L’industria fa scuola. Ma dimezzati i soldi delle borse di studio

Della ricerca di base abbiamo già detto: nessuna svolta nella direzione di chi considera gli atenei suo principale presidio. Cambia invece una importante parte del sistema d’istruzione, impostata in questo Pnrr per rispondere alle istanze del sistema produttivo. Il presidente del Consiglio Mario Draghi ne aveva già parlato nel suo discorso di insediamento, quando aveva confuso gli Its (Istituti tecnici statali) con gli Itis (istituti tecnici industriali). “In Francia e in Germania – aveva detto – sono un pilastro importante del sistema educativo”. I numeri raccontavano un fabbisogno di circa 3 milioni di diplomati di istituti tecnici nell’area digitale e ambientale tra 2019 e 2023. Così la formazione professionale si prende l’unica grossa riforma del comparto Istruzione. Vengono infatti assegnati 1,5 miliardi, venti volte più della fase pre-pandemica, con l’obiettivo di raddoppiare il numero degli iscritti agli Its, arrivando alla soglia dei 20mila l’anno con almeno 5mila diplomati.

Nel caso degli Its, parliamo della cosiddetta formazione terziaria non universitaria, vi si accede dopo il diploma e per definizione “risponde alla domanda delle imprese di nuove ed elevate competenze tecniche e tecnologiche”. In sostanza serve a creare un ecosistema in cui – semplificando – l’industria fa sapere di cosa c’è bisogno e il sistema d’istruzione fa di tutto per fornirglielo nella speranza di creare occupazione (in che forma, poi, dipenderà comunque dalle condizioni del mercato del lavoro). Sembra una cosa buona e in parte lo è. Il problema è che questa dinamica viene impostata già a partire dalle scuole superiori. Il piano prevede infatti anche una riforma degli istituti tecnici e professionali. Si legge: “In particolar modo, orienta il modello di istruzione tecnica e professionale verso l’innovazione introdotta da Industria 4.0” e ancora un “potenziamento del modello organizzativo e didattico” ovvero “una integrazione dell’offerta formativa”, “l’introduzione di premialità” e ampliamento “dei percorsi per lo sviluppo di competenze tecnologiche abilitanti– Impresa 4.0”. I docenti sono da formare “perché siano in grado di adattare i programmi formativi ai fabbisogni delle aziende locali”. La riforma coinvolge 4.324 Istituti tecnici e professionali. Si spinge anche sui corsi quadriennali, sia per i licei che per gli istituti tecnici: “Lo stanno sperimentando 100 classi in altrettante scuole, ma l’obiettivo e farle arrivare a mille”.

Se questa parte del Pnrr risulta comunque in linea con una visione già presente in precedenza, una sensibile retromarcia arriva invece sul diritto allo studio. Il Pnrr si premura di raddoppiare a 800 i milioni per la formazione digitale degli insegnanti (che potrebbe servire per garantire una migliore didattica digitale integrata, leggi Dad, anche nell’ottica di ridurre il numero di alunni per classe) ma dimezza i fondi per le borse di studio universitarie che si riducono di 400 milioni rispetto alle bozze precedenti, passando da 900 a 500 milioni.

Anche se di poco, si riduce lo stanziamento per l’edilizia studentesca, passando a 960 milioni dal precedente miliardo e, denunciano oggi i movimenti degli studenti, è stato eliminato l’ampliamento della no tax area, la fascia di esenzione dalle tasse universitarie. “Questo – spiega il coordinatore di Link, Lorenzo Morandi – va nella direzione esattamente opposta rispetto a quanto auspicavamo negli incontri avuti con dei rappresentanti del ministero dell’Università all’inizio della primavera”.

I partiti si agitano. Il premier: “Se falliamo, colpo alla Ue”

Non si gioca solo il futuro dell’Italia, ma pure quello dell’Europa e il ruolo dello stesso Mario Draghi come leader Ue, con il Pnnr. Il premier lo sa. Nel giorno della replica, sia alla Camera che al Senato, cerca di spronare il Parlamento. Il clima è sufficientemente plumbeo da non promettere troppo bene. E lui stesso stenta a calarsi nel ruolo. “Onorevoli deputati”. Esordisce così in Senato. Lo correggono, lui sbaglia di nuovo. Ha appena incassato un sì scontato alle sue parole a Montecitorio, con una risoluzione di maggioranza che neanche ci ha provato a evidenziare delle criticità. Il lapsus pare rivelatore. “Le riforme saranno adottate con strumenti legislativi (disegni di legge, leggi delega e decreti legge), nei cui procedimenti di adozione il Parlamento avrà un ruolo determinante nella discussione e nella determinazione del contenuto. Una fruttuosa collaborazione tra il potere legislativo e l’esecutivo è cruciale”, dice nella replica a Montecitorio. Ma appare lontanissimo. Quel che è certo è che il sostegno del Parlamento gli servirà.

