Un album (d’inediti) e un libro per suonare “La bella stagione” di Don Antonio

C’è un’inquietudine che pervade le canzoni del nuovo disco di Don Antonio intitolato La Bella Stagione. Un sentimento che trova alla fine una strada per sopravvivere alla nuova routine che si è imposta con la pandemia. “Anche se curiosamente il disco è stato lavorato e completato prima della pandemia – spiega Don Antonio, un americano immaginario, alter ego di Antonio Gramentieri, musicista italianissimo titolare del progetto Sacri Cuori, che ha suonato sul palco e in studio con Alejandro Escovedo, Dan Stuart, Hugo Race e molti altri –, le canzoni hanno un mood che è facilmente specchiabile con la realtà che abbiamo vissuto”. Testi che sono pennellate poetiche accompagnati da musiche raffinate, dalle canzoni scaturisce un bisogno di solitudine, in un momento come quello del distanziamento sociale, che ha avuto un significato diverso per ognuno. “La cosa che mi ha dato più fastidio non è l’isolamento, che in un momento in cui tutto è social, dove tutto è reso come se si fosse su di un palcoscenico, è stato anche un fattore positivo per chi ha avuto il lusso di viversi il lockdown senza pensar troppo alle contingenze sanitarie ed economiche. Ma il Covid ha acuito le differenze sociali, ha riaperto divaricazioni tra classi sociali che non si avvertivano da decenni, ha fatto in modo che si decidesse in modo arbitrario quali fossero i mestieri e le occupazioni degni di continuare e quali le classi sociali da mandare al macello. La bella stagione in realtà è il presente, semplicemente perché non ne esiste un’altra: c’è un mondo da creare oggi, quello di ieri è già passato e quello di domani è in costruzione. Quindi al netto della nostalgia, delle gioie passate e delle perdite è il tentativo di rimettersi a fuoco sul qui e ora. Perché la bella stagione è oggi, tutte le altre vivono in una dimensione che non è reale.

Composto da dieci brani, e anticipato dal bel singolo Batticuore, il titolo originale era La distanza, “ma dal momento in cui si è iniziato a parlare di distanze sociali, per evitare di speculare sulle parole del giorno e sugli hashtag legati alla pandemia, ho deciso di cambiarlo in corsa. Ed essendo uscito a cavallo della primavera e dell’arrivo dei vaccini e delle riaperture, ho pensato che La bella stagione fosse il titolo ideale”. L’album è accompagnato dall’uscita di un libro di racconti brevi, che come le canzoni, prescindono dall’attualità e che riflettono sul passato, sulle esperienze, sulle perdite, su quanto parti di noi diventino passato. Una terra straniera rispetto alla quale non abbiamo alcun passaporto.

A bordo della “Belgica” si sente la musica della neve

Fine ’800, una nave bloccata in mezzo ai ghiacci dell’Antartide con a bordo il suo equipaggio. La nave si chiama Belgica e la sua storia è stata portata in libreria da Bao Publishing con due volumi a fumetti dei quali l’ultimo, La melodia dei ghiacci, appena uscito. Lo spunto narrativo della nave tra i ghiacci è lo stesso di tante altre storie: tra le più recenti, le navi Erebus e Terror protagoniste della prima stagione della serie The Terror (su Amazon Prime). Oppure la spedizione Endurance del capitano Shackleton, al quale anche Franco Battiato ha dedicato una canzone. Viene quasi da chiedersi perché a quel tempo le navi non facessero altro che andare a schiantarsi nei ghiacci al Polo Nord. C’è di certo che alla fine ci hanno lasciato il tanto cercato passaggio a nord-ovest, e alcune storie magnifiche. Come la storia dimenticata della Belgica: una storia vera, dunque, ma per trasformarla in una grande storia ci voleva un autore che sapesse renderla tale.

Toni Bruno, siciliano classe 1982, non è uno che si preoccupa di mettersi in mostra, magari sui social. Silenzioso, macina pagine su pagine sapendo di avere dalla sua un talento rarissimo. Nel 2016 ci ha sparato nello Spazio con lo splendido Da quassù la terra è bellissima (Bao Publishing) e ora ci porta – letteralmente – in capo al mondo con la Belgica. Che poi di viaggio, in senso di spostamento geografico, in questa storia ce ne sia poco non importa: ce n’è tanto nella vita e nel tempo dei protagonisti. Al di là della trama, colpisce di questi volumi la cura. Un pregio che non c’è in tanti libri a fumetti pubblicati oggi, ma che invece il disegnatore siciliano rivendica prendendosi il suo tempo (il primo volume de La Belgica è del 2019). Il risultato è un viaggio sensoriale in cui ogni pagina sembra essere stata disegnata a bordo della stessa Belgica bloccata tra i ghiacci: per gli inchiostri l’autore ha usato della china risalente ai primi del ’900; i colori sono velature grigie ad acquerello che fanno trasparire un senso antico; le gocce di colore, volutamente lasciate qui e là come macchie, sembrano salnitro che corrompe la carta come se le pagine fossero arrivate a noi in una bottiglia trovata a riva. Il disegno è pulito ed elegante: ‘bello’, alla vecchia maniera, come avessimo tra le mani un Corto Maltese di Hugo Pratt o i disegni di un capolavoro Disney di tanti anni fa. Scendere dalla Belgica, alla fine dei due volumi, è dura. Si rimane malinconici, con il sapore di mare in bocca e le dita piene di salsedine, pronti per un altro viaggio.

