1956, il partigiano Rendina licenziato dal Tg lottizzato

 

Pubblichiamo stralci del libro Il giornalista partigiano – Conversazioni sul giornalismo con Massimo Rendina, di Silvia Resta, edizioni All Around.

 

Torniamo a quel primo telegiornale: noi ci muovevamo come dei pionieri, degli esploratori di un territorio sconosciuto, affascinante e pieno di incognite. Ricordo come nacque la sigla, che poi nella parte audio è rimasta quella che c’è ancora al Tg1: ta ta ta ta ta ta… per creare l’immagine ci mettemmo intorno a un tavolo e su un grande cartone qualcuno disegnò un globo, come un mappamondo, e mettemmo quel cartone artigianale davanti alla cinepresa: quell’immagine fatta in casa andò in onda così, per tanto tempo.

Le notizie venivano scelte secondo un certo ordine canonico, che Piccone Stella aveva imposto (…). In apertura c’era quasi sempre il Papa, poi un servizio sul presidente della Repubblica, poi l’attività del presidente del Consiglio. Qualsiasi cosa succedesse: un ponte che veniva inaugurato, o una nuova strada che veniva aperta… e il soggetto non era il ponte, non era il luogo dove l’evento avveniva, non erano i cittadini che ne avrebbero beneficiato. Il soggetto del servizio era l’uomo politico che tagliava il nastro. Dunque era un modo un po’ strano di concepire l’informazione, in questo primo telegiornale. (…) Io ho lavorato a quel telegiornale un paio d’anni. Poi fui cacciato. Proprio così: cacciato. (…)

In Consiglio dei ministri Fernando Tambroni disse che io ero comunista e non potevo più fare il direttore del tg della Rai. Intervenne nell’azienda, telefonò a chi di dovere e mi cacciarono. Cosa era successo con Tambroni? C’erano stati vari episodi, in quei mesi, molte lamentele nei miei confronti. Una volta un deputato della Sardegna, si chiamava Antonio Maxia, era sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, era andato su tutte le furie e si arrabbiò con me: mi chiamò, mi convocò nel suo ufficio. (…) Fui rimproverato violentemente, alzava la voce, mi disse che lui in televisione era venuto male e che quindi la colpa era mia che non avevo dato le adeguate disposizioni ai tecnici della ripresa. Erano le immagini del funerale di Papa Pio XII e lui riteneva di non essere stato sufficientemente inquadrato. Si vedeva poco. Lo mandai direttamente a quel paese, gli dissi che neanche il fascismo avrebbe fatto tali richieste a un giornalista, lo trattai a pesci in faccia. (…) Poi ci fu comunque la goccia che fece traboccare il vaso. Era la Befana del 1956. Ricordo come fosse ieri. Tambroni telefonò in Rai e chiese al direttore generale – che si chiamava Rodolfo Arata – che si facesse un servizio su donna Rachele Mussolini che il giorno dopo avrebbe distribuito dei doni ai bambini, in occasione della festa della Befana del sei gennaio. Io dissi di no, mi opposi, ero contrario. Mi sembrava una richiesta assurda, una provocazione. La moglie del Duce ripresa a distribuire doni, come fosse una benefattrice; e perché mai? Arata insistette: lo devi fare, lo ha chiesto Tambroni, non dobbiamo avere problemi col governo. E mandò di sua iniziativa un operatore a fare le riprese. Quando arrivò il materiale in redazione – allora il girato era in pellicola, era la classica pizza cinematografica – lo presi e tagliuzzai minuziosamente tutto con le forbici. Poi dissi che il nastro si era rovinato nella moviola, e così fu impossibile mandare in onda il servizio. Mi sembrava offensivo dare spazio a donna Rachele. Ero sempre un giornalista partigiano. Risposi: allora mandiamo in onda anche la befana di Nilde Jotti. Io cercavo di fare un giornale libero ma mi impedivano di farlo. Tambroni aveva assicurato la signora Mussolini che la sua distribuzione dei doni sarebbe andata in onda. Le aveva detto: “Guardi la televisione che stasera ci sarà il servizio al telegiornale”… la signora aveva visto le cineprese arrivare sul posto, aveva anche parlato al microfono, aveva rilasciato un’intervista. Ma quella sera il servizio non comparve. Successe la fine del mondo, un putiferio, e così, su due piedi, mi mandarono via.

