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È giusto vergognarsi di questa classe politica

Siamo schiacciati sotto i viadotti autostradali in nome dei dividendi azionari da spartire, ammansiti dai media che distorcono quasi all’unisono i fatti che contano, anche “spalmati” da morti dagli assessori ansiosi di non perdere consensi elettorali, infine sbeffeggiati dalle ultime schegge impazzite di una politica che ora è sfacciatamente a stipendio da certi dittatori misogini. È pure vero che si è responsabili della classe politica che si legittima, ma agli italiani a questo punto non rimarrebbe che vergognarsi di essere tali.

Gianfranco

 

Sul nuovo San Siro serve un dibattito aperto

Il dibattito pubblico è un sistema ormai diffuso in tutta Europa: l’amministrazione pubblica rende noto un progetto di interesse pubblico per informare i cittadini, discutere i pro e contro e decidere eventuali proposte. A Milano purtroppo i cittadini vengono a sapere dei progetti a cose fatte, tutto a favore di imprese private. L’Italia ha aderito a questa procedura ma nessuno lo sa, e chi lo sa viene ignorato, come nel caso di San Siro. A fatica, siamo riusciti a scoprire un bel po’ di irregolarità nel progetto e nei fondi, tuttora non chiari. Lo stadio era ed è un pretesto per una operazione finanziaria di notevole misura (lo stravolgimento di un intero quartiere!), di cui il Fatto ha parlato.

Giuliana Filippazzi

 

DIRITTO DI REPLICA

Gentile direttore, le scrivo in merito all’articolo uscito in data 25 aprile sul suo giornale a firma Stefano Vergine nel quale, al di là di nuove fantasiose ricostruzioni, si torna su un vostro vecchio cavallo di battaglia: la Wadi Venture che in passato voi ed altri giornali avete descritto come “la cassaforte di Carrai” o “il tesoro di Carrai” o “la montagna di soldi di Carrai all’estero” creando un clima di odio e di sospetti nei miei confronti. Mi preme ricordare al riguardo che già una recente sentenza della Cassazione si è dichiarata assolutamente stupita su questa attenzione per questa legittima società arrivando a dire di non capire quale possa essere l’illecito di Carrai nel detenere una legittima partecipazione societaria ancorché all’estero. In ogni caso nell’articolo viene scritto a proposito di Wadi ventures Management Company che il sottoscritto “compare o almeno compariva tra gli azionisti”. Il giornalista scrive inoltre che “il 24 marzo scorso, ha ceduto tutte le sue quote all’israeliano Jonathan Pacifici, presidente del Jewish economic forum”. Devo ringraziare il giornalista di questo presunto scoop per due motivi. Il primo perché, benchè il giornalista abbia omesso l’informazione senza dubbio in suo possesso del valore della mia partecipazione in Wadi Venture, posso dichiarare e far emergere, ora che la notizia della vendita è pubblica e non per mia volontà, che il famoso tesoro di carrai in Lussemburgo di cui il suo giornale e non solo hanno riempito pagine e pagine ammonta a 2500 euro. Sì, direttore, ha capito bene: la mia unica partecipazione estera esistente, come si può anche evincere dalla sezione “partecipazioni estere” della mia denunzia dei redditi, ammontava al valore di 2500 euro. Peraltro detto valore è pari a quello che io versai all’atto di costituzione, non essendosi nel tempo modificato il valore patrimoniale. Questo era il famoso tesoro detenuto nella famosa cassaforte. Io ho provato a dirlo e ridirlo in passato, ma non sono mai stato creduto. Oggi il suo giornalista, pur omettendo la cifra perché forse voleva continuare ad alimentare il complotto pluto giudaico mondiale, mi permette di dichiararlo e accettarlo in modo non confutabile. Il secondo perché essendo questa informazione di vendita acquisibile solo dal Bonifico bancario di appunto 2500 euro che dal legittimo conto della società che ha sede in Israele del dott. Pacifici è stato fatto in data 24 marzo al legittimo conto italiano (non ho conti esteri) del Sottoscritto, qualcuno, come già fatto in passato in mio danno, ha violato l’art. 7 del Testo unico bancario in materia di segreto bancario e su questo i miei legali domani faranno un esposto alla Procura della Repubblica di Firenze. Mi preme rassicurare che detto reato presuppongo non sia stato compiuto dal suo giornalista e che tale notizia non sia pervenuta dell’autorità giudiziaria, avendo messo la Cassazione una parola definitiva in base alla legittimità della mia allora partecipazione che abbiamo oggi scoperto valesse 2500 euro. La liquidazione di questa partecipazione, che oggi tutti gli italiani possono capire non fosse un tesoro, mi darà l’occasione probabilmente di individuare chi ha voluto costruire su di me un’immagine che non mi appartiene utilizzando false informazioni.

