Perché il governo degli avversari non sta in piedi

In un’intervista al Corriere il ministro Franceschini ha detto: “Questo è un governo di avversari nato per l’emergenza… Un governo di avversari che devono collaborare. Sono convinto che non ci vorrebbe molto a mantenere, da parte di tutti, un atteggiamento costruttivo nell’interesse del Paese”. Il ministro scopre l’acqua calda quando dice che la compagine dell’esecutivo è composta da “avversari”, e sbaglia di grosso quando invoca un atteggiamento costruttivo nell’interesse del Paese sostenendo che “non ci vorrebbe molto”: sono due cose in contraddizione tra loro. Ed è una contraddizione mortale. Per la ragione, fin troppo ovvia, che tra i partiti di governo non c’è identità di vedute su ciò che rappresenta l’interesse del Paese. E come potrebbe essere diversamente, visto che coprono l’intero emiciclo parlamentare? Non raccontiamoci la favola della ricostruzione postbellica e della Costituente: è un paragone che non si può fare perché non c’è stata nessuna guerra e nessuna elezione con un mandato costituente.

Il premier ha citato De Gasperi (“L’opera di rinnovamento fallirà, se in tutte le categorie, in tutti i centri non sorgeranno degli uomini disinteressati pronti a faticare e a sacrificarsi per il bene comune”) e non sappiamo se ha peccato più di ingenuità o di hybris. L’idea che il solo nome Draghi potesse annullare differenze politiche e interessi di parte (i partiti sono di parte, e non è un gioco di parole) si è rivelata una fragile illusione. Oggi i partiti di governo (sono tutti al governo, a parte la Meloni) si scannano sul coprifuoco (se ciò avvenga sulla base di autentiche convinzioni o di opportunismi è ininfluente), domani sarà su qualcosa d’altro. Poco importa, più rilevante è il gioco sporco dei partiti che fanno l’opposizione stando al governo. La posta non è solo il voto dei commercianti e dei ristoratori, ma anche il riconoscimento dell’identità politica di ciascuno. Un capitale che i partiti, seppure in questa versione annacquata e indistinta, non possono ulteriormente scalfire, pena la scomparsa. Ma è difficile sopravvivere in un governo di salute pubblica o unità nazionale, perché non c’è spazio per i distinguo: tutti dentro vuol dire tutti dietro il premier. Non si può fare l’opposizione stando al governo molto a lungo: il giocattolo è destinato a rompersi presto. Non si va avanti a forza di contentini e piccoli compromessi. Se le posizioni contrarie dei dissidenti di governo sono sincere, presto i leader dovranno trarne le conseguenze. Se sono un minuetto per dimostrare la propria r-esistenza in vita, la gente se ne stancherà. Dunque è una tattica doppiamente dannosa. Eppure è comprensibile, e anzi la concordia chiesta da Franceschini è in qualche modo contro natura: “homo homini lupus” è un imperativo categorico nel rapporto fra i partiti perché si contendono il consenso dei cittadini. Il conflitto, all’esterno delle istituzioni, è benedetto. All’interno è utile, nella misura in cui è possibile giungere a un compromesso. L’errore è a monte del governo: nel nome di quella governabilità che tutti amavano fino a poco tempo fa, bisognava lasciare fuori qualcuno.

La comune opinione sembra essere che la presenza di Draghi sia garanzia, farmaco, antidoto e panacea di tutti i mali. Una convinzione infantile (in un paese bambino, il cui dibattito pubblico è affidato a gente che pensa che il premier sia Maradona) per ragioni che non ci attardiamo a ricordare nuovamente. Enrico Mattei diceva di usare i partiti allo stesso modo dei taxi. Forse lo pensa anche Mario Draghi, forse anche lui pensa di “salire, pagare la corsa e scendere”. È prevedibile però che sarà tradito da compagni di strada infedeli (a lui e tra loro), ben prima delle prossime idi di Marzo.

 

Riforma del Fisco, il tema eluso dal premier Draghi

Elusione. È la parola che si adopera per definire gli espedienti al limite del lecito tramite cui un contribuente riesce a sottrarsi al pagamento del dovuto, senza incorrere in sanzioni penali. Specialità italiana, solo un gradino sotto l’evasione fiscale vera e propria. Presentando in Parlamento il suo Pnrr anche Mario Draghi ha scelto, consapevolmente, di praticare una forma di elusione: si è ben guardato dall’esporre le linee generali della riforma del fisco che pure il suo governo si è impegnato ad approntare entro fine luglio. Un impegno vincolante, assunto di fronte alla Commissione europea. Il perché di questa elusione, è presto detto: le posizioni diametralmente opposte delle forze politiche che sostengono Draghi, in materia fiscale, non sembrano lasciare spiragli di mediazione. Salvini, come se niente fosse, continua a fantasticare di flat tax. Si è già portato a casa un condono fiscale. Le tasse intese come una rapina dello Stato ai danni del cittadino, sono da sempre il cavallo di battaglia delle campagne elettorali della destra… e figuriamoci della prossima!