Tutto già previsto agli Oscar

93esimi Oscar, ha vinto, ed era scritto, Nomadland: miglior film, regia (Chloé Zhao è la prima donna cinese, la prima di colore, la seconda dopo Kathryn Bigelow) e attrice protagonista, con il triplete di Frances McDormand. Ha perso, e non era detto, il cinema italiano: a bocca asciutta Laura Pausini con la canzone Io sì (Seen) di La vita davanti a sé e Pinocchio, con make up & hair (Mark Coulier, Dalia Colli e Francesco Pegoretti) e costumi (Massimo Cantini Parrini). A tenere alto il tricolore è stato il sempiterno Fellini, celebrato due volte durante la cerimonia.

Nicola Giuliano, dopo Federico il diluvio?

Avevamo tre candidature importanti, ancor più per titoli non di lingua inglese.

Eppure La grande bellezza è stato l’ultimo italiano candidato e premiato quale film straniero: l’ha prodotto lei, era il 2014.

Poi abbiamo avuto Call Me by Your Name di Luca Guadagnino candidato Best Picture e premiato per la sceneggiatura di Ivory, trucco e acconciatura di Suicide Squad: se facciamo un parallelo con le altre cinematografie, ne usciamo alla grandissima.

Più che a Hollywood, nemo propheta in patria?

In Italia abbiamo una visione distorta: la percezione del nostro cinema all’estero è decisamente più lusinghiera.

Esempi?

Juliette Binoche, attrice premio Oscar sul set di un esordio italiano, L’attesa di Piero Messina: “È un momento straordinario per il vostro cinema, magari fosse così da noi…”. Era il 2015, e le cose sono migliorate.

Rimaniamo a bocca asciutta, però.

Entrare in cinquina è difficilissimo, e ve lo dice uno che la campagna l’ha fatta, con Paolo Sorrentino, in prima persona: non avevamo Weinstein per La grande bellezza, ma Janus Film, che non ha versato un centesimo.


Youth prese una nomination per la canzone,  Il Divo per il make-up: non si discute la vostra fortuna, ma i colleghi?

Quel che mi sento di rimproverare è la campagna Oscar: molti candidati a film straniero dopo La grande bellezza non l’hanno fatta, non una vera e propria. E serve.

Ci spieghi.

Io e Paolo da settembre 2013 a marzo 2014 passammo negli Usa almeno quindici giorni al mese. Tutte le sere non abbiamo fatto altro: proiezioni, domande del pubblico, cene che gli estimatori de La grande bellezza offrivano ai votanti, per creare simpatia e affezione.

Un lavoraccio.

Una sera stavamo a New York, nevicava, avevamo già fatto quattro Q&A (dibattito post film), ne avevamo un quinto alle 21.30 al Lincoln Plaza. Paolo non ce la faceva più, voleva andare a riposare, chiamai la nostra pr per disdire: “Ok, possiamo annullare, certo, ci sono dodici votanti prenotati”. Riferii a Paolo, non batté ciglio: “Andiamo”. Era un lavoro, e ce l’eravamo promesso: “Nessun rimpianto”. Janus voleva farci uscire a gennaio, io pretesi novembre: “Altrimenti strappo il contratto”. È andata bene. Anche Il traditore di Bellocchio avrebbe potuto, se il distributore Sony Classics non avesse preferito puntare su Almodóvar. Ma…

Che cosa, Giuliano?

Siamo fighissimi noi italiani, non condivido il pessimismo.

Nondimeno l’unico regista di cui si sia parlato a questi Oscar è Fellini.

Il nostro passato ci condiziona tantissimo. Tutta la vita, produttori, attori e sceneggiatori, ci sentiamo dire: “Eh, ma Ponti; eh, ma Sordi; eh, ma Age e Scarpelli”. Non siamo dei nani sulle spalle dei giganti, i giganti li abbiamo sulle palle.

Soluzione?

Fregarsene dei giganti, sicché i nostri film abbiano maggiore libertà. Ovvio, servirebbe meno fuoco amico: in casa La grande bellezza lo hanno massacrato, solo dopo l’Oscar abbiamo sentito “in fondo, non è malaccio”. Giudicateci per quello che siamo, non per quello che non possiamo – né vogliamo – essere.

