L’amico di Verdini è in causa con lo Stato. E Gelmini lo nomina

“Se nella mia condanna c’è l’interdizione? Sinceramente? Non lo ricordo”. La risposta che non ti aspetti arriva dal nuovo capo della segreteria tecnica del ministero degli Affari regionali, dicastero senza portafoglio ma centrale nei lunghi mesi della pandemia e per le scazzottate governo-regioni sulle restrizioni. Per l’incarico, Mariastella Gelmini ha scelto un nome alquanto ingombrante: si tratta di Massimo Parisi, ex parlamentare di FI, poi Ala e storico braccio destro di Denis Verdini in Toscana. Insieme calcano da anni aule di giustizia tra condanne e udienze ancora da celebrare.

Parisi era persona di fiducia nonché amministratore nelle società editoriali fondate da Verdini dalla fine degli anni 90, falcidiate poi da fallimenti e inchieste per sovrafatturazioni e indebiti contributi all’Editoria ricevuti dalla Presidenza del Consiglio. Il 10 giugno li attende il processo d’appello per la bancarotta della Società toscana edizioni (Ste) e relative provvidenze per la stampa che nel 2018 costò loro una condanna a cinque anni. Il 7 luglio compariranno poi davanti alla Corte dei Conti di Firenze per i danni patiti dallo Stato in sede civile, tali – stando all’accusa – da giustificare il sequestro di beni per svariati milioni.

La nominadi natura politica e fiduciaria innesca cortocircuiti a catena tra istituzioni: la Presidenza del Consiglio, salvo passi indietro, si troverà presto a stipendiare con 10mila euro al mese un condannato contro il quale si era costituita nel processo, ottenendo il riconoscimento di risarcimenti e il pagamento delle spese legali. Il secondo è che la Corte dei Conti dovrà bollinare la regolarità di un incarico a un imputato davanti a una sua procura contabile. Parisi, raggiunto dal Fatto, non si scompone, risponde malcelando fastidio dal suo ufficio in via della Stamperia a Roma, sede del Dipartimento per gli Affari regionali. “Sono vicende stranote alle cronache giudiziarie. Sono un cittadino innocente e non pregiudicato”, taglia corto perché “io parlo nei processi e non dei processi”. Forse non a torto, visto che quando lo fa ammette candidamente di non ricordare se è stato interdetto dai pubblici uffici come Verdini.

L’amico Denis invece è a casa sua, a Firenze. Causa Covid sta scontando ai domiciliari i sei anni e mezzo inflitti dalla Cassazione per il dissesto della “banchina” di Campi Bisenzio. Benché in carcere, gli era stato accreditato un ruolo da mediatore nella nascita del governo di larghe intese di Draghi, riedizione del “patto del Nazareno”. Possibile che la chiamata del sodale Parisi abbia seguito questa via.

Il ministro Gelmini è legata a entrambi da un antico rapporto di amicizia e collaborazione come onorevoli e coordinatori regionali di Forza Italia in Toscana e Lombardia. Ha sempre profetizzato l’innocenza dell’ex plenipotenziario, anche mentre veniva tradotto in carcere. Professione di garantismo estesa d’ufficio allo storico braccio destro. “Confermo la scelta – dice al Fatto – è un collaboratore prezioso, la sua condanna non è definitiva”. Della nomina non si ha traccia, il decreto sarà pubblicato entro 90 giorni. “Non è pronto, se però scopre quali saranno i miei compensi me lo faccia sapere, le sarò grato”, dice lui. L’epilogo è alquanto incerto. Salvo rinvii, dovrebbe celebrarsi l’udienza alla Corte dei Conti che a Parisi contesta 1,5 milioni di euro di contributi indebitamente percepiti. Nelle more di quella, un magistrato della stessa Corte dovrà esprimersi sulla regolarità della nomina, interdizione compresa. Neppure il presunto interdetto, per sua stessa ammissione, ne ha memoria. E il ministro?

Assalto a Speranza, boomerang leghista: lo insulta ma lo vota

Dopo quaranta minuti di discorso un lungo applauso dai banchi del centrosinistra rimbomba nell’aula del Senato. A fine giornata il ministro della Salute Roberto Speranza è più forte: sia perché ha il sostegno del premier Mario Draghi (“L’ho scelto io e lo stimo”) e dei giallorosa, sia perché la mozione di sfiducia di Fratelli d’Italia spacca il centrodestra. Proprio su di lui che fino a poche ore fa era l’acerrimo nemico di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Lega e Forza Italia, dopo aver dato un altro colpo alla maggioranza martedì alla Camera sul coprifuoco, alla fine decidono di votare contro per non mettere in crisi il governo. E per giunta devono subire il contrattacco di Speranza, da loro bombardato ogni giorno: “La politica non è un gioco d’azzardo sulla pelle dei cittadini e in un grande Paese non si fa politica su una tremenda epidemia”.