Le gravi sofferenze economiche inflitte dalla pandemia, in particolare nel settore del lavoro autonomo, incoraggiano chi aspira a rappresentarlo a salire sulle barricate. Già è partita l’offensiva contro la rivalutazione dei valori catastali degli immobili, additata come una patrimoniale mascherata. Introdurre criteri più equi di progressività nelle aliquote, immaginare contributi di solidarietà in favore di chi è rimasto senza reddito, o anche solo concepire un minimo prelievo sui grandi patrimoni, suscita preventive reazioni bellicose. Insomma, nonostante l’autorità e le virtù mediatrici di Draghi, riesce difficile immaginare una vera riforma del fisco che non provochi l’uscita dalla maggioranza dei perdenti. Tanto più che da agosto scatterà il semestre bianco ma di fatto s’inaugurerà una campagna elettorale lunga otto mesi.

La questione fiscale incombe su un Paese lacerato che non può illudersi di fondare la sua ricostruzione solo sui 248 miliardi in arrivo da Bruxelles. Gli appetiti elettorali lasciano inevasa l’urgenza di una più equa distribuzione della ricchezza, senza la quale oltretutto la ripresa economica acuirebbe le disuguaglianze. Dentro alla pandemia – e non possiamo fargliene una colpa – c’è anche chi ha incrementato i suoi fatturati. Solo per fare un esempio, ha suscitato scalpore la voce dal sen fuggita di un dirigente della Federazione degli ordini dei farmacisti campani: “Dobbiamo ringraziare Santo Covid che ci sta dando un’opportunità incredibile”. Infelice, ma sincera. Ebbene, i farmacisti, così come altre categorie, godono di protezioni dirette nella rappresentanza parlamentare della destra. Proporre, come ha fatto la Uil, una forma di tassazione temporanea sugli extra-profitti generati dalla pandemia, destinando i proventi di tale gettito a nuovi investimenti e a sostegno dei più colpiti, sembrerebbe ragionevole. Ma l’idea è caduta nel vuoto. Più complesso, ma ancor più necessario, sarebbe l’adeguamento della tassazione delle multinazionali farmaceutiche e della logistica così come ha proposto l’Ocse, col beneplacito della presidenza Usa. Solo che ci vorrebbe una chiara volontà politica. Per ora Draghi ha scelto di non esprimersi su tutta questa spinosa materia.

La riforma del sistema fiscale in Italia – un Paese debilitato da 130 miliardi di evasione fiscale – non può essere un coniglio che si estrae dal cappello a sorpresa fra due o tre mesi. 130 miliardi equivalgono a più di metà del Pnrr, ed esistono nuovi strumenti per individuare gli evasori. Ma chi vuole davvero provarci? Ieri il Sole 24 Ore elogiava la sintonia fra l’azione del nuovo esecutivo italiano e l’Amministrazione Biden. Ma non si può sottacere che il piano di rilancio dell’economia americana, da duemila miliardi, è partito cancellando le agevolazioni fiscali alle imprese e ai ricchi concesse da Trump; e introducendo un’aliquota maggiorata dal 21 al 28 per cento sui bilanci aziendali, nonché una tassazione dei profitti. Alla Confindustria non piacerà, ma questi sono i fatti. In Italia possiamo far finta di niente perché tanto arrivano i soldi del Recovery Plan?

A sinistra è difficile rintracciare chi anche solo osi pronunciare la parola “patrimoniale”, nella convinzione che sarebbe foriera di catastrofi elettorali. Paradossalmente, solo sparute e generose esperienze di base – come l’associazione “Nessuno si salva da solo” di Pavia che abbiamo raccontato nei giorni scorsi – praticano forme di “patrimoniale fai da te”: contribuenti la cui busta paga o la cui pensione non hanno subito decurtazioni che decidono di destinarne una quota ai concittadini caduti in disgrazia. Una goccia nel mare.

Ma una vera riforma del prelievo fiscale resta l’incognita che grava sul futuro politico di Draghi.

