Dossier al Csm: Davigo avvertì il Quirinale, come i pm della P2

Il Quirinale nell’autunno 2020 è stato avvertito della circolazione dei verbali secretati della procura di Milano che parlavano della loggia massonica Ungheria in pieno stile P2. Ad avvertire il presidente Sergio Mattarella è stato Piercamillo Davigo. Una scena che per certi versi ricorda la scelta fatta dai giudici istruttori milanesi Gherardo Colombo e Giuliano Turone quando s’imbatterono negli elenchi della P2. Il punto è che, nel caso della P2, Turone e Colombo erano i magistrati che indagavano, mentre Davigo ha ricevuto verbali secretati usciti illecitamente dalla procura di Milano. Non sappiamo in che modo Davigo li abbia ricevuti. Il Fatto è però in grado di rivelare che della loro esistenza, circolazione e delicatezza del loro contenuto, Davigo mise al corrente il Mattarella. Un dato ancor più interessante per un altro motivo: il secondo anonimo inviato al Fatto – che decise di non pubblicare il contenuto dei verbali per non danneggiare l’indagine, non rendersi strumento di manovre torbide, e denunciare il tutto alla procura di Milano – è accompagnato da una lettera nella quale si sostiene che della vicenda era al corrente anche Stefano Erbani, consigliere giuridico di Mattarella.

Chi ha fatto circolare i verbali in questione poteva quindi sapere che Davigo aveva allertato il Quirinale. Il Fatto ieri ha rivelato che la Guardia di Finanza, su delega della procura di Roma, nei giorni scorsi ha perquisito Marcella Contrafatto, la funzionaria che fino all’ottobre del 2020 ha lavorato al Csm proprio Davigo. I verbali riguardano gli interrogatori resi da Piero Amara, ex legale esterno dell’Eni, coinvolto in più indagini che ha già patteggiato una condanna per corruzione in atti giudiziari. Amara ha parlato dell’esistenza di una loggia massonica, denominata “Ungheria”, sulla quale la Procura di Milano da circa due anni sta svolgendo accertamenti per verificare l’attendibilità delle sue dichiarazioni. Tra i presunti affiliati vi sarebbero alti magistrati e vertici di istituzioni – su questo l’attendibilità di Amara pare scarsa – e il condizionamento del Csm.

Ieri le procure di Milano e Perugia, guidate Francesco Greco e Raffaele Cantone, hanno comunicato di aver “congiuntamente trasmesso gli atti” sulla fuga di notizie “alla Procura di Roma con riferimento al luogo di consumazione del reato di rivelazione e utilizzazione di segreti di ufficio”. Greco e Cantone hanno spiegato che indagini “hanno permesso, con sicurezza anche documentale, di ricostruire compiutamente i fatti riguardanti le modalità con le quali alcuni verbali apocrifi (in formato Word), relativi ad attività secretata, sono entrati nella disponibilità di due testate giornalistiche, rispettivamente nell’ottobre 2020 e nel febbraio 2021”. I verbali secretati sono stati inviati per posta anche al consigliere del Csm Nino Di Matteo che, a sua volta, ne ha denunciato l’esistenza alla Procura di Perugia e ha dichiarato al Csm di temere che la loro circolazione sia legata a un “tentativo di condizionamento”.

Banchi a rotelle a Padova: la Corte dei Conti indaga sulla Provincia

“Be’, se mi hanno querelato per uno studio scientifico…”. Andrea Crisanti, microbiologo, docente all’Università di Padova, commenta così la notizia dell’iniziativa presa dalla Regione Veneto. Lo scontro con i vertici della sanità veneta è arrivato alla resa dei conti visto che il direttore generale di Azienda Zero, Roberto Toniolo, ha presentato una denuncia per diffamazione. “Si tratta di una segnalazione, volevamo solo mettere a conoscenza la Procura di alcuni fatti” ha spiegato Toniolo. La fiammata è venuta dopo le nuove polemiche sulle critiche di Crisanti all’uso su vasta scala dei test rapidi di prima e seconda generazione, che secondo lo studioso non sarebbero affidabili nel 30% dei casi. Su queste evidenze scientifiche la Procura di Padova ha aperto un’indagine per frode in pubbliche forniture. Che da Venezia potesse arrivare qualche iniziativa contro Crisanti lo si è capito quando Luciano Flor, dg della sanità, aveva dichiarato: “Sono state dette bugie e falsità. Ci saranno conseguenze”. Zaia aveva però escluso iniziative nei confronti di giornali o di Report che aveva mandato in onda un servizio sui morti per Covid in Veneto. Mentre lo scontro è diventato anche politico, con le opposizioni che chiedono a Zaia di andare in consiglio regionale a chiarite tanti punti oscuri, scoppia la grana dei banchi con le rotelle. La Corte dei Conti ha notificato alla Provincia di Padova un decreto in relazione al mancato utilizzo di banchi pagati 212 mila euro. Il presidente Fabio Bui aveva criticato la scelta presa dalla ministra Azzolina e così i banchi erano finiti in un magazzino. La parlamentare 5S Francesca Businarolo aveva scritto un esposto ai giudici contabili per verificare se vi fu uno spreco di risorse pubbliche.