(…) In quel periodo io collaboravo molto con Aldo Moro, ci sentivamo spesso. E lui mi chiese come mai avevo dovuto lasciare il telegiornale e così gli raccontai l’episodio; lui si arrabbiò moltissimo, parlò con l’amministratore delegato che si chiamava Marcello Rodinò, e fu abbastanza brusco, prese le mie difese. Così Rodinòmi chiamò e con tono di scusa mi disse: “Sa, penso ci sia stato un equivoco, venga da me che chiariamo”. Nell’incontro cercò di addolcire la pillola, mi disse che volevano valorizzarmi (forse erano un po’ preoccupati di aver preso quell’atteggiamento così drastico nei miei confronti) e comunque aggiunse “Sarebbe bene che lei non si occupasse più di giornalismo, perché potrebbe dare fastidio”.

Come gesto di cortesia, diciamo così, in segno di risarcimento, mi propose di scegliere un quadro che aveva nel suo studio, un appartamento, una suite all’Hotel de Russie, in via del Babuino a Roma… a modo suo voleva farmi un dono. Il primo impulso fu di rispondergli male. Poi pensai ai miei figli: come faranno a vivere se mi cacciano dalla Rai? E che penseranno del padre? Allora accettai l’offerta e scelsi una tela. Tra i quadri c’erano un Casorati e un Menzio: avrei voluto prendere il Casorati ma mi sembrava troppo. Perciò scelsi il Menzio, un bel dipinto che oggi ha mio figlio Sebastiano.

Brodo di tartaruga, gaffe e 745 posate: pranzo dagli Agnelli

Da Eduardo a Cinecittà, l’avventura con la banda Arbore e poi Napoli, gli amori e le amicizie. “Una vita scapricciata” è l’autobiografia di Marisa Laurito. Ne pubblichiamo un estratto.

 

Il giorno dopo la festa a casa Agnelli pioveva a dirotto. Eravamo andati a dormire alle cinque del mattino ridendo come pazzi ed ero ancora tra le braccia di Morfeo quando squillò il telefono. “Marisa, ha chiamato l’Avvocato e ci ha invitato a colazione”. “Quale avvocato? Che abbiamo fatto?”. “Mari’, colazione a casa di Gianni Agnelli. Hai qualcosa di adeguato da metterti?”. “Ho una gonna bluette e una camicia di seta fucsia”. “Sei pazza? Sta piovendo!”. (…) Gli invitati a questa colazione erano il produttore storico di Renzo, Ugo Porcelli, Luciano De Crescenzo, io e ovviamente Renzo, che ci istruì. “Mi raccomando, non ci facciamo riconoscere. Voi guardatemi sempre e, quando alzo gli occhi al cielo, vuol dire che state facendo qualcosa che non dovreste fare”. Dal momento che Ugo era sempre inappuntabile, il discorsetto era rivolto a Luciano e me. (…)