 

Il trailer di “Tolo tolo”, Zalone e come individuare il razzismo (involontario)

Ancora sul trailer di Tolo Tolo (shorturl.at/gwG12) e sulla difficoltà di individuare il razzismo, anche involontario, nella comicità. Quel video fa ridere, e molto. “Il guaio” spiega il mio barbiere, che da giovane organizzava cineforum a Genova “è che sfoga sull’immigrato la rabbia di tanti per una situazione di cui, invece, è responsabile l’Occidente neo-liberista. Guerre e spoliazioni territoriali hanno creato altrove condizioni di vita impossibili, rendendo l’immigrazione una necessità. Quel video accusa l’immigrato di romperci i coglioni, e lo fa passare per un furbacchione: lo vediamo sorridere compiaciuto a ogni sua impresa contro Zalone, e arriva a sedurne la moglie, peraltro consenziente: razzismo etnico più razzismo maschilista. Il trailer presenta Checco Zalone, cioè l’italiano evocato dalla parodia musicale di Cutugno, come una vittima. Non mi stupisce, perciò, che quel video sia piaciuto alla destra. Capezzone: ‘A quelli di Baobab, che hanno strillato contro Zalone, lo dico come lo direbbero a Cambridge: Ci avete rotto i coglioni. Lasciateci sorridere. Non mi stupisce nemmeno che sia piaciuto ai pidini, correi della proto-salviniana soluzione Minniti in Libia. A un certo punto, la ‘vittima’ Zalone chiede all’immigrato perché tormenti lui, e non gli altri immigrati. L’immigrato risponde: ‘Prima l’italiano’”. Fa ridere. “Ma è un contributo ulteriore al ritratto dell’immigrato come furbacchione: è tanto furbacchione che sfotte la sua vittima, ci dice il video. Una vittima fittizia (Checco Zalone), con cui Luca Medici percula le vittime vere di una tragedia sociale che ha tanti colpevoli e tanti complici, felici finalmente di auto-assolversi con la risata offerta dal comico”. E la gag dove Checco Zalone è così esasperato che imita Mussolini a palazzo Venezia? “Anche qui, l’irritazione dell’italiano non viene criticata, viene condivisa. Se il modo è quello di Enrico De Seta, anche il risultato è lo stesso”. (De Seta, nel ventennio, fu l’autore di vignette razziste dalla grafica eccelsa: shorturl.at/mOTY6).

In un’intervista esclusiva a Vanity Fair (magazine oggetto di un product placement nel film), Medici commentò le polemiche con affermazioni che avvaloravano i soliti equivoci: “Il problema è la povertà del dibattito. Il ditino moralizzante sempre alzato a dire ‘questo si può o questo non si può dire’”. (Chi fa comicità e satira è libero di dire ciò che vuole, ma deve assumersene la responsabilità. Criticare il risultato non è “alzare il ditino moralizzante”. La replica a una critica argomentata va fatta nel merito: se ti accusano di aver realizzato un video razzista, spiegando perché, tu devi spiegare perché, secondo te, non lo è). “Magari chi ha scritto queste cose non ha visto integralmente il video o nutre semplice antipatia nei miei confronti.” (La replica a una critica argomentata va fatta nel merito, non accusando ad hominem, altrimenti si contribuisce alla povertà del dibattito di cui ci si lamenta). “Siamo a un passo dal corso di laurea in politicamente corretto”. (Il razzismo non è “politicamente scorretto”, è un reato. Non esiste la libertà di razzismo). “Rivendico il diritto di non piacere e di non risultare divertente.” (Ma nessuno ha il diritto di essere razzista, neanche per sbaglio, e neanche se piace molto). “Anche se devo dire che essere difeso da chi avresti voluto attaccare è divertentissimo”. (Se vuoi attaccare il razzismo, ma ricevi gli elogi da parte di Meloni, Salvini e tutti i media di destra, che per gli stessi motivi oggi esaltano il “politicamente scorretto” di Pio & Amedeo su Mediaset, qualche domanda devi fartela. Per la risposta, vedi sopra).

(5. Continua)

 

Amato a caccia delle metastasi

È tornato Giuliano Amato. Un po’ se ne sentiva la mancanza perché il nostro giurista d’eccezione ha sempre qualche consiglio da distribuire, una bella analisi della politica da sciorinare a 83 anni e un ruolo di primo piano alla Consulta, di cui è vicepresidente, vuoi farti mancare l’analisi “sottile”? “Lo Stato è tornato” dice Amato in una ampia intervista a Repubblica, avvertendo subito dopo, però, che “in economia non è la soluzione”. L’intervista, al grido di “W Francesco e Greta” sembra fatta a un corbyniano d’assalto, tanto è il disgusto per le politiche neoliberiste che mettevano la società dietro all’economia. Ma poi c’è quel passaggio, la fiducia nello Stato, “promotore, non gestore dell’economia”, che è comunque centrale. “Ma lei non è stato il premier che privatizzò l’industria pubblica?” gli chiede Simonetta Fiori. E lui: “Sì, ma lo facemmo perché era l’unica soluzione per liberarci da metastasi altrimenti dilaganti” e “perché quelle imprese erano finite nelle domande parcellizzate della politica”. Ma chi era quel vicesegretario del Psi che è finito travolto dalle metastasi (leggi, tangenti) e poi sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con Bettino Craxi? Chi se lo ricorda?