Il Lazio accusa: arrivi dall’India fuori controllo

“L’Usmaf è fermo. Il governo è disorganizzato. Ci sono solo i nostri in prima linea. Con Speranza ci siamo scambiati dei messaggi, dice che interverrà, ma ormai ogni provvedimento è tardivo”. Alessio D’Amato allarga le braccia. I medici delle Asl romane inviati all’aeroporto di Fiumicino sono come i trecento spartani al cospetto dell’invasione indiana. E la temuta variante, quella che in parte resiste ai vaccini attuali, potrebbe essere già a Roma e dintorni. “Stiamo monitorando solo chi entra con volo diretto – dice l’assessore alla Sanità del Lazio al Fatto – ma ne arrivano almeno il doppio attraverso gli scali. Poi se ne vanno a Latina, senza fare un minuto di quarantena, e si rendono irreperibili. Ora mi toccherà istituire la zona rossa in tutta la provincia”.

Il 10 per cento delle 223 persone presenti a bordo del volo arrivato mercoledì sera da New Delhi era positivo. Fra poche ore, dall’Istituto Spallanzani arriverà il responso su quanti avevano addosso la nuova variante del virus. Ma il tracciamento ormai è sfuggito di mano. “Esiste l’Usmaf, l’ufficio di sanità marittima, aerea e di frontiera, un organismo del ministero della Salute, che però non si sa che cosa faccia – attacca D’Amato – Forse stanno in smart working, perché a Fiumicino ci sono solo i nostri”. E ancora: “I passeggeri che arrivano dall’India con volo diretto sono solo una parte minoritaria. In maggioranza entrano attraverso gli scali europei, ma in quel caso non siamo in grado di intercettarli. Siamo un Paese che non ha previsto la quarantena per queste persone, molte ormai irreperibili”.

L’anno scorso a Roma si verificò una situazione simile con i lavoratori stagionali in arrivo dal Bangladesh, ma in quel caso la collaborazione con i rappresentanti della comunità aveva permesso un tracciamento capillare. Questa volta è molto diverso: gli indiani arrivano, si “nascondono” nei sick abusivi delle campagne pontine e non si fanno più trovare. Una lettura socio-politica che secondo D’Amato è mancata completamente. “Il ministro Speranza mi dice che ora vuole bloccare i voli dall’India, ma non dà una risposta sugli scali. L’intento è far rientrare solo gli italiani. Per qualunque provvedimento ormai è tardi: temo che i buoi siano già scappati”. Il ministro della Salute, Roberto Speranza, intanto, ha firmato un’ordinanza in cui si estendono le misure di divieto di ingresso, già previste per India e Bangladesh, anche allo Sri Lanka. Il rientro da questi Paesi sarà consentito solo a chi ha cittadinanza italiana.

Atteso per oggi, il monitoraggio settimanale dell’Iss. Dalla cabina di regia non dovrebbero arrivare grosse novità: Calabria, Sicilia, Basilicata e Sardegna in arancione, Val d’Aosta in bilico tra arancione e rosso, Puglia verso il giallo, Campania a rischio arancione. A livello nazionale l’indice Rt e il tasso di incidenza sono in discesa, ma il calo è ancora lento. Ieri 14.320 nuovi casi e 288 morti. Tasso di positività sul totale dei tamponi effettuati al 4,3%, 12,3% se calcolato sul numero dei soggetti testati. Diminuiscono i posti letto occupati nei reparti Covid (-509, 19.351 ricoverati) e le terapie intensive (-71, 2.640 persone in rianimazione).