Fellini lo ha citato lo stesso Sorrentino nei ringraziamenti per l’Academy…

Sì, ma anche Maradona, Scorsese e i Talking Heads.

Giuliano, ce l’ha forse con la stampa?

Abbiamo Paolo, Garrone, Guadagnino, Pietro Marcello, i D’Innocenzo e che facciamo, ci spariamo addosso da soli?! Non c’è un moto d’orgoglio.

Dunque?

Sicilian Ghost Story di Piazza e Grassadonia è andato ovunque, ricevendo critiche entusiaste: la stampa nostrana lo ha linciato. Fate uno sforzo pure voi critici.

Che c’è dietro il culto dei giganti del passato?

Una tradizione straordinaria, che affonda nel Neorealismo, quindi Rosi e parzialmente Petri: chi si scosta dal realismo, chi scarta da De Sica e Rossellini viene colpito, vedi Sorrentino, vedi Grassadonia e Piazza, vedi La doppia ora, il thriller parapsicologico di Giuseppe Capotondi a Venezia 2009, e vedi Favolacce dei D’Innocenzo. Urge aprirsi, accettare di rimanere spiazzati. Dimenticavo, Perfetti sconosciuti: ha conquistato il mondo.

Tutti uomini: le donne le dimentica o che?

Tre volte a Cannes, con due premi, Alice Rohrwacher è ormai al livello di Sorrentino, Garrone e Guadagnino. Francesca Mazzoleni si farà, ecco forse c’è già Susanna Nicchiarelli.

Volontaria laica assassinata. Ora indagano i pm di Roma

La Procura di Roma indaga sull’omicidio di Nadia De Munari, la volontaria vicentina massacrata a colpi di machete la sera del 20 aprile, mentre si trovava nella sua stanza della casa famiglia “Mamma Mia” di Chimbote, in Perù, paese dove prestava servizio dal 1995. Il fascicolo è in capo al pm Sergio Colaiocco, già titolare dell’inchiesta sulla morte, in Egitto, del ricercatore italiano Giulio Regeni. Le indagini sono state affidate ai carabinieri del Ros.

Sono pochi, per ora, i dettagli emersi sull’assassinio della donna, 50 anni, originaria di Schio. A pesare sulle indagini l’assenza di testimoni oculari. Secondo il racconto dei sacerdoti che gestiscono la struttura – nel circuito dell’Operazione umanitaria “Mato Grosso” – martedì scorso l’aggressore è entrato nella camera di De Munari, ha colpito la donna e poi è scappato, portando via solo il telefonino ma lasciando il portafogli con i soldi. Un particolare questo che, per la famiglia, dovrebbe portare a escludere la pista della rapina. Chi l’ha uccisa, secondo i rilievi della polizia peruviana, ha colpito violentemente Nadia “con qualcosa di tagliente”, forse un machete. Fatale alla donna, che era ancora viva e cosciente quando è stata trovata nella sua stanza dai preti missionari, anche la lunga trasferta in ambulanza nella capitale Lima, distante 600 km, sede dell’ospedale più vicino dove poter essere operata d’urgenza.

Da capire, innanzitutto, il movente dell’omicidio. La sorella e la cugina della donna, Vania e Katia De Munari, sostengono che l’opera di volontariato di Nadia nel villaggio peruviano “dava fastidio a qualcuno”. Pare che anche un’altra persona interna alla missione sia stata aggredita, ma secondo i sacerdoti “sono episodi scollegati”. Ieri la Farnesina ha assicurato “il nostro impegno per fare luce sui fatti”, mentre il sindaco di Schio, Valter Orsi, è al lavoro con il ministero per il rientro in Italia della salma. “Nadia è stata uccisa perché sapeva qualcosa”, il convincimento del primo cittadino.

Chernobyl: bastava un pompiere

Mosca racconta la sua versione della storia su ciò che avvenne 35 anni fa, il 26 aprile 1986. Il disastro nucleare più grave che l’umanità ricordi è al centro di Chenobyl, serie tv russa che ha lo stesso titolo del colossal della Hbo del 2019, produzione di successo che scatenò alla sua uscita l’ira del Cremlino e di molti russi. La serie tv prodotta nella Federazione non ripercorre ogni attimo del disastro come quella girata in inglese, ma si concentra sulla vicenda personale, e di pura finzione, del pompiere Aleksey Karpushin, felice di immaginare di poter abbandonare il suo lavoro a Prypriat, sito del disastro, per raggiungere a Kiev l’amata Olga. Sarà l’esplosione a far saltare in aria i suoi piani e il suo destino, inevitabilmente intrecciato a quello di turbine, reattori e scorie della centrale nucleare in cui presta servizio. Proprio nei giorni dell’anniversario del disastro, la fiction russa del regista Danil Koslovsky è stata criticata perché ritenuta dagli esperti meno credibile della mini-serie americana girata da Craig Mazin qualche anno fa.

