Suárez, Agnelli scarica su Paratici: “Fa lui il mercato”

“Paratici mi informa in modo occasionale e casuale” del mercato della Juventus. Suárez? “Nedved mi disse che si era proposto lui con un sms”. Andrea Agnelli ha assicurato agli inquirenti di non aver toccato palla sulla vicenda del presunto esame-farsa a cui è stato sottoposto, il 17 settembre 2020 presso l’Università per stranieri di Perugia, il calciatore Luis Suárez. L’attaccante uruguaiano, in quel momento in uscita dal Barcellona, era pronto a firmare un contratto da 10 milioni a stagione con il club bianconero, ingaggio, per i pm, “condizionato dall’ottenimento della cittadinanza italiana”. Il presidente della Juventus è stato sentito il 26 gennaio 2021 dalla Procura di Perugia come persona informata sui fatti. Oltre a tre dirigenti dell’ateneo umbro, è indagata per falso ideologico anche l’avvocata Maria Cesarina Turco, dello studio Chiusano, “legale incaricato” dalla Juventus e reputata dai pm “concorrente morale e istigatrice”.

Come si legge nel verbale, quando gli è stato chiesto se “fu informato delle attività in corso per il conseguimento” del passaporto comunitario per Suárez, Agnelli ha risposto ai magistrati di non ricordare “di essere stato informato di alcuna attività in corso”. Il presidente bianconero avrebbe “saputo dai giornali” dell’esame di italiano a cui è stato sottoposto l’attuale attaccante dell’Atletico Madrid. Il numero uno bianconero ha detto ai pm che “Paratici ha la facoltà di porre in essere tutte le attività necessarie a concludere le trattative”, dunque “incluse la scelta dei consulenti”, fra cui lo studio Chiusano, “anche perché aveva una collaboratrice esperta di diritto amministrativo”. “Questo – domandano gli inquirenti – anche per trattative di significativo impatto economico, come quella in esame?”. “Sì – è la risposta di Agnelli – in quanto Paratici opera nei limiti del budget assegnato”.

Caso Trentini, assolti Cappato e Welby “Politica immobile, subito un referendum”

La Corte d’appello di Genova ha assolto Marco Cappato e Mina Welby dall’accusa di assistenza al suicidio, nel 2017, di Davide Trentini, malato di Sla, 53 anni. Non era attaccato a un respiratore, Trentini, ma comunque la sua sopravvivenza dipendeva da una terapia farmacologica. E questa circostanza, per i giudici, non fa venire meno il diritto a porre fine alle proprie sofferenze. “È una sentenza che segna uno spartiacque – ha commentato Cappato –. Con questa decisione si stabilisce un precedente importante, cioè che non sia necessario essere attaccati a una macchina per essere aiutati a morire se si è anche dipendenti da un trattamento di sostegno vitale. Ma ci sono voluti 4 anni per arrivare a questo risultato. La politica è inerte sul fine vita, a breve proporremo un referendum popolare”. I fatti risalgono al 13 luglio 2017. Cappato aveva fornito i soldi e la Welby accompagnato fisicamente Trentini in una clinica svizzera. Al ritorno in Italia gli attivisti dell’associazione Luca Coscioni si erano consegnati ai carabinieri di Massa, luogo di residenza del malato.

Contro “Domani” Conte a De Benedetti: “Colpito perché rifiutai gli incontri”

Una smentita al Domani ma soprattutto un attacco diretto all’editore del quotidiano, Carlo De Benedetti. Dopo il servizio dedicato ai suoi “affari segreti”, l’ex presidente del Consiglio ha risposto su Facebook. “Un avvocato civilista non fa affari, tantomeno segreti”. Poi, rispetto alle consulenze avute dalla società Acquamarcia di Bellavista Caltagirone nel 2012 per il concordato preventivo della società, precisa che si è trattato di compensi congrui con “i 300 pareri legali redatti”. Infine, sul fatto che la storia delle consulenze sia stata rivelata da Amara nelle sue deposizioni (di cui parliamo in pagina), ribadisce di non averlo mai conosciuto, né di aver mai avuto rapporti con lui escludendo “che il mio nome possa essere stato suggerito dall’avv. Michele Vietti” come appare nei verbali di Amara.

