Letta spinge Zinga a Roma Grane Bettini e Gualtieri

Ci saranno sia Enrico Letta che Giuseppe Conte oggi all’iniziativa lanciata da Goffredo Bettini, “Verso le Agorà” e introdotta da Massimiliano Smeriglio. Se Conte è alle prese con le difficoltà di tirare le file del Movimento 5 Stelle, Letta stenta a far decollare la sua idea di Pd.

Proprio Bettini è uno dei protagonisti di un’area che va di fatto nella direzione opposta a quella voluta dal segretario: Letta vuole un Pd forte, perno di un’alleanza in cui ci siano anche i Cinque Stelle, Bettini ancora sogna l’amalgama con il Movimento. Tanto per dire, sente più Conte di Letta. In tutto questo, il dossier più urgente resta quello di Roma. Il segretario ha incontrato negli scorsi giorni sia lo stesso Bettini che Roberto Gualtieri. Mentre sente continuamente Nicola Zingaretti. “Non mi chiedere di Roma”, ci ha tenuto a dire il primo. Un po’ risentito del fatto che il segretario non lo avrebbe difeso dagli attacchi di Carlo Calenda, né avrebbe sposato la sua teoria delle ingerenze per far cadere il governo Conte. Anche se poi agli amici tiene a dire di non aver mai parlato di “complotto”.

Ma insomma, ora Bettini non vuole o non può togliere le castagne dal fuoco a Letta per convincere l’ex segretario a correre. Con Gualtieri, il segretario si è limitato a dire che su Roma è ancora tutto aperto, che non è ancora il momento di presentarsi. Ancora spera di convincere Nicola Zingaretti. Il quale sembra fermissimo sul suo no. Forse perché la condizione che ha messo è impossibile: in caso si candidi, vuole che per Roma e per la Regione Lazio si voti in due date diverse. Altrimenti, con la Capitale contesa tra lui e Virginia Raggi, appare difficile trovare una convergenza su un nome per la Regione. Il governatore vorrebbe Alessio D’Amato, ma è anche un problema successivo.

Insomma, l’iniziativa di Bettini più che un grande lancio dell’alleanza giallorosa, rischia di essere un altro momento interlocutorio.

Porti, l’assist di Italia Viva per inquinare di più i fondali

Da Draghi ai dragaggi: non è solo il premier ad accomunare la maggioranza, ma pure la voglia di smantellare la normativa ambientale sull’escavo dei fondali dei porti. Lo testimonia una risoluzione promossa dai deputati di Italia Viva Luciano Nobili e Raffaella Paita, prima appoggiata dalla Lega e poi approvata – ancorché edulcorata – all’unanimità dalle commissioni Ambiente e Trasporti della Camera.

I fondali dei porti italiani, soggetti per decenni a sversamenti industriali, sono oggi più o meno seriamente contaminati. Quando li si draga, per mantenere o ampliare l’accessibilità nautica, occorre quindi esaminare “cosa” si scava, per evitarne o limitarne la dispersione e sceglierne la destinazione. In caso di materiali pericolosi si provvede al trattamento in discarica o allo sversamento in vasche di colmata impermeabilizzate: soluzioni sicure, ma onerose. Problema: complice l’assenza di un piano nazionale che definisca cosa, quanto e come dragare, le Autorità portuali si ritrovano spesso a non sapere né è a quali risorse attingere né dove mettere i fanghi.

Il tema è assai sentito dall’industria marittima che, in una dinamica di crescente gigantismo navale, vuole fondali più e più spesso approfonditi, ovviamente con costi in capo allo Stato. L’istanza dell’industria del settore è stata subito raccolta da Italia Viva, che l’ha tradotta in un alleggerimento della normativa, senz’altro complessa ma puntuale e prudente dopo la revisione del 2016 a cui avevano collaborato pure Ispra, Cnr e Iss.

La risoluzione originale e un ddl depositato da Nobili e Paita prevedevano la sospensione per un anno delle analisi ecotossicologiche e l’abolizione dei limiti quantitativi previsti per il riversamento in mare. Assoporti, l’associazione delle Autorità portuali, ha rincarato proponendo di triplicare il limite temporale di conferimento in siti provvisori o di cancellarlo in caso non ci siano i soldi per discarica o vasca di colmata, nonché di consentire la reimmersione in mare, senza alcuna autorizzazione, di qualunque materiale di escavo purché se ne eviti (anche se non si sa come) la “dispersione al di fuori del bacino stesso”.