Ora c’è la visione! E l’Italia “sogna” con SuperMario

 

Una rivoluzione: cos’altro è quella annunciata da Mario Draghi alla Camera, illustrando il Pnrr? E chi altri, se non lui, poteva proporla, accettando la sfida di un cambiamento radicale del Paese, pur sapendo che non è affatto facile ottenerlo senza uno “sforzo corale” degli italiani? Forse è proprio per questo che Draghi ha detto chiaramente che è in gioco il nostro destino. E lo ha fatto con tale convinzione che anche una parte delle opposizioni che lo contestavano per i tempi ridotti assegnati al dibattito parlamentare, quando ha finito di parlare ha cambiato tono.

Marcello Sorgi (La stampa)

 

…Draghi decide lui e decide da solo, essendo in sostanza il premier più intoccabile di un monarca dell’assolutismo prerivoluzionario, dato che come spiega il ministro Brunetta “solo a Draghi l’Europa può concedere di fare debito e fare deficit”, essendo in definitiva Draghi insostituibile…

Salvatore Merlo (Il Foglio)

 

Il discorso di Mario Draghi sul “gusto del futuro” entra di diritto nelle pagine salienti della recente storia italiana perché non è una comunicazione burocratica né tanto meno una roba da comizio, ma un dettagliato piano per la rinascita del Paese e insieme un gigantesco investimento di fiducia negli italiani. Il discorso di Mario Draghi sul “gusto del futuro” entra di diritto nelle pagine salienti della recente storia italiana perché non è una comunicazione burocratica né tanto meno una roba da comizio, ma un dettagliato piano per la rinascita del Paese e insieme un gigantesco investimento di fiducia negli italiani. Il Piano di ripresa e resilienza, così come lo ha esposto il presidente del Consiglio a Montecitorio, non è un elenco gelido di cifre e tabelle, come lo avrebbero fatto i freddi Giulio Andreotti o Mario Monti, ma qualcosa che è “dentro la vita degli italiani”.

Mario Lavia (Linkiesta)

 

Presidente Draghi, lei ha finalmente dato una visione, un sogno.

Maurizio Lupi (Nci)

 

Il presidente Draghi ha garantito tramite la sua persona per sbloccare una serie di questioni aperte con l’Unione europea. Questo ci fa capire cosa vuol dire avere un uomo come Mario Draghi al governo. Finora nel dibattito sul Recovery abbiamo assistito a due film paralleli: da una parte quello che riguardava i partiti che avevano delle rivendicazioni, delle bandierine da mettere, dall’altra invece c’era quello di un altro livello, altissimo, di progettualità e di visione che cercava di interpretare con grande determinazione il presidente del Consiglio.

Fiammetta Modena (Forza Italia)

 

Nel presentare il Pnrr, Draghi, che per questo ringrazio, ha premesso una visione, un filo rosso: al centro c’è l’Italia, il suo futuro, le persone che in Italia abitano, la vita degli italiani, dei giovani, delle donne, degli anziani.

Roberta Pinotti (Pd)

Date lo scudo antistupidario a Super Mario

A proposito del Recovery plan, Mario Draghi “professa ottimismo a patto che i tre cavalieri bianchi ‘onestà, intelligenza e gusto del futuro prevalgano sui tre cavalieri neri: la corruzione, la stupidità e gli interessi costituiti’” (Repubblica). Ora, pur nutrendo grande fiducia nelle doti di SuperMario, si tratta davvero di un vasto programma con la differenza che la guerra ai corrotti e agli interessi costituiti (qualunque cosa ciò voglia dire) appartiene al mondo del possibile. Mentre, la presenza dei cretini è invasiva come quella degli ultracorpi: ti accorgi di loro quando è troppo tardi. Infatti, “sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione” (Carlo M. Cipolla nel suo fondamentale Allegro ma non troppo). Può anche darsi che esista una correlazione diretta tra la stupidità e gli interessi costituiti di cui sopra poiché, sempre secondo Cipolla, “tra burocrati, generali, politici e capi di Stato si ritrova la maggiore percentuale di individui fondamentalmente stupidi la cui capacità di danneggiare il prossimo è pericolosamente accresciuta dalla posizione di potere che occupano”. Non ci addentreremo oltre nella complessità dell’argomento se non per segnalare al premier che danni evidenti alla sua azione di governo vengono causati dalla stupidità dattilografa. Ovvero dalla nutrita pattuglia di incensieri dell’informazione unificata che attribuiscono a Draghi eccezionali facoltà taumaturgiche tali da moltiplicare pani, pesci e vaccini, oltreché da ricostruire l’Italia più bella e più superba che pria. Non ci ispirano mediocri invidiuzze professionali visto che analogo allarme è riportato sull’ultimo numero dell’Economist: “Su Draghi aspettative irrealistiche, il presidente del Consiglio non è l’uomo dei miracoli”. Il settimanale britannico riconosce che l’Italia gode oggi di una maggiore autorevolezza sul piano internazionale, ma invita a non farsi troppe illusioni. Poiché “un conto è guidare una Banca centrale, un altro tirare fuori la terza economia dell’area euro fuori dalle secche”. Forse un efficace scudo antistupidario del premier sarebbe quello di tenersi a distanza dai soffietti. In fondo lui non ne ha bisogno. Proprio come Charles de Gaulle che amava dire: “Quando voglio sapere cosa pensa la Francia lo chiedo a me stesso”.