C’è un cronoprogramma che assomiglia ai lavori forzati. Già a maggio sono previste le Semplificazioni e le Semplificazioni ambientali, a giugno l’Anticorruzione, a luglio il Fisco, a novembre il processo Penale, a dicembre il processo Civile e la Giustizia tributaria. Draghi ci tiene a spiegare: “I tempi erano ristretti ma la scadenza del 30 aprile non è mediatica: è che se si arriva prima, si avranno i fondi prima”. Il tentativo è anche quello di disinnescare l’impressione che abbia trattato più con l’Europa che con il Parlamento: “Non ho mai detto garantisco io” con l’Ue, “non è il mio stile”.

Intanto, Francia e Germania una ribalta mediatica, per marcare la loro posizione di asse guida dell’Europa, la cercano: ieri hanno deciso di svelare insieme i loro piani con una conferenza stampa congiunta dei ministri dell’Economia. Un’occasione sia per ricordare il contributo franco-tedesco agli strumenti anti-crisi, come Sure, il fondo anti-disoccupazione, sia per spingere tutti a concludere le procedure per dare il via al Recovery. Non è comunque certo che il 13% di anticipo arrivi prima di settembre. Draghi in Senato non può che ribadire la posta in gioco: “La sconfitta è grave, a pagare il prezzo saremo noi ma anche il futuro dell’Europa. Non sarà più possibile convincere gli altri europei a fare una politica fiscale comune. Mettere i soldi insieme e fare una politica fiscale comune torna a nostro beneficio perché siamo uno dei Paesi più fragili”. Le risorse sono condizionate alle riforme, verranno erogate in più tranche, la tempistica andrà rispettata. Nelle prossime settimane, dunque, si capirà se i partiti hanno intenzione di mettersi di traverso. Che la riforma del Fisco sia divisiva lo dice lo stesso Draghi alla Camera. E Barbara Lezzi (M5S), più tardi in Senato, affonda: “Volete farla con un condannato come Berlusconi?”

Mentre il Pd presenta degli emendamenti alla riforma Bonafede del processo penale, rilanciando la prescrizione. Matteo Salvini interviene per chiedere l’azzeramento del codice appalti. Assaggi. Draghi prova a disinnescare anche la mina della governance. I decreti arriveranno tra 15 giorni e anche se a grandi linee il sistema è chiaro, è un altro nodo: “La vera sfida sarà trovare uno schema di governo del piano tra amministrazioni locali e governo centrale”. Ma il poco entusiasmo delle Aule lo percepisce. Nella replica serale in Senato dice: “Questo è un giorno positivo”. E chiarisce: “L’Italia non sarà più la stessa se c’è volontà di successo, non di sconfitta”. Mentre parla di “inerzia istituzionale”.

I parlamentari intanto cominciano a fare conti e pronostici per l’elezione del presidente della Repubblica. Nell’inedito ruolo di chi dà lezioni di bene comune interviene Matteo Renzi. Il progetto europeo appare lontanissimo.

 

“Via i brevetti”, si vota al Parlamento europeo

Si vota oggi al Parlamento europeo la richiesta promossa da India e Sudafrica (e altri 100 Paesi) di liberalizzare brevetti e tecnologia dei vaccini Covid-19. Il voto, in realtà, si svolgerà sul certificato digitale sul vaccino, che serve a facilitare i viaggi da un Paese all’altro, ma i parlamentari della Sinistra europea hanno presentato degli emendamenti che proveranno a far pronunciare la politica europea.

“L’attuale architettura dei diritti di proprietà intellettuale – scrivono gli eurodeputati Marc Botenga, Katerina Konecna, Dimitrios Papadimoulis – lascia tutto il potere di espandere la produzione ai titolari di brevetti” mentre il monopolio concesso alle aziende di Big Pharma “ha permesso loro di resistere a qualsiasi tipo di tentativo internazionale di condividere dati scientifici e tecnologia, rendendo impossibile ad altri produttori in tutto il mondo di entrare in produzione”.

Nel dibattito dei vari liberisti e riformisti, italiani e non, la richiesta di estendere i brevetti viene descritta come un’illusione che non serve a nulla perché non risolverebbe il problema reale della produzione di vaccini. Ma, ribattono i deputati europei, “spetta alle aziende decidere se stipulare accordi di licenza o di produzione con altre aziende. Questo probabilmente spiega perché attualmente stiamo utilizzando solo il 43% della capacità di produzione globale”. Un modo diretto, dunque, per aumentare la produzione di vaccini il prima possibile è revocare i brevetti e trasferire tecnologia.

Da qui l’emendamento che chiede alla Commissione europea di “sostenere la richiesta del Sudafrica e dell’India, insieme a oltre 100 altri Paesi, di rinunciare temporaneamente al Trips, il trattato che regola i diritti di proprietà intellettuale a livello di Organizzazione mondiale del commercio, per i vaccini Covid-19”.