La risoluzione parlamentare approvata non si spinge a tanto, ma impegna il governo “ad assumere ogni iniziativa volta a semplificare le operazioni di dragaggio” e “a valutare l’opportunità di modificare il codice dell’ambiente nella direzione di una maggiore efficacia e semplificazione delle verifiche ecotossicologiche” aprendo la strada alla deregulation. Una linea che forza le indicazioni dell’Ispra, secondo cui – in attesa di una legge specifica sul riutilizzo del materiale dragato – alle norme vigenti servono solo piccoli ritocchi procedurali: l’Istituto ha bocciato il rialzo dei quantitativi di reimmersione, che trasformerebbe “il sito in una sorta di discarica in mare, rendendo necessarie restrizioni su altri usi quali la pesca”. E definito un “approccio scientificamente obsoleto” l’idea di favorire le analisi chimiche rispetto a quelle ecotossicologiche: “Sono complementari e interdipendenti”.

Si schermisce Paolo Ficara: “Per il M5S era inaccettabile la sospensione degli esami ecotossicologici in attesa di revisione normativa”. Anzi, il vicepresidente della commissione Trasporti rivendica “una lunga mediazione sulla base proprio delle indicazioni di Ispra” per “coniugare sviluppo infrastrutturale e rispetto dell’ambiente”. Un compromesso che, lasciando di certo allo Stato i costi, concreta la possibilità che ancora una volta il primo prevalga sul secondo.

L’ok alla legge antiterrorismo nello stesso giorno del blitz

Difficile credere si sia trattato di una coincidenza temporale il via libera all’arresto dei sette ex brigatisti italiani e la contemporanea presentazione del disegno di legge Antiterrorismo in Consiglio dei ministri. Il testo è stato illustrato dal premier Jean Castex e dal ministro degli Interni, Gérald Darmanin, che lo ha scritto declinandolo in 19 articoli. Nel ddl viene evidenziata l’intenzione di dare un carattere permanente ai provvedimenti intrapresi in seguito all’entrata in vigore della legge sulla sicurezza interna e la lotta al terrorismo (Silt) del 2017 per porre fine allo stato di emergenza introdotto dopo gli attentati del 2015. I tanti atti terroristici hanno offerto la scusa a 20 generali in pensione di scrivere una lettera aperta in cui denunciano che “la Francia si sta dirigendo verso una guerra civile a causa dell’estremismo religioso”. Nella missiva si denuncia che gli islamisti si stanno impossessando di intere parti del territorio nazionale. Il governo ha subito condannato il messaggio perché ritiene la lettera – pubblicata per la prima volta il 21 aprile, 60° anniversario del fallito golpe contro De Gaulle – un pericoloso segnale. Marine Le Pen, che si sta riscaldando per le Presidenziali del 2022, li ha subito applauditi. Ma il ministro della Difesa, Florence Parly, ha twittato: “Due principi immutabili guidano l’azione dei militari rispetto alla politica: neutralità e lealtà”, avendo chiarito che i firmatari ancora in servizio sarebbero stati puniti. In vista della nuova campagna elettorale, il leader della sinistra radicale, Jean-Luc Mélenchon, ha accusato Macron di portare “la Francia a non mantenere più la parola”.

Dal Conte-1 a Draghi: così l’Italia ha vinto su Mitterrand

L’addio del governo francese alla dottrina Mitterrand arriva dopo trattative, sotto traccia, Italia-Francia, cominciate con il governo Conte-1, che si sono accelerate con l’arresto di Cesare Battisti, in Bolivia, a gennaio 2019, dopo una pluridecennale vita da “rifugiato politico” e romanziere di successo a Parigi. È stato l’ex ministro Alfonso Bonafede a far tirare fuori ai tecnici di Via Arenula il dossier sui latitanti-rifugiati in Francia, che risaliva al 2002, e a impostare un dialogo paziente quanto difficile, per questioni interne francesi, con la collega Nicole Belloubet, che inizia a settembre 2018. L’ex ministra si è sempre detta favorevole, ma poi, come il suo successore Eric Dupond-Moretti, ha puntualizzato che la decisione spettava al presidente Emmanuel Macron. Bonafede e Belloubet si sono parlati riservatamente l’8 marzo e il 6 giugno 2019, in occasione di una riunione a Bruxelles e a Lussemburgo; il 14 ottobre 2019, a una riunione dei ministri della Giustizia del Consiglio d’Europa. Il pressing è continuato il 27 febbraio 2020 a Napoli al vertice italo-francese. Ultimo incontro, a causa della pandemia, il 25 giugno 2020 a Roma, al ministero della Giustizia.