Le tre mozioni contro Speranza vengono tutte bocciate: 221 no e 29 sì a quella di FdI, 206 no e 29 sì a quella di Gianluigi Paragone (Italexit) e 204 no e 28 sì a quella dell’ex M5S Mattia Crucioli. La mozione di sfiducia di FdI nei confronti del ministro della Salute è stata la seconda meno votata nella storia, battuta solo da quella del 1984 presentata dal Msi nei confronti dell’allora ministro degli Esteri Giulio Andreotti sul caso Sindona: ottenne solo 15 voti favorevoli. Inoltre da LeU si fa notare che i sì alla sfiducia sono stati – in tutte e tre le votazioni – inferiori anche alle 33 firme raccolte: 29-29-28 voti a favore (erano assenti gli ex M5S Fabio Di Micco e Mario Giarrusso e in missione Cataldo Mininno e Nicola Morra). Qualche assenza non giustificata spicca nel centrodestra – 13 in Forza Italia e 3 nella Lega tra cui quella dell’aperturista Armando Siri (molto vicino a Salvini) – e si nota anche quella di Matteo Renzi, unico assente nel gruppo di Italia Viva.

Nel suo discorso il ministro della Salute ha ricordato che il piano pandemico non era stato aggiornato dal 2006 (c’è un’inchiesta a Bergamo) e quindi gli errori risalgono a “molti anni prima” che lui si insediasse da parte di 7 governi “sostenuti da tutti i gruppi presenti, tra cui quelli che hanno presentato la mozione”. Poi ha spiegato che il ritiro del documento critico sull’Italia dei ricercatori di Venezia “è stata una decisione dell’Oms” e chiesto “unità” attaccando la destra sul “linguaggio d’odio” nei suoi confronti usato per “sfruttare l’angoscia degli italiani per miopi interessi di parte”.

Che il centrodestra si sarebbe spaccato si era capito fin dalla mattina quando Lega e FI (che ormai si sono auto ribattezzate “centrodestra di governo” per distinguersi da FdI) hanno annunciato il voto contrario alla mozione di sfiducia per “senso di responsabilità nei confronti del governo Draghi” ma in cambio nel pomeriggio hanno proposto, con l’appoggio dei renziani, una commissione d’inchiesta sulla pandemia. Il ddl chiede alla commissione di accertare le responsabilità sul piano pandemico mai aggiornato, se l’attivazione di esso avrebbe potuto “evitare o ridurre” morti e contagi, chiedere conto dei “ritardi” del governo Conte-2 e chiarire i fatti del dossier critico nei confronti dell’Italia dell’Oms di Venezia.

Ma lo scontro nel centrodestra va in scena in aula. Il meloniano Ignazio La Russa provoca i colleghi: “Si dimetta – urla il vicepresidente del Senato rivolto a Speranza – conterò uno ad uno i colleghi di Lega e FI che voteranno contro. Ce ne ricorderemo”. Dall’altra parte, il capogruppo del Carroccio Massimiliano Romeo deve fare un esercizio acrobatico per votare contro la sfiducia a Speranza ma allo stesso tempo non difendere il ministro: “Abbiamo fiducia in Draghi e siamo leali con la maggioranza ma lei ministro deve cambiare”. Poi la stoccata a FdI: “La vostra mozione aveva solo l’intento di mettere in difficoltà Lega e Forza Italia”.

Anche la berlusconiana Maria Rizzotti fa una lunga lista di tutti gli errori di Speranza e ammette che i forzisti non hanno “fiducia in lei” ma in Draghi. Epperò poi deve concludere: “Diremo no alla sfiducia”. A fine giornata così Meloni va giù dura con gli alleati: “Tutti i partiti della maggioranza hanno deciso di sostenere le scelte della gestione opaca e fallimentare della pandemia di Speranza. Chissà se gli italiani la pensano allo stesso modo”. A difendere Speranza ci pensa Vasco Errani di LeU (“Questo paese dovrebbe ringraziarla”), Domenica Castellone del M5s. Il ministro M5S Stefano Patuanelli, dopo il voto, dice basta “al teatrino” contro Speranza. Che le mozioni siano un boomerang per il centrodestra lo dice anche Danilo Toninelli (M5S) secondo cui la sfiducia arriva “dal centrodestra che governa le regioni peggiori sul Covid come Lombardia, Sicilia, Calabria, Basilicata e Abruzzo”. Anche Simona Malpezzi (Pd) è d’accordo: “La commissione d’inchiesta parta dalla Lombardia”.