Il voto è di quelli importanti perché si svolge su un testo vincolante dal punto di vista legislativo. Gli emendamenti sono a nome di The Left, il gruppo della sinistra, ma esiste anche un emendamento cofirmato da socialisti e Verdi e quindi la possibilità che passi è reale.

Un’analoga decisione era stata bocciata qualche settimana fa in seno all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc/Wto) dove la proposta di India e Sudafrica è stata respinta da Paesi “ad alto reddito più il Brasile” come li ha definiti la Bbc. Secondo questi Paesi, i brevetti sarebbero importanti incentivi all’innovazione e le regole in merito sarebbero state rese già sufficientemente flessibili durante la pandemia.

L’India, in realtà, ha avuto gioco facile nel dimostrare che i Paesi oppositori agli emendamenti del Trips “sono gli stessi che si sono assicurati il maggior numero di dosi”. E non è un caso quindi se le maggiori aziende farmaceutiche del mondo, tra le quali Pfizer e Astrazeneca, hanno inviato una lettera al presidente americano Joe Biden chiedendogli di continuare a opporsi alle richieste di India e Sudafrica perché eliminare i brevetti “significherebbe danneggiare la risposta globale alla pandemia”.

Appare così surreale la dichiarazione rilasciata ieri dal presidente Usa il quale ha assicurato che gli Stati Uniti “invieranno vaccini in India quanto prima, ma dovremo misurare il nostro surplus”. Di fronte a una situazione che gli osservatori definiscono “spaventosa” – con circa tremila morti e 350 mila contagi al giorno che stanno piegando l’India sotto i colpi delle varianti, ma anche delle libertà lasciate dal governo soprattutto in occasione delle celebrazioni e pellegrinaggi induisti, in cui si sono contagiati anche due italiani in Veneto – la mancanza di vaccini e di una politica vaccinale adeguata è evidente nei Paesi più ricchi, ma costituisce una tragedia nei Paesi meno sviluppati.

L’eliminazione delle clausole Trips è stata oggetto nei mesi scorsi di un’iniziativa della società civile raccolta attorno al Comitato italiano per il diritto alla cura, che ha chiesto al presidente del Consiglio Draghi di firmare la richiesta di India e Sudafrica. Tra i firmatari, Vittorio Agnoletto, don Luigi Ciotti, Gino Strada, Silvio Garattini.

Piano Pfizer: boom prezzi del 900%

Inumeri da tenere a mente, quelli utili per capire quanto potrebbero costare in futuro i vaccini anti-Covid, li ha svelati lo scorso 2 febbraio Frank D’Amelio. Durante una riunione con gli analisti delle più importanti banche d’affari al mondo, il responsabile finanziario di Pfizer si è lasciato andare. “Voglio solo avere una migliore percezione per il medio e lungo termine, quando il Covid passerà da essere considerata una pandemia a un’epidemia”, ha chiesto Jason Eron Zemansky, uno dei vicepresidenti di Bank of America Merrill Lynch. “Jason, ti rispondo così – ha esordito D’Amelio – inizio spiegandoti come funzionano i margini attuali, e poi passo a come possono funzionare in futuro. Per i margini attuali, diciamo, siamo in un momento di prezzo pandemico. L’unico prezzo che abbiamo pubblicato è quello applicato agli Stati Uniti, cioè 19,50 dollari per dose. Ovviamente, questo non è il prezzo a cui normalmente vendiamo un vaccino, che invece è 150-175 dollari per dose”.

Durante le riunioni con gli analisti, le parole pronunciate dai manager di una società valgono miliardi. Possono fare impennare o crollare il titolo in Borsa. E quelle di D’Amelio avevano tutta l’aria di voler ingolosire la platea degli investitori. L’uomo dei conti di Pfizer non ha detto esplicitamente a quanto verrà venduto il vaccino una volta che quella da coronavirus verrà declassata da pandemia a epidemia, ma ci ha tenuto a dare dei prezzi di riferimento. Se il vaccino anti Covid venisse messo sul mercato a una cifra compresa tra i 150 e i 175 dollari per dose, come ha lasciato intendere il manager, l’aumento rispetto a oggi sarebbe di circa il 900%.

Nel frattempo, le case farmaceutiche possono già fregarsi le mani. Dei cinque gruppi occidentali che stanno commercializzando i vaccini, solo tre hanno pubblicato dati sulle prospettive di mercato per il 2021: si tratta di Astrazeneca, Moderna e Pfizer/Biontech. Nel complesso contano di fatturare almeno 35 miliardi di dollari entro fine anno con le vendite dei rispettivi vaccini anti-Covid.