Il segnale definitivo mandato alla Francia, che l’Italia stava facendo sul serio, avviene a luglio 2019 quando il Parlamento, su proposta del M5S, ratifica la Convenzione europea sull’estradizione tra Paesi Ue, che permette di calcolare la prescrizione in base alla legge italiana nelle richieste di estradizione ad altri Paesi. Ed è così che al ministero si mettono al lavoro per redigere quasi ex novo il fascicolo, rifanno la lista degli ex br perseguibili, una ventina, e la inviano alla Francia, dove sono andati per un vertice con i colleghi, i magistrati italiani. Ieri, la svolta.

Appena l’8 aprile scorso, la ministra della Giustizia Marta Cartabia, durante il primo incontro in videoconferenza con il collega Dupond-Moretti, fissato per molte altre tematiche, esordisce, invece, con il problema delle mancate estradizioni. Cartabia parla di “pressante richiesta delle autorità italiane affinché gli autori degli attentati delle Br possano essere assicurati alla giustizia” e Dupond-Moretti, come Belloubet, si dice consapevole della necessità che i tempi siano “i più rapidi possibile” per le prescrizioni che incombono, ma aggiunge anche che era, ovviamente, decisivo l’Eliseo. E così è stato. Secondo fonti francesi ci sarebbe stata una telefonata tra il presidente Macron e il presidente Sergio Mattarella e un’altra con il presidente del Consiglio Mario Draghi, che ieri ha ringraziato la Francia e ha aggiunto: “A nome mio e del governo rinnovo la partecipazione al dolore dei familiari, nel ricordo commosso del sacrificio delle vittime”. La ministra Cartabia, dopo un pensiero alle vittime e alle loro famiglie, racconta che “in queste ultime settimane c’è stato un intenso scambio di contatti a vari livelli delle Istituzioni, che hanno permesso di raggiungere questo storico risultato”. Parla anche l’ex ministro Bonafede: “Ho vissuto personalmente e con orgoglio l’impegno di tutto il ministero, portato avanti in silenzio per raggiungere questo risultato importantissimo. I miei complimenti a tutto il ministero della Giustizia e alla ministra Cartabia”.

Matteo Salvini si congratula con Draghi e intesta alla Lega la battaglia per le estradizioni dalla Francia, “tanto da aver dato la caccia a Battisti fino in Bolivia”. In verità, l’ex ministro dell’Interno tuttofare, avrebbe voluto infilarsi nelle trattative ma fu respinto dai francesi, sia pure con il loro savoir-faire. Il tentativo risale ad aprile 2019, alla vigilia del G7 dei ministri dell’Interno a Parigi. Salvini vorrebbe parlare di estradizione degli ex terroristi pur non avendone la competenza. Fonti del governo francese, in imbarazzo, fanno trapelare che, anche se “è vero che Salvini ama dire che lui è l’incaricato di questo dossier”, in realtà c’è “un dialogo molto stretto” Francia-Italia, ma attraverso i ministri Belloubet-Bonafede”.

“Chi dice vendetta non sa di che parla In Italia non ci fu una guerra civile”

“Che effetto mi fa? È come se non fossero passati più di 40 anni”. Alessandra Galli, nel 1980, quando venne ucciso il padre Guido, magistrato e docente universitario, di anni ne aveva 20 e così commenta la notizia dell’arresto in Francia di sette reduci della lotta armata comunista.

Alessandra Galli, lei è anche magistrato. Cosa pensa di questi provvedimenti?

Vedere che le nostre sentenze riescono ad avere esecuzione anche dopo molti anni e il vaglio di autorità straniere è la dimostrazione di come il nostro Stato abbia agito secondo diritto e civiltà.

C’è chi parla di “vendetta” di Stato…

Mi chiedo se chi dice questo conosca la realtà dei fatti, quali e quante ferite profonde e incancellabili siano state provocate alle persone e alle pulsioni di rinnovamento e avanzamento sociale azzerate dalla violenza armata. Parlare di vendetta non ha senso, è una vittoria del diritto. E nel nostro diritto è compresa anche la valutazione del tempo trascorso. L’attenzione è quasi sempre focalizzata sui responsabili e su come sono cambiati, ma troppo poco si mette a fuoco la figura delle loro vittime, la devastazione e le ripercussioni negative che ne sono derivate ai familiari più prossimi, ma anche a colleghi di lavoro.

Perché intorno ai cosiddetti Anni di piombo in Italia c’è ancora così tanta animosità?