Ora e sempre Resistenza

Manca un giorno alla nuova Dittatura Sanitaria e nessuno dice nulla. Nove giorni fa, tomo tomo cacchio cacchio, il Consiglio dei ministri ha deciso che lo stato di emergenza vigente dal 31.1.2020, anziché scadere il 30 aprile durerà almeno fino al 31 luglio. E i partigiani di Lega, FI e Iv, che fieramente si opposero alle precedenti proroghe del duce Giuseppi, sono scesi dalle barricate e hanno votato a favore. E i giornaloni, che l’anno scorso conducevano un’eroica Resistenza contro le due proroghe del caudillo di Volturara Appula, ci abbandonano alla terza. A luglio l’Espresso denunciava in copertina lo “Stato di Cont-ingenza” del satrapo che “vuole allungare l’emergenza per tutto l’anno” e “trasforma la fragilità del suo governo nello strumento per conservare il potere”. L’emerito Cassese lanciava sul Corriere uno straziante grido di dolore: “Non dimentichiamo che Viktor Orbán cominciò la sua carriera politica su posizioni liberali”, “Lo stato di emergenza è illegittimo perché l’emergenza non c’è”. E La Stampa titolava un editoriale di Cacciari “Un’illogica dittatura democratica”. Poi a ottobre il nuovo golpe dell’Orbán con la pochette, con la scusa della seconda ondata di sua invenzione: “Emergenza non c’è”, tuonava il subcomandante Cassese a Omnibus.

A dicembre l’italovivo Rosato invocava “un cambio di passo” perché “Palazzo Chigi ha abusato dell’emergenza”. Il 20 dicembre, con 553 morti in 24 ore, Cassese denunciava sul Messaggero le “misure non previste dalla Costituzione e dettate in nome dell’emergenza che tale non è”. Antonella Boralevi fremeva di sdegno: “Il potere ci tiene da un anno, come un regime sudamericano, in uno stato di emergenza”. Galli della Loggia, sul Corriere, diceva basta “forzature, colpi di mano e personalismi” di Conte. Lawrenzi d’Arabia si sgolava: “Non abbiamo tolto i pieni poteri a Salvini per darli a Conte” (battutona ripetuta a pappagallo dal trio Faraone-Bellanova-Boschi). Poi il semprevigile Domani: “Non solo Recovery: ecco i pieni poteri di Conte”. Ancora l’Innominabile, in trasferta su El País: “Conte non ha il mojito, ma vuole pieni poteri come Salvini”, è “un vulnus democratico”, “la Costituzione non è una storia su Instagram”. E il Corriere che rilanciava un dotto studio della Fondazione Leonardo (presieduta nientemeno che da Violante): “Cesarismo e task force”. Il golpe era alle porte, ma fu sventato dalla Liberazione dei Migliori. Che però ci regalano altri tre mesi di emergenza. E la Resistenza dov’è? Cassese che fa? I due Matteo disertano così? I giornaloni mollano sul più bello? Ragazzi, vi vogliamo belli tonici come un anno fa. Resta un giorno per ripristinare la democrazia. Non deludeteci.

“Senza libertà, il giornalismo muore”: Bassini torna alla fiction

“Se un giornalista è libero per davvero, se cerca di non farsi condizionare dal potere, dalle sue simpatie politiche, dalle sue amicizie, da tutto insomma, editori compresi, riuscirà a svolgere questa professione in modo credibile, vero. Senza libertà e senza giornalisti liberi il giornalismo è morto”. Il titolo di questo brano potrebbe essere benissino Comprati e venduti, come il bel libro di Giampaolo Pansa, del 1977, su informazione e potere. Invece è uno dei passi salienti di Forse non morirò di giovedì (Golem Edizioni, pagg. 192, euro 15), l’ultimo romanzo di Remo Bassini, un bravo scrittore e giornalista di Cortona, che da anni vive in Piemonte, a Vercelli.

Autore di altre opere narrative degne di nota, da Lo scommettitore a La donna di picche, questa volta Bassini si misura con un romanzo sul giornalismo. È intanto la narrazione nostalgica di un certo giornalismo (di carta stampata) romantico e onesto, che è fortemente in crisi, ma nello stesso tempo è una nuova denuncia dei “comprati e venduti”: i servi e i padroni, insomma, della nostra informazione. Ma “servi” in certi casi, solo perché sono spesso sono messi nell’impossibilità di scrivere le cose come stanno, pena la perdita del lavoro, peraltro quasi sempre precario. Tutto ciò per fortuna ravvivato, almeno nella speranza, dai giornalisti rimasti liberi, che cercano, quasi come il Philip Marlowe di Chandler, di ristabilire un po’ di verità in un mondo che non la vuole: quello della grande stampa, delle grandi tv. Un universo omologato e dominato dai cosiddetti “poteri forti”, da editori che tutto sono meno che editori veri, ma industriali o finanzieri, o miscugli di politica & business.