Pd e FI in love: il miraggio di B. al Colle

La bomba l’ha sganciata due giorni fa Paolo Mieli sul Corsera. Parlando di maggioranza Ursula (Pd, M5S e FI che nel luglio 2019 sostennero Von der Leyen), a un certo punto scrive: “Se Salvini entrerà in urto con Draghi, Enrico Letta otterrà che si spalanchi la via per la riconquista, nel nome di Ursula, del cuore di Berlusconi. Cui potrebbe miracolosamente toccare in sorte di essere indicato, dall’intera sinistra, come il nuovo punto di riferimento fortissimo di tutte le forze progressiste”.

Potrebbe davvero, dunque, il Caimano ambire al Quirinale? L’ipotesi appare fantascienza pura. L’unico a crederci è il diretto interessato. Il quale, raccontano fonti azzurre, ci spera con una certa convinzione ed è anche per questo che sta tentando di allontanare il più possibile la sentenza sul Ruby-ter grazie al suo ricovero al San Raffaele. L’ipotesi è comunque da scartare non solo perché, quando se ne accenna, non si trova nemmeno un dem che la confermi (“Berlusconi al Colle con i nostri voti non ci andrà mai”, dicono), ma di mezzo ci sono pure i 5 Stelle. Che, pur tra le mille difficoltà di queste ore, mai e poi mai potrebbero appoggiare Berlusconi al Colle.

Allora perché Mieli ne parla? La risposta, conversando con esponenti dem e azzurri, è che si voglia benedire il ritorno della maggioranza Ursula proprio in vista (Berlusconi a parte) del grande gioco per il Quirinale.

Corrispondenze d’amorosi sensi tra i due partiti, da quando governano insieme, se ne sono viste. Tanto da far dire a Enrico Letta, in tv, che “ci troviamo meglio coi ministri forzisti che con quelli dei nostri alleati”. “Il Pd non ha più pregiudizi su di noi”, gli ha risposto Elio Vito. Nel governo, poi, le interlocuzioni sono quotidiane. Dario Franceschini e Mara Carfagna hanno molto collaborato su alcuni dossier del Pnrr. La ministra per il Sud ha un buon rapporto anche col suo predecessore, Giuseppe Provenzano (il passaggio di consegne tra i due viene definito “cordialissimo”).

Franceschini e Lorenzo Guerini in cdm fanno spesso sponda con Mariastella Gelmini e Renato Brunetta. Ma le interlocuzioni si dipanano pure a livello più basso. Debora Serracchiani, capogruppo dem a Montecitorio, per esempio, interloquisce spesso col pari grado azzurro Roberto Occhiuto. “C’è un confronto formale e governativo, ma da qui a dire che è scoppiato l’amore…”, raffredda gli animi, però, il forzista Andrea Ruggieri.

Poi c’è Letta (che con lo zio Gianni ha sempre parlato, seguendone a volte i consigli). Il segretario ha messo Salvini nel mirino perché, si sa, avere un “nemico” su cui sparare fa bene ai sondaggi. Così l’ex premier continua a buttargli petardi tra i piedi: lo ius soli, il ddl Zan, la foto con la felpa Open Arms, la legge sul fine vita in arrivo. Salvini, fiutando la trappola, s’imbullona ancor di più all’esecutivo e dopo ogni polemica si affretta sempre a ribadire la sua “massima fiducia in Draghi”. “Non farò questo favore alla sinistra, resto nel governo per contare”, ha ripetuto pure ieri.

Ma, anche con la Lega al governo, è sul Quirinale che la maggioranza Ursula potrebbe tornare a manifestarsi. Su chi, però, è un’incognita. Di sicuro, fa sapere un forzista, “non potremo mai votare uno dei nemici storici di Berlusconi, come Prodi”. Su tutti gli altri nomi (Franceschini compreso), si può trattare. Con o senza Salvini.