Marco Carrai

 

Ci tengo a rassicurare il dottor Carrai: l’informazione sulla vendita della sua quota di partecipazione nella Wadi Ventures Management Company Sarl non è stata ottenuta violando alcun articolo del Testo unico bancario ma, semplicemente, consultando il registro societario del Granducato del Lussemburgo. Il controvalore della quota (2.500 euro) non è stato riportato perché, come scritto sull’atto di fondazione della Wadi Ventures Management Company Sarl, questa società, che ha in effetti un capitale sociale molto basso, ne controlla un’altra, la Wadi Venture Sca, il cui capitale sottoscritto non è altrettanto esiguo: al 31 dicembre del 2019, è riportato nel bilancio, ammontava infatti a 2,1 milioni di euro. Anche questa cifra non è menzionata nell’articolo, ma nella sua precisazione il dottor Carrai dev’essersi dimenticato di citarla. Per il resto, l’articolo non fa riferimento ad alcun illecito commesso attraverso queste società lussemburghesi.

Ste. Ve.

Riflessione in 6 punti sul video di Grillo, dall’uomo al politico

Sono passati sette giorni dallo sfogo video di Beppe Grillo, ma forse c’è ancora qualcosa da dire. Sei cose, per esempio.

Mediatico. Quello di Grillo, maestro quando vuole di provocazioni e comunicazioni, è un autogol fragorosissimo. È come se il comico avesse deciso di autodistruggersi. Se era difficile sbagliare (quasi) tutto, prestando così il fianco alla pletora di odiatori che non aspettava altro per martirizzarlo, lui c’è riuscito.

Politico (Parte I). Lo sfogo ha oltremodo imbarazzato il Movimento 5 Stelle, che da una parte ha provato a difendere il Grillo uomo ma dall’altra ha ribadito la fiducia nella magistratura (che Grillo ha mai messo in dubbio) e la gravità enorme del reato (laddove accertato in sede processuale). Con quel video, che una persona di buon cuore avrebbe dovuto impedirgli in ogni modo di girare prima e (soprattutto) pubblicare poi, Grillo ha poi verosimilmente messo ancora di più in difficoltà suo figlio. L’esatto contrario di quel che desiderava fare.

Politico (Parte II). L’avvocato Bongiorno è troppo professionale e scaltra per avere parlato di fatti sensibili con altri suoi assistiti, su tutti Salvini (anche se è stato il salvinianissimo Il Tempo, prima di smentire se stesso coprendosi una volta di più di ridicolo, a sostenerlo). Non esiste però al mondo che una parlamentare possa continuare a esercitare la professione di avvocato. È un cortocircuito inverecondo. Vale per qualsiasi parlamentare e partito, ma vale ancora di più se sei una parlamentare (nonché ex ministro) di peso della Lega, un’avvocatessa di grido e – contemporaneamente! – difendi la presunta vittima del figlio di uno dei tuoi più grandi nemici politici.

Processuale. Sarà la magistratura ad appurare la verità. Non certo noi. Invidio (si fa per dire) quelli che sono convinti che Ciro Grillo sia innocente a prescindere in quanto “figlio dell’Elevato”. E quelli che garantiscono che Ciro Grillo sia Ted Bundy in quanto “figlio di quello stronzo del fondatore dei 5 Stelle”. Viviamo nel Paese dei tifosi, e il tifo è un cancro che corrode anima e pelle.

Umano. È l’aspetto che non frega nulla a nessuno. Infatti, sulle macerie emotive di Grillo, banchettano già le iene mediatiche coi riccioli unti e i quasi satiri a chilometro zero. Venerdì sera Crozza, che quando gli tolgono il gobbo è efficace come un Dertycia zoppo sotto porto, metteva malinconia nella sua foia inutilmente feroce contro un (si spera ex) amico in palese difficoltà psicologica. Chissà come reagirebbe, l’eroe per tutte le stagioni Maurizio, se come padre versasse in condizioni analoghe: come minimo invaderebbe la Polonia (ma sempre leggendo un copione, perché sta all’improvvisazione come la Meloni all’antifascismo). È spaventosa, nonché schifosa, questa voglia di infierire su chi già non riesce neanche più a muoversi. Il Grillo di quel video è un uomo oltremodo ferito, per nulla lucido e brancolante nel suo abisso: condividerlo no (quello è impossibile, e adesso ci arrivo), ma macellarlo è roba da bulli eunuchi.