Conte approfitta della precisazione, però, per rispondere duramente all’editore del Domani, e prima di Repubblica, Carlo De Benedetti. Gli “affari” – ostentati o segreti non spetta me dirlo – li concludono gli imprenditori, come ad esempio il Suo datore di lavoro, ing. De Benedetti” scrive l’ex premier. “Quanto a quest’ultimo, da Presidente del Consiglio non mi sono mai concesso il piacere di incontrarlo privatamente, pur sollecitato varie volte a farlo”. Conte, come risulta al Fatto, si riferisce ad alcune “ambasciate” inviate da De Benedetti a Palazzo Chigi e che servivano a propiziare un incontro tra De Benedetti e Conte che però non c’è mai stato. “Di questa rinuncia – scrive ancora Conte – l’ing. De Benedetti mi sta ripagando amabilmente, ragionando di me, in tutte le occasioni pubbliche che gli sono offerte, con pertinace livore”.

Quella “notizia” arrivata al Fatto: così è nata l’indagine di 5 Procure

Il 27 ottobre 2020 nella redazione del Fatto Quotidiano viene recapitata una busta anonima che contiene dei verbali d’interrogatorio. L’interrogato è Piero Amara, ex legale esterno dell’Eni, già condannato per corruzione in atti giudiziari e al centro di molte manovre torbide degli ultimi anni. A interrogarlo sono il procuratore aggiunto di Milano Laura Pedio e il sostituto procuratore Paolo Storari. Amara è un personaggio conosciuto tra i “giudiziaristi” e il direttore decide di affidarmi questi “atti”, poiché ne scrivo da un quinquennio, in modo da valutare il da farsi. I verbali non sono firmati e davanti a me ho solo due ipotesi: o qualcuno li ha “rubati” agli inquirenti, oppure sono sfuggiti al loro controllo in qualche passaggio di mano. Ipotesi ancora più inquietanti leggendo il contenuto delle dichiarazioni di Amara: descrive una loggia massonica denominata “Ungheria” in perfetto stile P2. Vi parteciperebbero altissimi funzionari dello Stato e del Vaticano ma, soprattutto, il sodalizio avrebbe condizionato il Csm attraverso un considerevole numero di altissimi magistrati.

La loggia Ungheria esiste davvero? Difficile crederlo, almeno nei termini in cui Amara la descrive, ma lo scenario è chiaro. Con la trasmissione di questi verbali qualcuno vuole distruggere l’indagine. Oppure vuole che le dichiarazioni di Amara divengano pubbliche per esercitare pressioni o ricatti. O ancora: vuol dimostrare ad Amara che la Procura di Milano è vulnerabile e convincerlo a tacere. Un fatto è certo: qualcuno vuole utilizzare il Fatto per portare a termine questa operazione. E il Fatto non ci sta. Avverto il direttore e in accordo con lui mi presento a Milano: denuncio tutto in procura affinché indaghi e individui chi vuole renderci strumento di una simile operazione. Parte l’indagine. Ed è vitale, dato l’inquinamento in corso, scoprire il movente di questa storia. Torno in procura quando l’anonimo ci recapita altri verbali minacciando di inviare lo stesso materiale ad altri giornali. Per sei mesi il Fatto decide di non scrivere una riga del contenuto di questi verbali. Non solo. Avrei voluto verificare mille dettagli, ma temendo di inquinare le indagini non faccio una sola telefonata ai personaggi menzionati nei verbali. Consultando fonti aperte verifico che, quando Amara parla del consigliere del Csm Sebastiano Ardita, sbaglia date, ruoli, lo arruola in una loggia di “garantisti” mentre è notoriamente considerato un “giustizialista”. Di questi verbali il Fatto non si fida e resta fermo, finché non accade qualcosa di nuovo: qualcuno scrive che i verbali “apocrifi” girano e qualche stralcio appare su altri quotidiani. Nel frattempo giungono anche al Csm. Chi vi scrive è convinto che sia giunto il momento di pubblicare: è un Paese libero quello in cui nelle redazioni dei giornali, nel Csm, nei palazzi del potere, circolano documenti che menzionano le più alte personalità dello Stato collegandole all’esistenza di una fantomatica loggia in stile P2 e nessuno ne parla? È quanto accade ormai da mesi.

Un tempo sufficiente a convogliare interessi — questi sì occulti — ed esercitare potenziali ricatti e pressioni. Che Paese è quello in cui sono sotto scacco, terrorizzati dall’idea che qualcuno ne parli, alcuni tra i più alti funzionari dello Stato? Soltanto iniziando a scriverne e rendendolo pubblico, il castello dei verbali di Amara può crollare, insieme con le nefaste conseguenze che ha già generato.

Ora sappiamo che uno dei centri da condizionare era il Csm. Ma il movente? Chi è il “pupo” e chi è il “puparo”? La magistratura farà tutto il possibile per scoprire il “burattinaio” e rivelarne gli obiettivi. E il Fatto non mollerà la presa su niente e nessuno. Fino a quando non sapremo la verità. Tutta.