I 5 Stelle mordono il freno: “Conte ci spieghi cosa farà”

Il rifondatore Giuseppe Conte è un po’ come Godot, lo aspettavano e lo aspettano. Ma la politica non è letteratura, così di mattina il portavoce dell’ex premier Rocco Casalino telefona a decine di parlamentari, per sondarli e provare a rassicurarli. Sa che il M5S brucia di malessere, e che ora la paura di Conte è quella di un nuovo esodo, dal Movimento che dal 2018 ha già perso un centinaio di eletti tra addii ed espulsioni.

Basta farsi un giretto nel cortile di Montecitorio per cogliere l’aria che tira, con i grillini sparsi in gruppetti a ruminare nervosismo. Sono tanti i deputati decisi a non restituire più un euro al M5S se prima l’avvocato non dirà in modo dritto cosa vuole fare innanzitutto sui due mandati. Ma vogliono anche chiarezza sui soldi, i parlamentari, che invocano l’utilizzo dei denari pubblici del 2 per mille per costruire la struttura promessa dall’avvocato. E la certezza di poter incassare tutto il tfr a fine corsa, e non solo un terzo (15mila euro circa) come prevedono le attuali norme. Altrimenti, salutoni al Movimento: presto, già in questi giorni. E tra quelli in sofferenza ci sono veterani come l’ex sottosegretario Gianluca Vacca, che all’Adnkronos dice: “Addio? Stiamo riflettendo, il M5S che conoscevamo non c’è più”. Poi c’è Daniele Del Grosso, abruzzese come lui, che a margine di uno dei conciliaboli spiega al Fatto: “Non mi metta tra gli uscenti, ma certo questo è un momento di riflessione”. Da giorni circola anche il nome dell’ex ministra Giulia Grillo, che però lo ha smentito in alcuni colloqui: “Non abbandonerò mai il Movimento”.

Però ha il volto teso anche il dimaiano doc Sergio Battelli, che giura: “Nessuna scissione, questa è casa mia, ma voglio capire il progetto”. Nell’attesa, è già arrivata una pioggia di no per Vito Crimi. Il reggente aveva convocato diversi 5Stelle per sollecitarli a versare secondo le nuove regole concordate proprio con Conte, un forfettario di 2.500 euro, di cui mille destinati al M5S. “Ma se non ci dite cosa volete fare io non verso più” si è sentito ribadire. La posizione soprattutto di quelli rimasti indietro con le vecchie restituzioni. Un nodo gordiano, anche perché per presentare ai primi di maggio il suo piano di rifondazione Conte deve prima farsi consegnare da Davide Casaleggio i dati degli iscritti, necessari per votare su una piattaforma web – quale, si vedrà – il nuovo capo e la nuova segreteria, assieme a Statuto e Carta dei valori.

Ma per consegnare nomi e indirizzi Casaleggio pretende soldi: se non i 450mila euro di versamenti arretrati che chiedeva, almeno una parte. Il M5S inizialmente ne aveva proposti 240mila (calcolati sugli eletti rimasti), per poi trattare sui 150mila. “Ma i contatti sono difficili” soffia una voce vicina a Casaleggio. Bel guaio per Conte, che peraltro non ha ancora trovato un’alternativa a Rousseau. “Per la nuova piattaforma si parla di almeno metà maggio” sussurra un big. Ma sembra una previsione ottimistica. Non a caso, il Movimento contempla ancora di (ri)chiedere a Casaleggio un ultimo giro di votazioni sulla sua Rousseau. In tutto questo c’è anche il tema del futuro di Beppe Grillo, che starebbe meditando il passo di lato dopo il disastroso video sul figlio accusato di stupro. Se ne parla da giorni, dell’addio, ma non ci sono certezze in uno scenario che è tutto un interrogativo. Così friabile da preoccupare anche i vicini di casa del Pd. Anche per questo, ieri Casalino ha seminato rassicurazioni agli eletti: “Il progetto di Conte vuole coinvolgere tutti”. Ricevendo, pare, risposte alquanto plumbee.

Così in queste ore per frenare la slavina si sarebbe mosso anche Luigi Di Maio. Ma il ministro degli Esteri è nervoso, e non lo nasconde. “Aspettiamo fino a giugno, poi si vedrà” ripete nelle riunioni con i parlamentari più stretti. Attenderà, ancora, Conte, che lunedì ha visto i ministri a 5Stelle per discutere assieme del Pnrr, e che ha ormai completato il nuovo Statuto. Lavora a una segreteria larga, con molte donne (circolano i nomi di Lucia Azzolina e della viceministra al Mise Alessandra Todde). Domani parlerà a un’iniziativa del dem Goffredo Bettini, assieme al segretario del Pd Enrico Letta. E proverà a spegnere l’incendio.