Commissione Covid, la pallottola spuntata di Salvini il lombardo

Il terrore corre nelle chat dei parlamentari leghisti, soprattutto quelli lombardi che hanno vissuto sulla propria pelle i drammi del Covid, ma conoscono anche i disastri della giunta Fontana sulla pandemia: “Ma hai visto cosa c’è scritto nella proposta?” è la frase più ricorrente da mercoledì pomeriggio. Ovvero da quando il “centrodestra di governo” (Lega, Forza Italia, Udc e Cambiamo!) ha deciso di votare contro la mozione di sfiducia di Fratelli d’Italia nei confronti di Roberto Speranza ma ha lanciato, appoggiato dai renziani, una proposta di legge per istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sulla pandemia. Un modo per mettere nel mirino il ministro della Salute e il governo Conte-2 sulla gestione del Covid che però, se istituita, potrebbe trasformarsi in un gigantesco boomerang nei confronti della Lega. Il timore che serpeggia tra i parlamentari del Carroccio è che a finire in croce non sarà poi tanto il governo giallorosa ma la gestione di alcune regioni del Nord che come noto hanno la competenza in materia sanitaria, a partire dalla Lombardia passando per Veneto, Liguria e Piemonte che non hanno certo brillato nell’ultimo anno.

E allora il commento di un senatore di lunga data nel Carroccio è eloquente: “Speriamo che la commissione sia solo una minaccia – sospira – altrimenti rischia di diventare un bagno di sangue”. Sì, perché i parlamentari leghisti si sono accorti che nella proposta della commissione d’inchiesta ci sono anche diversi riferimenti alla gestione del Covid in Lombardia. Un autogol totale. Nelle premesse, quando si parla del mancato aggiornamento del piano pandemico, i proponenti fanno riferimento anche all’inchiesta della Procura di Bergamo “sulla gestione dell’epidemia di Covid nella Bergamasca, che comprende la mancata istituzione della zona rossa, l’anomala chiusura e riapertura del pronto soccorso di Alzano Lombardo e i molti morti nelle Rsa”. Tutti elementi che chiamano in causa in minima parte il governo Conte (solo per la mancata zona rossa) ma soprattutto la giunta e l’assessorato alla Sanità lombardo sia sulla mancata chiusura della Val Seriana ma anche sulla riapertura del pronto soccorso di Alzano e la gestione delle Rsa con la tristemente nota delibera dell’8 marzo 2020 in cui si invitavano le Ats a trasferire i malati positivi non gravi nelle Rsa. Ma nel testo c’è anche un altro passaggio che rischia di creare grossi imbarazzi nella Lega. Oltre alla richiesta di fare luce sul piano pandemico, sulle conseguenze del suo mancato aggiornamento, sul dossier dei ricercatori Oms di Venezia critico nei confronti dell’Italia, si chiede di “accertare se, nell’ipotesi in cui si fosse attivato un effettivo monitoraggio, sarebbe stato possibile individuare eventuali picchi anomali di infezioni respiratorie dentro ai pronto soccorso e agli ospedali lombardi e dunque prevenire l’epidemia”.

Nella Lega temono anche che questa commissione di venti deputati e venti senatori venga sfruttata dagli alleati di FdI per mettere in difficoltà i governatori leghisti. Tant’è che Giorgia Meloni ha subito sposato l’iniziativa ed è noto che FdI in Lombardia abbia spesso preso le distanze dalla gestione del Covid della coppia Fontana-Bertolaso negli ultimi mesi. Epperò il rischio che la commissione d’inchiesta possa chiamare in causa anche governatori di FdI – come l’abruzzese Marco Marsilio – ha portato i meloniani a scrivere una proposta di legge, già depositata alla Camera a prima firma Meloni, molto più circoscritta e diretta a individuare le responsabilità del Ministero della Salute e dell’Oms sul mancato aggiornamento del piano pandemico. Che il rischio di politicizzare la commissione ci sia lo dice anche il senatore di Cambiamo! Gaetano Quagliariello: “La commissione dovrà studiare cosa è successo come in Francia – spiega – ma se diventa una gogna non va bene”. Anche Pd e M5S, che dovranno dare i propri voti per istituirla, sono convinti che la commissione possa diventare un boomerang per il centrodestra: “È chiaro che il primo tema che noi chiederemo sarà fare luce su quello che è successo in Lombardia”, dice il senatore lombardo dem Antonio Misiani.

Vaccini, lontana quota 500mila. Italia indietro nella fascia 60-79

il commissario straordinario Francesco Paolo Figliuolo aveva previsto di superare la soglia delle 500 mila vaccinazioni al giorno entro la giornata del 29 aprile. Obiettivo che sembra, almeno per ora, mancato. Alle 17 e 35 di ieri le somministrazioni erano ferme a quota 160.187. E anche se c’erano ancora ore a disposizione per raggiungere almeno le oltre 376.762 inoculazioni di mercoledì, i numeri sono ancora lontani dal target fissato. “È necessario attendere il consolidamento dei dati”, avvertono però dallo staff del generale Figliuolo che ieri sera in tv ribadiva che l’obiettivo era vicino. Le variabili in gioco sono tante, ci sono grandi hub vaccinali che restano aperti fino a mezzanotte.