Dossieraggio dentro il Csm: indagata funzionaria

La bomba è esplosa al Csm qualche settimana fa. Un manipolo di finanzieri spedito dalla Procura di Roma si è presentato a Palazzo dei Marescialli e ha chiesto con garbo di entrare nell’ufficio della funzionaria Marcella Contrafatto.

L’ipotesi dei pm romani è che la signora abbia avuto un ruolo nella diffusione dei verbali di Pietro Amara, uno dei quali contenente dichiarazioni anche sul premier Giuseppe Conte (vedi articolo nella pagina seguente) pubblicato da Il Domani ieri.

La signora Contrafatto lavora da tanti anni al Csm ed è stata fino a ottobre scorso la segretaria di Piercamillo Davigo. Sentita dal Fatto, non ha voluto fornire la sua versione perché, come ci ha spiegato il suo avvocato, Alessia Angelici: “C’è un’indagine in corso”. Anche Davigo ha rifiutato ogni commento: “è un argomento coperto dal segreto perché c’è un’indagine in corso”.

I verbali di interrogatorio di Amara che sarebbero stati veicolati – secondo l’ipotesi dei pm romani – dalla ex segretaria di Davigo sono una mezza dozzina. Non sono firmati e contengono racconti che, a quanto risulta a Il Fatto, sono ritenuti dagli stessi pm di Milano in parte infondati. In alcuni passaggi Amara mescola fatti veri e circostanze false. L’avvocato è stato arrestato nel 2018, accusato di corruzione in atti giudiziari, ha patteggiato una condanna a due anni 8 mesi. Coinvolto in altre inchieste, nel 2019, Amara è stato il tema che ha diviso la Procura di Roma fino a uno scontro durissimo tra pm. Il sostituto Stefano Fava voleva arrestarlo di nuovo per altri fatti ma gli aggiunti e il procuratore capo di Roma non erano d’accordo. Fava cominciò a raccogliere elementi per dimostrare i conflitti di interesse presunti dei colleghi, inesistenti secondo il Csm, la procura generale e i pm di Perugia che mai hanno aperto nemmeno l’ombra di un’inchiesta su questo. L’attività di Fava, realizzata in accordo con Luca Palamara secondo la Procura di Perugia, sarebbe sfociata anche in alcuni reati. Sarà l’eventuale processo a stabilire la verità. Ciò che qui rileva è che – prima dell’inchiesta, prima della richiesta di rinvio a giudizio contro il pm Fava, quando era considerato solo un moralizzatore magari troppo rigido ma corretto – Fava nel Csm aveva un consigliere come interlocutore privilegiato: proprio Sebastiano Ardita.

Ora si scopre che in uno di questi verbali non firmati di Amara (che circolano a Roma nelle redazioni dei giornali e anche al Csm da mesi) si parla proprio di Ardita. Le dichiarazioni rese a Milano a dicembre da Amara ai pm Laura Pedio e Paolo Storari, su una fantomatica loggia simil-massonica denominata ‘Ungheria’ sono tutte da verificare. Di certo quelle che cercano di coinvolgere di striscio Ardita sembrano traballanti a una prima lettura. Amara sostiene nel dicembre 2019 che Ardita (quello che parlava male di lui con Fava nel maggio 2019) sarebbe stato da lui incontrato in una riunione nel 2006 quando era pm a Catania. Ma Ardita era già da anni in un altro ufficio: il Dap.

Inoltre la loggia Ungheria è descritta da Amara come un convivio di liberali garantisti che volevano combattere contro i giustizialisti. Ebbene Ardita è stato un pm famoso per avere arrestato una mezza dozzina di parlamentari e per avere scritto un libro con la nostra casa editrice dal titolo che non era ‘Ungheria’ o ‘Garantisti’ ma ‘Giustizialisti’. Infine Amara lo descrive nel 2006 come ‘culo e camicia’ con l’ex capo del Dap Gianni Tinebra. Da una ricerca di archivio ANSA si legge che nel 2005 tra Ardita e Tinebra c’era una forte spaccatura.

I verbali di Amara proprio per la natura del personaggio sono oggetto di una serrata verifica da un anno e mezzo da parte dei pm Laura Pedio e Paolo Storari. Coinvolgono i personaggi più importanti di molti settori della vita pubblica. Si va dai vertici di alcune forze dell’ordine di oggi e ieri ad altissimi prelati in carica e usciti di scena, dai livelli apicali della magistratura amministrativa e ordinaria a quelli della politica recente. Un raccontone avvincente condito con l’allure massonico della ‘Ungheria’.