Dl Semplificazioni: l’ecologia a misura d’impresa (grande)

L’Ambiente è stato spesso, se non sempre, la Cenerentola dei ministeri. Ora, intitolato alla Transizione ecologica (Mite) e accaparratosi le ricche deleghe all’energia dello Sviluppo economico, prova a farsi grande, ma cambiando pelle: la transizione ecologica, d’altra parte, è assai più una riforma dei processi produttivi che la protezione dell’ambiente. Il ministero di Roberto Cingolani prova insomma a reinventarsi come dicastero “sviluppista” – delle imprese, anzi delle grandi imprese – e non più di mera tutela del patrimonio naturale: basta coi no e le lungaggini, “fate presto”. È questo il senso più profondo della bozza di decreto “semplificazioni ambientali” inviata lunedì a Palazzo Chigi.

Breve riassunto. Il Piano di ripresa del governo Draghi annuncia “entro maggio” le semplificazioni necessarie ad attuare i progetti e, più in generale, sbloccare l’economia. Cingolani l’ha chiamata “transizione burocratica” e ha ottenuto che le semplificazioni inerenti la transizione ecologica siano in un decreto a parte, come peraltro richiesto l’estate scorsa anche dalle commissioni Ambiente del Parlamento: si tratta, scrive il ministro nella lettera a Draghi che accompagna il testo, “della prima traduzione, in termini di proposta normativa, dei compiti del nuovo ministero”, nonché della “strumentazione giuridica e amministrativa essenziale” per attuare il Pnrr. Siccome alcune delle previsioni del testo toccano (e parecchio) i poteri di altri ministeri, sarà ora il Dipartimento legislativo di Palazzo Chigi a guidare la partita e non sarà un processo indolore.

Nei 20 articoli, come detto, c’è tutta la nuova filosofia del fu ministero dell’Ambiente. Il primo si occupa della Valutazione d’impatto ambientale (Via) necessaria per ogni opera: come Il Fatto ha già scritto, a quelli del Pnrr sarà dedicata una commissione apposita di 40 membri. È nelle semplificazioni vere e proprie, però, la piccola rivoluzione anche ideologica proposta da Cingolani.

Intanto in molti casi si avrà coincidenza tra l’autorità che rilascia la Via e quella che autorizza l’opera: funzione, quest’ultima, in genere appannaggio del Tesoro, che ovviamente compie una valutazione anche economica. Il Mite vorrebbe intestarsi ora tutto il percorso e contemporaneamente assegnare alla Commissione Via un ordine di priorità per grandezza economica nell’esame dei progetti: di fatto, spiega una fonte ministeriale, ad essere esaminati saranno sempre i dossier proposti dai così detti “ricorrenti”, vale a dire Eni, Enel, Snam… Non è finita: in un piccolo comma si prevede pure che i progetti e relativi allegati tecnici spediti per la Via siano asseverati, così si dice, “mediante una dichiarazione giurata” di un tecnico terzo: parebbe, come si usa in casi analoghi, che la commissione in futuro non valuterà più caso per caso, ma attraverso controlli a campione, essendo il progetto “asseverato” da un tecnico indipendente. La firma sulla Via, infine, viene sottratta al ministro, responsabile politico, per passare al dg del ministero, che potrà dare per scontato il silenzio assenso del suo omologo del ministero della Cultura passati 30 giorni. Una sorta di “Via libera”…

Enorme anche la novità sul cosiddetto “end of waste”, il processo attraverso cui quelli che un tempo erano considerati rifiuti possono, stabiliti dei requisiti tecnici, essere invece riciclati in un’attività industriale. Qui c’è una completa vittoria della Lega: il ministero darà le sue linee guida sui materiali, ma le Regioni potranno ignorarle producendo un parere dell’Arpa regionale, cioè di un loro dipartimento. La recente inchiesta sui rifiuti conciari di Arezzo (utilizzati nell’edilizia) che coinvolge la ‘ndrangheta e imbarazza il governatore toscano Eugenio Giani non sarebbe mai nata: la Regione avrebbe potuto autorizzare il riciclaggio di quel tipo di rifiuti e tanti saluti. Per aggiungere la beffa al danno, in questa materia vengono abrogati i controlli a campione dell’Ispra: se questo è il modello, i ricercatori di un istituto del ministero sono forse troppo poco condizionabili.