Contenutistico. Qui Grillo è quasi sempre indifendibile, a partire dalla tesi – sconcertante – secondo cui una ragazza non possa essere stata stuprata davvero se ha denunciato il reato otto giorni dopo e non subito. Delirio totale, che non fa onore a una persona intelligente (ma purtroppo oggi fuori fuoco) come Grillo.

Concludendo. Il Grillo “avvocato” è irricevibile, il Grillo uomo merita quantomeno il rispetto che si deve a chi soffre. Chi non lo capisce o è Giletti, e lì c’è poco da fare, oppure – come disse quel tale – “ha un bidone dell’immondizia al posto del cuore”.

 

Coprifuoco: il doppio gioco di Salvini, imitato dalle Regioni

Sorprende la sorpresa per la guerriglia della Lega e, a seguire (meglio: a rimorchio), delle Regioni sul decreto Ripartenze.

Non conoscessimo Salvini. Si può stupire solo chi si illudeva circa la sincerità e l’affidabilità della sua estemporanea conversione alla responsabilità e all’europeismo. O chi, altrettanto ingenuamente, pensava che i governi “tutti dentro” abbiano vita più facile di quelli espressione di maggioranze politiche omogenee. O ancora di chi accredita il capo delegazione leghista al governo Giorgetti – uomo di buon senso, ma bossiano poi maroniano infine salviniano – come capace di resistere ai diktat superiori per onorare gli impegni assunti nella cabina di regia dell’esecutivo.

Non era stato Salvini il più sollecito a intestarsi con enfasi il merito di aperture che molta parte della comunità scientifica aveva giudicato semmai un azzardo, un rischio calcolato… male? Ora Salvini protesta che non basta. Leva alte grida per un’ora in più a proposito del coprifuoco serale. Non fosse stato questo, avrebbe cavalcato un altro pretesto.

Salvini gode di un vantaggio competitivo: egli capeggia due partiti, la Lega, e il “partito” delle Regioni, al vertice della cui Conferenza si è testé insediato il fedelissimo Fedriga, preferito ad altri (Zaia) giusto per la sua grigia docilità. Per inciso: istituzioni (le Regioni) usate come clave per battaglie di parte. Più esattamente: di partito e, di più, di un partito, la Lega, che fa due parti in commedia, sta al governo e fa opposizione.

Curiosa e palesemente contraddittoria anche la protesta delle Regioni: da un lato si fa eco alla rimostranza della Lega perché si sarebbe esagerato nelle chiusure (a cominciare dal coprifuoco); dall’altro, all’opposto, si giudica imprudente la misura delle aperture della scuola in presenza. A riprova della strumentalità e, mi si permetta, persino della viltà: si invocano aperture quando a risponderne è il governo, si frena quando (sulla scuola) a provvedervi tocca alle Regioni medesime. Pretendono potere, rifuggono responsabilità.

In questa commedia degli equivoci e delle furbate, si segnala anche il comportamento delle Regioni a guida Pd, che, senza battere ciglio, hanno spalleggiato la coppia Salvini-Fedriga. Tutte le Regioni. Di nuovo: come sorprendersi? Li conosciamo: ras territoriali che si atteggiano a Napoleone, dal profilo politico incerto, neppure sfiorati dall’idea che stare nel Pd comporti un minimo vincolo. Non che sia cambiato molto: già Bonaccini, in più circostanze, non si fece scrupolo di mostrarsi più d’accordo con Salvini che con Zingaretti, del quale era accreditato come antagonista nel partito. In linea con la tradizione degli autonomisti che occhieggiano a cariche romane un minuto dopo avere inaugurato il secondo mandato.

Con questa doppia tara – la liaison con il doppio gioco di Salvini e la rincorsa demagogica dei cacicchi regionali al facile consenso personale – si comprende come vada a farsi benedire il sacro principio della leale collaborazione con il governo da parte dei sedicenti “governatori”. A dispetto dell’evidenza del prezzo pagato alla “versione balcanica” del nostro regionalismo e della recente, inequivoca sentenza della Corte costituzionale che ha solennemente certificato la competenza dello Stato nella gestione della pandemia.

 

Articolo 18, le disparità denunciate dalla corte

La Corte costituzionale, con la sentenza 59/2021, è per la prima volta intervenuta con vigore e incisività sul nuovo testo dell’art. 18 dello Statuto, così come modificato dalla legge Fornero nel 2012 che ha, come noto, sostanzialmente disarticolato il sistema di tutela contro il licenziamento illegittimo.

Con la legge Fornero questo modello è stato frantumato in quattro regimi (senza contare le peculiarità del licenziamento collettivo), per essere poi soppiantato, per i soli lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, dal cosiddetto Jobs act. La Corte costituzionale, che era già intervenuta sul Jobs act, riattribuendo al giudice il potere di stabilire, entro i limiti fissati dalla legge, l’entità della indennità risarcitoria spettante al lavoratore, questa volta ha giudicato su una norma chiave del nuovo art. 18.