L’opera di Koslovsky è una pura “fantasia melodrammatica”, che nasconde con le avventure di un individuo solo il puro e interminabile “orrore vissuto in quei giorni” dai cittadini di Chernobyl, ha scritto Vera Alenushkina, critica cinematografica del magazine TimeOut. Secondo altri critici, la serie tv “contiene più Hollywood che la Hollywood stessa”. La pioggia di critiche inviate a Mosca non ha sfiorato però la direttrice della fotografia della serie, Ksenia Sereda, che a 26 anni ha già firmato numerosi film. Ieri l’Ucraina ha ricordato uno degli eroi della tragedia inaugurando, proprio di fronte gli uffici della centrale nucleare, una statua dedicata a Oleksandr Lelechenko, responsabile del sistema elettrico dell’impianto che, all’epoca, nonostante avesse acqua radioattiva fino alle ginocchia, pompò il liquido contaminato da una turbina all’altra per impedire l’estensione del disastro. A celebrare la memoria delle vittime nella zona d’esclusione anche il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Se ufficialmente ancora oggi i morti accertati per la catastrofe nucleare siano solo 66, le cifre dell’Onu stimano che, a causa delle sindromi e patologie sviluppatesi per l’esposizione a radiazioni acute, almeno 4.000 persone hanno perso la vita per l’esplosione del quarto reattore della centrale nucleare sovietica. Chernobyl la catastrofe, Chernobyl la serie tv, Chernobyl marchio di vodka e fabbrica di macabri souvenir, ma anche sito di rilevanza storica collettiva: Kiev ha avviato le pratiche per richiedere all’Unesco che la cittadina, visitata ogni anno da migliaia di turisti, venga riconosciuta come “patrimonio dell’umanità”.

Padre Carlassare, assalto mirato: “Basta stranieri”

Un attacco mirato, un agguato vero e proprio quello messo in atto subito dopo la mezzanotte di domenica da un gruppo di uomini armati contro il neo vescovo comboniano di Rumbek, nel Sud Sudan, padre Christian Carlassare. Nominato appena due mesi fa, l’italiano Carlassare è stato gambizzato e seppur non in pericolo di vita, è stato trasportato a Nairobi per essere operato. “Trenta minuti dopo la mezzanotte, abbiamo sentito degli spari – ha raccontato alla rivista dei comboniani Nigrizia che per prima ha battuto la notizia, Rebecca Tosi, volontaria di Medici con l’Africa Cuamm che dormiva nel compound a pochi metri dal vescovo – siamo volati giù dal letto e abbiamo capito che erano indirizzati a padre Carlassare”.

“Un sacerdote che ha la stanza accanto a Mons. Christian è uscito e ha chiesto agli uomini armati cosa volessero, ma ha ricevuto colpi di avvertimento per farsi da parte. I due hanno chiesto a padre Christian di uscire e, di fronte al suo rifiuto, gli hanno sparato a entrambe le gambe e sono fuggiti”, è la versione rilasciata dalla Conferenza episcopale del Sud Sudan. Il testimone oculare è il sacerdote Andrea Osman, della Diocesi di Rumbek che alla radio cattolica Network News Service ha raccontato di aver provato a bussare dalla sua porta dall’interno per intimorire gli aggressori, senza riuscirci. “Anzi, hanno preso di mira la stanza del vescovo, hanno iniziato a sparare finché non l’hanno sfondata, gli hanno sparato alle gambe e sono fuggiti”. Un racconto che porta a pensare che nel mirino ci fosse proprio padre Carlassare, il quale, secondo fonti di Nigrizia, pare fosse rifiutato da alcuni gruppi di dinka – tribù di pastori – che si oppongono al nuovo vescovo venuto da lontano “a rimpiazzare il coordinatore diocesano autoctono che ha diretto la Diocesi di Rumbek per nove anni”. “Alcuni fedeli dinka si aspettavano il passaggio di testimone a uno della loro etnia – spiega Nigrizia – per ereditare anche le strutture e gli investimenti di rilievo in una Diocesi dove ancora è molto evidente la presenza di personale apostolico venuto da fuori, rispetto ai preti diocesani”. Prima di Carlassare, un padre spiritano, possibile candidato all’episcopato della Diocesi, ha ricevuto minacce di morte. “I dinka sono molto vendicativi”, spiegano le fonti. Intanto sono state arrestate 24 persone per l’agguato al vescovo italiano che ha invitato a “pregare per la sofferenza delle civili” in un Paese ridotto alla fame da guerre intestine e carestie. “I civili stanno morendo e sono costretti a lasciare le loro case a causa delle violenze degli ultimi mesi, esacerbando una minaccia della carestia molto reale, visto che gli agricoltori sono costretti a lasciare le loro terre”, è la testimonianza rilasciata da Mark Millar, dell’Ong il Consiglio norvegese per i rifugiati che ha sottolineato come gli scontri etnici stiano peggiorando la già difficile situazione alimentare in Sud Sudan. In un momento in cui il 60% della popolazione soffre di grave insicurezza alimentare, secondo un report della Ong, a causa delle violenze, l’agricoltura nel Central Equatorial, zona fertile, è bloccata dalla fuga degli agricoltori.