Quanto agli impianti di energia rinnovabile si arriva al paradosso: si vorrebbe che l’autorizzazione ambientale inglobasse anche quella paesaggistica (avete presente le polemiche sulle pale eoliche?) e si prevede un silenzio assenso di 30 giorni per tutti i permessi, persino per i controlli sui rischi sanitari. Dulcis in fundo la ex Forestale, oggi nei carabinieri, dovrebbe passare dalle Politiche agricole al Mite: potrebbe essere un lavoro di tutto riposo.

Dal Franchi di Firenze a Italia.it. Fondi scarsi e poco “culturali”

“La cultura guiderà la ripartenza del Paese”, ha spiegato il ministro Dario Franceschini, illustrando la parte del Piano nazionale di ripresa e resilienza sui settori turistico e culturale, quelli che hanno patito di più le conseguenze della pandemia, con metà dei posti di lavoro persi nel 2020. Eppure si tratta di una delle voci meno finanziate: 8 miliardi, solo il 3% del totale, all’interno della più ampia missione del Pnrr “Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura”. Ma al di là dei numeri, è la destinazione dei fondi ad apparire poco culturale.

Riqualificazione, rigenerazione, infrastrutture, immobili da Trieste a Trapani: è il leit motiv dell’intero piano, con 2,7 miliardi per ristrutturare borghi, giardini storici e proteggere l’architettura rurale. Nei suoi aspetti fondamentali ricalca quello presentato a novembre dal Conte-2. Centrali sono i “grande attrattori”: 14 interventi, distribuiti per Regioni e città, che dovrebbero rilanciare turismo e cultura finanziati con 1,46 miliardi. Tra questi c’è la riqualificazione dello Stadio Franchi di Firenze – novità rispetto al piano Conte – finanziato con 95 milioni di; la costruzione di un nuovo polo per la Fondazione La Biennale di Venezia (169 milioni), un nuovo Museo del Mediterraneo a Reggio Calabria progettato da Zaha Hadid (53 milioni). E poi 100 milioni per la creazione della Biblioteca Europea di Informazione e Cultura a Milano: progetto fermo dal 2011, sparito dai radar ma saldamente gestito da una Fondazione attiva dal 2004. O ancora 435 milioni per itinerari e treni storici, non meglio precisati. È Roma a farla da padrona, con oltre 600 milioni per grandi eventi e progetti turistici. Poi ci sono 500 milioni dedicati al miglioramento dell’offerta turistica della Capitale in occasione della Ryder Cup di golf del 2022 e del Giubileo 2025, a cui si aggiungono 105 milioni per un “progetto strategico” Urbs, dalla città alla campagna. Compaiono nel piano anche progetti che si pensavano sepolti, come la creazione di un “hub per il Turismo digitale”, finanziato con 100 milioni, che punta alla “messa a scala del portale Italia.it”, aperto nel 2007 e diventato emblema dello spreco di fondi pubblici, con oltre 60 milioni investiti a fronte di un pessimo servizio.

La maggiore novità rispetto alle bozze autunnali è l’investimento di 800 milioni per creare depositi temporanei per la protezione dei beni culturali mobili in caso di calamità naturali. Sono 5 i siti individuati, sul modello del deposito del Santo Chiodo a Spoleto. “Ma se non c’è personale che garantisca i restauri e il rientro delle opere nel luogo d’origine, si rischia di tenere quei beni culturali ostaggio dei depositi”, spiega Alessandro Delpriori, docente di storia dell’arte all’Università di Camerino”. Anche la scelta dei luoghi lascia perplessi gli addetti ai lavori: con l’eccezione di Camerino, sono siti lontani o lontanissimi dalle principali aree sismiche d’Italia. Il solo trasporto in caso di urgenza avrebbe costi enormi, spiega Delpriori. L’investimento si concentra su tre centrali nucleari in dismissione – Bosco Marengo (Alessandria), Caorso (Piacenza) e Garigliano (Caserta) – di proprietà del gruppo Sogin, partecipato interamente dal Tesoro e con parecchi debiti pregressi (458 milioni al 2018) e su due ex caserme (Roma e Camerino).

Questa parte di Pnrr sembra risolvere più i problemi di altri settori limitrofi che quelli culturali. Ognuno degli investimenti, esclusi i 300 milioni per l’industria cinematografica, si occupa di fattori non strettamente culturali. E in un ministero con carenza di personale, è preoccupante. Emblematico è il caso delle centinaia di milioni investiti per la digitalizzazione, come spiega Micaela Procaccia, presidente dell’Associazione nazionale archivistica italiana: “Non esiste digitalizzazione senza una corretta gestione dei flussi documentali fino all’archiviazione. Ma oggi il ministero non ha le competenze interne per controllare quei processi che saranno esternalizzati in modo caotico”.

Draghi ci ha messo la faccia. Sarebbe bastato ascoltare le associazioni coinvolte per evitare una distribuzione caotica di fondi pubblici.