C’è un profondo senso di non concluso, vuoi per la mancata esecuzione delle sentenze o per la mancanza di un approfondito percorso di verità, in gran parte dovuto alla poca chiarezza e alla scarsa sincerità di gran parte di coloro che sono stati autori principali di quei fatti.

In Sudafrica e in Rwanda ci sono state commissioni per la verità e la riconciliazione. Perché in Italia non è possibile?

La nostra vicenda non è assimilabile, in Italia non c’è stata nessuna guerra civile: c’erano aggressori e aggrediti.

Dunque non se ne esce?

Servirebbe l’ammissione piena del ruolo di carnefice da parte di chi lo è stato, ma non ci si arriva quasi mai in maniera limpida e univoca. Umanamente posso comprendere che ciascuno di noi, per sopravvivenza, cerchi di trovare giustificazioni ai propri percorsi di vita, ma la pacificazione rispetto ai reati di eversione non riguarda solo gli autori materiali e vittime, ma l’intera società intesa come Stato. E per questo serve uno sforzo di verità che ancora non c’è.

Suo padre fu ucciso a Milano il 19 marzo 1980 da un commando di Prima Linea. Qual è stato il peggior oltraggio alla sua memoria che ha dovuto affrontare?

Uno dei responsabili dell’omicidio anni fa scrisse un libro dedicandolo ai figli suoi e dei suoi compagni, scrivendo più o meno che i padri avevano agito per un bene superiore commettendo però degli errori. Questo non è solo un affronto al dolore della mia famiglia, è un affronto a tutti. Fare uno sforzo di verità significa ribellarsi a questa impostazione.

La Francia non è più un rifugio: tre in fuga

Era tutto pronto già a settembre 2020. A ottobre il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, era atteso a Parigi e avrebbe messo al primo posto la questione dei latitanti, quindi i poliziotti italiani in collaborazione con i francesi avevano già localizzato nove degli allora undici possibili estradandi. Però la visita di Mattarella saltò per il Covid-19 e il presidente Emmanuel Macron preferì ritardare: le procedure di estradizione dureranno due-tre anni e non voleva trovarsele sui giornali nel 2022, quando cercherà di farsi rieleggere.

Così la dottrina Mitterrand è finita ieri, trent’anni dopo l’elezione del leader socialista all’Eliseo, con un’operazione della Sous-direction anti-terroriste (Sdat), dietro la quale c’è il lungo lavoro della polizia italiana. Sette arresti, quasi tutti a Parigi e dintorni, uomini e donne tra i 63 e i 78 anni, già appartenenti alle Brigate rosse e ad altre formazioni dell’estrema sinistra, condannati anche per fatti di sangue degli anni 70 e 80. Altri tre sono ricercati. Gli ex brigatisti arrestati sono Giovanni Alimonti, 66 anni, condannato anche per il tentato omicidio di un vice-dirigente Digos nel 1982, che deve scontare 11 anni e mezzo; Enzo Calvitti, coetaneo, ha sulle spalle 18 anni e mezzo anche per quell’agguato al funzionario Digos; Roberta Cappelli, altra 66enne, ergastolo anche per gli omicidi del poliziotto Michele Granato (1979), del generale dei carabinieri Enrico Calvaligi (1980) e del vicequestore Sebastiano Vinci (1981); Marina Petrella, 67, condannata anche lei per Galvaligi e per i sequestri del giudice Giovanni D’Urso (1980) e dell’assessore dc campano Ciro Cirillo (1981), quest’ultimo costato la vita a due agenti di scorta; Sergio Tornaghi, 63 anni, milanese, ergastolo anche per l’omicidio di Renato Briano della “Ercole Marelli”: ha un’azienda, l’hanno arrestato nel Perigord, vicino a Bordeaux. C’è poi Giorgio Pietrostefani, 78 anni, ex Lotta continua, 14 anni per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi (1972). E infine Narciso Manenti, 64enne bergamasco, ex Nuclei armati per contropotere territoriale, ergastolo per l’omicidio a Bergamo dell’appuntato dei carabinieri Giuseppe Guerrieri (1979).

Ora si apre la procedura di estradizione, ci vorranno due/tre anni. Parigi assicura che saranno attentamente valutate le condizioni di Petrella e Pietrostefani, affetti da gravi patologie, ai fini delle misure cautelari. Decisiva, oltre alle pressioni italiane, è stata l’imminenza della prescrizione delle pene per alcuni: gli arresti ne interrompono il corso. Per Ermenegildo Marinelli, ex Br, la pena si è estinta il 10 aprile.