La vicenda si dipana attraverso un fatto di cronaca, un’aggressione a due gay, e un’intervista televisiva ad Antonio Sovesci, travagliato e vessato direttore di un quotidiano di provincia: il centro di tutto è ovviamente il giornale, il giornalismo, il dovere della cronaca. Come dice Sovesci, è “un bel mestiere il nostro. È bello anche perché ci permette di incontrare persone e storie. Ma c’è una storia, quasi mai raccontata: è la storia del giornale stesso e di chi lo fa”. Però quel “bel mestiere” è diventato sempre più difficile, e la maggioranza dei mass media è sempre meno credibile. Non tutto è perduto, comunque… La chiave della storia di Bassini, la sua “morale”, si racchiude proprio nelle dediche: “Dedico questo libro a tutti i giornalisti liberi e a due persone in particolare, che non ci sono più: Francesco Brizzolara, che è stato il mio direttore e che mi ha insegnato a fare il direttore, e a Ciro Paglia, che non ha bisogno di presentazioni e che è il più bravo giornalista che ho incontrato sul mio cammino”.

“Odio gli scrittori impegnati sempre dalla parte giusta”

L’accusatore è un intellettuale onesto: “Io purtroppo sono vecchio e obeso, sulle navi delle Ong non ci posso andare: sarei solo d’impiccio, mentre sulla letteratura posso dire la mia”. E la dice eccome, Walter Siti, nella raccolta Contro l’impegno, fresca di stampa per Rizzoli. Lo scrittore, già premio Strega, ne ha per molti, colleghi e opere: la narrativa diventata “macchina per fabbricare rassicurazione”; “le figure patetiche della letteratura benintenzionata e confortevole”; “l’immaginario vittimistico”; “la semplificazione”; “i romanzi amici”; “lo stare sempre dalla parte giusta”…

Professor Siti, i nuovi moralisti sono di sinistra e “allineati”, non una minoranza ghettizzata: non si smontano da soli?

Quando mi riferisco al mainstream penso a una certa egemonia culturale: oggi la sinistra ha più voce, più capacità di introdursi in letteratura. È come se questi scrittori di sinistra diano per scontato che esistano nemici – di destra – e sanno che avranno qualcuno contro, che li detesta. Tuttavia essi scrivono solo per quelli che la pensano come loro. Prendiamo Michela Murgia e il suo “fascistometro”: è per quelli di sinistra, non per i fascisti.

A parte Saviano, suoi “bersagli” sono Murgia e Carofiglio, che però separano i loro ruoli di romanziere e polemista.

Murgia istintivamente tiene i piani separati tanto è vero che l’ho sentita dire “io non mi considero una scrittrice, ma una militante politica che usa la letteratura”. Mi colpisce che alcuni temi profondi dei suoi romanzi siano poco valorizzati nei saggi: forse lei stessa teme che possano indebolire le sue tesi. Di Carofiglio ho invece l’impressione che usi i romanzi come dimostrazioni delle sue teorie. Non è lontano dall’idea di Saviano che i romanzi servono per ampliare il pubblico e dare più forza al messaggio.

Scrive: “In trincea non stai a vedere come sei pettinato”. Allora hanno ragione i “soldati” della parola?

La letteratura, per me, ha a che fare con l’etica, ed è giusto chiederle un valore educativo. Ma quale? A cosa “serve”? Gli scrittori con cui me la prendo (non solo i succitati, anche Valérie Perrin, Amanda Gorman… ndr) pensano che la letteratura serva a filtrare buoni contenuti o mettere in guardia dai cattivi, anche trascurando la forma. Io penso invece che la forma, la “pettinatura”, sia fondamentale perché fa emergere contenuti che l’autore stesso non conosce. La letteratura ha un valore conoscitivo; se sparisse, è come se sparisse la chimica: perciò mi arrabbio tanto. La letteratura è contemporaneamente bene e male: ci mette di fronte alle nostre contraddizioni.

“Difendere la letteratura non è meno importante che difendere i migranti”: non esagera?

No, la sparizione di un modo di conoscere è tragica.

Per i suoi “avversari” le parole sono importanti…

Insistendo troppo sulle parole si perde il gusto di ascoltarle. Si tende a imporle, militarizzarle, e queste cadono inascoltate.

Il Werther ha la responsabilità di alcuni suicidi: la letteratura fa male?

Può fare del bene come del male. La letteratura porta in superficie ciò che non conosciamo: non tutto fa bene, ma lasciarlo marcire là sotto, nell’inconscio, è peggio. Conoscere il diavolo fa parte della vita, è sin terapeutico.

Engagement sta per impegno, poi ingaggio, commercio, fidanzamento…

Soprattutto sui social esistono bolle e comunità autoreferenziali in cui ci si parla tra persone che si intendono già. Sono così legate alla propria opinione che all’altro possono solo rispondere con un’offesa. In un romanzo bello, al contrario, non si può mai dire chi ha torto e chi ragione. Pensi a Madame Bovary.