Infatti, nel caso esaminato dalla Corte, si discuteva se fosse legittimo imporre la reintegrazione solo per certe ipotesi di licenziamento disciplinare palesemente prive di giustificazione, prevedendo per contro soltanto una corrispondente facoltà per i casi di licenziamento per motivi oggettivi, le cui ragioni giustificative risultassero, tuttavia, del pari manifestamente insussistenti.

La Corte ha ritenuto che una tale radicale diversità di trattamento di casi sostanzialmente identici non potesse dirsi sanata neppure dallo sforzo interpretativo-ricostruttivo posto in essere dalla giurisprudenza di legittimità, non potendo tale disparità trovare giustificazione quando sono in gioco beni di primario rango costituzionale, quale la stabilità del posto di lavoro. Come per l’appunto nel caso deciso, in cui la disparità riguardava la differenza di trattamento irragionevolmente riservata al licenziamento per giustificato motivo oggettivo rispetto a quello per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, cioè per colpa del lavoratore. Si tratta, in entrambi i casi, sottolinea la Corte, di ipotesi in cui l’inesistenza della ragioni addotte è indiscutibile e plateale, cozzando con il principio di necessaria giustificazione del licenziamento. È dunque privo di “fondamento razionale” condizionare la reintegrazione – per i soli licenziamenti economici – a una valutazione discrezionale del giudice, in assenza oltretutto di parametri legali.

È vero che la Cassazione (che si è trovata a svolgere un ruolo improprio, “quasi legislativo”, nel risolvere dubbi e incertezze macroscopiche) aveva cercato di limitare questa discrezionalità, stabilendo che la reintegrazione avrebbe dovuto essere esclusa solo quando sarebbe risultata troppo onerosa per il datore, tenuto conto delle condizioni economiche dell’impresa. Ma è evidente come questo tentativo apparisse esso stesso inadeguato rispetto alla questione della violazione del principio di uguaglianza/ragionevolezza, non fosse altro per le difficoltà applicative e il rischio di facili abusi da parte del datore di lavoro.

Per la Corte, “alla violazione del principio di eguaglianza e alla disarmonia interna a un sistema di tutele, caratterizzato da una pluralità di distinzioni, si associa l’irragionevolezza intrinseca del criterio distintivo adottato, che conduce a ulteriori e ingiustificate disparità di trattamento”. I principi seguiti dalla Consulta potrebbero portare a ulteriori interventi “ortopedici” sul disfunzionale e frammentato “sistema” di tutele stratificatosi con gli interventi legislativi del 2012-2015. La stessa Corte, nella sentenza 150/2020, ha rivolto un pressante invito del legislatore a farsi carico di tali difetti di sistema, ponendo mano ad una riforma organica ed equilibrata. Per questo riteniamo che bene farebbe il legislatore, senza attendere altri interventi, ad accogliere l’invito a razionalizzare questa materia, così importante, eliminando le tante disparità di trattamento e i tanti deficit di ragionevolezza e adeguatezza nelle tutele apprestate (se si vuole i tanti errori macroscopici nell’uso della semantica dei diritti fondamentali), che la Corte costituzionale ha, in parte, già stigmatizzato. L’art. 3 della Costituzione – nell’ancorare ogni norma di legge al rispetto del principio di ragionevolezza e nel porre a carico di chi distingue tra situazioni consimili l’onere di offrirne una plausibile giustificazione, anche sotto il profilo del bilanciamento tra valori e diritti – costituisce il più saldo presidio dell’uguaglianza e dell’equità sociale. Il legislatore è avvisato.

 

 

Spesso si Confonde la tecnica della gag con il contenuto

La settimana scorsa, dalle polemiche sulla gag di Striscia, accusata di razzismo, siamo passati ad analizzare perché si fatichi a individuare il razzismo, anche involontario, nella comicità. Il motivo è che si confonde la tecnica della gag, che fa scattare la risata come un riflesso, con il contenuto della gag, che puoi condividere o meno. Si danno almeno tre casi:

1) Il contenuto attacca un nostro pregiudizio. Lì per lì spegniamo la nostra risata, ma su questo si fonda la funzione liberatoria della satira: col tempo, magari, capiamo che quella gag antirazzista aveva ragione. (Per contro: quando una gag vellica un nostro pregiudizio, ridiamo contentissimi, come i fascisti agli sfottò su Anna Frank.)