Non male, soprattutto considerando che le stesse imprese hanno beneficiato di 10,9 miliardi di dollari di sussidi pubblici per la ricerca dell’antidoto. A fatturare di più saranno Moderna e Pfizer/Biontech (33,2 miliardi in totale), che vendono a prezzi molto più alti rispetto ad Astrazeneca. Lo dicono i contratti firmati dalle tre aziende con la Commissione europea tra agosto e novembre dello scorso anno, quelli validi per le prime forniture: Astrazeneca ha venduto il suo vaccino a 2,9 euro per dose, Pfizer/Biontech a 15,5 euro, Moderna a 18,8 euro. Secondo uno studio pubblicato nel dicembre scorso da alcuni ricercatori dell’Imperial College di Londra, i costi di produzione dei vaccini a base Rna messaggero (come quelli di Pfizer-Biontech e Moderna) variano dai 60 centesimi ai 2 dollari a dose.

Di conseguenza, visti i prezzi di vendita, i profitti per le compagnie saranno alti. “Dato il notevole afflusso di denaro pubblico per la ricerca e sviluppo di questo vaccino e i costi probabilmente molto bassi per la commercializzazione – ha scritto Oxfam International in un rapporto pubblicato il 22 aprile – una stima ragionevolmente prudente è che Moderna e Pfizer beneficeranno di un margine di profitto netto del 25-30% da questo vaccino”. Tradotto: Moderna potrebbe registrare quest’anno un utile netto di circa 5 miliardi di dollari, mentre Pfizer e Biontech dovranno accontentarsi (si fa per dire) di spartirsi equamente 4 miliardi di dollari di profitti. Queste cifre, ha scritto l’ong nel suo report, stridono con i numeri delle persone vaccinate nel mondo. Mentre nelle nazioni ricche attualmente una persona su quattro ha già ricevuto la puntura, in quelle più povere il rapporto è infatti di un vaccinato ogni 500 persone, ha calcolato l’Onu. Ribattezzata apartheid dei vaccini, secondo molti esperti questa situazione potrebbe essere alleviata se i brevetti venissero liberalizzati, almeno fino al termine della pandemia.

L’idea è stata proposta all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) dai governi di India e Sudafrica e ha ottenuto l’appoggio di 175 tra ex capi di Stato (tra i tanti Gordon Brown, Francois Hollande, Mikhail Gorbaciov, Romano Prodi, Mario Monti) e Premi Nobel (come gli economisti Joseph Stigltiz e Muhammad Yunus e l’immunologa Francoise Barre-Sinoussi). Avanzata sei mesi fa, all’ultima riunione del Wto è stata bocciata da alcuni membri importanti, tra cui Ue e Usa. Ora però la proposta ha ricevuto l’appoggio dalla Casa Bianca.

Proprio ieri si è saputo che la rappresentante Usa per il Commercio, Katherine Tai, lunedì ha parlato del tema con i vertici di Pfizer e Astrazeneca. Un incontro che anticipa la riunione del Wto programmata per il 30 aprile, dove gli equilibri potrebbero per la prima volta cambiare rispetto agli ultimi mesi.

Restando sui numeri, le prospettive di guadagno di Big Pharma si basano sulle stime di fatturato pubblicate dalle varie aziende a febbraio. Nel frattempo, i prezzi di vendita dei vaccini sono già aumentati. Pfizer, ad esempio, nel contratto firmato con la Commissione europea nel novembre dell’anno scorso aveva previsto che, “per ogni ordine aggiuntivo effettuato e concordato” dopo il via libera dell’agenzia europea Ema ma entro i due anni dalla firma, il prezzo sarebbe stato di 17,50 euro.

Un aumento di soli due euro rispetto alla prima fornitura (venduta a 15,50 euro), che moltiplicato per le dosi nel frattempo acquistate da Bruxelles promette però di fare la differenza sui bilanci della joint venture tra l’americana Pfizere e la tedesca Biontech. Basti dire che, come ha ribadito pochi giorni fa Ursula von der Leyen, la Commissione europea sta negoziando con Pfizer-Biontech un contratto di fornitura da 1,8 miliardi di dosi.

Se il prezzo pattuito fosse di 17,5 euro, le due compagnie incasserebbero la bellezza di 31,5 miliardi. Con un margine di profitto netto di circa il 30%, significherebbe un utile netto di quasi 9 miliardi e mezzo di euro. Da aggiungere a tutto quanto già incassato finora.

Barcellona, il test concerto è ok: 5 mila spettatori e zero contagi

Nessun caso Covid registrato tra i 5.000 partecipanti al concerto-esperimento organizzato a Barcellona il 27 marzo. Per assistere allo show della rock band catalana Love of Lesbian il pubblico era tenuto a sottoporsi a un test antigenico prima e a indossare una mascherina Ffp2 durante il concerto, senza obbligo di distanziamento fisico (il palazzetto era adeguatamente areato).

Nei 14 giorni successivi sono stati diagnosticati 6 casi positivi tra le 4.592 persone che hanno assistito al concerto e hanno poi acconsentito all’analisi dei dati diagnostici, tutti lievi o asintomatici. Di questi 6, per almeno 4 l’occasione del contagio non è stata il concerto; inoltre, per tutti è stato riscontrato che non hanno provocato ulteriori contagi. L’incidenza dei contagi corrispondente a questi dati è di 130,7 casi ogni 100.000 abitanti, la metà di quella osservata tra la popolazione generale della stessa fascia d’età a Barcellona nello stesso periodo di tempo.