Ha ragione Charles!

Certo, ma dopotutto Emma è l’unica che pensa in grande, e lui fa rumore mentre succhia il brodo… Tutti hanno le loro ragioni, anche i nemici più crudeli. Ciò che rimprovero al neo-impegno è che la vittima ha sempre ragione. Ma la letteratura ci insegna a superare l’idea che il mondo si divida in buoni e cattivi.

Saviano forse è rimasto impigliato nel suo ruolo…

Gomorra è bellissimo. Ma poi ho come l’impressione che si sia spaventato delle ambiguità della letteratura e si sia tirato indietro, preferendo la strada della polemica, senza inciampare in un qualche abisso.

Anche il suo libro scatenerà polemiche…

Non so, io vorrei essere lasciato in pace. Più che altro.

Salvate il soldato Jane. Dalle amazzoni alle cecchine

Sisters in arms, Sorelle in armi, è il titolo del libro che raccoglie le biografie delle guerriere che hanno raggiunto audaci i campi di battaglia, dall’antichità al nostro millennio: soldatesse che strisciano da un secolo all’altro, da una pagina all’altra nel volume di Julie Wheelwright, ora pubblicato da Odoya.

Invece di sorridere a chi le voleva eterne damsel in distress, damigelle in pericolo, alcune ragazze hanno preferito imparare a lucidare spade o fucili.

La capitano Flora Sandes, molte medaglie in petto e il ben più eterno omaggio di “Giovanna d’Arco serba”, fu l’unica donna-soldato britannica nell’esercito dell’est durante il Primo conflitto mondiale: entrò a Belgrado a cavallo sussurrando la poesia Se di Kipling, ma, scrisse dopo, “quei versi non fecero di me un uomo”. Decenni prima di lei si era arruolata tra le stesse file serbe per sconfiggere i turchi “l’amazzone dell’Erzegovina”, l’olandese Jeanne Merkus, antesignana delle foreign fighters.

Spesso è stato un paradosso a concedere alle donne d’armi la libertà: per poter combattere si sono dovute travestire proprio da ciò che le opprimeva. Nascoste dietro abiti da uomo, baffi e barbe finte, sono fuggite dalle imposizioni del tempo che vivevano. “Non sanno cosa è in grado di fare una comune ragazza inglese”, scrisse Dorothy Lawrence. Indossò un’uniforme, si fece chiamare Danis Smith, da soldato raggiunse la trincea del fronte occidentale del Primo conflitto mondiale, diventando ciò che gli editori inglesi le dicevano di non poter mai essere: una corrispondente di guerra.

Durante quel conflitto, che si mangiava i destini degli uomini e poi gli uomini, era la trincea la fuga privilegiata dalla schiavitù domestica.

Le soldatesse sfidano il potere oppressivo, ma a volte ne diventano emanazione. Valerie Arkel-Smith fuggì da un marito violento, ma finì per impersonalo con il suo alter-ego maschile: il colonnello Viktor Barker. Valerie-Viktor sposò la sua amante e si iscrisse al Buf, Unione fascista britannica, per pestare “rossi e rosa”, comunisti e donne che chiedevano parità salariale.

Le Sisters in arms hanno amato la tempesta per imperativo e temperamento, dall’epoca delle sciabole a quella dei kalashnikov. Allevate con l’idea di essere madrepatria e non singoli individui, 800mila russe si arruolarono durante la campagna di reclutamento del Komsomol per ammazzare nazisti. La più celebre divenne la cecchina Pavlicenko, “modello di femminilità sovietica liberata”, ma il perché tante si spinsero verso la linea più calda – la prima, quella del fuoco – , della Seconda guerra mondiale, lo ha sintetizzato la combattente Sofya Vereshchak, che imbracciò le armi contro la Wehrmacht: “Il tempo che vivevamo ci ha rese quello che eravamo. La nostra idea era giovane e allora lo eravamo anche noi”.

L’eterno binomio di caste o sgualdrine, tuttora esistente, veniva registrato anche da un sondaggio del 1941, scrive l’autrice: se in uniforme le soldatesse sono belle allora sono puttane, se sono mascoline sono certamente delle lesbiche.

Alcune si riconoscono forti solo se centrano lo stesso bersaglio dei maschi, altre capiscono che lo diventano davvero solo se hanno il coraggio di denunciare le violenze sessuali subite dalle mimetiche della loro stessa bandiera: lo ha dimostrato Martha McSally, senatrice repubblicana Usa, prima donna ad avere il comando di uno squadrone di caccia dell’aeronautica e sostenitrice del #metoo.

Oggi le donne in divisa delle Repubbliche ribelli del Donbas battono il terreno che secoli fa percorrevano le madri ancestrali di tutte le combattenti, le amazzoni scite, che in Ucraina orientale venivano seppellite insieme alle loro lame. L’audacia epica delle sorelle d’armi si tramanda nelle vene dei popoli, ribolle da una generazione femmina all’altra.