I verbali sono arrivati a fine ottobre del 2020 anche nella redazione del Fatto in forma anonima. Non sapendo se fossero autentici (non erano firmati) e sospettando una manovra di dossieraggio, Il Fatto ha scelto di non pubblicare. Non solo. Il giornalista Antonio Massari ha pensato di portarli in Procura a Milano per gli accertamenti del caso sulla fuga di notizie.

Se un tempo a Palermo c’erano i ‘corvi’ che accusavano Giovanni Falcone con i loro anonimi, la signora Contrafatto in realtà non sarebbe una ‘cornacchia’ ma, nell’ipotesi investigativa al momento solo una sorta di postina. Gli investigatori dopo le loro attività di indagine sono convinti di essere sulla pista giusta.

La funzionaria è innocente fino a prova contraria ma i pm romani ritengono che abbia avuto un ruolo nella fase finale del dossieraggio, cioé la consegna dei plichi. Ora stanno cercando di risalire la filiera per capire due cose: chi le ha dato le carte e perché le ha diffuse.

Al Fatto risulta che i pm hanno interrogato la funzionaria ma non hanno tratto grandi informazioni.

I verbali senza firma che sarebbero stati resi da Pietro Amara da dicembre a gennaio 2019-21 stanno avvelenando da molti mesi l’atmosfera dei palazzi romani. Non è detto che ‘Il Corvo’ sia uno solo. I verbali sono pervenuti ad almeno un paio di giornali. Il verbale pervenuto al consigliere del Csm Antonino Di Matteo è uno solo e contiene un passaggio su Giuseppe Conte (riportato da Il Domani nel suo pezzo di ieri) e un passaggio sul consigliere Sebastiano Ardita. Quando lo ha letto Di Matteo ha scelto di andare in Procura a Perugia per denunciare il dossieraggio ai danni del collega, come ha spiegato ieri in apertura dei lavori del plenum del CSM.

“Ritengo a questo punto doveroso rendere edotto il Consiglio di una vicenda che ritengo importante. Nei mesi scorsi ho ricevuto un plico anonimo recapitatomi tramite spedizione postale contenente una copia informale e priva di sottoscrizioni di interrogatorio di un indagato risalente al dicembre del 2019 innanzi a un’autorità giudiziaria. Nella lettera anonima che accompagnava il documento quel verbale veniva ripetutamente indicato come segreto. Nel contesto dell’interrogatorio l’indagato menzionava in forma evidentemente diffamatoria se non calunniosa e come tale accertabile circostanze relative a un consigliere di questo organo. Ho contattato l’autorità giudiziaria di Perugia alla quale ho riferito compiutamente il fatto specificando tra l’altro che il timore che tali dichiarazioni e il connesso dossieraggio anonimo potessero collegarsi a un tentativo di condizionamento dell’attività del Consiglio. Auspico pertanto che le indagini in corso possano far luce sugli autori e sulle reali motivazioni della diffusione di atti giudiziari in forma anonima all’interno di questo Consiglio Superiore”. Il silenzio che ha seguito queste parole è inquietante. Molti consiglieri sanno certamente che la funzionaria del Csm è stata indagata per la questione dei verbali di Amara senza firma finiti ai giornali. La funzionaria oggi presta servizio formalmente per il consigliere Fulvio Gigliotti, anche se è una dipendenza formale, il suo ufficio è lontano dalla sua stanza e la vede poco. Il Consiglio l’ha sospesa dalle funzioni.

Subito dopo il consigliere Di Matteo ha preso la parola il vicepresidente del Csm David Ermini. Ha detto solo: “La ringrazio consigliere Di Matteo. Possiamo iniziare a questo punto i nostri lavori. Cominciamo dalle pratiche rinviate …”. Il fatto che Ermini preferisca parlare di ‘pratiche’ invece che rassicurare tutti i cittadini italiani sulla questione del dossieraggio per condizionare il Csm è l’ennesima prova che la questione è seria. I consiglieri sono stati tutti zitti perché non hanno capito o perché sapevano già? Di Matteo ha detto che ‘a questo punto’ doveva parlare perché ieri mattina il giornale Il Domani ha pubblicato un passaggio di un verbale contenente dichiarazioni dell’avvocato Amara all’autorità giudiziaria di Milano sull’ex premier Conte. Di Matteo ha ricevuto un verbale contenente accuse che lui stesso dice di considerare calunniose contro il collega Ardita. Ne ha parlato con il procuratore di Perugia Raffaele Cantone. Per Di Matteo è accertato che siano calunnie. Per questo quando legge Il Domani che parla solo di Conte e non di Ardita, Di Matteo teme che prima o poi qualcuno tiri fuori la storia diffamatoria sul collega e decide di tutelare il Csm e il consigliere diffamato, cioé Sebastiano Ardita lanciando il sasso dritto prima che qualcuno lo tiri storto.