“Questi dati permettono di escludere che il concerto sia stato un evento di super trasmissione del Covid”, hanno spiegato i responsabili dell’evento

Cure domiciliari e farmaci. Aifa aggiorna il protocollo

Sì alla terapia con gli anticorpi monoclonali, a patto che venga fatta entro dieci giorni dall’insorgenza dei sintomi in pazienti non ospedalizzati per Covid e in presenza di almeno due fattori di rischio se di età superiore ai 65 anni. No al cortisone, se non di fronte alla manifestazione grave della malattia e qualora non sia possibile subito il ricovero all’ospedale. No anche agli antibiotici e all’eparina, a meno che il malato non sia immobilizzato a letto.

In attesa di un protocollo nazionale sulle cure domiciliari dei pazienti Covid, il ministero della Salute ha aggiornato le linee guida del 30 novembre, con una ventina di pagine di raccomandazioni aggiornate. Entrano i monoclonali, ma solo per chi ha sintomi di grado lieve o moderato: saranno i medici di base, delle Usca e i pediatri a doverli selezionare e la terapia potrà essere effettuata solo in una delle 369 strutture ospedaliere abilitate dall’Aifa.

Altra novità: scompare l’indicazione della possibilità di prescrivere antibiotici o cortisone se il quadro clinico non migliora entro 72 ore dalla comparsa dei sintomi. Resta la raccomandazione della vigile attesa, vale a dire del monitoraggio costante dei parametri vitali, della misurazione periodica della saturazione dell’ossigeno, della somministrazione di Tachipirina (paracetamolo) o di antinfiammatori in caso di febbre o dolori articolari e muscolari. Viene invece ribadita l’inefficacia dell’idrossiclorochina (principio attivo dell’antimalarico Plaquenil) sia per prevenire che per curare. Un farmaco sul quale proprio ieri c’è stata l’ennesima giravolta: il Consiglio di Stato ha annullato la sentenza con la quale a dicembre aveva stabilito che non ci fosse ragione sufficiente sul piano giuridico per giustificare “l’irragionevole sospensione del suo utilizzo”. Sospensione decisa dall’Aifa, impugnata davanti al Tar da un gruppo di medici di base, finita sui banchi del Consiglio di Stato che prima ha dato il via libera (anche se per un utilizzo off label, cioè sotto precisa responsabilità del medico) poi ha fatto retromarcia su ricorso della stessa Agenzia del farmaco. Nel frattempo la Regione Piemonte aveva già diviso la comunità scientifica regionale inserendo l’idrossiclorochina in una nota a margine del protocollo per le cure domiciliari concordato con i medici su indicazione dell’assessore alla Salute Luigi Icardi. “Ci sono colleghi convinti che può dare dei vantaggi ma non esistono studi clinici che lo confermano”, dice il presidente dell’Ordine dei medici di Torino Guido Giustetto. Del resto tutta la storia delle raccomandazioni ministeriali è avvelenata da ricorsi e contro-ricorsi. Contro le prime linee guida il Comitato cure domiciliari Covid (un migliaio di medici) ha vinto il primo round davanti al Tar del Lazio. Poi il Consiglio di Stato ha dato ragione ad Aifa e ministero. Perché in attesa del pronunciamento dei giudici amministrativi, atteso per il 20 luglio, le linee guida sono necessarie. Un punto fermo ancora non c’è.

SuperGuido se ne va ancora: Milano addio. Sogna il Campidoglio

Alla fine Guido Bertolaso se ne andò da Milano. Un’altra volta. Ieri il superconsulente ha annunciato che tornerà a Roma: “La macchina è organizzata, gli hub massivi funzionano. A un certo punto credo che Bertolaso non serva più”, aveva detto lunedì a Quarta Repubblica, parlando di sé in terza persona. “Missione compiuta”, ha aggiunto. Un divorzio che ieri Attilio Fontana ha smussato, dicendo che “di Bertolaso abbiamo ancora bisogno, sono convinto che continueremo a lavorare perché c’è un progetto. Quindi continuerà a lavorare per la Regione Lombardia”. Tradotto: continuerà a occuparsi della campagna, ma non a tempo pieno. Fisicamente sarà a Roma, magari impegnato nella campagna elettorale a sindaco. Un’ipotesi sempre rifiutata da Bertolaso, che ora prende corpo. Non a caso, dopo mesi di silenzio social, il 21 aprile postava su Fb: “Auguri Roma mia, sei sempre bellissima, nonostante la sindaca di Nimes”.