“L’unico modo per uscirne è che tutte le parti in conflitto risolvano le tensioni e consentano il corridoio umanitario”, esorta Millar. Sono bloccati i camion dai paesi vicini e gli operatori non sono in grado di fornire aiuti tra ai combattimenti. A dieci anni dalla fondazione nel 2011, il Sud Sudan è preda di conflitti, apparentemente chiusi con la firma della pace del 2018. Ma le violenze tra tribù sono tornate realtà quotidiana. A marzo il governo ha avviato le operazioni di sicurezza contro i ribelli del National Salvation Front (Nas) nel Sud dello Stato del Central Equatorial con 235.000 sfollati.

Dbeibeh è premier a metà: a Bengasi il capo resta Haftar

Definire umiliante lo stop alla visita di Abdul Hamid Dbeibeh, la prima di un premier libico dopo lo scoppio della seconda guerra civile libica del 2014, a Bengasi, è riduttivo. Il neo premier del governo di unità nazionale libico (GNU) basato a Tripoli sarebbe stato bloccato da uomini armati al suo arrivo all’aeroporto di Benina che collega la Cirenaica alla Tripolitania. La milizia armata assieme a civili ostili alla costituzione di una Libia unita, due giorni fa, ha impedito al primo ministro e alla delegazione governativa che lo accompagnava di lasciare lo scalo della Libia orientale per raggiungere la vicina città-roccaforte del generale ribelle Khalifa Haftar. A Bengasi, Dbeibeh avrebbe dovuto tenere una riunione di gabinetto ma questo smacco, per usare un eufemismo, dimostra che l’operazione di transizione promossa a partire dall’autunno scorso dalle Nazioni Unite, per portare la Libia a elezioni generali alla fine dell’anno, potrebbe naufragare.

Un fallimento che riporterebbe il Paese indietro di un anno quando l’esercito dell’allora governo di accordo nazionale libico di Fayez al-Sarraj combatteva contro i mercenari di Haftar, fra cui i russi di Wagner (società di un oligarca vicino al presidente Putin), egiziani, sauditi ed emiratini. Solo l’intervento di altri miliziani, soprattutto siriani, armi e droni armati inviati dalla Turchia ha ribaltato la situazione sul terreno consentendo alle forze di Sarraj di sgominare l’assedio di Tripoli e riguadagnare tutto l’Ovest (la Tripolitania) fino a Sirte. È in questa città che fornisce l’accesso alla zona dei pozzi petroliferi e di gas sulla terraferma e nel mare che passa la linea rossa imposta da Haftar. Ma è Bengasi il luogo simbolo di una possibile riconquista dell’unità nazionale che, a giudicare da quanto è accaduto rimane lontana. Il premier Dbeibeh, grazie al consenso del presidente turco Erdogan che, pur su fronti opposti qui in Libia, è colui che si sta spartendo il Paese con Putin, domenica era volato a Bengasi sicuro che la propria agenda sarebbe stata implementata. Dbeibeh era già stato in Cirenaica nel marzo per prestare giuramento nella città di Tobruk, sede del parlamento anche del proprio governo. Nonostante il Consiglio di Sicurezza dell’Onu abbia approvato l’invio di osservatori per il monitoraggio del cessate il fuoco, il conflitto civile non sembra si concluderà a breve perchè rimangono nel paese migliaia di mercenari. L’Onu ha accusato apertamente i paesi che li hanno mandati a sostenere le diverse fazioni di aver destabilizzato la Libia e di continuare a farlo. Dbeibeh aveva precedentemente annunciato la sua intenzione di tenere riunioni di gabinetto in diverse città del paese, in particolare a Bengasi che è anche la seconda città più grande della Libia oltre che la tana di Haftar. Una fonte che ha chiesto l’anonimato citata dalla tv qatarina Al Jazeera ha spiegato che la delegazione includeva un certo numero di funzionari della sicurezza, le guardie del corpo del primo ministro e altro personale del governo. Mohamed Hamouda, un portavoce del governo ad interim ha scritto che il viaggio sarà riprogrammato.