Oggi le miliziane, scrive Wheelwright, “vengono reclutate online per la causa della Nuova Russia con un linguaggio tratto dagli appelli di Maria Bockareva”, la comandante che nel 1917 ricevette dallo zar il primo battaglione tutto femminile della storia. Maria percorse il sentiero che un’altra guerriera aveva già cominciato a tracciare: Nadezda Durova, prima ufficiale della storia militare russa, si unì alla cavalleria zarista per sconfiggere Napoleone facendosi chiamare Aleksandr Durov. Alle spalle di Nadezda c’erano altre ave che si erano gettate nella mischia del sangue e del fango in trincea, perché prima di lei, e dopo di lei, molte donne nei secoli, si sono sempre chieste se fosse giusto combattere. E caparbia, c’è stata sempre la Storia a rispondere: Sì.

L’ex eurodeputato perde l’immunità e finisce in carcere

“Mi trovo in una macchina della polizia belga. Ladri, atei e anti-greci mi mandano in prigione. Rimango fedele a Cristo e alla Grecia. Sono orgoglioso di non essermi mai piegato. Viva la Grecia, viva l’Ortodossia”. Così Ioannis Lagos, 48 anni, eurodeputato, fra i leader del gruppo neonazista Alba Dorata, ha fatto sapere ai suoi sostenitori che la libertà a Bruxelles era finita. Lunedì sera il Parlamento europeo gli aveva revocato l’immunità in seguito alla condanna a 13 anni e 8 mesi di carcere per “aver guidato un’organizzazione criminale”. Decisione presa a larga maggioranza, con 658 favorevoli e 25 contrari, 10 astenuti. A questo punto sarà il tribunale belga a dare parere sull’estradizione in Grecia. Lagos viveva a Bruxelles proprio da quando per lui restare ad Atene era diventato complicato. La condanna risale allo scorso ottobre, assieme a Lagos erano stati processati 17 ex parlamentari greci, compreso il fondatore di Alba Dorata, Nikos Michaloliakos; 16 sono dietro le sbarre, uno alla macchia: è Christos Pappas, il numero due dell’organizzazione. Con l’arresto di Lagos si chiude il cerchio su un movimento che aveva avuto successo sull’onda della rabbia popolare per la crisi finanziaria tra il 2010-2018. Alba Dorata aveva ottenuto una rappresentanza in Parlamento fra il 2012 e il 2019, nel 2015 era ancora il terzo partito più sostenuto, ma i guai seri erano iniziati nel 2013 dopo l’assassinio del rapper antifascista Pavlos Fyssas, accoltellato ad Atene proprio da un affiliato ad Alba Dorata; per quel delitto è stato incardinato un processo durato cinque anni, che ha poi portato alle condanne. L’omicidio non avvenne in modo casuale: nella notte fra il 17 e il 18 settembre 2013 una squadraccia della sezione di Nikea prese d’assalto la caffetteria Korali. Secondo diverse testimonianze, Fyssas fu accoltellato dal suo assassino mentre altri complici lo tenevano fermo. Fu la vittima, prima di morire, a pronunciare ai poliziotti che lo soccorrevano il nome del killer: Ghiorgos Roupakiàs.

Rama è per sempre: un regno in nome del piano Unione

L’Albania, sei premier in sette anni tra il 1997 e il 2005, uno dei Paesi in cui il post-comunismo è stato politicamente più tormentato, è ormai diventata un esempio di ‘stabilità’. Dopo gli otto anni di Sali Berisha, centrista, vincitore delle elezioni nel 2005 e nel 2009, ecco ora gli 8 anni che stanno per diventare 12 di Edvin Rama, socialista, vincitore delle elezioni tre volte, nel 2013, nel 2017 e ora. Sindaco di Tirana per tre mandati, dal 2000 fino a dopo le manifestazioni anti–Berisha, represse nel sangue nel 2011, ministro della Cultura negli anni Novanta, Rama s’avvia a divenire il premier più longevo del post-comunismo. Ma il suo successo non è ancora acquisito – l’opposizione, anzi, canta vittoria: accade sempre qui, l’esito del voto viene contestato – e la sua popolarità non è più solida come alcuni anni or sono: anche in Albania il potere logora chi lo gestisce. Cestista, pittore, politico, Rama, 57 anni, ha saputo rappresentare, per qualche tempo, l’antitesi all’Albania corrotta del suo predecessore – benché anche lui sia stato lambito da numerosi scandali di varia natura – e s’è votato all’europeismo: l’obiettivo è condurre il suo Paese nell’Unione europea. Ce la potrebbe fare: la soglia per l’ingresso nell’Ue dei sei Paesi dei Balcani occidentali è fissata al 2025, cioè alla fine del suo nuovo mandato. Perché la missione vada in porto, bisogna ancora risolvere il nodo del Kosovo, la cui indipendenza non è riconosciuta da tutti i Paesi dell’Unione, e c’è l’idea che l’Albania e il Kosovo, con Serbia, Montenegro, Bosnia e Macedonia, debbano costituire un unico pacchetto di nuovi ingressi nell’Ue. Con il 95% dei voti scrutinati, Rama si intesta la vittoria e dovrebbe avere ottenuto almeno 73 dei 140 seggi, uno in meno degli attuali. Da parte loro, i democratici all’opposizione sostengono di avere avuto più voti, i loro seggi sarebbero 59. Rama chiedeva agli elettori fiducia per completare i progetti d’infrastrutture sospesi dalla pandemia e la ricostruzione post-terremoto del 2019. La campagna di vaccinazioni dovrebbe consentire d’immunizzare, entro la fine di maggio, 500 mila dei 2,8 milioni di albanesi.