Quasi tutti, secondo gli investigatori, si aspettavano l’arresto, almeno dopo le ultime dichiarazioni dell’avvocato Irène Terrel che ieri ha parlato di “tradimento della Francia”. Non se l’aspettava Petrella, la cui estradizione si era fermata per motivi di salute. Le indagini confermano che una rete di sostegno c’è, in larga parte pubblica. Tre sono scappati e questo, per gli investigatori, conferma che non erano “vecchietti” in disarmo. Due sono i più vicini alla prescrizione: per l’ex br Maurizio Di Marzio arriva il 10 maggio; per Alberto Bergamin, già militante dei Pac (Proletari armati per il comunismo) condannato anche per l’omicidio del maresciallo Antonio Santoro (1978), i 16 anni di pena sarebbero prescritti se la Procura generale di Milano non avesse chiesto la dichiarazione di delinquenza abituale. L’ultimo ricercato è Giovanni Ventura, ex dell’Autonomia operaia milanese, condannato per l’omicidio del vicebrigadiere Antonio Custra durante una manifestazione (1977). Le loro fughe non aiuteranno gli altri, che ora puntano a evitare il carcere.

Il virus da batteresi chiama debito

Poco dopo l’esplosione della pandemia, il 2 marzo 2020, la direttrice operativa del Fmi, Kristalina Georgieva, e il presidente della Banca Mondiale, David Malpass, hanno rilasciato una dichiarazione congiunta. In essa affermavano che le due istituzioni sono pronte ad aiutare i Paesi membri ad affrontare la tragedia umana e la sfida economica del Covid-19. (…)

Ai Meeting congiunti delle due organizzazioni, Papa Francesco ha inviato una lettera lo scorso 8 aprile. In essa (…) auspica che da questa dura contingenza nasca l’opportunità di un cambiamento verso un’economia più inclusiva, sostenibile e orientata al bene comune universale; che i Paesi poveri abbiano voce reale negli organismi internazionali e accesso ai mercati internazionali; che essi vengano aiutati attraverso il condono dei debiti contratti; e che siano sostenuti nella transizione a un’economia verde.

(…) Il virus che ci minaccia è nato in un mondo suddiviso in ricchi e poveri. Ha avuto origine in un Paese, la Cina, che si è allontanato dall’indigenza, sviluppandosi a un ritmo rapidissimo. Siamo ben lontani dall’avere sconfitto il Covid-19 e la situazione resta molto grave. Tuttavia, in questo orizzonte cupo si è accesa una luce. In tempi record sono stati resi disponibili diversi vaccini efficaci, molto prima di quanto la maggior parte degli esperti avesse previsto. Inoltre, è stata data una massiccia risposta monetaria e fiscale, che ha alleviato lo stato delle cose, soprattutto nel Primo mondo.

Resta un dato fondamentale: né la ripresa economica né la distribuzione dei vaccini avverranno all’unisono. Il Fmi prevede che Stati Uniti e Giappone non torneranno ai livelli di produzione pre-pandemia prima della seconda metà di quest’anno. L’eurozona e il Regno Unito, di nuovo in declino, non raggiungeranno la stessa meta se non a 2022 ampiamente iniziato. L’economia cinese gioca una partita a sé, e si prevede che alla fine del 2021 sarà cresciuta del 10% rispetto ai livelli di fine 2019. Ma all’altro (…) la Banca mondiale stima che entro la fine del 2021 la pandemia da Covid-19 avrà spinto altri 150 milioni di persone nella povertà estrema. Il numero di quanti sperimentano la cosiddetta “insicurezza alimentare”, ovvero sono preda della fame cronica, si è accresciuto di 130 milioni rispetto all’anno scorso, superando gli 800 milioni complessivi.