2) Il contenuto attacca una nostra convinzione nobile, per esempio quella che ci apre al rapporto con l’altro, facendocelo considerare uguale a noi: se una gag sfotte questa convinzione nobile, il nostro giudizio sulla risata che ci ha fatto fare è negativo, e tale resterà nel tempo. (Per contro: quando una gag vellica una nostra convinzione nobile, ridiamo contentissimi.)

3) Il contenuto mente (con parole, con immagini, con omissioni). È il caso peggiore: se una gag dice il falso, fa ridere solo chi gode a propalare quella falsità, e chi non s’avvede della truffa.

Il punto non è se una gag fa ridere o meno. Si ride infatti per il meccanismo comico, che scatena il riflesso della risata; ma se la tua gag veicola un’idea razzista, hai fatto il razzista (consapevole o no); se ridi a una gag razzista, hai fatto il razzista (consapevole o no).

Torniamo al trailer del film Tolo Tolo, il video della canzone “Immigrato” con protagonista Checco Zalone (shorturl.at/gwG12). Aristotele, nell’Etica, individua quattro tipi di personaggi comici: dissimulatori (eirones, per esempio il servo scaltro), impostori (alazones, per esempio il millantatore), buffoni (bomolochoi) e bifolchi (agroikois). L’immigrato del video è un eiron, mentre Checco Zalone (“che cozzalone” in barese sta per “che tamarro”) è un agroikos. Sono agroikoi anche i personaggi di Totò e Peppino in Totò, Peppino e la malafemmina; i burini nei film di Vanzina; Ivano (Verdone); Cetto La Qualunque (Albanese); e Pio & Amedeo (che sono due Checco Zalone). Il genere in cui eccelle Luca Medici è la parodia musicale, spesso a base di doppi sensi, secondo la tradizione dell’avanspettacolo e della goliardia. Guardando il video, si ride della situazione comica (l’agroikos vittima dell’eiron) e della tecnica parodistica (Celentano/Cutugno). Situazione comica e parodia fanno scattare la risata. Passiamo al plot. Nel video, Luca Medici presenta Checco Zalone come vittima di un immigrato. Il problema è qui, nell’affrontare temi sociali rilevanti (la rilevanza psicologica della gag potenzia la risata) in modo qualunquista (a volte ci casca anche Sacha Baron Cohen con Borat). Se la gag che mette in scena una disuguaglianza ne colpisce i responsabili (come fa Albanese con Cetto La Qualunque), è satira; se invece fai passare per vessatore un immigrato (che nella realtà del sud Italia è costretto a subire caporalato e sfruttamento schiavista), hai fatto il razzista (il video di Luca Medici, non a caso, piacque a Meloni e Salvini). A ragione, l’associazione Baobab giudicò razzista quel video, ma sbagliò dicendo che quel video non fa ridere: confuse il giudizio sul contenuto col giudizio sulla tecnica. Fecero lo stesso, pro domibus suis, Meloni (“La canzone ‘Immigrato’ è divertente”) e Salvini, che la buttò anche lui sul “politicamente scorretto”, come se ci fosse libertà di razzismo.

(4. Continua)

 

Qui dentro si muore, fuori si ride e si beve. E noi non sappiamo più che cosa dire

È quasi notte, ma le tapparelle della finestra rimangono a mezza altezza. Stiamo cercando di salvare una donna di 50 anni, ha avuto una crisi. Non riesce più a respirare. Le infiliamo il tubo lungo la trachea per farle arrivare l’ossigeno. Dopo ore la visiera è appannata per il sudore, ma non possiamo sbagliare nessuna manovra. Ha il petto scoperto, le rimettiamo gli elettrodi. Osserviamo le luci verdi dell’elettrocardiogramma. Il Covid e la polmonite le stanno togliendo la vita.

Passa mezz’ora e ci chiama sua figlia da casa, vuole sapere come sta. Non possiamo mentire, ma non abbiamo una risposta, lei continua a chiedere. Rimane in attesa ed è un lungo silenzio che fa male al cuore. Nel corridoio ci sono poche luci accese, si sentono le sirene di un’ambulanza mentre si sta fermando davanti al pronto soccorso. Ci guardiamo attorno, le stanze sono tutte piene. Dovrà restare in attesa. C’è un’altra crisi cardiaca nella camera 3, due infermieri avvolti nella plastica blu corrono a dare una mano. In fondo al corridoio qualcuno ha acceso il televisore. Vediamo le piazze stracolme di ragazzi e manifestanti, mascherine abbassate, bottiglie in mano, resse. Grandi risate. Arriva un’altra ambulanza. Questa volta si è liberato un posto letto, un decesso nella stanza 11. Si ricomincia.

