolineato Bergoglio spiegando le ragioni del suo provvedimento – è in rapporto, secondo la Scrittura, con la fedeltà in quelle importanti. Così come l’essere disonesto nelle cose di poco conto, è in relazione con l’essere disonesto anche nelle importanti”.

Una legge che si pone in continuità con le norme sulla trasparenza, il controllo e la concorrenza dei contratti pubblici del Vaticano emanate dal Papa nel 2020. Con quel provvedimento, ha evidenziato Bergoglio, “sono stati posti presidi fondamentali nel contrasto alla corruzione nella materia dei contratti pubblici. La corruzione, però, può manifestarsi in modalità e forme differenti anche in settori diversi da quello degli appalti e per questo le normative e le migliori prassi a livello internazionale prevedono per i soggetti che ricoprono ruoli chiave nel settore pubblico particolari obblighi di trasparenza ai fini della prevenzione e del contrasto, in ogni settore, di conflitti di interessi, di modalità clientelari e della corruzione in genere”.

“Il killer Avola ci propina un b-movie. Cui prodest?”

Onorevole Claudio Fava, ha definito il libro di Michele Santoro Nient’altro che la verità (Marsilio) “uno sputo in faccia a ogni verità”. Non crede a quanto dice il killer Maurizio Avola?

Avola fu già protagonista nel 2008 di un libercolo (Mi chiamo Maurizio, sono un bravo ragazzo, ho ucciso ottanta persone di Roberto Gugliotta e Gianfranco Pensavalli, Fazi, ndr) in cui raccontava l’eccitazione per l’odore del sangue con la stessa ipertrofia dell’ego con cui in questo libro racconta di nuovo i suoi omicidi. S’intestò già in quella circostanza l’omicidio di mio padre Pippo per il quale tre processi hanno indicato come autore materiale, senza ombra di dubbi, Aldo Ercolano. Ora aggiunge la sua presenza operativa sul luogo della strage di via D’Amelio, con grossolani errori però.

Per la Procura di Caltanissetta è inattendibile per alcune incongruenze emerse nei riscontri effettuati. Quale la colpisce in particolare?

Che il 19 luglio 1992 ci fosse in via D’Amelio un signore vestito da poliziotto che passeggiava davanti al portone della casa della madre di Borsellino senza che nessuno si ricordi di lui. Che abbia visto arrivare l’auto del giudice e quelle della scorta con sirene spiegate, ma Borsellino quel giorno si muoveva con le sirene spente. Che abbia scambiato l’ultimo sguardo con Borsellino sul marciapiede, prima di dare il segnale per fa esplodere l’autobomba: una roba da b-movie. Insomma Maurizio Avola, non pago di averci già raccontato con tutti i miserabili dettagli come scannava i cristiani, ora ci propina tutto questo. Cui prodest?

E poi riferisce del coinvolgimento di Aldo Ercolano, numero 2 dei Santapaola, nel commando di via D’Amelio, con Messina Denaro e i Graviano…

Ercolano in giacca e cravatta nel garage dove veniva riempita di tritolo la 126, scambiato da Spatuzza per uno dei servizi… Il racconto di Avola, così raffazzonato, ricorda quello del falso pentito Vincenzo Scarantino che entra per prendersi una bottiglia di acqua minerale nella stanza di un summit della cupola di Cosa nostra, proprio mentre Totò Riina ordina di ammazzare Borsellino. Un b-movie, appunto.

Il bluff Scarantino fu poi smontato dal pentito Gaspare Spatuzza.

Ho sentito dire a Santoro che Spatuzza non era un uomo d’onore, mentre Avola sì. E con questo? Quello che sa Avola è solo quello che veniva comunicato a un killer della famiglia Santapaola, punto. Quel che sa Spatuzza è quello che sa un personaggio dalla caratura criminale consolidata e accertata, con rapporti diretti con i boss di primo piano di Cosa nostra.

Eppure Santoro, che non è un giornalista sprovveduto, sostiene come Avola distrugga le dietrologie sul 19 luglio e che sia ora di superare i teoremi.

In tutti questi anni su via D’Amelio non ho incontrato dietrologie, ma piuttosto tentativi, purtroppo anche riusciti, di depistare le indagini e di coprire mandanti ed esecutori. Nella sua confusa ricostruzione, Avola riduce tutto a un tranquillizzante western tra buoni e cattivi che hanno facce stolide dei Corleonesi. Le preoccupazioni che Borsellino aveva maturato negli ultimi giorni della sua vita su collusioni istituzionali fin dentro il palazzo di giustizia diventano “dietrologia”, così le “menti raffinatissime” a cui faceva riferimento Giovanni Falcone. O pensiamo davvero che la mente raffinatissima fosse solo quella di Riina?

Invece?

Invece è tutt’altro che dietrologia il modo in cui il Sisde, operando contra legem, avesse assunto la titolarità dell’indagine su via D’Amelio, solo per dirne una. Nessuna dietrologia nella catena accertata di responsabilità dolose, colpose e omissive che hanno permesso e protetto quel depistaggio, a Caltanissetta, a Palermo e a Roma. Questo non significa, come dice Santoro, immaginare la presenza del solito “grande vecchio”, il burattinaio, il puparo… Vuol dire farsi carico di un contesto criminale in cui non c’era solo Cosa nostra. Il processo sul depistaggio in corso a Caltanissetta, con i suoi tre funzionari di polizia imputati, è una risposta parziale perché indaga su un segmento molto ristretto della vicenda. Credo di poter dire, anche dopo due anni di lavoro in commissione siciliana Antimafia su questo depistaggio, che il filo delle responsabilità chiama in causa tutti i livelli istituzionali in una collezione imbarazzante di scorciatoie investigative, forzature giudiziarie e omissioni processuali.