Dietro queste disparità ci sono tre fatti. In primo luogo, il calendario della somministrazione dei vaccini. Ci si attende che entro la metà di quest’anno essi saranno ampiamente disponibili nelle economie avanzate; in compenso, è probabile che chi vive nei Paesi più poveri dovrà aspettare il 2022, se non oltre. In secondo luogo, la clamorosa differenza tra i Paesi ricchi e quelli poveri in relazione al supporto macroeconomico. Nelle economie avanzate la spesa pubblica addizionale e i tagli alle imposte nel corso della crisi del Covid sono ammontati a quasi il 13% del Pil, con prestiti e garanzie che ne hanno coinvolto un altro 12%. Invece, nelle economie emergenti, la spesa pubblica e i tagli alle imposte hanno riguardato circa il 4% del Pil, e i prestiti e le garanzie hanno totalizzato un altro 3%. Per i Paesi a basso reddito, queste cifre scendono fino all’1,5% del Pil di sostegno fiscale diretto e quasi nessuna garanzia. In terzo luogo, le economie emergenti. Esse erano già indebitate quando sono entrate in questa crisi e pertanto sono vulnerabili. Si troverebbero in difficoltà ancora più serie se non fosse per i tassi di interesse prossimi allo zero nelle economie avanzate. E ciò sebbene abbiamo assistito a una crescente ondata di default sovrani: per esempio, dell’Argentina, dell’Ecuador e del Libano. (…) I governi mondiali hanno creato il Covax, programma di accesso globale alla vaccinazione contro il Covid-19. L’attuale obiettivo di immunizzare come minimo il 27% della popolazione di tutti i Paesi entro la fine dell’anno va potenziato: occorre vaccinare tutti gli adulti entro la fine del 2022. Questo è necessario, se vogliamo porre fine alla pandemia e ridurre la possibilità di nuove mutazioni. Gli 11 miliardi di dollari che i governi hanno finora stanziato sono insufficienti: occorre renderne disponibili altri 22 entro l’anno in corso. Inoltre, l’attuale carenza di vaccini induce i Paesi a lottare per guadagnare posti nella fila, a costo di pagare prezzi molto alti. Tanto più si evidenzia quanto sia urgente garantire a tutti, anche alle nazioni più povere, la possibilità di raggiungere una copertura vaccinale integrale in modo equo e a tempo debito. (…) Va elaborato quanto prima un piano razionale destinato a finanziare gli squilibri che il Covid-19 ha provocato nella bilancia dei pagamenti di tutti i Paesi fino alla fine del 2022. Il Fmi è stato creato proprio per gestire emergenze del genere.

(…) Alcuni membri dell’umanità hanno uno stringente bisogno non soltanto di essere aiutati, ma anche di essere trattati con dignità. Come ha fatto notare Papa Francesco nella sua lettera, è doveroso che i Paesi poveri abbiano voce in capitolo negli organismi internazionali che decidono su politiche che li riguardano; inoltre, essi devono essere alleviati nel pagamento del loro debito estero e ricompensati per il debito ecologico. Nella misura in cui il Covid-19 si propaga nel mondo, la paralisi economica e la disoccupazione si diffondono ovunque, provocando situazioni al limite nella maggior parte delle economie emergenti e in via di sviluppo. All’insufficienza dei loro sistemi sanitari e alle scarse risorse dei loro programmi di sicurezza sociale si unisce la capacità molto limitata di stimolare le economie. La realtà è triste: i Paesi emergenti e in via di sviluppo sono sull’orlo di una crisi umanitaria e finanziaria. Non è realistico aspettarsi che essi riescano a ripagare i loro debiti. Di fatto, nelle ultime settimane il capitale è fuggito precipitosamente dalla maggior parte di quelle economie, sicché pare inevitabile una nuova ondata di default sovrani.

(…) È un dato di fatto che l’esperienza del lockdown è molto diversa a seconda del luogo in cui la si vive. Negli enormi quartieri poveri di San Paolo, Mumbai o Manila l’isolamento può relegare dieci persone in una stanzetta, con scarse provviste alimentari e poca acqua, con ristori esigui o assenti per rimediare alla perdita dei salari. Le interruzioni che la pandemia ha provocato nelle catene distributive già stanno causando penuria alimentare e rincari. In altre parole, in luoghi come Africa e Sudamerica siamo all’anticamera di situazioni socialmente insostenibili e a rischio di esplodere. Finché la pandemia prosegue nella sua propagazione letale, non c’è nulla che non sia eccezionale. Sarebbe ingenuo e crudele, da parte dei creditori (istituzionali e privati), pretendere che quei Paesi distolgano risorse dalla lotta contro il Covid per pagare i debiti.

Gli studiosi che abbiamo citato sopra ritengono che la Bm e il Fmi, grazie alla loro vasta esperienza di Paesi con problemi di debito, in questi ultimi anni siano divenuti sempre più consapevoli del fatto che spesso un default parziale è l’unica opzione realistica. Ogni decisione di imporre la modalità abituale di pagamento dei debiti, in tempi straordinari come quelli che stiamo vivendo, servirebbe soltanto ad approfondire e a prolungare senza ragione le recessioni. Ma perché sia approvata una moratoria sui debiti, è necessario che la decisione coinvolga in prima persona gli Stati Uniti, che hanno potere di veto sulle decisioni del Fmi. E deve essere d’accordo anche la Cina. (…) Non è venuto il momento di considerare il condono dei debiti dei Paesi poveri?

