Della ricerca di base abbiamo già detto: nessuna svolta nella direzione di chi considera gli atenei suo principale presidio. Cambia invece una importante parte del sistema d’istruzione, impostata in questo Pnrr per rispondere alle istanze del sistema produttivo. Il presidente del Consiglio Mario Draghi ne aveva già parlato nel suo discorso di insediamento, quando aveva confuso gli Its (Istituti tecnici statali) con gli Itis (istituti tecnici industriali). “In Francia e in Germania – aveva detto – sono un pilastro importante del sistema educativo”. I numeri raccontavano un fabbisogno di circa 3 milioni di diplomati di istituti tecnici nell’area digitale e ambientale tra 2019 e 2023. Così la formazione professionale si prende l’unica grossa riforma del comparto Istruzione. Vengono infatti assegnati 1,5 miliardi, venti volte più della fase pre-pandemica, con l’obiettivo di raddoppiare il numero degli iscritti agli Its, arrivando alla soglia dei 20mila l’anno con almeno 5mila diplomati.
Nel caso degli Its, parliamo della cosiddetta formazione terziaria non universitaria, vi si accede dopo il diploma e per definizione “risponde alla domanda delle imprese di nuove ed elevate competenze tecniche e tecnologiche”. In sostanza serve a creare un ecosistema in cui – semplificando – l’industria fa sapere di cosa c’è bisogno e il sistema d’istruzione fa di tutto per fornirglielo nella speranza di creare occupazione (in che forma, poi, dipenderà comunque dalle condizioni del mercato del lavoro). Sembra una cosa buona e in parte lo è. Il problema è che questa dinamica viene impostata già a partire dalle scuole superiori. Il piano prevede infatti anche una riforma degli istituti tecnici e professionali. Si legge: “In particolar modo, orienta il modello di istruzione tecnica e professionale verso l’innovazione introdotta da Industria 4.0” e ancora un “potenziamento del modello organizzativo e didattico” ovvero “una integrazione dell’offerta formativa”, “l’introduzione di premialità” e ampliamento “dei percorsi per lo sviluppo di competenze tecnologiche abilitanti– Impresa 4.0”. I docenti sono da formare “perché siano in grado di adattare i programmi formativi ai fabbisogni delle aziende locali”. La riforma coinvolge 4.324 Istituti tecnici e professionali. Si spinge anche sui corsi quadriennali, sia per i licei che per gli istituti tecnici: “Lo stanno sperimentando 100 classi in altrettante scuole, ma l’obiettivo e farle arrivare a mille”.
Se questa parte del Pnrr risulta comunque in linea con una visione già presente in precedenza, una sensibile retromarcia arriva invece sul diritto allo studio. Il Pnrr si premura di raddoppiare a 800 i milioni per la formazione digitale degli insegnanti (che potrebbe servire per garantire una migliore didattica digitale integrata, leggi Dad, anche nell’ottica di ridurre il numero di alunni per classe) ma dimezza i fondi per le borse di studio universitarie che si riducono di 400 milioni rispetto alle bozze precedenti, passando da 900 a 500 milioni.
Anche se di poco, si riduce lo stanziamento per l’edilizia studentesca, passando a 960 milioni dal precedente miliardo e, denunciano oggi i movimenti degli studenti, è stato eliminato l’ampliamento della no tax area, la fascia di esenzione dalle tasse universitarie. “Questo – spiega il coordinatore di Link, Lorenzo Morandi – va nella direzione esattamente opposta rispetto a quanto auspicavamo negli incontri avuti con dei rappresentanti del ministero dell’Università all’inizio della primavera”.