Il centrodestra sta lavorando a un ticket con Bertolaso candidato sindaco e la consigliera regionale di Fdi, Chiara Colosimo, come vicesindaco. Il tecnico e la sua “controllora”, diretta espressione di Giorgia Meloni. Una partita che sta seguendo Matteo Salvini in persona, che con Bertolaso candidato a Roma potrebbe anche avere l’ok da FI per Gabriele Albertini candidato a Milano. Per il coordinatore romano della Lega, Claudio Durigon, “Bertolaso è un nome che ci piace molto, ma il tavolo non si è ancora riunito. Lì si decideranno i candidati. Un ticket? Dobbiamo vedere il quadro d’insieme”. Più attendista il coordinatore di FI, Maurizio Gasparri: “Non ho chiamato Bertolaso, non voglio disturbarlo, va lasciato lavorare e non coinvolto nelle beghe politiche. È un profilo che abbiamo già valutato come valido, per il resto non si può parlare sul nulla”. Già nel 2016 Bertolaso corse come sindaco di FI a Roma, ma abbandonò quasi subito, incolpando Meloni di aver posto il veto sul suo nome. In realtà, la virata di Berlusconi su Alfio Marchini fu dettata soprattutto dalle continue gaffe che stava inanellando.

Intanto, la cosa sicura è l’addio a Milano che non è proprio una sorpresa: da settimane il commissario era sparito dai radar. Un’ombra calata a seguito delle sue acclarate responsabilità (come raccontato dal Fatto e poi da Report) sulla scelta del portale di Aria a scapito della piattaforma di Poste, che tanti disagi aveva causato ai lombardi. Responsabilità che ne hanno minato la credibilità. Per questo ultimamente la scena è stata solo per Letizia Moratti. “Non sono il tipo di persona che rimane per farsi fotografare in giro per gli hub”, avrebbe detto ai suoi annunciando l’addio, anche se in molti ricordano quel volo in elicottero con stampa al seguito per consegnare 7 vaccini in uno sperduto paese montano, mentre centinaia di anziani facevano la fila davanti agli hub.

Per Bertolaso non è il primo divorzio da Milano. Un anno fa aveva sbattuto la porta in faccia a Fontana, dopo un litigio sull’ospedale in Fiera, come riferì senza essere mai smentito l’avvocato Giuseppe La Scala: “Mi ha detto che quell’ospedale non è ciò che lui aveva concepito e che, a causa della sua malattia (Bertolaso era stato ricoverato per Covid, ndr), sarebbe stato di fatto esautorato dall’operazione”. Ma nella carriera di Bertolaso le imprese lasciate a metà abbondano. Solo negli ultimi 12 mesi ha abbandonato l’incarico di commissario alla Sanità in Sicilia, quello di consulente Covid dell’Umbria e ora, quello della Lombardia. Di sicuro molti non lo rimpiangeranno, come il capogruppo M5s in regione, Massimo De Rosa: “È arrivato senza che nessuno ne sentisse il bisogno. Non si capisce cosa abbia realmente fatto, visto che ancora oggi non sappiamo chi fra lui, Fontana e Moratti abbia fatto ritardare di due mesi il piano vaccinale scegliendo il portale di Aria. E ora, nel pieno del massimo sforzo di questa prima fase del piano vaccinale, decide che la sua esperienza lombarda è terminata. Ancora una volta Bertolaso lascia il lavoro a metà”.

Il coprifuoco incendia la destra e spacca l’ammucchiata Draghi

Che per il governo si sarebbe messa male lo si era capito intorno alle 16 quando, dopo il primo rinvio del voto alla Camera e nel mezzo delle scaramucce tra Lega-Forza Italia e le altre forze di maggioranza, il ministro per i Rapporti col Parlamento Federico D’Incà era stato costretto in tutta fretta ad abbandonare il ring (“Così non si può andare avanti”) e raggiungere il Senato per incontrare personalmente il premier Mario Draghi: “Presidente, sul coprifuoco ci schiantiamo”. A quel punto il presidente del Consiglio, ancora una volta stretto nella morsa degli aperturisti Matteo Salvini e Antonio Tajani che chiedevano di fissare la data del 14 maggio per rivedere la norma e i giallorosa che non volevano concedere niente al leghista, ha dovuto cedere formalizzando l’impegno del governo a rivedere il coprifuoco “entro maggio”. E così, dopo sei sospensioni dell’aula e tre ore di ritardo, D’Incà è tornato a Montecitorio e la quadra nella maggioranza sembrava trovata con una riformulazione dell’ordine della discordia: “Il governo si impegna nel mese di maggio a valutare, sulla base dell’andamento del quadro epidemiologico e dell’avanzamento della campagna vaccinale, l’aggiornamento delle decisioni prese con il decreto legge n. 52 del 2021, anche rivedendo i limiti temporali di lavoro e spostamento”. Recepito (senza bisogno del voto). Subito dopo Lega e FI ci hanno messo sopra la bandierina: “Grazie a noi, il governo a maggio rivedrà il coprifuoco”. E Salvini andava alzando la posta: “Sto al governo per incidere, lavoro per cancellare il coprifuoco”.