E va considerato che in molte regioni anche farmacisti e medici di famiglia sono già coinvolti nelle vaccinazioni: solo che gli aggiornamenti, in questo caso, possono arrivare anche a giorni di distanza”.

L’Italia appare comunque indietro anche nel confronto con gli altri Paesi europei. Lo è, in base alle elaborazioni di Agenas aggiornate alle 13:40 di ieri, per quanto riguarda il totale delle somministrazioni da quando, il 27 dicembre dello scorso anno, è partita la campagna vaccinale.

Con la Germania che corre (oltre 26,6 milioni di inoculazioni) e la Francia che la segue a ruota (quasi 20,5 milioni). Mentre l’Italia, al terzo posto, si fermava sempre alla stessa ora a quasi 18,9 milioni. Molti passi indietro anche per la copertura della fascia d’età tra i 60 e i 79 anni (ieri erano quasi a 3,7 milioni): si colloca, infatti, al quart’ultimo posto in Europa, come dimostra il monitoraggio di mercoledì (ore 6:10) della Fondazione Gimbe. In pratica solo il 22,5% delle persone tra i 60 e i 69 anni ha ricevuto almeno una dose (14 altri Paesi hanno già superato il 40%) mentre nella fascia d’età 70-79 la prima somministrazione ha riguardato il 50%, contro il 60% di altri 19 Paesi.

È vero che il numero delle dosi settimanali continua ad aumentare, con un balzo del 10,7% negli ultimi sette giorni. Ma parliamo di un incremento, avverte la fondazione, che procede a un ritmo ancora insufficiente rispetto agli obiettivi fissati. In fondo non molto è cambiato rispetto alla gestione del precedente commissario straordinario, Domenico Arcuri. Non fu un fallimento allora e non lo è adesso, come dimostrano ancora una volta i numeri. Mercoledì (escludendo il Regno Unito che è partito prima con la campagna vaccinale) l’Italia era al terzo posto in Europa per numero di dosi somministrate ogni 100 abitanti (31,24), dopo Spagna e Germania. Era al terzo posto anche il 1° marzo (7,48). La posizione non cambia, rispetto a due mesi fa, se si considera la percentuale della popolazione che ha ricevuto almeno una dose: 22,09%, sempre dietro a Spagna e a Germania.

Siamo invece leggermente avanti rispetto agli altri (sempre escludendo il Regno Unito) se si fa riferimento a chi ha completato il ciclo vaccinale, con il 9,21% (la Spagna, al secondo posto, è all’8,91%). Certo, pesano i ritardi delle forniture dei vaccini, soprattutto del siero sviluppato dalla casa anglo-svedese AstraZeneca.

Ieri al centro nazionale di smistamento dell’aeroporto militare di Pratica di Mare erano attese 2,5 milioni di dosi – dopo le 2,2 di Pfizer distribuite mercoledì alle regioni –, delle quali oltre due di Vaxzevria (AstraZeneca) e le altre di Moderna (270 mila) e di Johnson&Johnson (160 mila). Rifornimenti che ora dovrebbero dare una forte impennata alla campagna. Resta il fatto che delle oltre 76 milioni di dosi previste nel primo semestre dell’anno, comprese anche quelle del vaccino tedesco CureVac (non ancora approvato dall’Ema), l’altroieri ne erano state consegnate qualcosa meno del 30%.

Un quadro nel quale ancora una volta ci sono Regioni che corrono e altre che rincorrono. Spicca il caso della Lombardia, che dal 23 al 27 aprile, per quattro giorni, ha superato il tetto di somministrazioni indicato da Figliuolo. L’altroieri ha totalizzato quasi 93 mila dosi, ieri ne ha previste 115 mila. Con il rischio di rimanere a secco di scorte. Un caso analogo a quello di Basilicata e Valle d’Aosta.