Giunti alla villa pioveva a dirotto; dal taxi alla porta di casa mi ritrovai zuppa, la povera camicetta mi si era incollata addosso. Ci accolse Marella Agnelli, perfetta nel suo maglioncino beige di cachemire leggero, calze e scarpe chiuse di pitone in tinta. Da lì cominciai a scusarmi. Renzo alzò subito le sopracciglia. Marella ci aveva fatto accomodare in un salotto bianco, stupendo; io mi guardavo intorno incantata, quando all’improvviso si sentì arrivare dal giardino l’Avvocato. Istintivamente, noi quattro ci sistemammo in posa per sembrare un po’ più classicamente nobili. Gianni Agnelli ci apparve: elegantissimo, seguito da tre cani husky dai “capelli” argentati e occhi azzurri uguali ai suoi. Le bestiole si lanciarono sui divani bianchi e affettuosamente su Arbore, passeggiando sulla moquette assieme all’Avvocato, senza sporcare niente. Tutti asciutti dal muso alle zampe. Non riuscii a trattenermi: “Un miracolo!”. Renzo alzò le sopracciglia portando gli occhi all’insù. “Renzo, non ho detto niente di strano”. (…) Durante l’aperitivo in salotto ero seduta accanto a Marella e di fronte a noi si era posizionato un cameriere che, di tanto in tanto, abbassava la testa e sorrideva. Io, essendo di sinistra, gli rispondevo facendo altrettanto, come a dire: “Sono solidale, io e te siamo complici”. Il cameriere però era un po’ troppo alleato, continuava ad abbassare la testa e a sorridermi. (…) Poi abbassò di nuovo la testa incontrando stavolta lo sguardo di Marella, che subito si rivolse a me: “Possiamo andare, il pranzo è pronto”. Tutti quei sorrisi erano cenni per dire che si poteva andare a tavola… Che figuraccia! Mentre stavamo per andare in camera da pranzo, un altro cameriere si avvicinò all’orecchio di Luciano sussurrandogli: “Ingegnere, vuole che il taxi la attenda per tutta la durata del déjeuner?”. Luciano, saltando sulla sedia esclamò: “Ma che, site asciuto pazz’?”, e si precipitò a pagare il taxi. Ormai, a furia di guardare in su, gli occhi di Renzo sembravano quelli della bambina dell’Esorcista. A tavola venni fatta sedere alla destra dell’Avvocato. E indovinate cosa servirono per antipasto e soprattutto chi servirono per prima? Me! Il cameriere mi depositò una deliziosa tazzina da caffè; guardai interrogativamente Arbore, che a sua volta mi gelò con lo sguardo. Certo, se mi fossi sentita libera, avrei detto cose tipo: “Il pranzo è finito? Siamo al caffè?”. Ma tacqui. “E mo’, che faccio con questa tazzina?” Mentre cercavo di capire cosa contenesse, l’avvocato Agnelli lentamente allungò il braccio, la prese per il manico e ne bevve un sorso. Lo imitammo tutti. Lui la ripoggiava sulla tavola e noi facevamo lo stesso. Era brodo ristretto. All’ultimo sorso, l’Avvocato fece due colpi di tosse: manco a dirlo, noi lo imitammo in coro, anzi, per eccesso di zelo, noi li facemmo molto più sonori e il cameriere andò a chiudere tutte le finestre. La tavola era apparecchiata con 180 bicchieri e 745 posate diverse. Seppi più tardi che il brodo in questione era di tartaruga. Non resistetti e chiesi: “Ne potrei avere un altro?”. Arbore guardò il soffitto e io cercai di giustificarmi: “No, perché era veramente poco… ”. Renzo roteò gli occhi ancora più indietro e temetti che gli prendessero le convulsioni.

Imparai, durante quel pranzo, che a casa Agnelli si mangiava pochissimo: erano magri, ma saziarsi era impossibile. Il secondo piatto fu una porzione di carne grande quanto una fetta biscottata, servita con una salsa. “Questa è facile”. Mi servirono per prima: misi la carne nel piatto sbattendoci sopra un cucchiaio di salsa e lasciando le due fogliette di insalata intorno. Ma quando fu il turno della padrona di casa, vidi che Marella poggiava delicatamente un cucchiaio di salsa sul piatto per poi metterci la carne sopra. Per non essere da meno, con un veloce gesto della forchetta e del coltello ribaltai la fetta di carne. Credevo che non mi avesse visto nessuno ma, manco a dirlo, Renzo mi stava guardando malissimo, anche perché uno schizzo della salsa gli sporcò il polsino della camicia e stette tutto il tempo del pranzo a cercare di allungare la manica della giacca per coprire il mio misfatto. (…)

Potenza, il clan gestiva il bar del Tribunale: “Un segnale di autoaffermazione mafiosa”

Il clan Riviezzi era riuscito a gestire, attraverso dei prestanome, il bar del Tribunale di Potenza. Aver sequestrato quei locali “ha un forte valore simbolico”, secondo il procuratore capo di Potenza, Francesco Curcio, che ha commentato l’esecuzione di 17 misure cautelari contro l’organizzazione mafiosa lucana radicata a Pignola. Il bar nel Palazzo di Giustizia rappresentava un presidio di potere, un osservatorio privilegiato. “Un segnale di autoaffermazione del clan in un luogo simbolico”, ha detto Curcio in conferenza stampa. Due degli indagati sono accusati di estorsione ai danni di un altro imprenditore, avvenuta nel 2018, per farlo recedere dal ricorso al Tar contro l’aggiudicazione del servizio che, secondo le indagini, fu assegnato per sei anni attraverso una gara truccata dai funzionari del Comune di Potenza.