Nessun consigliere dopo Di Matteo ha preso la parola per manifestare solidarietà al collega dossierato.

Al Mite 200 assunti senza concorso da Sogesid, la Spa “cara” ai ministri

Non si sa se Roberto Cingolani sarà un buon ministro della Transizione ecologica, di sicuro – a differenza di buona parte dei tecnici prestati alla politica – ha capito che non combinerà nulla se non avrà il potere per farlo, condizione che passa, preliminarmente, per i poteri del suo ministero e della sua squadra. Il Fatto ieri ha scritto delle procedure a misura di grande impresa proposte nel decreto di “semplificazioni ambientali” inviato lunedì sera a Palazzo Chigi, un testo in cui la centralità del neonato Mite (che ha le vecchie competenze dell’Ambiente più le deleghe sull’energia prese allo Sviluppo economico) è il filo rosso che lega i vari articoli.

Dal punto di vista dei processi autorizzativi si punta in molti casi ad eliminare il concerto dei ministeri dell’Economia, dello Sviluppo e della Cultura, ma nel decreto c’è anche lo scippo dei carabinieri del Comando unità forestali, ambientali e agroalimentari (dov’è confluito l’ex Corpo Forestale) alle Politiche agricole: si propone che quegli uomini passino sotto la “dipendenza funzionale” della Transizione ecologica, che potrà destinarli al ministero oggi retto dal grillino Stefano Patuanelli “per le materie di sua competenza” (in sostanza, il contrario di quel che avviene adesso).

Tutte cose importanti che sarebbero comunque inutili senza il capitale umano, come dicono quelli bravi, in grado di governare la potente macchina che si va costruendo: parliamo del personale alle dipendenze di Cingolani, problema annoso visto che il ministero dell’Ambiente è stato sempre (e profondamente) sotto dimensionato. La soluzione proposta nel nuovo decreto, però, è quantomeno bizzarra, oltre che a pesantissimo rischio di incostituzionalità: assumere con un concorso a loro riservato 200 dei 420 dipendenti Sogesid che già lavorano all’interno del ministero (che, incredibilmente, ha solo 289 dipendenti diretti).

E qui serve qualche spiegazione: Sogesid è una società ingegneristica in house del Mite e – negli anni in cui nella P.A. non si poteva assumere – è stata riempita di dipendenti, alcuni dei quali dal curriculum sui generis per il settore (filologi, esperti in letterature comparate) e spesso di solida filiera politica (membri dello staff di ministri dell’Ambiente del passato, qualche segnalato dalla burocrazia ministeriale). Un bel pezzo di questo personale è stato messo a lavorare direttamente dentro al ministero, sempre a corto di personale: per paradosso, assunti con contratto di diritto privato, quelli di Sogesid guadagnano di più dei loro colleghi dipendenti pubblici.

Nel 2018, però, il ministero dell’Ambiente fu autorizzato ad assumere 420 persone: due concorsi sono stati banditi fin dal 2019, ma sono stati bloccati dal Covid. Nel frattempo, la Corte dei Conti ha pure imposto al ministero di diminuire le convenzioni in essere con Sogesid. E qui arriva la pensata: prendere 200 dei dipendenti della società in house e assumerli “previo superamento di procedure selettive per titoli e colloquio” a loro riservate; i fortunati potranno pure tenersi lo stipendio più alto, che sarà riassorbito (forse) dagli aumenti futuri.

Ovviamente quei posti andranno scalati dai concorsi in essere, uno dei quali ha già passato la fase preselettiva: i ricorsi sono scontati, l’illegittimità della norma pure (la Consulta s’è già espressa su un caso analogo), il via libera di Palazzo Chigi no.

Helsinki e i tanti ritardatari: i fondi del Recovery slittano

Formalmente da Bruxelles professano ottimismo, ma dietro le dichiarazioni, anche quelle provenienti dalle grandi capitali europee, traspare la sensazione che i fondi del Recovery fund slitteranno. L’obiettivo di avere subito un anticipo a luglio del 13% delle risorse (circa 20 miliardi di euro per l’Italia, su 191 totali) si allontana.