Diteci voi cosa dobbiamo fare. Qualcuno ci indichi la strada, perché come medici abbiamo sempre lavorato per curare una società che non vuole ammalarsi, che si rivolge ai professionisti perché ha paura di soffrire, di perdere i propri cari. È chiaro che ora le priorità sono cambiate o non si spiegherebbero le folle per le strade. La tutela della salute è uno dei pilastri della nostra Costituzione, ma quel principio sembra essere confinato solo nei reparti ospedalieri. Diteci cosa rispondere alle famiglie che ci chiamano, agli anziani rimasti soli che guardano fuori dalla finestra. Noi le parole le abbiamo finite.

Dentro o fuori? così Matteo si è preso la Tenda

Chissà perché, ma siamo convinti che quando Sergio Mattarella e Mario Draghi hanno preso in considerazione la presenza di Matteo Salvini nella maggioranza di governo si siano ispirati a un celebre aforisma di un presidente americano (che non era esattamente Lord Brummell), cioè Lyndon Johnson. Che a proposito del diabolico direttore dell’Fbi, Herbert Hoover (i due si odiavano) disse: “È meglio che stia dentro la tenda e pisci fuori, piuttosto che lasciarlo fuori a pisciare dentro la tenda”. Fu così che potendo contare sul cedimento del Pd (e malgrado la contrarietà di Beppe Grillo) il capo leghista fu fatto accomodare. Con tanto di fanfara e perepè del cretino collettivo a mezzo stampa inneggianti all’unità nazionale e celebranti i busti di Einaudi e De Nicola “che si scambiavamo sorrisi d’intesa”, insomma quella roba là. Cosicché, quando Matteo Salvini insiste con la raccolta di firme per cancellare del tutto il coprifuoco, fa esattamente Matteo Salvini. E allo stesso modo, quando Enrico Letta tuona contro l’alleato verde (ebbene sì, Lega e Pd sono alleati): “Se non vuole stare al governo non ci stia”, fa esattamente Enrico Letta. Comprensione massima, quindi, per i giornali che nella fiacchezza domenicale sparacchiano sulla “tensione che sale” o sulla “dura polemica”. Forse dimenticando che la volpe Matteo e il gatto Enrico s’incontrarono non più tardi di venti giorni fa nella tana del gatto (l’Arel). E non soltanto, riteniamo, per una chiacchiera sul Milan di cui sono entrambi tifosi. Proprio perché collocati su fronti opposti, che attingono a elettorati divergenti su tutto, i due sono fatti per intendersi. Ovvero: io ti attacco sullo Ius soli e tu mi attacchi sulla ruspa contro i migranti, e così ci diamo una mano, tu a raccattare voti sulla sinistra e io a riacciuffare i voti che ti ha sottratto la Meloni. Analisi troppo grezze? Politologia da strapazzo? Può darsi, anche se c’è sempre l’imprevisto a guastare le più raffinate strategie. Per esempio, smentendo alla grande Lyndon Johnson, poiché Salvini la pipì si è messo a farla sia fuori che dentro la tenda. Tensione? Avvisaglie di crisi? Problemi per il governo Draghi? Ma no, tranquilli, tanto poi c’è sempre qualcuno che pulisce.

Dura è la vita per chi osa denunciare (se poi la sua storia finisce da Giletti)

Dura la vita di chi denuncia una violenza. Non basta dover fare i conti con la paura di non risultare credibili, col sapere che ogni piega della propria vita verrà scandagliata. Ormai, quando si parla di vittimizzazione secondaria e di ulteriori abusi a cui la vittima viene sottoposta dopo i fatti denunciati, bisognerebbe aggiungere alla lista anche “la tua storia finirà da Giletti”. Era toccato al caso “Terrazza sentimento”, degenerato quasi subito in un teatrino mesto di ospiti gestiti da persone ai domiciliari e presunte vittime che parlavano dietro cachet. Ora, ahimé, tocca anche al caso Grillo jr., inevitabilmente finito nel frullatore di Non è l’Arena. O forse no, non è un frullatore, ho sbagliato elettrodomestico.

O forse no, non è un frullatore, ho sbagliato elettrodomestico: sarebbe meglio dire nell’estrattore al contrario di Non è l’arena, ovvero quel particolare estrattore che butta via il succo e conserva gli scarti della cronaca.

La premessa del conduttore è ovviamente già chiaro indizio di quello che accadrà dopo: “La verità la stabilirà eventualmente il processo, non noi”, che è l’equivalente di “Ho tanti amici gay” prima di dire che “i finocchi devono liquefarsi” o schifezze simili. Ma partiamo dall’inizio. L’ospite principale è Vittorio Sgarbi, il quale dopo qualche considerazione politica sul Grillo pubblico che non doveva parlare di vicende private, si occupa di esaltare la donna in quanto essere nobile e superiore cui l’uomo deve rispetto, altro che violenza. Giletti annuisce compiaciuto, dimenticando un particolare: neanche un anno fa, l’ospite per il quale le donne sono esseri angelici, veniva portato via di peso dalla Camera dopo che aveva dato della troia e della stronza a Mara Carfagna e alla deputata Bartolozzi.