Un’impresa fu messa in condizione di conoscere le offerte dei rivali, come si legge nelle carte. L’appalto aveva una durata di sei anni e l’imprenditore giunto secondo fu apostrofato così da uno del clan: “Avvocato, ti ricordi di me? Io sono molto amico di Sabato… Salvatore Sabato (uno degli arrestati, ndr), il bar, mi ha mandato Sabato Salvatore per capire un po’ la situazione, io sono proprio “così” con Salvatore Sabato” …Eh… uagliò, non stanno andando molto bene le cose, so che avete fatto ricorso al Tar, (…) sinceramente però vediamo di metterci d’accordo, perché se mi levi l’anello tu, te lo devo levare pure io (…) . Il clan Riviezzi “influenzava anche l’attività dell’amministrazione comunale di Pignola, con la capacità tipica mafiosa di intimidire pure gli amministratori pubblici”, ha evidenziato il procuratore capo. Undici le persone finite in carcere, tra cui “lo zio”, Saverio Riviezzi, il boss, imputato nel maxi processo al clan dei ‘Basilischi’. Altre tre sono state messe agli arresti domiciliari e per altre tre ancora è stato disposto l’obbligo di firma. Trenta gli indagati noti, due le società sequestrate. L’operazione ‘Iceberg’, condotta dalla Squadra Mobile di Potenza e coordinata dal pm Gerardo Salvia, ha permesso di fare luce anche sul pieno coinvolgimento di due esponenti del clan nell’omicidio di mafia del 2 aprile 2008 di Giancarlo Tetta, avvenuto nel contesto della lunga faida che dal 1991 ha scandito la storia dei rapporti fra gli avversi clan melfitani dei Di Muro e dei Cassotta. È stato possibile far affiorare alla luce la complicità di Saverio Riviezzi e di un suo affiliato che avrebbero fornito agli assassini, affiliati al clan Cassotta, la vettura Fiat Croma rubata qualche giorno prima a Potenza ed impiegata per raggiungere e freddare la vittima con otto colpi di pistola, auto poi data alle fiamme.

Manifesto: 50 anni cercando sempre un’altra sinistra

Il manifesto compie oggi 50 anni ed è un pezzo di storia del giornalismo e della politica che festeggia il compleanno. Il quotidiano “comunista” nasceva infatti il 28 aprile 1971 al prezzo di 50 lire e con solo quattro pagine che, scriveva Luigi Pintor, il primo direttore, “da oggi non sono più un’idea ma una realtà esposta al giudizio di tutti”. Tra i fondatori tanti nomi della intellettualità e politica comunista a cominciare da Rossana Rossanda, Valentino Parlato, Luciana Castellina, Aldo Natoli, Lucio Magri. Provenienti dal Pci, erano stati radiati nel 1969 dopo aver fondato la “rivista” il manifesto che due anni più in là decide di trasformarsi in quotidiano.

Pintor detterà le leggi di questo esperimento: “Avere un direttore, una redazione, degli accadimenti, non essere noiosi” affermando però che il manifesto non sarà mai in grado di rispettarle. Ma può vivere lo stesso. La vita del giornale, in effetti, coincide con quella della sinistra italiana, i suoi movimenti, avanzamenti, rotture e anche scissioni. Si fa partito, insieme al Pdup, nel 1973, poi le strade si dividono, organizza la grande manifestazione del 25 aprile 1994 contro il neo governo Berlusconi, sforna una miriade di firme che faranno fortuna in altri giornali. Subisce anche la scissione interna con Rossanda che abbandona nel 2012 nel corso della liquidazione forzata da cui riesce a emergere con una nuova cooperativa.

Oggi in edicola con il quotidiano ci sarà un supplemento di 96 pagine che raccoglie il “meglio” degli anni Settanta e un numero unico di oltre 40 pagine con gli interventi di firme del giornalismo, della cultura e del cinema. I festeggiamenti per l’anniversario dureranno fino alla fine del 2021, con nuovi album– a maggio gli Anni Ottanta e poi ogni mese a seguire – inserti tematici nel giornale e il restyling del sito. Auguri.