L’ultimo ostacolo in ordine di tempo l’ha posto la Corte costituzionale finlandese che ha stabilito che il parlamento di Helsinki dovrà approvare a maggioranza qualificata l’aumento delle risorse proprie del bilancio Ue. Si tratta del meccanismo che permetterà a Bruxelles di prevedere anche imposte “europee” a garanzia del rimborso dei 750 miliardi che verranno reperiti sul mercato. Per la massima corte finlandese il Recovery prevede un’ampia cessione di sovranità e quindi la decisione non può passare a maggioranza semplice. In questo modo, però, l’approvazione è a fortissimo rischio. Senza l’ok di tutti i Paesi il piano non può partire e al momento manca ancora la ratifica di 8 Stati membri. Poi ci sono i ritardi nazionali. A oggi Bruxelles si attende che solo metà dei 27 Paesi consegni tutto entro il 30 aprile, gli altri arriveranno a metà maggio. Per ora sono stati consegnati ufficialmente quello portoghese, il tedesco e il greco. Il francese e l’italiano arriveranno entro domani (oggi il governo lo approverà in Consiglio dei ministri).

L’intero meccanismo di approvazione dei piani nazionali, peraltro, è farraginoso almeno quanto i controlli e i monitoraggi successivi quando le risorse andranno pian piano erogate. Bruxelles ha otto settimane di tempo per analizzare i piani, già frutto di estenuanti negoziati. Ma l’analisi sarà lunga (ci dovrebbe lavorare una task force di almeno un centinaio di funzionari della Commissione) e i negoziati proseguiranno. Tanto più che diversi Paesi hanno lasciato in sospeso le riforme più controverse e politicamente esplosive chieste da Bruxelles che vanno negoziate con parti sociali e partiti. Ad esempio, le pensioni per Francia e Spagna, quest’ultima peraltro ha in sospeso anche quelle del lavoro e fisco.

Che la situazione sia tesa lo si è capito ieri, quando i ministri delle Finanze di Francia, Germania, Italia e Spagna hanno presentato in videoconferenza insieme i rispettivi piani. “Chiediamo alla Commissione di valutare senza ritardi i Piani in arrivo dai vari Paesi, in modo che il Consiglio possa approvarli al massimo a luglio. Questo permetterà alle risorse di fluire prima della fine dell’estate”, ha esortato il francese Bruno Le Maire a nome anche degli omologhi Scholz, Franco e Calvino. “Ci sono tutte le carte in regola per essere ottimisti sul proprio futuro”. Sarà così, eppure, solo lunedì scorso in tv (su Europa 1) Le Maire aveva ammesso che l’anticipo dei fondi per la Francia (circa 5 miliardi, sui 40 previsti da Bruxelles) non arriverà prima dell’estate e comunque “non prima di settembre”: “Ho promesso ai francesi che i soldi europei sarebbero arrivati all’inizio dell’estate, all’inizio di luglio. Mi piace poter mantenere le mie promesse e vorrei che l’Europa capisse che le procedure vanno velocizzate”.

Se va avanti così, i soldi arriveranno in autunno.

Vaccinazioni capestro: le riserve monetarie in pegno ai produttori

Beni pubblici a garanzia delle richieste di risarcimento. Nei contratti firmati con la Commissione Ue, Pfizer e le altre Big Pharma hanno ottenuto la totale indennità per gli effetti collaterali dei vaccini, ma in alcuni Paesi poveri si è andati oltre, chiedendo asset dello Stato a garanzia dei possibili effetti avversi. Una clausola che, in qualche caso, ha fatto saltare i nervi: come al governo del Sudafrica, che alla fine è riuscito a respingere la richiesta.

La clausola si chiama indemnification. Nel contratto firmato il 20 novembre tra la Commissione, l’americana Pfizer e la tedesca BioNTech per le prime 200 mila dosi di vaccino, “la Commissione, a nome degli Stati membri”, dichiara che “la somministrazione dei vaccini sarà condotta in base alla responsabilità esclusiva degli Stati membri”. Questo vale anche per “morte, lesioni fisiche, lesioni mentali o emotive, malattia, invalidità, perdita o danno a proprietà, perdite economiche o interruzione dell’attività” connesse ai vaccini. Le aziende sono tenute a rispondere solo per “dolo” o “difetto di qualità”, da valutarsi sulla base delle “Linee guida Ue per le buone pratiche di fabbricazione dei medicinali”. Nei contratti con Astrazeneca e Moderna sono previste condizioni molto simili.

Tutto sommato è andata peggio ad altri Paesi del mondo. Lo ha rivelato con una serie di articoli The Bureau of Investigative Journalism, un consorzio di giornalismo investigativo fondato nel 2010 a Londra. Pfizer ha richiesto ad alcuni governi latinoamericani non solo di sgravare da qualsiasi responsabilità legale la compagnia, ma di mettere a garanzia di eventuali richieste di risarcimento beni come le riserve monetarie delle Banche centrali, gli edifici che ospitano le ambasciate o le basi militari. Tra le nazioni che si sono viste avanzare richieste del genere ci sono Argentina e Brasile. Finora Pfizer ha firmato accordi di fornitura con nove Paesi dell’America Latina: Cile, Colombia, Costa Rica, Repubblica Dominicana, Ecuador, Messico, Panama, Perù e Uruguay.