Poi, sempre Giletti passa a commentare questi strani tempi delle indagini. Due anni. In realtà, chi conosce i tempi della giustizia sa bene che due anni di indagini per un caso complesso come questo tra intercettazioni e molti testimoni ascoltati, sono la norma. Giletti però la butta lì. “Qualcuno dice che ora che non c’è più BUONAFEDE…”. A parte che un Buonafede non c’è mai stato perché l’ex ministro si chiama Bonafede, l’insinuazione quale sarebbe? Che il ministro della Giustizia avrebbe rallentato le indagini? Che le indagini siano state rallentate per compiacere il ministro o la sua corrente politica? Poco dopo, a uno dei quattro ragazzi indagati raggiunto al telefono viene chiesto: “Ma le indagini sono state chiuse dopo l’arrivo del governo Draghi?” e lui: “Mi pare di sì”. Eccola lì, la pistola fumante.

Poi, dopo essersi complimentato con una psicologa per il suo nuovo caschetto, Giletti le passa la parola. Lei si lamenta della violenza verbale di Grillo. Sempre con Sgarbi lì in studio, noto per la sua aulica pacatezza. Lo stesso Sgarbi che subito dopo interviene lamentandosi del fatto che la Gruber non gli abbia fatto dire la sua su Grillo in trasmissione. A questo punto va in scena un siparietto esilarante: Giletti si lamenta a sua volta di non essere mai invitato nel programma della Gruber. “Se la signora Gruber non vuole parlare di tante cose ha la sua libertà, se uno invita sempre gli stessi uomini se li tenga…”. Insomma, la Gruber censura un conduttore che ha 4 ore di diretta tutte le settimane sulla sua stessa rete 9 mesi l’anno, impedendogli di rivelarci le sue scomode verità. Davvero un’astuta megera. Qualche anima pia, da dietro le quinte, fa cenno a Giletti di mollare la Gruber e andare avanti e lui allora sbrocca: “Cairo in 4 anni non mi ha mai detto cosa non devo dire, chiaro?”. Accidenti, che fragranza profumata di democrazia, dalle sue parti, altro che l’olezzo del lager Otto e mezzo.

Si passa poi al testimone chiave, quello che ha convinto la Procura a chiedere il rinvio a giudizio: il proprietario del b&b dove alloggiavano le ragazze. Le sue sono parole forti: “Erano ragazze sportive. Dopo quella sera sono diventate schive”. Roba da processo per direttissima. Giletti torna di nuovo sui tempi troppo lunghi dell’indagine, tanto più che, dice, proprio i 5S con la Lega avevano ottenuto “IL SOCCORSO ROSSO”. Cosa sia il soccorso rosso lo sa solo lui: probabilmente è le legge per la quale se un uomo e una donna arrivano al pronto soccorso contemporaneamente con un braccio rotto, ingessano prima la donna.

Giletti dà poi un’ulteriore dimostrazione di solidarietà alla presunta vittima mostrando a tutto schermo i passaggi più intimi della testimonianza, tra descrizioni di rapporti orali e posizioni sessuali. Infine, Giletti ricorda che gli argomenti terribili di Grillo, le parole che colpevolizzano le donne, sono state pronunciate ai tempi anche da un altro personaggio, e cioè da Daniele Leali, amico di Alberto Genovese. “Vi facciamo ascoltare le sue parole!”. Parte il video. In effetti le parole di Leali sono agghiaccianti. Chissà chi lo ha invitato a ripeterle più volte, come ospite fisso. Chissà chi glielo ha permesso. Ah, già: Massimo Giletti.

Caso Grillo jr, uno dei ragazzi: “Sesso con S., poi ho dormito”

Uno dei quattro ragazzi si sfila dall’accusa di stupro di gruppo: “Ho avuto un rapporto consenziente con S.J., eravamo solo io e lei, poi mi sono addormentato. Di ciò che è successo dopo io non so niente”. È quanto ha raccontato ai magistrati Francesco Corsiglia, indagato per la presunta violenta sessuale di gruppo insieme agli amici Ciro Grillo, Vittorio Lauria ed Edoardo Capitta, avvenuta secondo la vittima nell’appartamento di famiglia del figlio del fondatore del M5s a Porto Cervo. La sua è una testimonianza è particolarmente importante, perché, se fosse dimostrata, potrebbe cambiare parecchio la ricostruzione della vicenda fatta fino a oggi dalla Procura di Tempio Pausania. Corsiglia, dopo essersi iscritto all’università, è attualmente in Spagna con il programma Erasmus. Come gli altri ragazzi, rigetta completamente la contestazione di aver abusato della studentessa di Milano, conosciuta quella notte alla discoteca Billionaire insieme all’amica R.M..