Pd, M5s e FI: nell’Isola prove di larghe intese

Un centro di gravità con un raggio d’azione talmente largo da inglobare Pd, Movimento 5 Stelle e un pezzo di Forza Italia. Quella che sembra fantapolitica in realtà è uno scenario che in Sicilia gradirebbero in molti. Così l’Isola, laboratorio di alleanze per tradizione, getta le basi per le Regionali 2022. Obiettivo comune del campo largo a trazione moderata è quello di scalzare il presidente Nello Musumeci da un mandato bis a Palermo. Ma se da un lato l’alleanza tra dem e grillini è cosa fatta, dall’altro c’è da valutare la posizione di Gianfranco Miccichè. Il segretario regionale dei berlusconiani è dentro un partito che sostiene l’attuale governatore ma allo stesso tempo gli azzurri sono spaccati in due al loro interno e nelle ultime settimane proprio Miccichè non ha fatto mancare, da presidente dell’Assemblea regionale, le sfuriate indirizzate al centrodestra e alla tenuta della maggioranza. In più ci sono le dichiarazioni del sottosegretario alle Infrastrutture Giancarlo Cancelleri. Possibilista al dialogo senza nessuna preclusione a eccezione di coloro che siedono al tavolo del governo Musumeci. A provare a frenare una dinamica da accordo di palazzo è invece Renato Schifani, intenzionato a fare rimanere Forza Italia nel “vecchio” centrodestra. Le parole del consigliere politico di Berlusconi però non è detto che abbiano l’effetto voluto, anche perché Miccichè il centrodestra siciliano lo spaccò già nel 2013 quando si candidò da solo. “Abbiamo sempre posto come campo da gioco la Sicilia e come giocatori i siciliani – spiega al Fatto Quotidiano Giovanni Di Caro, capogruppo M5S all’Ars –. Ragioniamo sui temi ed è ovvio che su alcuni di questi, come i rifiuti, ci siano contrasti forti. Il dialogo è serrato con il Pd mentre tutto il mondo che orbita attorno al governo deve cominciare a fare autocritica. Miccichè? L’alleanza non credo che sia all’ordine del giorno”.

Reddito di cittadinanza, il record a Napoli: sotto il Vesuvio assegni come in tutto il Nord

I numeri sono numeri, non possono essere travisati. E quelli contenuti nelle tabelle dell’Inps sul reddito di cittadinanza ci dicono che la spesa per il Rdc a marzo a Napoli si avvicina a quella di tutto il Nord. Circa 157.000 famiglie percepivano il reddito o la pensione di cittadinanza per 459.000 persone coinvolte nel complesso. Nello stesso periodo nell’intero Nord 224.872 famiglie percepivano il reddito o la pensione di cittadinanza per poco più di 452.000 famiglie coinvolte. Poiché l’importo medio è più basso al Nord che al Sud, a marzo sono stati spesi per il sussidio 109,7 milioni nell’intero Nord e 102,2 solo a Napoli, dove si concentra quasi un sesto della spesa complessiva. L’ultimo osservatorio Inps rivela che quasi 1,5 milioni di famiglie hanno ricevuto almeno una mensilità di reddito o pensione di cittadinanza nel 2021 e una spesa negli ultimi due anni, a partire dall’introduzione della misura contro la povertà di quasi 13 miliardi. A marzo di quest’anno le famiglie con il beneficio erano oltre 1,1 milioni per 2,6 milioni di persone coinvolte.

Mail Box

 

Con le riaperture, attenti all’igiene pubblica

Studi vari pubblicati su prestigiose riviste scientifiche stigmatizzano il rischio di contrarre il virus in ambienti cosiddetti confinati. Zaia, giorni fa, ha dichiarato di aver dato incarico alle Asl di produrre requisiti minimi di locali aperti al pubblico. Ma è davvero compito delle Regioni? Noi, igienisti e medici di sanità pubblica, ci aspetteremmo modifiche su scala nazionale delle norme vigenti di igiene ambientale, con la chiusura immediata, o riconversione assistita, dei locali realizzati nei seminterrati, o in luoghi igienicamente non idonei Ci aspetteremmo, per tutti i locali aperti al pubblico, una normativa inderogabile su: dimensioni, cubature, areazione e ventilazione libera e forzata, metri cubi per persona, e misuratori di CO2 (indicatore indiretto di contaminazione); su distanze adeguate tra sedie e tavoli (2 mt almeno); su turnazioni dei clienti, anche protratte, ma con sanificazioni e ricambi di aria frequenti; su mascherine obbligatorie sempre, soprattutto se seduti al tavolo (dove ci si contagia chiacchierando a meno di 1 metro); e altre norme di puro buon senso igienico ambientale. Nessuno si è preso la briga di rivedere e proporre norme, requisiti minimi di igiene ambientale dei locali aperti al pubblico ai tempi del Covid. Virologi, epidemiologi, infettivologi, occupano la scena mediatica giornalmente. Gli “igienisti” dove sono, e perché sono muti?

