Pubblichiamo stralci del libro Il giornalista partigiano – Conversazioni sul giornalismo con Massimo Rendina, di Silvia Resta, edizioni All Around.
Torniamo a quel primo telegiornale: noi ci muovevamo come dei pionieri, degli esploratori di un territorio sconosciuto, affascinante e pieno di incognite. Ricordo come nacque la sigla, che poi nella parte audio è rimasta quella che c’è ancora al Tg1: ta ta ta ta ta ta… per creare l’immagine ci mettemmo intorno a un tavolo e su un grande cartone qualcuno disegnò un globo, come un mappamondo, e mettemmo quel cartone artigianale davanti alla cinepresa: quell’immagine fatta in casa andò in onda così, per tanto tempo.
Le notizie venivano scelte secondo un certo ordine canonico, che Piccone Stella aveva imposto (…). In apertura c’era quasi sempre il Papa, poi un servizio sul presidente della Repubblica, poi l’attività del presidente del Consiglio. Qualsiasi cosa succedesse: un ponte che veniva inaugurato, o una nuova strada che veniva aperta… e il soggetto non era il ponte, non era il luogo dove l’evento avveniva, non erano i cittadini che ne avrebbero beneficiato. Il soggetto del servizio era l’uomo politico che tagliava il nastro. Dunque era un modo un po’ strano di concepire l’informazione, in questo primo telegiornale. (…) Io ho lavorato a quel telegiornale un paio d’anni. Poi fui cacciato. Proprio così: cacciato. (…)
In Consiglio dei ministri Fernando Tambroni disse che io ero comunista e non potevo più fare il direttore del tg della Rai. Intervenne nell’azienda, telefonò a chi di dovere e mi cacciarono. Cosa era successo con Tambroni? C’erano stati vari episodi, in quei mesi, molte lamentele nei miei confronti. Una volta un deputato della Sardegna, si chiamava Antonio Maxia, era sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, era andato su tutte le furie e si arrabbiò con me: mi chiamò, mi convocò nel suo ufficio. (…) Fui rimproverato violentemente, alzava la voce, mi disse che lui in televisione era venuto male e che quindi la colpa era mia che non avevo dato le adeguate disposizioni ai tecnici della ripresa. Erano le immagini del funerale di Papa Pio XII e lui riteneva di non essere stato sufficientemente inquadrato. Si vedeva poco. Lo mandai direttamente a quel paese, gli dissi che neanche il fascismo avrebbe fatto tali richieste a un giornalista, lo trattai a pesci in faccia. (…) Poi ci fu comunque la goccia che fece traboccare il vaso. Era la Befana del 1956. Ricordo come fosse ieri. Tambroni telefonò in Rai e chiese al direttore generale – che si chiamava Rodolfo Arata – che si facesse un servizio su donna Rachele Mussolini che il giorno dopo avrebbe distribuito dei doni ai bambini, in occasione della festa della Befana del sei gennaio. Io dissi di no, mi opposi, ero contrario. Mi sembrava una richiesta assurda, una provocazione. La moglie del Duce ripresa a distribuire doni, come fosse una benefattrice; e perché mai? Arata insistette: lo devi fare, lo ha chiesto Tambroni, non dobbiamo avere problemi col governo. E mandò di sua iniziativa un operatore a fare le riprese. Quando arrivò il materiale in redazione – allora il girato era in pellicola, era la classica pizza cinematografica – lo presi e tagliuzzai minuziosamente tutto con le forbici. Poi dissi che il nastro si era rovinato nella moviola, e così fu impossibile mandare in onda il servizio. Mi sembrava offensivo dare spazio a donna Rachele. Ero sempre un giornalista partigiano. Risposi: allora mandiamo in onda anche la befana di Nilde Jotti. Io cercavo di fare un giornale libero ma mi impedivano di farlo. Tambroni aveva assicurato la signora Mussolini che la sua distribuzione dei doni sarebbe andata in onda. Le aveva detto: “Guardi la televisione che stasera ci sarà il servizio al telegiornale”… la signora aveva visto le cineprese arrivare sul posto, aveva anche parlato al microfono, aveva rilasciato un’intervista. Ma quella sera il servizio non comparve. Successe la fine del mondo, un putiferio, e così, su due piedi, mi mandarono via.
(…) In quel periodo io collaboravo molto con Aldo Moro, ci sentivamo spesso. E lui mi chiese come mai avevo dovuto lasciare il telegiornale e così gli raccontai l’episodio; lui si arrabbiò moltissimo, parlò con l’amministratore delegato che si chiamava Marcello Rodinò, e fu abbastanza brusco, prese le mie difese. Così Rodinòmi chiamò e con tono di scusa mi disse: “Sa, penso ci sia stato un equivoco, venga da me che chiariamo”. Nell’incontro cercò di addolcire la pillola, mi disse che volevano valorizzarmi (forse erano un po’ preoccupati di aver preso quell’atteggiamento così drastico nei miei confronti) e comunque aggiunse “Sarebbe bene che lei non si occupasse più di giornalismo, perché potrebbe dare fastidio”.
Come gesto di cortesia, diciamo così, in segno di risarcimento, mi propose di scegliere un quadro che aveva nel suo studio, un appartamento, una suite all’Hotel de Russie, in via del Babuino a Roma… a modo suo voleva farmi un dono. Il primo impulso fu di rispondergli male. Poi pensai ai miei figli: come faranno a vivere se mi cacciano dalla Rai? E che penseranno del padre? Allora accettai l’offerta e scelsi una tela. Tra i quadri c’erano un Casorati e un Menzio: avrei voluto prendere il Casorati ma mi sembrava troppo. Perciò scelsi il Menzio, un bel dipinto che oggi ha mio figlio Sebastiano.