La parte forse più rilevante di questo resoconto – confermato l’ultima volta due settimane fa davanti ai pm – è però un’altra: il dettaglio sull’ora in cui avrebbe preso sonno collocherebbe Corsiglia fuori dal rapporto sessuale di gruppo, circostanza da cui il giovane prende completamente le distanze. Non solo. Tra il primo rapporto, quello che lui ammette di aver avuto, e gli altri, c’è un altro nodo fondamentale di questa storia: l’episodio in cui gli altri tre amici avrebbero forzato S.J. a bere una bottiglia di vodka “tenendola per i capelli”. Una versione, anche questa contestata dai ragazzi. Uno di loro, intervistato a Non è l’arena, chiarisce il punto di vista degli indagati: “Non l’abbiamo forzata a bere, è lei ad aver preso l’iniziativa di bere, come sfida, perché noi non riuscivamo a finire la bottiglia. Ce ne sarà stata un quarto”. In quella stessa intervista il giovane stigmatizza il video diffuso da Beppe Grillo in difesa del figlio: “Era meglio non farlo”. Le dichiarazioni di Corsiglia, al vaglio degli inquirenti, sembrano corroborate da un elemento importante: il giovane non comparirebbe nelle foto e nei video di gruppo. Compreso quello che ha portato a un secondo capo d’imputazione di violenza sessuale, nei confronti di R.M.: mentre la seconda ragazza era addormentata sul divano, ubriaca, altri due ragazzi si fanno fotografare mentre le avvicinano i genitali. Una seconda accusa che, sebbene sia distinta dalla prima, potrebbe in qualche modo trascinare con sé anche la prima: la foto c’è, ragiona una fonte inquirente, mentre il resto è tutto da dimostrare. Come noto, i ragazzi si sono filmati, ma di quel video accusa, parti civili e difesa, danno interpretazioni diametralmente opposte.

La versione fornita da Corsiglia, come forse anche le frasi trasmesse in tv, segnano forse uno spartiacque di questa vicenda: sembra che da ora in poi ognuno perseguirà la propria linea difensiva. Mentre all’orizzonte si profila un processo reso ancora più delicato dalla pressione mediatica e politica.

Mentre il calcio rischia il default, Gravina si alza lo stipendio

Il calcio mondiale è a rischio default, i top club sommersi dai debiti provano a scappare nella Superlega, l’intero movimento s’interroga su come sopravvivere. Il momento ideale per una bella infornata di stipendi. Tra una riforma e l’altra per moralizzare il sistema (inclusa la nuova “norma anti-Superlega” che in futuro vieterà l’iscrizione al campionato a chiunque partecipi a tornei non riconosciuti dalla Uefa), il numero uno della Figc, Gabriele Gravina, ha pensato di riconoscere nuovi compensi per gli incarichi apicali in Federazione, a partire da se stesso. Un’indennità Gravina ce l’aveva già: 36mila euro lordi l’anno, secondo una vecchia circolare Coni, come tutti i presidenti di Federazione. Non proprio tutti in realtà: un’inchiesta del Fatto aveva già rivelato come alcuni vi avessero rinunciato per prendere di meglio (come ad esempio nel motociclismo). Ora il consiglio Figc, che Gravina dirige con maggioranza bulgara, ha deliberato un compenso per il capo del Settore giovanile (Vito Tisci), tecnico (Demetrio Albertini), e degli arbitri (Alfredo Trentalange). Il comunicato non indica le cifre, si parla di 36mila euro, ma il meglio spetta al presidente del Club Italia, che proprio dal numero uno federale è presieduto, e per cui si arriverà fino a massimo 240mila euro lordi. Nessuna norma lo vieta, ma si crea un precedente per cui domani altri capi delle federazioni (enti privati, ma con fondi pubblici) potrebbero auto-assegnarsi un super stipendio sotto forma di altri incarichi. La Figc spiega di avere l’ok del Coni e che il compenso serve a riconoscere la professionalità di un ruolo importante. Oggi in effetti un presidente federale lo fa quasi a titolo di volontario. Ma Gravina non correrà più questo rischio: con il nuovo compenso (240mila euro), più il prestigioso posto nell’esecutivo Uefa (150mila), e magari qualche spicciolo in caso di elezione in giunta Coni (altri 8mila euro), il presidente Figc diventa un mestiere da quasi 400mila euro.