Ma quando le tensioni nella maggioranza erano ancora fresche, Lega e FI hanno deciso in pochi minuti di dare un altro colpo al governo e all’alleata del centrodestra Giorgia Meloni. Di fronte ai due odg di Fratelli d’Italia, uno a prima firma Meloni, che chiedevano di abolire il coprifuoco o allungarlo alle 24, azzurri e lumbàrd hanno deciso di uscire dall’aula, come da ordine di Salvini che pochi minuti prima aveva incontrato i forzisti Ronzulli e Tajani a Palazzo Madama. Come dire: siamo d’accordo con l’opposizione ma non possiamo uscire dal governo. Soli a tenere in piedi il fronte rigorista Pd, M5S e LeU. Una giravolta soprattutto dei berlusconiani che, rispetto ai ministri leghisti, in Cdm avevano votato a favore del coprifuoco. Tant’è che un attimo dopo in aula esplode la bagarre: “Non ci può essere una maggioranza à la carte” attacca la capogruppo Pd Debora Serracchiani.

Il ministro M5S Stefano Patuanelli prova a smontare la propaganda di Salvini: “Non è una vittoria di nessuno, il tagliando tra 2-3 settimane era già stato deciso in cabina di regia”. Sul coprifuoco invece Matteo Renzi si posiziona con la destra: “Va rivisto”. E nella maggioranza sale la tensione in vista del voto di oggi al Senato sulla mozione di sfiducia di FdI nei confronti del ministro della Salute Roberto Speranza. Ancora ieri sera non era chiaro l’orientamento di Lega e FI: sicuramente non voteranno con FdI per non far cadere il governo ma Salvini spinge per astenersi o uscire dall’aula. In questo caso sarebbe un gesto plateale e un altra bastonata all’esecutivo già sotto stress. “Una cosa alla volta – ha detto ieri Salvini lasciando ogni scenario aperto – prima parlerò con il viceministro Sileri”. Il leader della Lega è combattuto tra i duri e puri che lo invitano a non appoggiare Speranza che, in caso di voto contrario alla sfiducia, “diventerebbe un ministro della Lega” e i governisti guidati da Giancarlo Giorgetti che invece provano a far ragionare il segretario: “Matteo, se non votiamo contro rischiamo la crisi”. Alla fine la Lega potrebbe votare “no” ma ribadendo la necessità di una commissione d’inchiesta sulla pandemia.

Nel frattempo, restano le macerie di un centrodestra ormai imploso. Da FdI, mentre andavano in scena le liti nella maggioranza, si esultava: “Il governo è nel caos”. E di fronte alla richiesta di riformulazione del suo odg che chiedeva di allungare il coprifuoco alle 24, Meloni è esplosa: “È una misura illegittima e inutile– ha detto – va abolito”. Poi , dopo la bocciatura, ha rincarato la dose: “Assurdo, noi lo abbiamo votato, gli altri sono usciti o hanno detto no”. A distanza le ha risposto Salvini: “Al governo posso incidere, stando fuori potrei solo polemizzare”.

Grandi ritorni: il Mes

Oggi userò questo spazio per solidarizzare toto corde con Luigi Marattin. Sì, non è un refuso e nemmeno arteriosclerosi: intendo proprio il deputato italovivo. Che ieri, intervenendo alla Camera sul Recovery, mi ha dato grande soddisfazione, riprendendo una campagna che il Fatto lanciò fin dalla nascita del governo Draghi: “Vogliamo il Mes”. A furia di sentirlo invocare per due anni, in tutti i dibattiti parlamentari, le prime pagine di giornale, i talk televisivi, le conferenza stampa di Conte, i vertici della fu maggioranza giallorosa, ci eravamo alla fine convinti e anche un po’ arrapati su quel meraviglioso acronimo di tre lettere (Meccanismo europeo di Stabilità o Fondo salva-Stati). Per due anni ci domandavamo perché nessuno lo chiedesse in Europa e tutti lo pretendessero in Italia (a parte i putribondi populisti): che sia una fregatura tipo Grecia? Ma alla fine, per sfinimento, ci eravamo arresi: viva il Mes. Del resto, se ne parlavano bene Calenda e Lawrenzi d’Arabia (“col Mes molti morti in meno e tanti vaccini in più”), come dubitarne? Così quando Conte, che non lo voleva, fu sostituito da Draghi, non avemmo dubbi: è il Migliore, il Mes ce lo darà. Invece, nel discorso della fiducia, non se lo filò di pezza. Anche perché nessuno glielo chiese. Anzi tutti gli chiesero di non prenderlo perché ormai c’era Lui. “Presidente Draghi, il nostro Mes è lei!”, proruppe il renziano Faraone, noto economista della Magna Grecia, con la salivazione leggermente fuori controllo.