Dott. Simonetta Martorelli
Ex direttore dipartimento igiene ambientale e sanità pubblica

 

Una testimonianza da chi ha avuto il Covid

In un momento in cui vengono spesso messe in risalto le cose che non funzionano, volevo invece raccontare la mia esperienza personale di paziente malato e ricoverato per Covid presso l’Ospedale Nuovo di Imola. Fin da subito ho trovato assistenza e supporto nonostante l’evidente mole di lavoro. Ho notato un’ottima organizzazione ed efficienza sia da parte degli infermieri, degli operatori socio-sanitari, e dei medici, così come attenzione e calore umano, da non darsi per scontato. Inoltre volevo far notare, a quanti ancora sostengono che questa emergenza sia eccessivamente enfatizzata, che non è proprio così. Il ritmo di lavoro di questi operatori è aumentato moltissimo, e soprattutto con pazienti sempre più giovani. Ringrazio pertanto di cuore tutti i sanitari incontrati per aver garantito una cura e una assistenza sanitaria veramente competente e umana.

Alessandro Pirazzini

 

Acqua, a 10 anni dal voto si continua a privatizzare

10 anni dopo il referendum che aveva sancito con schiacciante maggioranza cosa pensavano gli italiani della privatizzazione dell’acqua, dopo le prove evidenti che i privati non sono né capaci né efficienti nella gestione dei servizi e delle infrastrutture, si torna a parlare di privatizzare il servizio idrico (mai tornato realmente pubblico). Questo si chiama “calpestare la democrazia”.

Marco Modena

 

Sul Recovery è stato svilito il Parlamento

Anche se lo stesso presidente del Consiglio dice di rispettare il Parlamento, la realtà è che si è accettato il “pacco” a scatola chiusa. Non c’è stato tempo per discutere il piano. Il Parlamento lo ha solo ratificato, senza avere la minima possibilità di emendarlo. Perché il Piano non è stato presentato prima? A cosa serve allora votare i nostri rappresentanti?

Mauro Chiostri

 

DIRITTO DI REPLICA

In merito all’articolo dal titolo “Lazio, c’è un’altra graduatoria targata Pd” a firma di Vincenzo Bisbiglia pubblicato sul Fatto Quotidiano il 25 aprile 2021 si tiene a precisare quanto segue. Credo sia opportuno chiarire i fatti: 1) Concorso bandito l’8 maggio 2017 con 7 idonei al termine delle prove. Un concorso per 1 posto da istruttore amministrativo (e non funzionario come erroneamente riportato nell’articolo) categoria C indeterminato part time a 18 ore, per il quale era prevista una retribuzione di circa 800 euro al mese. Il concorso fu vinto da una ragazza di Rocca Santo Stefano che già lavorava in Comune da 2 anni a seguito di selezione per un posto a tempo determinato. A seguire altri 6 idonei. Come si legge nell’articolo alcuni tra i 7 in graduatoria sono risultati idonei a più di qualche concorso, a testimonianza, evidentemente, della loro bravura e della corretta valutazione della Commissione. Anche la vincitrice, dopo circa un anno (correva il 2019), ha lasciato, preferendo l’opportunità al Comune di Roma (concorso del 2010). 2) Scorrimento della graduatoria e assunzione della seconda. La nostra graduatoria è stata attenzionata da molti Comuni che ne hanno chiesto l’autorizzazione all’utilizzo. Abbiamo concesso a tutti l’autorizzazione, il Comune di Zagarolo e quello di Marino hanno formalizzato le relative convenzioni. In questa graduatoria ci sono anche alcuni amministratori locali, ma se partecipano ai concorsi, sono laureati e preparati, non vedo quale sia lo scandalo. Apprezzo molto che sia stato comunque sottolineato nell’articolo che l’intera procedura risulta comunque lecita.

Sandro Runieri
Sindaco Rocca di Santo Stefano

 

Nell’articolo non è menzionata la parola “funzionario” ma “istruttore”, come riportato nell’oggetto della determinazione. La vicenda della vincitrice non è affrontata (e il nome della signora non viene menzionato), anche perché non è il tema della questione sollevata. Per il resto la “precisazione” conferma quanto riportato nell’articolo.