Beriáin, dal reportage-fake alla morte tra i jihadisti

Dove c’era sporco David Beriáin arrivava a illuminare, rivelare, denunciare. Pronto a tutto, come un reporter da film, anche a farsi spianare una pistola in faccia pur di raccontare i traffici della ’ndrangheta. E come un film deve essere stata la morte del reporter spagnolo per mano di guerriglieri jihadisti lungo una pista della riserva naturale di Pama, nel sud-est del Burkina Faso, al confine col Benin. Il documentarista faceva parte di un convoglio di fuoristrada (una quarantina di persone in tutto) insieme al cameraman Roberto Fraile e al membro dell’ong nordeuropea con il quale stava documentando la caccia di frodo, una delle piaghe dell’Africa subsahariana.

Non la più subdola, vista l’infiltrazione costante dei terroristi islamici affiliati ad al Qaeda dai Paesi della fascia del Sahel come il Niger (nodo anche del traffico di migranti) fino agli Stati della Costa del Golfo di Guinea. La troupe con il 44enne Beriáin è stata assalita da una ventina di uomini su due fuoristrada e diverse moto, depredata della loro apparecchiatura (fotocamere, telecamere, droni) in una breve e fatale lotta. Tra le vittime anche l’irlandese che accompagnava gli spagnoli.

Il corpulento Beriáin era noto ed era ieri pianto da colleghi e amici per il suo coraggio, per l’abilità nell’organizzare e portare a termine documentari nelle situazioni più incerte e pericolose: i Taliban in Afghanistan, e poi Kurdistan, Darfour, Libia, Congo, Colombia, Messico, Italia. Conosciuto anche nel nostro Paese come responsabile dei documentari per Discovery Max. La serie Clandestino – prodotta dalla sua casa di produzione ‘93 metri’: la distanza che separava la porta di casa della nonna dal banco della chiesa dove era solita pregare, perché “a volte la storia più grande è nei piccoli luoghi” amava dire – si era occupata immancabilmente del traffico di cocaina, come quello di uomini attraverso il Mediterraneo, ma anche delle mafie in Italia e in particolare della ramificazione degli affari della ’ndrangheta nel Nord Italia.

Beriáin è sempre in prima linea, sul filo del rasoio del rischio fatale porta con telecamere nascoste lo spettatore nelle raffinerie della coca di Milano, intervista politici corrotti e boss: “Sarà l’intervista più complicata e pericolosa fatta finora”, spiega il reporter prima di parlare con un mafioso che gli punterà anche la pistola alla testa. Un colpo giornalistico che aveva suscitato l’ammirazione dei colleghi per la temerarietà e la perizia degli spagnoli. E aveva convinto il canale tv Nove a pagare il documentario 425 mila euro per trasmetterlo nel novembre del 2019.

Un attento e scrupoloso carabiniere della compagnia di Milano si era però insospettito nel vedere le immagini di quello che secondo Clandestino era un laboratorio di arrivo e raffinazione della droga all’interno di un palazzo. Dalla segnalazione del militare sono partite le indagini che hanno portato quest’anno a indagare Beriáin e altre tre persone (tra cui altri due spagnoli) per concorso in truffa (per il quale il canale tv è parte lesa).

Le persone intervistate, invece che veri corrieri o boss mafiosi, o politici in combutta nel traffico di droga, si sarebbero rivelati teatranti assoldati per recitare una sceneggiatura credibile e ben orchestrata ma tutt’altro che reale. Il carisma e la crediblità acquisita sul campo da Beriáin avrebbero avuto gioco facile nel convincere il network a considerare tutto vero il lavoro della troupe spagnola, che sarebbe stata smascherata solo da un particolare notato dal carabiniere.