Le due fazioni hanno fornito le loro versioni. In una si legge che è stato il primo ministro ad interim ad aver annullato la visita dopo che una squadra di sicurezza armata del governo è stata respinta all’aeroporto di Bengasi. Un funzionario delle forze di Haftar invece ha riferito che la squadra di Tripoli aveva chiesto di assumere la sicurezza dell’aeroporto durante la visita del primo ministro, richiesta non concessa dai funzionari dello scalo. Molti funzionari governativi, compreso il capo del consiglio presidenziale, avevano già visitato Bengasi e la sicurezza dei loro viaggi era stata gestita dalle forze presenti in città senza incidenti. Va ricordato che tutto ruota attorno allo sfruttamento delle enormi risorse energetiche della Libia e agli appalti per la ricostruzione che vedono la Turchia in pole position. Ecco perché i gruppi armati locali e stranieri rimangono radicati in tutto il Paese, Inoltre c’è la frattura tra governo e Parlamento. I legislatori si sono opposti ai piani di bilancio di Dbeibeh. La settimana scorsa il premier ha incontrato a Tripoli gli sfollati da Bengasi e i suoi commenti hanno fatto infuriare Haftar e le altre fazioni dell’est. Alcuni manifestanti si sono radunati a Bengasi per protestare contro Dbeibeh proprio domenica scorsa.

Aperture: regole senza logica

Le misure di contenimento si allentano. Appare evidente che la decisione sia stata politica (non lo dico in termini di critica negativa) e non esclusivamente scientifica. È chiara la dichiarazione di Draghi di “rischio ponderato”. Finalmente non si dimentica che importanti provvedimenti che condizionano la vita di un Paese debbano essere non solo dettate dalla “scienza”, alla quale troppo spesso è stata attribuita una responsabilità che le istituzioni hanno preferito non assumersi. Lasciare la parola solo alla scienza è stato un vero disastro sociale, economico, psicologico. I numeri dei decessi e dei positivi di questi giorni sono, poco più, poco meno, allo stesso livello dello scorso novembre, quando si diceva che fosse necessario chiudere, anche le scuole. In alcune regioni i contagi sono persino in incremento. È vero che si sta vaccinando e che giornalmente togliamo terreno fertile al virus (almeno per le sue conseguenze peggiori) ma è anche evidente che ha fatto la differenza l’intolleranza generale, alimentata da stanchezza, oltre che dal disagio economico. Credo sia stata una scelta sensata. Ora, attenti, il timore è che le nuove misure si interpretino come un “liberi tutti”. Non è così e il pericolo che si torni indietro, vanificando i sacrifici, è dietro l’angolo. C’è bisogno di controlli, oggi più di prima, di buona comunicazione, ma anche di coerenza, spesso assente nei diversi provvedimenti. Nel primo periodo della pandemia la popolazione seguiva le misure restrittive quasi ciecamente, perché viveva nel panico, adesso potrebbe trasgredirle perché ha preso il sopravvento l’intolleranza, l’indigenza economica. Bisogna dare indicazioni che abbiano una logica, ma cominciamo male. I servizi di ristorazione saranno aperti anche la sera, apriranno cinema e teatri ma il “coprifuoco” resterà alle 22. Si farà in tempo a parcheggiare e tornare a casa! Potremo assembrarci in tavolate nelle nostre abitazioni, ma non potremo ritrovarci con gli stessi parenti o amici, rispettando le misure dovute. Pare che in questa pandemia, malgrado si stiano prodigando soloni e statisti, manchi sempre un briciolo di buon senso in più.

 

L’etica di Sallustie quella di Silvio

Il Giornale dedica un titolo di testa a tutta pagina per attaccare il Tribunale di Roma, e quindi anche me, per avermi assolto in una causa civile di diffamazione intentatami da Berlusconi. Ma come?

Or pochi giorni fa il Giornale si scagliava giustamente contro lo sproloquio televisivo di Grillo, che ho condannato anch’io, intendendolo come un’intimidazione all’autonomia e all’indipendenza della Magistratura, tema a cui il Giornale è stato sempre particolarmente sensibile visto che, da quando l’ha lasciato Montanelli, sotto la direzione prima di Feltri poi dello stesso Sallusti poi di Belpietro, non ha fatto altro che attaccare la legittimità delazione della Magistratura italiana.

Il Giornale è uno strenuo difensore del principio di non colpevolezza fino a condanna definitiva, principio che io ho sempre difeso soprattutto quando riguardava degli stracci contro di cui la destra, chiedo scusa alla Destra, si accaniva come nel caso di Pietro Valpreda in galera da quattro anni senza processo o di Giuliano Naria, presunto terrorista rosso, tenuto in gattabuia per nove anni e poi assolto. Ma nel mio caso tutto si capovolge. Per me vale una presunzione di colpevolezza anche se un tribunale mi ha dichiarato innocente.

Alessandro Sallusti, che dirige un giornale, sa bene quanto noi si è esposti al reato di diffamazione. Ed è giusto che io sia punito penalmente se affermo che Sallusti è un ladro e lui ladro non è. In genere però si preferisce, invece del penale, l’azione civile per danni che non obbliga la prova e che tende più che a restituire l’onore al presunto diffamato a scucire dei soldi al presunto diffamante.