 

Il mistico draghista non va svegliato

C’è un fantasmache s’aggira per i giornali: la politica, i partiti. E s’intende tutti i partiti: abbiamo già Mario Draghi – nato dal Bene, generato, non creato, della stessa sostanza del Bene, la cui luce irradia riforme, che qui fanno un po’ le veci dello Spirito Santo – che ce ne facciamo della politica, cioè del legittimo e naturale confronto tra interessi e idee di società? Essi, i partiti, sono peccato: hanno votato il Pnrr, ma “quei sì hanno tante ambiguità”, dice Il Sole 24 Ore, e “ci si chiede cosa accadrà quando si discuterà nel dettaglio”. È ai partiti, su La Stampa, che l’economista Veronica De Romanis rivolge “un monito”: il passato è la loro colpa e adesso, è il senso, dovrebbero fare quel che dice il manovratore e zitti (ma sul “grado di maturità e sincerità della classe politica” ha dei dubbi). Ormai siamo all’Istituto di Mistica Draghista: “Il punto è che la credibilità di Draghi è un asset. L’Italia di Draghi può fare deficit e debito senza pagarne le conseguenze nel giudizio dei mercati. Chiunque lo voglia far cadere deve sapere che non potrà fare né deficit né debito, perché non ne ha la credibilità” (Renato Brunetta sul CorSera); l’unica cosa “che ha un peso in Europa” è “la parola di Draghi. Nessuna parola di nessun altro leader politico e/o presidente del Consiglio italiano vale due soldi fuori da questi confini” (Franco Bechis, Il Tempo). Ora il problema di tutti quelli che – in buona o malafede – bruciano incenso sull’altare di Palazzo Chigi è come perpetuare questo momento: meglio che Draghi resti a Palazzo Chigi (fino al 2023, magari oltre) o che dal Quirinale sia garante dello status quo qualunque esecutivo arrivi? Qui il fronte è spaccato, basta comunque che non ci si allontani dalla sua Parola, scritta nelle sacre riforme: d’altra parte, dice Brunetta, “il programma del Recovery è di sei anni e vincola anche il prossimo governo”, è “un contratto con l’Europa” e “i contratti si rispettano”. Draghi – dio vero da dio vero – vigilerà sulla sua applicazione e il suo regno non avrà fine. Se non dopo il termine della storia, il mistico draghista vive già dopo la fine della politica. Se ne conoscete uno non lo disturbate, per carità: passi un’estate serena e piena di riforme, ci sarà tempo per il risveglio, la vita è già tanto amara così.

È ora di giocarsi il “jolly”

Non possiamo illuderci che la pandemia da SarSCoV2 ci lascerà presto. Certamente, abbiamo maggiori e migliori strumenti per combatterla, rispetto a quanti ce ne fossero disponibili in precedenza. Ma è anche vero che bisogna tener conto di virus a Rna, che muta continuamente. Sarà una rincorsa lunga e faticosa. Avanti a noi, irraggiungibile, un virus che si trasforma e noi con vaccini e terapie via via resi inefficaci. Ma la ricerca potrebbe darci l’arma infallibile. Un vaccino valido con qualsiasi mutazione, ma ci vorrà tempo. In questa ottica si inserisce lo studio di una società biotech Usa che lavora principalmente sulle malattie oncologiche, Gritstone Oncology, sta studiando un vaccino contro Sars-CoV-2 che potrebbe funzionare anche contro altri coronavirus. Una sorta di vaccino di seconda generazione che, secondo il Ceo, Andrew Allen, “potrebbe non essere necessario, e tutti speriamo sia così, ma pensiamo sia prudente svilupparlo come backstop”. Il vaccino Gritstone Oncology si basa su una tecnologia che utilizza l’apprendimento automatico per prevedere gli antigeni presenti nelle cellule infettate da un virus, che il sistema immunitario può riconoscere. Come la prima generazione di vaccini Covid-19, il candidato di Gritstone prende di mira sia la proteina spike sia altri bersagli che potrebbero aiutare a rafforzare l’immunità delle cellule T. In California si sta studiando il “vaccino jolly”, che utilizza una nuova tecnologia, nanoparticelle a mosaico: iniettate nell’organismo, sono in grado di mostrare al sistema immunitario pezzi di proteine di otto diversi coronavirus. I primi risultati sono stati pubblicati su Science. Se le sperimentazioni dovessero dare esito positivo, sarebbe un bel successo, anche se (ce lo auguriamo) non dovessero servire per l’attuale pandemia. Di Coronavirus in stand-by ce ne sono decine di specie. La prossima volta potremmo farci trovare preparati.