Abu Mazen, la pazza idea: niente elezioni per “colpa” d’Israele

Sembra sempre più probabile che il voto per le elezioni parlamentari e presidenziali nei Territori Occupati palestinesi sarà posticipato. Dopo ben 15 anni, il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas, meglio noto come Abu Mazen, aveva finalmente deciso di indire le consultazioni il 22 maggio e il 31 luglio. Ma a quanto si apprende da varie fonti, il presidente nonché leader del partito monopolista Fatah non terrà fede alla calendarizzazione del voto. Dopo anni di tentativi di riunificazione tra Fatah e il movimento estremista islamico Hamas – che controlla la Striscia di Gaza dalla guerra lampo del 2007 vinta per l’appunto dal partito islamista – era sembrato che questa fosse la volta buona. Il presidente Abu Mazen invece ha comunicato all’Unione europea, all’Egitto e alla Giordania la propria decisione di rinviare la chiamata alle urne. L’Unione europea tuttavia ha chiesto di ritardare l’annuncio ufficiale in modo da poter fare pressioni su Israele per consentire il voto anche a Gerusalemme est.

Il tentativo della Ue è stato rivelato dalla stampa libanese vicina al partito armato sciita, Hezbollah, longa manus del regime iraniano, tornato a proteggere Hamas in chiave anti israeliana. Come giustificazione per il rinvio, Abbas è infatti pronto a citare il silenzio di Israele sulla possibilità che i palestinesi di Gerusalemme est possano partecipare al voto. La più che concreta ipotesi di un diniego da parte di Tel Aviv sarebbe l’ennesima violazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite e del diritto internazionale. Entrambi infatti riconoscono la zona orientale della Città Santa come parte dei Territori Occupati e come capitale di un futuro Stato palestinese compiuto. Ma se è vero che Israele intende impedire ai residenti palestinesi di Gerusalemme est di votare allo scopo in realtà di scongiurare una possibile vittoria dell’arcinemica Hamas, è altrettanto vero che per lo stesso motivo l’anziano presidente Abbas ha interesse a far saltare le consultazioni. Mazen teme non solo Hamas ma anche la lista Libertà, nata dalla volontà di Nasser al-Kidwa di svecchiare la nomenklatura palestinese: l’ex inviato palestinese alle Nazioni Unite, è il nipote dello storico leader e premio Nobel Yasser Arafat, fondatore proprio di Fatah a cui Abu Mazen aderì fin dagli esordi diventando per decenni uno dei principali negoziatori ai tanti tavoli organizzati per cercare una pace con Israele. Proprio ieri in una intervista all’agenzia Ansa, al-Kidwa ha dichiarato: “Nessuno ha la facoltà di rinviare le elezioni. Quanto avviene è un tentativo di fermare i venti di rinnovamento e di impedire la sconfitta del partito al governo”. La lista Libertà è stata cofondata anche dall’ergastolano Marwan Barghouti, idolo dei giovani palestinesi stufi della corruzione di Fatah e dell’ipocrisia impunita di Israele che non rispetta i diritti delle persone sotto occupazione come sancito dalla convenzione di Ginevra. Per Tel Aviv, Barghouti rimane un terrorista spietato accusato di essere uno dei fautori della seconda Intifada nonché mandante di numerosi attacchi suicidi. Per questo è stato condannato al carcere a vita cinque volte. In sua vece nella lista c’è la moglie Fadwa. In una riunione di lunedì del Comitato centrale di Fatah, Abbas ha ribadito che non permetterà che le elezioni si svolgano senza che i residenti di Gerusalemme est siano autorizzati a votare. Gli abitanti palestinesi (chiamati generalmente arabi da Israele) di Gerusalemme est sono schiacciati da uno status kafkiano che fa sì che non venga riconosciuta loro la nazionalità israeliana ma solo la residenza gerosolimitana. Molti hanno ancora la nazionalità giordana, eredità della situazione pre guerra dei Sei Giorni, 1967, quando la zona orientale culla delle tre religioni monoteiste era parte del regno hascemita.

A Gaza in questi 15 anni sono nati gruppi che perseguono il jihad, la Guerra Santa islamica. Anche questi parteciperanno alla riunione prevista domani con Fatah e Hamas. Una decisione che non fa certo piacere a Israele. Secondo alcuni funzionari egiziani, l’Autorità Nazionale Palestinese alla fine dell’incontro annullerà il voto. Il Cairo è da mesi in trattative con Israele per raggiungere un compromesso allo scopo di consentire le elezioni.

Un altro membro dell’intelligence egiziana ha detto che Hamas vuole che le elezioni vadano avanti e potrebbe entrare in un governo di unità per evitare una nuova faida armata. Tel Aviv deve ancora decidere se consentirà il voto a Gerusalemme Est annessa unilateralmente nel 1980 con una legge votata alla Knesset, ma non riconosciuta dalla maggior parte della comunità internazionale.