E qui sorge un primo problema che metto all’attenzione di Sallusti, e non solo di Sallusti. Se io scrivo che Sallusti è un ladro e dimostro, o altri hanno dimostrato, che è un ladro, ciò non basta per salvarmi dalle sue rivendicazioni, perché anche un ladro di cui si è dimostrato che è tale può rivalersi nei miei confronti se l’ho chiamato ladro “in termini non continenti”. Ora se io passo col rosso so di aver commesso un’infrazione, se uccido una persona so di aver commesso un omicidio, ma quali siano i termini “non continenti” è un concetto vago lasciato alla discrezionalità del giudice. Nel mio caso, il magistrato Damiana Colla ha ritenuto che, nonostante i termini graffianti da me usati nei confronti di Berlusconi, ciò che ho scritto non superasse i limiti del diritto di critica politica.

Ma qui arriviamo al core, anzi all’hardcore, di tutta la questione. Come mai l’onorevole Berlusconi mi ha chiesto i danni solo perché io avrei usato termini “non continenti” e non per il contenuto dei miei scritti da cui partiva poi la mia critica all’uomo di Arcore e che il Tribunale civile di Roma ha considerato legittima? Semplicemente perché non poteva. Ma qui bisogna fare un lungo passo indietro. Nel 1994 il giornalista Giovanni Ruggeri pubblicava un libro intitolato Gli affari del Presidente. Io non sono particolarmente interessato a questo tipo di letteratura, preferisco Dostoevskij, non amo i gialli, i polizieschi, non sono un Pm e non ho la spasmodica voglia di trovare un colpevole. Però in una notte insonne misi la mano sul libro di Ruggeri e mi colpì particolarmente il capitolo “Il grande imbroglio” dove Ruggeri denunciava, con una certa ricchezza di documenti e di argomenti, una truffa miliardaria che Berlusconi e Previti avrebbero consumato ai danni della marchesina Anna Maria Casati-Stampa, minorenne, orfana di entrambi i genitori periti in circostanze tragiche. Sbalordii. E il giorno dopo scrissi per L’Indipendente un editoriale che diceva più o meno: io non posso credere a ciò che scrive Ruggeri, non posso credere che il presidente del Consiglio, Berlusconi, e il ministro della Difesa, Previti, si siano resi responsabili di una truffa del genere. Ma vorrei sapere se Berlusconi e Previti hanno querelato il Ruggeri altrimenti il cittadino è autorizzato a credere che quello che ha scritto Ruggeri corrisponde a verità. L’Indipendente era allora un giornale con una vasta eco, ma sia Berlusconi che Previti restarono silenti. Ne scrissi un secondo dello stesso tenore ma da Berlusconi e Previti continuò il silenzio. Ne scrissi un terzo e Previti rispose con un fax in cui, giocando sui gerundi e i congiuntivi, non si capiva se aveva o no querelato Ruggeri. Allora, in un quarto articolo, spazientito, scrissi: “Onorevole Previti lei deve dirci semplicemente se ha o non ha querelato Ruggeri”. A quel punto Previti (Berlusconi sempre prudentemente silente) querelò Ruggeri, me e L’Espresso. Si andò al processo. La Corte di Appello di Roma con sentenza del 2 maggio 2008 assolse Ruggeri, me e L’Espresso affermando che “l’articolo del Ruggeri, caratterizzato dalla correttezza espositiva e dall’utilità sociale dell’informazione per il ruolo pubblico dei personaggi interessati, si basava sulla sostanziale veridicità putativa dei fatti”. Dunque era sostanzialmente vero che Berlusconi e Previti, in combutta fra di loro, avevano truffato una minorenne, orfana di entrambi i genitori.

Berlusconi, in genere così abile a evitare qualunque trappola, è stato imprudente ad agire oggi contro di me. Perché quella vergognosa infamia di cui si era reso responsabile, e che tutti, come al solito, avevano dimenticato, ora torna a galla. Si può anche capire, anche se non giustificare, che un imprenditore, pur di salvare la propria azienda o di rafforzarla, faccia patti con il diavolo, corrompa la Guardia di Finanza, corrompa magistrati, tutte cose di cui Berlusconi è stato accusato uscendone spesso indenne in via di prescrizione. Ma una truffa da strada, peraltro miliardaria, consumata ai danni di una minorenne, orfana di entrambi i genitori, approfittando della sua posizione inerme, è qualcosa che “va al di là del bene e del male” sottolineando l’indegnità morale, prima ancora che penale, di coloro che l’hanno consumata. Berlusconi, che ha sempre affermato di non attaccare mai personalmente le persone, perdonate la ripetizione, disse di Di Pietro, peraltro dopo avergli offerto la posizione di ministro degli Interni: “Di Pietro è un uomo che mi fa orrore”. Ebbene per me, e forse non solo per me, è Berlusconi “un uomo che fa orrore”. Preferisco Renato Vallanzasca, come richiamavo negli articoli contestati, perché ha un’etica, sia pur malavitosa, ma ce l’ha. L’onorevole Silvio Berlusconi, in predicato di diventare presidente della Repubblica, è sotto qualsiasi etica, malavitosa e non.