La soluzione politica

Non so voi, ma io trovo lunare l’alato dibattito che s’è alzato alla notizia che finalmente la Francia ha arrestato alcuni nostri terroristi dopo averli protetti per decenni. Chi dice che oggi non sono più gli stessi di allora, chi rimpiange la “dottrina Mitterrand”, chi sostiene che catturarli è vendetta e non giustizia, chi invoca la pacificazione, la fine della guerra, la soluzione politica, chi tira in ballo la “riconciliazione” in Sudafrica, chi chiede “la verità” e propone liberazioni in cambio di confessioni. Ora, la verità su quei 12 assassini è scritta nelle sentenze definitive della Cassazione “in nome del popolo italiano”: basta leggerle. Chi vuole aggiungere qualcosa vada dal giudice e lo faccia, ma senza altri sconti oltre a quelli previsti dal Codice: Battisti ha sempre negato qualunque delitto e poi, appena arrestato ed estradato ha confessato tutto. Dalla cella. “Vendetta” è quando la vittima rende pan per focaccia al colpevole; quando il colpevole viene processato secondo le norme e le garanzie dello Stato di diritto, si chiama “giustizia”. La dottrina Mitterrand c’entra come i cavoli a merenda: per quanto assurda, prevedeva l’asilo a chi non si fosse macchiato di delitti di sangue e non avesse condanne definitive (oltre a rinnegare la lotta armata): due condizioni opposte a quelle dei 12 beccati o fuggiti l’altroieri. Dire che arrestarli oggi non ha senso perché sono cambiati è il classico nonsense. Ovvio che sono cambiati: nessuno resta uguale per 30 anni. Ma, se non fossero fuggiti 20 o 30 o 40 anni fa, avrebbero già scontato la pena e sarebbero fuori, visto il concetto elastico di “certezza della pena” vigente in Italia. È proprio perché a suo tempo si sottrassero alla giustizia e al carcere che finiscono dentro solo ora: colpa loro e di nessun altro.

Comodo darsi alla latitanza, fare la bella vita protetti dai governi e dagli “intellettuali” amici, raccontare balle su libri e giornali, e poi, quando finalmente arriva il redde rationem, strillare “non siamo più quelli di una volta”. Che cos’è, un macabro scherzo? Negli anni 70 in Italia, diversamente dal Sudafrica, non ci fu alcuna “guerra civile”: c’erano terroristi rossi e neri (a volte coperti o infiltrati da apparati deviati dello Stato) che ammazzavano a sangue freddo politici, magistrati, forze dell’ordine, giornalisti, sindacalisti, operai, gente comune. Chi dovrebbe pacificarsi con loro: i morti ammazzati? Gli orfani e le vedove? Il perdono è una scelta individuale: chi vuole lo dà, chi non vuole non lo dà. Ma lo Stato non deve pacificarsi con nessuno perché non ha dichiarato guerra a nessuno. Furono i terroristi a dichiararla unilateralmente allo Stato e ai suoi servitori. L’unica soluzione politica è chiudere bene a chiave le celle, perché non scappino un’altra volta.

“Al vernissage con Gor’kij Majakovskij fa il cavallo sbronzo e sbraitante: è un giullare come Lenin”

Presi parte all’ennesima, solenne celebrazione in onore della Finlandia – il banchetto organizzato dopo il vernissage. E, Dio mio, che omerica porcheria si rivelò quel banchetto! Si era radunato il “fiore dell’intelligencija russa” – celebri pittori, artisti, scrittori, personalità pubbliche, nuovi ministri e persino un alto rappresentante straniero. Ma a trionfare su tutti loro fu il “poeta” Majakovskij. Io sedevo in compagnia di Gor’kij e del pittore finlandese Gallen. Per prima cosa Majakovskij, senza che lo avessimo invitato, si avvicinò, infilò una sedia tra di noi e si mise a mangiare dai nostri piatti e a bere dai nostri calici. Gallen lo fissò con tanto d’occhi, nello stesso modo in cui avrebbe probabilmente guardato un cavallo che fosse stato introdotto nella sala. Gor’kij proruppe in una rumorosa risata. Io mi scostai. Cosa che non sfuggì a Majakovskij.