Faccia un esempio.

Abbiamo audito Gaetano Murana, condannato ingiustamente (e poi scagionato) per via D’Amelio. Nei tre anni a Pianosa, ha affermato, avrebbe subito ogni tipo di prevaricazione fisica e di pressione. Un giorno si sono presentati a Pianosa alcuni pm di Caltanissetta diretta da Giovanni Tinebra per chiedere a Murana di controfirmare la delirante deposizione di Scarantino: una firma e tutto si sarebbe risolto.

Sull’omicidio di Pippo Fava cosa non la convince?

Tutto. La redazione de I Siciliani era in uno scantinato, non al primo piano. Per trovare l’indirizzo, bastava leggerlo sul giornale. La Renault 5 che guidava mio padre era mia, gliel’avevo prestata perché la sua era dal meccanico e, a differenza di quanto dice Avola, non aveva alcun fanalino rotto.

Amara, né oracolo né mitomane. Le procure a caccia tra vero e falso

La partita – l’intera partita – è molto più delicata di quanto possa apparire. Quella della Procura di Roma, avviata prima da Milano e Perugia (guidate da Francesco Greco e Raffaele Cantone) non è infatti una banale inchiesta su una fuga di notizie riservate e sulla circolazione di verbali d’interrogatorio secretati. A renderla incandescente sono almeno due fattori. Il primo è l’uomo che nei verbali viene interrogato: Piero Amara, ex legale esterno dell’Eni, che ha già patteggiato una pena per corruzione in atti giudiziari ed è legato a torbide vicende di depistaggi. Il secondo è il contenuto stesso dei verbali, nei quali tratteggia una nuova loggia P2, denominata “Ungheria”, che vanterebbe tra i suoi affiliati personaggi altissimi delle istituzioni, del Vaticano e – quel che più conta – moltissimi magistrati. Se Amara fosse pienamente attendibile le sue dichiarazioni svelerebbero uno scandalo epocale. E la fuga di notizie potrebbe essere coerente e funzionale a un sistema deviato che tenta di proteggersi distruggendo l’indagine in corso. C’è uno scenario intermedio, una classica ipotesi di scuola: qualcuno ritiene che la Procura di Milano, che sta interrogando Amara, dovrebbe andare più a fondo e spera che la circolazione dei verbali disinneschi l’eventuale insabbiamento dell’indagine. Terza ipotesi: se Amara fosse totalmente inaffidabile, quei verbali diventerebbero carta straccia che incarta polpette avvelenate. E nulla, ma assolutamente nulla, di quanto ha detto, avrebbe più valore. E la fuga di notizie potrebbe essere funzionale a sancire la sua totale inaffidabilità. Ma per quale scopo?

In attesa che i magistrati scoprano quale di questi (o altri scenari) si celi dietro la circolazione dei verbali di Amara, manteniamo un punto fermo che pare acquisito in tutte le procure – sono cinque – che stanno lavorando sulla base delle sue testimonianze. Amara è attendibile su una parte delle sue dichiarazioni. Molte altre non sono riscontrate. La partita è quindi molto delicata per il seguente motivo: Amara, secondo gran parte degli investigatori, va preso per quello che è, dice fatti verificabili e altri non riscontrabili, ma non va giudicato completamente inattendibile. Forse non è una “loggia” ma un gruppo di potere. Gli appartenenti al gruppo saranno forse 10 e non 100. Alcuni magistrati sono coinvolti e altri invece no. E non si tratta di quisquilie. Non è necessario essere 100 per condizionare le istituzioni. Anche in dieci, senza grembiulini e ideali massonici, ma in virtù di uno “scambio di favori”, si può condizionare un’istituzione dello Stato. Ed è altrettanto grave. Facciamo un altro esempio: la Procura di Perugia ritiene attendibile Amara nelle dichiarazioni su Luca Palamara e, infatti, intende portare l’ex segretario dell’Anm a processo con l’accusa di corruzione. Se da oggi Amara fosse considerato totalmente inaffidabile, se l’intera informazione gli fornisse la patente del bugiardo a tempo pieno, l’accusa nei confronti di Palamara risulterebbe fortemente ridimensionata. Non è poco, per l’inchiesta che ha terremotato l’intera magistratura italiana.

Ma rovesciamo la medaglia: Amara sa che le sue dichiarazioni possono essere utili alla Procura di Perugia e quindi si rende disponibile ad aiutare i magistrati. Come? Inserisce la vicenda Palamara in un interrogatorio, reso dinanzi alla Procura di Milano che, a sua volta, deve trasmetterlo ai colleghi di Perugia, i quali lo convocano, lo interrogano, mettono nero su bianco quello che dice e puntellano l’inchiesta con le sue dichiarazioni. Amara può creare così una catena che potrebbe diventare infinita. E in parte lo ha già fatto. Il più grande errore che si possa fare, quindi, è dipingere Amara come un mentitore assoluto. È un errore grave dipingerlo come la bocca della verità. Bisogna riscontrare ogni dichiarazione. Buttare nel cestino ogni fatto non provato. E valutare la gravità di ogni rivelazione riscontrabile. Amara ha già inventato, a Siracusa, un’intera indagine destinata a depistare la Procura di Milano che indagava su Eni. Ha già corrotto magistrati per aggiustare sentenze. E non è detto che l’abbia fatto per se stesso: chi c’è dietro di lui? Se Amara sarà considerato un “fanfarone mitomane” non lo sapremo mai. E saperlo, invece, è importante.