E veniamo all’editoriale di Alessandro Sallusti. Sallusti mi contesta un “odio a prescindere” nei confronti dell’onorevole Berlusconi. Quando il signore di Arcore salì al laticlavio della politica espressi sull’Europeo un giudizio possibilista, per una volta un imprenditore ci metteva la faccia, a differenza degli Agnelli che mandavano avanti i loro portaborse. Poi di fronte agli scheletri nell’armadio del Cavaliere che man mano venivano alla scoperto cambiai idea. Cambiare idea non è un peccato. Lo è quando la si cambia solo a proprio favore, che è esattamente ciò che fa Sallusti. Io quando cambio idea lo faccio generalmente a mio sfavore. Ed è ciò che feci puntualmente cominciando a criticare duramente Berlusconi negli anni in cui saliva all’empireo e raccoglieva attorno a sé i servi disponibili.

Il problema di Sallusti e di tutti i Sallusti nei miei confronti è che io sono la loro coscienza sporca. Li conosco da più di vent’anni e so che il fondo delle loro mutande non è esattamente candido. Sono un cavaliere solitario come Don Chisciotte, ma non vado a sbattere contro i mulini a vento, ma contro i poteri che costoro rappresentano e servono. Nonostante tutto sono ancora vivo e finché vivrò dovranno rassegnarsi alla mia presenza. Non c’è macchia sul mio onore di giornalista libero. Non so quanto Sallusti e tutti i Sallusti possano dire lo stesso.

 

Un giovane medico “Noi in trincea saremo lasciati a casa post-Covid”

Buongiorno, sono un medico, neolaureato, abilitato, attualmente impiegato in un reparto di semi-intensiva per l’emergenza Covid-19. Faccio parte di quella enorme schiera di medici, di ragazzi, di giovani ai quali l’Italia ha richiesto un sacrificio e uno sforzo nell’ottica del bene comune e nel combattere una guerra contro un nemico invisibile… Quasi quotidianamente la mia vita è fatta di tripli guanti, tute di biocontenimento non traspiranti, mascherine Ffp2 appiccicate al viso, copricalzari plastificati (quando arrivano), visiere che si appannano e maschere protettive per gli occhi prese in prestito dagli operai edili. Ci si barda così giorno dopo giorno, anche per 6 o 12 ore consecutive, fino a quando senti la testa leggera per il troppo sudare o gli occhi che bruciano per il continuo soffio del tuo stesso alito attraverso la mascherina, o quando dopo un turno massacrante hai perso così tanti liquidi che rientri a casa in preda alla cistite. Il rischio nasce anche dalle operazioni di svestizione e decontaminazione, un solo errore dopo ore di lavoro e stanchezza può costarmi caro, nonostante i fiumi di candeggina che ci spruzziamo addosso, sulle tute e inevitabilmente sulla pelle, i cui vapori irritano la gola, il naso, fanno venire l’asma, bruciano gli occhi. Persino la biancheria intima porta con sé i segni e le macchie di queste continue operazioni. La pelle delle mie mani porta quelli del continuo uso di sanificanti e guanti. Il mio viso è giorno e notte solcato dai segni di tutti questi dispositivi… Noi giovani medici, insieme ai giovani infermieri e Oss, siamo stati reclutati e spediti a combattere questa sporca guerra dove le trincee sono le corsie d’ospedale ma la sofferenza è la stessa e purtroppo protratta per un tempo maggiore rispetto a quella di una bomba o un proiettile. Ci chiamate “eroi”, ci chiamate “angeli”, istituite giornate nazionali per ricordare il nostro sforzo e poi ci abbandonate nelle nostre difficoltà, senza tutele, senza garanzie, senza avvenire. Il nostro contratto è da Co.co.co. Siamo precari senza nessuna forma di tutela o diritto, senza ferie, senza malattia, pagati a ore. Per carità, siamo ben pagati e siamo fortunati a lavorare mentre tanti altri sfortunati non possono. Ma quando tutto questo sarà finito, verremo salutati e ringraziati e il nostro sforzo sarà stato riconosciuto da una anonima data sul calendario laico. Non ci sarà permesso di continuare a far parte dell’organico dei reparti dove abbiamo sgobbato e lavorato in questi mesi, durante le feste, col caldo, col freddo. Finita l’emergenza non saremo più nulla.

Un Ragazzo