I contratti sono secretati. Impossibile sapere se qualcuno abbia messo a garanzia beni dello Stato per ripagare eventuali danni causati dai vaccini. “Pfizer cerca lo stesso tipo di indennità e protezione che ha negli Stati Uniti e in tutti i Paesi che hanno chiesto di acquistare il nostro vaccino, coerentemente con le leggi locali applicabili”, ha risposto Pfizer al consorzio giornalistico, ricordando che i termini degli accordi sono confidenziali. Di certo la clausola in questione è stata discussa con il governo del Sudafrica. Lo ha rivelato in una lettera datata 14 aprile il ministro della Sanità Zweli Mkhize. Il governo di Pretoria è lo stesso che da ormai sei mesi chiede all’Oms, insieme all’India, di sospendere i brevetti sui vaccini almeno fino alla fine della pandemia, con l’obiettivo di aumentarne la produzione e la diffusione nel mondo. Il ministro sudafricano Mkhize ha espresso frustrazione per i termini “difficili e talvolta irragionevoli” che i produttori di vaccini, tra cui Pfizer, hanno sottoposto al suo governo. Una condizione in particolare, ha scritto Mkhize, era “troppo rischiosa”: la richiesta di usare beni dello Stato a garanzia delle possibili cause legali. “Ci siamo trovati nella posizione di dover scegliere tra salvare la vita dei nostri cittadini e rischiare di mettere le risorse del Paese nelle mani di società private”, ha scritto il ministro sudafricano, aggiungendo di essersi sentito “sollevato” quando Pfizer ha rimosso quella “clausola problematica”.

Insomma, almeno in Sudafrica i beni dello Stato sono stati esclusi dagli accordi per la fornitura dei vaccini. Un effetto però c’è comunque stato, ha sottolineato Mkhize. Quella clausola ha prolungato il negoziato, provocando ritardi nelle consegne dei vaccini salvavita.

Big Pharma, Strasburgo boccia il brevetto libero

Il Parlamento europeo accetta l’idea che “i vaccini anti Covid-19 devono essere prodotti su vasta scala, avere prezzi accessibili, essere distribuiti a livello mondiale in modo da essere disponibili là dove necessario”. Ma non approva gli emendamenti-chiave presentati ieri dagli europarlamentari della sinistra europea – Cornelia Ernst, Dimitrios Papadimoulis, Marc Botenga e KaterinaKoneçná – che definiscono i vaccini “beni pubblici mondiali garantiti a tutti” e quello che invita l’Unione europea a “sostenere l’iniziativa promossa da India e Sudafrica presso l’Omc, finalizzata a una sospensione temporanea dei diritti di proprietà intellettuale”, che sono stati bocciati.

La bocciatura è avvenuta con 450 voti contrari e 153 e 162 voti a favore. Quasi tutti da sinistra con il sostegno compatto di The Left e dei Verdi e, per quanto riguarda l’Italia, anche del Movimento 5 Stelle (che non ha gruppo) e del Pd, che invece ha votato in disaccordo rispetto ai socialisti e democratici quasi tutti contro.

Ancora, dall’Italia, Lega e Fratelli d’Italia – che nella propaganda si scagliano spesso contro gli interessi e i profitti delle grandi major – si sono schierati per l’astensione, Forza Italia ha votato contro insieme al blocco compatto di Ppe, Socialisti e i liberali di Renew. Insomma, a Strasburgo, Big Pharma non si tocca e sul tema dei brevetti non si avrà un’iniziativa convinta della Ue per dare sostegno a una richiesta che ormai da tempo viene avanzata dai Paesi estranei alla proprietà intellettuale dei vaccini.

“Il Parlamento europeo ha perso la storica occasione di dimostrare a tutto il mondo che la salute dei cittadini viene prima degli interessi e dei profitti delle case farmaceutiche”, ha dichiarato l’europarlamentare 5S Tiziana Beghin, che si augura che il prossimo 30 aprile, al Consiglio del Wto sui Trips, “la Commissione europea segua le aperture arrivate nei giorni scorsi dal Segretario al Commercio Usa, Katherine Tai”.