– Mi odiate tanto? – mi chiese allegramente. Senza alcun imbarazzo risposi di no: gli avrei fatto un onore troppo grande. Lui aveva già spalancato la bocca larga come un trogolo per domandare ancora qualcosa, ma in quel momento il ministro degli esteri Miljukov si era alzato per il brindisi ufficiale, e Majakovskij si precipitò verso di lui, al centro della tavola. Quindi balzò su una sedia e cominciò a berciare in un modo così osceno che il ministro rimase di stucco. Dopo un secondo, ripresosi, questi proclamò di nuovo: “Signori!”. Ma Majakovskij sbraitò più forte di prima. E il ministro, dopo l’ennesimo, vano tentativo, allargò le braccia e si abbandonò sulla sedia. Subito ecco allora alzarsi l’ambasciatore francese. Evidentemente era sicuro che al suo cospetto quel teppista russo si sarebbe confuso. Ma niente affatto! Majakovskij in un attimo ne sovrastò la voce con un ruggito ancora più tonante. Ma questo è niente: tutta la sala fu all’improvviso colta da una frenesia selvaggia e insensata: contagiati da Majakovskij, di punto in bianco tutti cominciarono a strillare, presero a picchiare con gli stivali sul pavimento, a battere i pugni sul tavolo, e si misero a ridere sguaiatamente, a ululare, a squittire, a grugnire e addirittura a spegnere le luci. E di colpo il tragico lamento di un pittore finlandese simile a un tricheco rasato coprì tutto. Lui, già ubriaco e con un viso dal pallore mortale, iniziò a gridare: “È troppo! Troppoo! Troppoo! Troppoo!”…

Lenin e Majakovskij (che già al ginnasio avevano profeticamente soprannominato Idiot Polifemovi) erano entrambi piuttosto voraci e assai dotati con il loro unico occhio. Sia l’uno sia l’altro, per un certo tempo, erano parsi a tutti semplici giullari di piazza.

“Da piccola ero sempre ultima. Le liti ad ‘Amici’? Sono vere”

“Finivo sempre in fondo alla classifica”.

Arisa, non le credo.

È così. Il mio debutto fu al concorso Piccoli Fans, a Pignola, in Basilicata. Cantai Fatti mandare dalla mamma. Avevo tre anni e mezzo. Le cuginette, per consolarmi, mi regalavano bamboline.

Si è rifatta con gli interessi.

Non mi prendo mai sul serio, quando scrivo o canto ho le mie insicurezze. Ma non voglio rifugiarmi in una comfort zone, come fanno tanti per vanità. Io sono questa, la musica è la mia vocazione, se ho un dono è giusto che lo condivida. Quel che ne esce, esce. Sperimento, e sto superando il mio pudore atavico nel comporre e proporre. Niente più paletti.

Si è messa in proprio per questo nuovo brano, ‘Ortica’…

Ha due versioni. Due facce. Una più luminosa, splendente. L’altra, scura, esce dopodomani, un ‘sensual mix’ prodotto da Jason Rooney, ad alto tasso erotico. Ho registrato uno speciale per una radio e i miei due cani, lì accanto, copulavano.

Ha paragonato l’ortica all’organo sessuale femminile.

La forma la ricorda, no? E parlando della pianta, è repellente. Non è come avvicinarsi a una margherita. Quando ero bambina con la famiglia andavamo in montagna. Un giorno d’agosto caddi in un cespuglio di ortiche. Mamma mi fece passare il prurito bagnandomi le guance con il vino. Ancora ricordo quell’odore pungente.

Sì, ma…

Con questo pezzo volevo parlare del momento inaccettabile della fine di un amore. Di quando una donna viene trattata come un’ortica. Le storie che cambiano in un istante. Prima ero tutta la tua vita e adesso non mi tocchi più? In alcuni contesti tradizionali, soprattutto al Sud, certi rapporti sono ancora così. La donna non è invulnerabile, ma ancestralmente destinata alla sofferenza, e deve essere pronta al perdono, una volta respinta. Questa è la sua vera forza.

È una canzone autobiografica?

Noi donne siamo ormai risolte, ma l’eco di un dolore antico ci risuona dentro, purtroppo. Se è una cosa che ho provato? Sì, ma è un puzzle in cui rivedo anche tante altre. Amiche. Mia madre.

Però ora le cose in amore vanno bene, giusto? C’era stato caos dopo una sua intervista dalla Venier, con tanto di matrimonio annullato.

Sì, sì. Il mio fidanzato Andrea è molto generoso con me. Oggi mi ha comprato biscotti al cioccolato. È aperto anche a una ipotesi di mia maternità.

L’orologio biologico corre?

Ho quasi 39 anni. Questo è il Dna femminile, anche se non è un dovere fare figli. Vedremo.

Torniamo a ‘Ortica’. Base urban pop, testo in napoletano.

Napoletano, ma non solo. Il paese d’origine dei miei, Avigliano, era un possedimento borbonico nel Potentino. Molte parole sono le stesse. Quella lingua è sottile, in ogni sillaba c’è passione.

In italiano o in dialetto lei non la manda mai a dire. Che scontri con Rudy Zerbi ad “Amici”.

Ma non è un massacro, ci stimiamo, c’è affetto. Nulla di preparato.