 

Facciamo giustizia sul terrorismo rosso (come sulle stragi)

Io vorrei, anche dopo 40 anni, anche dopo 50 o 60 anni, l’arresto di chi ha messo le bombe in piazza Fontana o alla stazione di Bologna, di chi ha ucciso Pinelli, di chi ha ucciso Calabresi. Non per vendetta, ma per giustizia. E la giustizia, come la verità, è una. Invece c’è chi, tra i miei amici, s’indigna per l’arresto in Francia di sette persone ricercate in Italia per episodi di lotta armata e, nel caso di Giorgio Pietrostefani, per la partecipazione all’omicidio del commissario Luigi Calabresi. Come possiamo pretendere verità e giustizia per le stragi italiane, per l’eversione nera e le complicità di Stato, e non chiederle invece per l’eversione rossa? Vogliamo sapere chi ha provocato la morte di Giuseppe Pinelli nella questura di Milano, e non vogliamo che chi ha ucciso Calabresi sconti la sua pena? Non per gusto di vendetta o passione per le manette, bensì per poter affermare con orgoglio, come stabilito dalla nostra Costituzione, che la legge è uguale per tutti. E poter dunque pretendere che nessuno si fabbrichi corsie privilegiate o leggi ad personam. Nessuna vendetta: un giudice stabilirà se un condannato vada tenuto in carcere, oppure se non debba essere chiuso in una cella perché vecchio e malato: si chiami Giorgio Pietrostefani o Carlo Maria Maggi (il fascista indagato per piazza Fontana e condannato per la strage di Brescia, poi morto nel 2018).

Lo so, la storia italiana, soprattutto quella tra gli anni Sessanta e gli Ottanta del Novecento, è attraversata da un fiume nero d’ingiustizia in cui le stragi, le pianificazioni eversive, gli omicidi politici, le compromissioni degli apparati dello Stato, il loro spregiudicato utilizzo del terrorismo e delle organizzazioni mafiose hanno trovato raramente una sanzione giudiziaria. Fa rabbia, lo so, vedere che la giustizia è stata efficace per alcuni e invece impotente per uomini politici e funzionari dello Stato che sono stati salvati dai depistaggi, dalle esfiltrazioni, dalle avocazioni, dai porti delle nebbie, dai silenzi, dalle doppie verità, dalle menzogne. È vero che – come scrive Hannah Arendt – “la giustizia vuole più dolore che collera”. Ma pretende lo stesso rigore per tutti. Se lo si abbassa per alcuni, lo si perde per tutti: la giustizia non sopporta i doppi pesi, non può togliersi la benda e guardare negli occhi chi sta per valutare.

Per un caso del destino, proprio ieri, nello stesso giorno in cui i sette ricercati italiani finivano la loro latitanza francese, si teneva a Bologna la prima udienza operativa dell’ultimo processo sulla strage del 2 agosto 1980, alla ricerca dei finanziatori e dei mandanti di Stato (in cui ho avuto la ventura di essere chiamato come testimone a proposito di una vecchia intervista al giudice Giancarlo Stiz). Un processo fortemente voluto dalla Procura generale di Bologna che ha indagato con meticolosa passione e solido coraggio per vedere se è possibile, per una volta, salire dai “portatori di valigia” (come Vincenzo Vinciguerra chiama i manovali del terrore nero) alle ombre che li hanno finanziati, allevati, protetti, mentre stavano al sicuro nelle loro ville aretine, nelle logge segrete, nei silenziosi uffici del Viminale, dove il prefetto-gourmet Federico Umberto D’Amato, gran burattinaio degli Affari Riservati, incontrava amabilmente neonazisti pronti a tutto, dichiarando poi a un giudice istruttore troppo curioso che con uno di questi “la conversazione fu di carattere culturale”. Come le conversazioni notturne che lo stesso D’Amato sosteneva di aver avuto con Adriano Sofri, e che Sofri non ci ha ancora spiegato? Sono molti i buchi neri nella storia della guerra segreta combattuta in Italia senza esclusione di colpi, il cui disegno è però ormai chiaro. Per recuperare quante più tessere possibile di quel mosaico nerissimo, è necessaria non giustizia selettiva, ma coraggio spietato e rigore per tutti.