I giornaloni che avevano sempre il Mes in bocca spiegarono che l’“effetto Draghi”, con la sola imposizione delle mani, faceva precipitare lo spread, rendendo il Mes superfluo, forse dannoso. Strano: col Conte-2 lo spread s’era dimezzato (da 222 del 13.8.2019 a 106 del 6.1.2021) e nessuno se n’era accorto; poi la crisi innescata dall’Innominabile l’aveva fatto schizzare a 122 (lui che voleva farci risparmiare ben 360 milioni di interessi sul debito) e nessuno se n’era accorto; con Draghi lo spread scese nei primissimi giorni da 105 a 98, per poi tornare a 105. Il quale Draghi, nella conferenza stampa del 19 marzo, lo liquidò tranchant: “Oggi prendere il Mes sarebbe buttare via i soldi”. E tanto bastò a placare l’astinenza da Mes dei suoi più accaniti cultori, da Folli a Franco, da Molinari a Sallusti. Insomma, temevamo di non risentirne mai più parlare. Poi, ieri, lo sparo nel buio. Marattin ci ha strappato le parole di bocca: “Dobbiamo accedere alla linea pandemica del Mes. È trascorso un anno e noi di Iv non abbiamo cambiato idea” (in realtà l’han cambiata per la terza volta, ma fa lo stesso). Purtroppo non se l’è filato nessuno. Ma noi sì: sappia che siamo con lui.

“La Spagnola” era brasiliana e colpì a Parigi

Influenza. Termine coniato nell’Italia del XIV secolo quando si attribuiva l’origine delle malattie all’“influenza” degli astri.

Nomi. Nel 2015 l’Organizzazione mondiale della sanità ha pubblicato delle linee guida per i nomi da dare alle malattie: non devono contenere riferimenti a luoghi, persone, animali o cibi specifici, né parole che possano generare paure, come “fatale” o “ignota”. Si dovrebbero invece usare descrizioni generiche dei sintomi, come “disturbo respiratorio”, insieme ad aggettivi qualificativi specifici, per esempio “infantile” o “costiero”, e al nome dell’agente che provoca la malattia. Quando è necessario distinguere tra malattie che possono essere descritte con gli stessi termini bisognerebbe ricorrere a espressioni generiche quali uno, due, tre.

Sars. Acronimo per Severe acute respiratory syndrome (sindrome respiratoria acuta grave): “Sembra impossibile che un nome del genere possa offendere qualcuno, invece è successo. Alcuni abitanti di Hong Kong – uno dei luoghi in cui nel 2003 si scatenò un focolaio della malattia – furono tutt’altro che felici della scelta, dal momento che nel nome ufficiale del Paese è presente il suffisso Sar, ‘Special administrative region’”.

Numeri. In Cina, per evitare ondate di panico tra la popolazione, le malattie venivano chiamate con i numeri: 1. vaiolo, 2. colera, 3. peste, 4. antrace.

Spagnola. In Spagna, quando nel maggio del 1918 arrivò l’influenza, le diedero il nome di Soldato napoletano, dal titolo della canzonetta dello spettacolo di gran successo a Madrid La canción del olvido (La canzone dell’oblio), una zarzuela basata sulla leggenda di Don Giovanni. A Parigi la cosiddetta “spagnola” arrivò prima che a Madrid, tuttavia i francesi, saputo che il contagio dilagava al di là dei Pirenei, la chiamarono grippe espagnole.

Falsi. In Senegal la spagnola era “influenza brasiliana”, in Brasile “influenza tedesca”, la Germania per non spaventare le truppe “pseudoinfluenza”, in Danimarca “influenza del sud”, in Polonia “la bolscevica”, in Persia “la britannica”, in Giappone – dove i primi ad ammalarsi furono i lottatori – “influenza del sumo”. Un giornale di Freetown suggerì di chiamare la malattia manhu che in ebraico significa “che cos’è?”. Gli abitanti di Cape Coast, in Ghana, la chiamarono Mowure Kodwo, dal nome della prima loro vittima. In Africa, la malattia fu fissata per l’eternità nei nomi delle generazioni nate in quel periodo. In Nigeria, presso gli igbo, per esempio, i nati tra il 1919 e il 1921 sono detti ogbo ifelunza, “generazione dell’influenza”. La parola ifelunza, chiaramente una storpiatura di “influenza”, entrò nel lessico igbo per la prima volta quell’autunno. Con il passare del tempo fu adottato quello già in uso nei Paesi più potenti della terra: i vincitori della Grande guerra. La pandemia diventò quindi nota come “influenza spagnola” – ispanka, espanhola, la grippe espagnole, die Spanische Grippe. Un falso storico scolpito nella pietra.

Nomi. Il primo nome dato all’Aids: “Immunodeficienza gay-correlata”. L’influenza suina è trasmessa dagli esseri umani, non dai maiali. L’Ebola prende il nome dal fiume Ebola (Africa centrale). Il virus Zika si chiama come la foresta in Uganda in cui fu isolato per la prima volta nel 1947, ma oggi rappresenta una gravissima minaccia nelle Americhe.

(1. Continua)

Notizie tratte da: Laura Spinney, “1918 L’influenza spagnola. La pandemia che cambiò il mondo”, Marsilio, pagine 348, euro 12,00