Sui social è diventata una paladina del body positivity.

La bellezza è data dall’unicità, non dalla perfezione. E io mi sento orgogliosamente femmina. Detto questo, sono stata innamorata di uomini in forma così come di quelli con 20 kg di troppo. Invece noi donne siamo finite in una gabbia. Ho grasso sull’interno coscia? E allora? E se guardo i post di una modella, non devo invidiarla, ma capire cosa fare per star bene. La bellezza è salute, allenamento. Quando seguo gli esercizi di una bellona la vedo come una collaborazione, non come una sfida.

L’ultimo Sanremo?

Non guardavo le sedie vuote al di là dell’orchestra, altrimenti mi venivano le vertigini. La pandemia ci ha resi più forti, il tempo ci guarirà. Questo è l’anno zero della musica. Non si potranno organizzare i grandi concerti negli stadi, ma l’estate scorsa ho fatto serate per meno di mille spettatori. Non ho soluzioni, ma ce la faremo.

Le mancano i lunghi viaggi nelle auto condivise con gli sconosciuti? Le Bla Bla Car?

Oggi sarebbe più difficile. Sono una signora di quasi quarant’anni. E ingombrante. Mi sposto con i cani. Le borse delle creme. Sto crescendo. Credo.

Maledetta rivoluzione Rossa

Salpando a Odessa sul piroscafo “Sparta” con la moglie Vera, il futuro premio Nobel per la Letteratura Ivan Bunin capisce di aver chiuso per sempre con la Russia. Il piroscafo francese è piccolo, stracarico di profughi e lo scrittore dubita persino di riuscire ad attraversare il Mar Nero d’inverno. È il 24 gennaio 1920, le sorti della guerra civile sono segnate.

Bunin considera la rivoluzione una sciagura irreversibile e non si fa illusioni: “Di colpo mi sono svegliato, di colpo mi sono reso conto: sì – ecco è così – sono nel Mar Nero, sono su una nave straniera, per qualche motivo sto navigando verso Costantinopoli, con la Russia è finita, e anche è finita tutta la mia vita precedente, anche se accade un miracolo e noi non affondiamo in questo abisso malvagio e ghiacciato!”.

Lo “Sparta” perde la rotta, ma in qualche modo arriverà a destinazione scaricando in vari porti europei il carico di relitti umani della Russia imperiale. Per Bunin si apre l’orizzonte di una vita da esule tra l’appartamento di rue Offenbach a Parigi e la villa di Grasse. Per dire le cose dalla prospettiva del tempo postumo: l’esistenza dello scrittore viene spezzata esattamente in due. Il destino lo ha fatto nascere lo stesso anno di Lenin (1870) e morire nello stesso anno di Stalin (1953), sia pure qualche mese dopo. A tagliare in mezzo la vita ci sono gli Okajannye dni, i Giorni maledetti, come definisce il periodo dell’ascesa al potere dei bolscevichi in contrapposizione al viaggio di nozze: “In quei giorni benedetti, quando il sole della mia vita stava a mezzogiorno, nel fiore della forza e della speranza, mano nella mano…”.

Giorni maledetti è il titolo del diario che Bunin tiene dal gennaio 1918 a quando mette piede sul piroscafo. Nonostante la descrizione spietata della rivoluzione lo scrittore – il primo premio Nobel russo – verrà riabilitato da Chrušcëv negli anni del disgelo. La sua opera compare in cinque tomi nelle librerie sovietiche, ma il veto per Giorni maledetti non verrà mai tolto fino alla fine dell’Urss. In Italia finalmente lo pubblica Voland con la traduzione di Marta Zucchelli. Si può parlare di ritorno di fiamma buniniano: Adelphi ha pubblicato nel 2020 la raccolta di racconti Il signore di San Fancisco e nel 2015 il saggio A proposito di Cechov; Corbaccio nel 2019 il romanzo Il villaggio.

Sulla pagina narrativa Bunin è elegante e pittorico, un impressionista che ritrae con eleganza intrisa di cupezza lo sfacelo della Russia e non. Così descrive Napoli: “Il sole del mattino li ingannava ogni giorno: dal primo pomeriggio il cielo si tingeva immancabilmente di grigio, cominciava a scendere un’acquerugiola via via più fitta e più fredda, e allora le palme all’ingresso dell’hotel mandavano riflessi di lamiera, la città pareva più sporca e angusta che mai, i musei troppo uguali, insopportabilmente fetidi i mozziconi di sigaro dei vetturini pasciuti…”.