Vin. Bis.

Maturità 2021. Sembra un cantiere impazzito, trionfo da scuola-azienda

Nel silenzio assordante di un corpo docente smarrito ed estenuato è arrivata con l’Ordinanza ministeriale per gli Esami di Stato l’ennesima variazione sul nulla, che impone, in particolare ai docenti delle discipline di indirizzo, un nuovo compito: costruire per ogni studente un elaborato (nel mio caso di greco o latino) con sviluppi multidisciplinari. Lo scorso anno doveva essere una prova modellata sulla nuova tipologia della seconda prova, come a simulare uno scritto, l’anno precedente, invece, bisognava esercitarsi a inserire materiali per le buste che il candidato doveva sorteggiare e, per carità, non con le cose studiate, le solite, ma con soggetti che stimolassero i collegamenti. Questo in sintesi quello che accade nella Scuola: sembra un cantiere impazzito, dove sulla pelle di chi lavora ogni comparsa che arriva cambia qualcosa. L’arcano è presto svelato: non è più importante conoscere ma collegare, siamo al copia incolla, al link che si apre appena apro la pagina, senza neanche finire di leggere. È il trionfo della scuola azienda e delle competenze trasversali, la distruzione dei curricoli e della dimensione spazio e tempo : inutile avere letto il De Providentia o l’Apologia bisogna trovare con che si collega e se non si collega, non si può usare.

Intanto le solerti case editrici, più al passo con i tempi, forniscono agli studenti materiali di ogni tipo, “derubati” dagli archivi dei poveri docenti che continuano indefessi a inventarsi nuovi compiti per dare un senso a qualcosa che un senso non ce l’ha. L’elaborato, nelle materie di indirizzo e nella forma a esse consona, deve essere inviato entro il 30 aprile a un docente di riferimento della Commissione, scelto prima ancora di assegnare l’argomento e che dovrebbe fare da tutor, nel caso dopo cinque anni di liceo con un mese di tempo non si riesca a scrivere un commento su una versione.

Ci sono anche video tutorial che spiegano come costruire la performance dell’orale secondo le tecniche della retorica antica: inventio, elocutio, dispositio… Poveri ragazzi, che penseranno di noi? Sembra che li stiamo ammaestrando per una recita. Poi c’è tutta la parte dei P.C.T.O e di Educazione Civica che il candidato deve mostrare attraverso power point o altri mezzi speciali e poi, visto che è il mondo del lavoro (che non c’è) che li aspetta, gli studenti devono compilare un curriculum e il docente li deve sorvegliare, perché nonostante il format prestampato potrebbero non essere capaci.

Roberta Menichetti

La variante televisiva

E così Andrea Crisanti non andrà al ristorante. Peccato, speravo di invitarlo fuori a pranzo per farmi tirare un po’ su di morale; ma lui da bravo virologo vuole dare il buon esempio, ne ha emesso perfino comunicazione ufficiale. Spiace che non si sia sbottonato oltre su questo tema delicato. Al bar, Crisanti ci andrà? Un macchiato caldo se lo concederà, magari di nascosto dagli assistenti?

Che certi scienziati non distinguano più una loro scelta personale da una notizia da dare al mondo la dice lunga sul narcisismo della variante televisiva. Ma forse non è più tempo di interrogarsi su questa predittività compulsiva, ha più senso chiedersi a chi giovi la metamorfosi dei clinici in maschere fisse della commedia dell’arte chiamata talk show.

Di sicuro, giova agli ascolti dei talk medesimi, che grazie a queste nuove figurine Panini hanno potuto sperimentare gli ascolti lusinghieri della tv dell’angoscia, perfino superiori a quelli della tv del dolore. Prima c’era solo zio Michele da Avetrana. Ora siamo tutti zio Michele.

Giova al cinismo di politici spregiudicati e di conduttori compiacenti, entrambi determinati a cavalcare la pandemia come fosse un derby politico: Salvavirus contro Manettari.

Giova all’immortale legge di Theodor Sturgeon: “Il 90 per cento di tutto è spazzatura”. Nel caso dell’infodemia da Covid sui media italiani, azzarderemmo il 95 per cento.