Di occasione mancata parla anche il parlamentare del Pd, Massimiliano Smeriglio, che sottolinea però come cresca “la sensibilità sulla necessità di ragionare sul vaccino bene comune”. Smeriglio assieme alla collega Patrizia Toia è l’unico del Pd ad aver votato a favore dell’emendamento che definiva “estremamente preoccupanti” i problemi “relativi ai gravi casi di inadempienza in relazione ai tempi di produzione e consegna”. Respinto da socialisti e liberali e approvato da popolari, verdi, conservatori e sinistra.

I due Matteo insistono: commissione d’inchiesta

Roberto Speranza è salvo, l’unità della maggioranza proprio no. O almeno, lo è solo nei numeri d’aula, perché gesti e parole raccontano ben altro. E il primo motore delle divisioni è sempre lui, Matteo Salvini. “Giocherà sempre a tirare la corda e a lasciarla all’ultimo momento utile” quasi si rassegna un big di governo uscendo dal Senato, dove Lega e Forza Italia, con la graziosa e attiva collaborazione di Matteo Renzi, rimettono subito una pistola sul tavolo, quella della commissione d’inchiesta sulla gestione della pandemia.

Come macigni piovono due disegni di legge per istituirla, uno a firma di tutto il centrodestra di governo (Carroccio, FI, Cambiamo! e Udc), l’altro di Iv. “Bisogna accertare se, nell’ipotesi in cui il nostro Paese avesse aggiornato il proprio piano pandemico, sarebbe stato possibile limitare i morti” sibila il testo del centrodestra. “Va verificata l’efficacia del piano vaccinale predisposto, anche con riguardo alla mancata e tempestiva vaccinazione dei cittadini più fragili” sostiene il ddl dei renziani. Abbastanza per provocare commenti al curaro tra i giallorosa: “Renzi e il centrodestra fanno le prove di maggioranza per eleggersi il presidente della Repubblica” .

Di sicuro, quei testi sono un attacco alla gola: del ministro alla Salute, ma anche di Giuseppe Conte, l’ex premier che sarà capo dei 5Stelle, e allora meglio preparargli l’accoglienza. Potrebbe averlo capito anche il suo successore Mario Draghi, che per molti è una sfinge. “Con noi di nodi politici non parla, mai” rumoreggiano dal campo grillino. Però con il numero 2 della Lega, Giancarlo Giorgetti, parla eccome, per provare a tamponare il numero 1, Salvini. Lo avrebbe fatto anche martedì sera, chiedendo al ministro dello Sviluppo economico di intercedere per evitare brutte sorprese nel voto a Palazzo Madama. “Niente attacchi o colpi di testa, come l’uscita dall’aula” ha fatto chiedere Draghi. Salvini ha accettato, ma al suo prezzo: “Voglio un Consiglio dei ministri tra il 10 e il 15 maggio in cui si riveda il coprifuoco alle 22”. Il premier ha ribadito che a metà maggio una verifica si farà, a prescindere. Ma nelle prossime ore dovrebbe avere un colloquio diretto con il capo della Lega.

A occhio però Salvini di calmarsi non ha alcuna voglia. Tanto che su Twitter ostenta voglia di sangue (politico): “Abbiamo annunciato un disegno di legge per una commissione sul piano pandemico e sul comportamento di Speranza. E vale dieci volte di più di una mozione”. Mentre dal Carroccio seminano veleno anonimo: “Il ministro potrebbe ricevere un avviso di garanzia, e allora…”. La certezza è che anche Draghi deve fare i conti con i continui smottamenti provocati dal leghista. “Martedì alla Camera si è ripetuta la scena già vista in Cdm – raccontano –. Il Carroccio nella riunione di maggioranza aveva detto di sì a tutto, poi è arrivata la telefonata di Salvini e il capogruppo Riccardo Molinari ha dovuto cambiare rotta”. Grosso modo, quanto aveva dovuto fare Giorgetti sul decreto Covid. Ma quanto si può andare avanti così? Il Pd spera che il Carroccio si stacchi a breve termine, anche per recuperare FI nell’alveo di un’ipotetica maggioranza Ursula.

Però la sensazione diffusa è che Salvini andrà avanti fin quando possibile bombardando da dentro, intrappolato nelle sue contraddizioni. E il ddl sulla commissione d’inchiesta su Speranza è lo strumento perfetto per tirare avanti. “Ma a pandemia ancora in corso è la peggiore risposta possibile dalla politica” ribatte Federico Fornaro di Leu, il partito di Speranza.

Ma il ministro rischia davvero? “Forse rischiano più altri per la loro gestione…”, scandisce Fornaro. Sulle agenzie però l’eco rimanda sempre alla guerra. Quella di Salvini.