In Giorni maledetti lo stile si condensa in frammenti e periodi brevi, la pittura si fa espressionista e grottesca nell’orrore per la vista della Russia imperiale travolta dalla rivoluzione: il pavimento della cattedrale coperto da bucce di semi di girasole sputate dal popolo, il pane di farina di piselli che provoca coliche spaventose, i primi martiri comunisti sepolti dentro a bare rosse sotto aste sghembe e bandiere straccione, creando città di morti in mezzo a città di vivi. Si prefigura in versione pionieristica la mutazione della piazza Rossa in necropoli con la mummia di Lenin sotto le mura del Cremlino e le ceneri dei compagni intorno.

Lasciando Mosca per Odessa Bunin viaggia su binari coperti di vomito. La merda ghiacciata sulle strade richiama le fekal’nyj stalagmit, le stalagmiti fecali che appaiono d’inverno nei palazzi russi e vengono mostrate dai telegiornali. “I giorni maledetti continuano”, ha commentato una studiosa di Bunin. Lo stile del diario è grottesco e cupissimo, malapartiano. Volto da “patrizio romano”, elegante, di nobili origini, provinciale e fuori dalle avanguardie artistiche, mistico e pessimista allo stesso tempo, Bunin nella distruzione del vecchio mondo non vede la forza fresca dei barbari ma la vecchia tara mongola che emerge quando il sangue inizia a scorrere. Come in Malaparte quello che sembra grand guignol potrebbe rivelarsi eufemistico. Notizie da Simferopoli: “Un vecchio colonnello è stato arrostito vivo nella caldaia di una locomotiva a vapore”.

Gasparri insulta, il Senato lo salva

Per lui Pierpaolo Sileri è un “incompetente” e un “idiota”. E lo può dire liberamente, anzi persino rivendicarlo, ché grazie allo status di senatore, Maurizio Gasparri non rischia nulla: è libero di insultare chi vuole, tanto c’è lo scudo dell’immunità. E così dopo essersela cavata per aver dato del “pregiudicato” a Roberto Saviano su twitter (e del “verme” a Fabio Fazio, reo di aver ospitato il giornalista in tv), ora sta per essere assolto dalla stessa Giunta per le autorizzazioni che presiede per aver preso a male parole il viceministro della Salute.

Gasparri, come Virna Lisi, con quella bocca può dire tutto. Grazie agli amici di centrodestra e non solo. La renzianissima Nadia Ginetti – che ha l’incarico di relatrice dell’autorizzazione a procedere del Tribunale di Roma richiesta nei confronti di Gasparri – è convinta che all’esponente di Forza Italia vada accordato per le sue intemerate via social “un diritto di critica rafforzato”. E, a sentir lei, dovremmo pure applaudirlo, perché le sue invettive rendono un servigio alla dialettica democratica.

Sentite qui che tesi: “La prerogativa dell’insindacabilità presuppone un rafforzamento per i parlamentari del diritto di libertà di manifestazione del proprio pensiero, riconosciuto a tutti i cittadini ma ampliato nella sua connotazione per i membri del Parlamento in relazione all’esigenza funzionale costituita dal ruolo che svolgono in ossequio all’esigenza di preservarne l’autonomia e di sottrarli alle influenze e ai ricatti di gruppi di pressione, i quali potrebbero minare il diritto di denuncia politica e di critica”. Ma non è tutto: par di capire che se un parlamentare insulta un membro del governo si può addirittura allargare: “I profili funzionali ordinari intrinseci al diritto di critica del parlamentare assumono una valenza peculiare allorquando rivolge le proprie critiche all’esecutivo, nello svolgimento della funzione di controllo spettante al Parlamento anche in relazione allo svolgersi del rapporto di fiducia, che in una forma di governo parlamentare deve essere continuamente sottoposto a verifiche in corso d’opera, a controllo dialettico, e anche a critiche rispetto all’operato”.

E così non è giusto che Gasparri rischi un processo per diffamazione: secondo Ginetti, chiamare “idiota” Sileri è servito a “divulgare” i contenuti fortemente critici espressi anche a Palazzo Madama. E dato l’andazzo, adesso pensa di cavarsela pure Carlo Giovanardi, che invoca anche lui lo scudo: ha detto alla Giunta per le autorizzazioni che le pressioni esercitate su alcuni funzionari della prefettura di Reggio Emilia (voleva convincerli a far ammettere ai lavori di ricostruzione post terremoto una azienda sua amica in odore di ’ndrangheta) non erano minacce, ma semplici “sfoghi”, anzi opinioni, per cui invoca l’impunità.