Ci pare invece che non giovi alla credibilità della scienza: lo spettacolo di questi professori in fila per apparire a qualsiasi ora, entusiasti di trasformarsi in stelline del video, lascia perplessi, e lascia soprattutto irrisolto il più grande enigma della virologia. In laboratorio quando ci vanno?

Questa babele di previsioni, moniti, tutorial, annunci, questa filiera di camici, algoritmi e modelli matematici che pompano ansia, confusione, strumentalità, chiacchiere da bar sport, insomma questa variante italianissima giova o no al virus? Secondo noi si frega la corona dalla contentezza.

Salvini e Meloni. Lo scontro a destra che fa guadagnare molti voti (a destra)

A turbare la ola e lo scroscio di applausi che il governo Draghi si porta appresso dopo la presentazione del Recovery Plan da 248 mila milioni (ogni tanto è giusto ricordare cos’è un miliardo, anche se se ne parla come di noccioline all’happy hour) c’è una divertente guerra sotterranea tra le due destre più estreme del Paese. Mentre regna una finta concordia, guidata dalla speranza che il signor Draghi – fico com’è – ci porti fuori dal disastro annaffiando di soldi la penisola, possiamo goderci il grazioso vaudeville di Giorgia contro Salvini, Salvini contro Giorgia, e tutti e due, chi più chi meno, contro il governo (uno da dentro, l’altra da fuori). No, non intendeva questo, Draghi, quando ha detto di superare “gli interessi di parte”, ma al momento, in attesa dell’assalto alla diligenza che trasporta 248 miliardi, gli interessi di parte sembrano quelli dei due combattenti: la giovane italiana e il baciatore di salami. Meloni gode della posizione privilegiata di essere l’unica opposizione esterna, Salvini cerca di monetizzare il suo ruolo di opposizione interna: la faceva a spada tratta brandendo un mojito quando era ministro dell’Interno, figurarsi se esita a farlo oggi. È una guerra di dispetti, scaramucce, sgambetti. Salvini attacca Speranza? Meloni presenta una mozione di sfiducia a Speranza. Salvini attacca il coprifuoco? Meloni di più. Salvini guida falangi di ristoratori incazzati? Meloni pure, con il risultato che manifestazioni di gente che non lavora da un anno e passa, che ha parecchie ragioni per essere nervosa, finiscono per sembrare riunioni di arditi, con i pipicchiotti di CasaPound e altri nostalgici di Kappler in prima fila. A guardare i sondaggi, Salvini ha perso in poco più di un anno quasi 15 punti percentuali, mentre la Meloni ne ha conquistati un bel po’, dimostrando la tesi dei vasi comunicanti (a destra).

Alla lunga, però, sarà il caso di uscire da questa partita tutta tattica – che avrà la sua gloriosa epifania al momento della scelta dei sindaci delle grandi città – e passare a qualcosa che somigli alla strategia. Dunque si porranno alcune domande che oggi sembrano peregrine, ma che tra qualche mese diventeranno più pressanti. Una tra tutte: ma siamo sicuri che lasciare alla destra tutte le battaglie sulle libertà costituzionali, alla lunga, pagherà? Se uno comincia alle nove del mattino a dire che è mezzogiorno, quando finalmente arriverà mezzogiorno canterà vittoria come se fosse merito suo, ed è proprio questo che Salvini e Meloni aspettano, in modo di intestarsi, un domani, la ripartenza, la fine dell’emergenza, e magari addirittura una decisa ripresa economica (“Io l’avevo detto” livello pro).

E del resto c’è la sgradevole sensazione che le posizioni fieramente chiusuriste della sinistra (pardon) siano più dettate dal fare argine alle intemerate dei due balilla, uno dentro e una fuori dal governo, che a una visione di prospettiva, che per ora è affidata soltanto alla pioggia di miliardi in arrivo sul primo binario. La destra law and order che si finge libertaria è un notevole testacoda, ma è un testacoda speculare a quello di una sinistra (ri-pardon) che non vede – che non sa vedere, e non da oggi – la rabbia di molti italiani, e quando la vede si rifugia dietro un comodo luogocomunismo (i ristoratori incazzati? Tutti evasori fiscali, bon, fine del discorso, facile, no?). Oggi l’emergenza copre come un sudario questa contraddizione, ma dopo, poi, si saprà in qualche modo sanarla? Cioè: si troverà un vaccino?