Consip, è partita l’udienza preliminare. E Tiziano Renzi pensa al rito abbreviato

La difesa di Tiziano Renzi sta valutando di chiedere l’abbreviato nell’ambito dell’inchiesta Consip. È quanto è emerso durante la prima udienza preliminare che si è tenuta ieri a Roma davanti al Gup Annalisa Marzano. E come Federico Bagattini, avvocato del padre dell’ex premier, anche altre difese (tra cui quella degli ex parlamentari Denis Verdini e Ignazio Abrignani) hanno parlato della possibilità di chiedere l’abbreviato, rito alternativo che permette l’omissione del dibattimento e di arrivare in tempi brevi a una sentenza, che in caso di condanna, prevede una pena ridotta a un terzo.

Per Tiziano Renzi, inizialmente indagato solo per traffico di influenze, la Procura aveva chiesto l’archiviazione. Respinta dal Gip Gaspare Sturzo che ha disposto nuove indagini. E così ora il padre del leader di Italia Viva si ritrova accusato di traffico di influenze e turbativa d’asta in merito a due gare: l’appalto Fm4 indetto da Consip (del valore 2,7 miliardi di euro) e la gara per i servizi di pulizia bandita da Grandi Stazioni. Sulla gara Fm4, secondo le accuse, era Carlo Russo a farsi promettere denaro in nero da Alfredo Romeo per sé e per Renzi sr., in cambio della propria mediazione sull’ex ad di Consip, Luigi Marroni (estraneo alle indagini), affinché favorisse le società dell’imprenditore campano nella gara Fm4. Russo (accusato di turbativa d’asta), secondo le accuse, “agiva in accordo con Tiziano Renzi” (che però ha sempre smentito). In cambio di questa “mediazione illecita”, Russo “si faceva promettere da Romeo”, tra le altre cose anche “denaro in nero per sé e per Tiziano Renzi”. Per la Fm4, la turbativa d’asta e il traffico di influenze sono contestati anche a Romeo, all’ex Ad di Consip Domenico Casalino e all’ex parlamentare Italo Bocchino. C’è poi la gara per i servizi di pulizia indetta da Grandi Stazioni. Anche in questo caso, per i pm, è il solito Russo a voler favorire la Romeo Gestioni Spa, agendo sempre “in accordo con Tiziano Renzi”. Russo per l’accusa sfruttava le proprie relazioni, stavolta però con Gizzi (ex Ad di Grandi Stazioni accusato di turbativa d’asta). Indagato in questo filone di Consip anche l’ex fondatore di Ala, Denis Verdini, ora ai domiciliari per altre vicende di bancarotta. Per i pm, Verdini, con Abrignani, avrebbe concorso nella turbativa della gara Fm4 parteggiando per Cofely. Verdini e Abrignani sono accusati anche di concussione.

Siringhe luer lock, la Procura indaga per truffa

Truffa in pubbliche forniture e abuso d’ufficio. Sono le ipotesi di reato che la procura di Roma contesta nel fascicolo – per ora senza indagati – aperto sull’acquisto, da parte della struttura commissariale, nel 2020, di 157 milioni di siringhe “luer lock”, i dispositivi utilizzati per la somministrazione dei vaccini anti-Covid. L’indagine, assegnata al pm Antonio Clemente, è stata affidata al Nucleo di polizia economico-finanziaria della Gdf, e si attende una prima informativa. Il procedimento è ancora agli inizi. Dai rilievi dei finanzieri dipenderà l’archiviazione del fascicolo o la prosecuzione delle indagini. L’inchiesta nasce da un esposto dell’ex europarlamentare di Fratelli d’Italia, Crescenzio Rivellini. Nel documento consegnato alla procura di Napoli e poi trasferito per competenza ai magistrati romani, si afferma che “il costo delle siringhe” volute dall’ex commissario Domenico Arcuri “è risultato decisamente più alto delle normali siringhe che in tutto il mondo stanno usando” mentre “in alcuni casi sono risultate inadatte”.

Lazio, la Regione ora sospende le assunzioni in Asl

“Non è il momento di assumere”. La frase più gettonata in Regione Lazio, da qualche giorno, risuona come un mantra alla richiesta di spiegazioni dell’ennesima puntata della cosiddetta “Concorsopoli” regionale. La notizia, anticipata dal sito EtruriaNews, è la sospensione della procedura per l’assunzione di 22 posti di assistente amministrativo categoria C, 14 per la Asl Roma 4 (litorale nord) e 8 per la Asl Roma 5 (area tiburtina). Il concorso era arrivato alle prove orali, ora rinviate “a data da destinarsi”. Intanto, ieri mattina, in Consiglio regionale è stata varata la commissione trasparenza per la valutazione delle carte sul concorso di Allumiere, da cui la Pisana ha attinto per l’assunzione di 16 persone, in gran parte organiche al Pd. Il Fatto haportato a galla un’altra graduatoria grazie alla quale sono stati assunti due sindaci e un consigliere dem. La consigliera di Fd’I, Chiara Colosimo, è intervenuta in aula affermando che “tale slavina dovrebbe portare alle dimissioni del presidente Nicola Zingaretti”.

Raggi per il bis punta su civiche e periferie: sostegno dai big, ma c’è il nodo piattaforma

Fino a qualche settimana fa era quasi una separata in casa, ma ora Virginia Raggi ha la fila alla porta. Nel dettaglio di parlamentari del M5S che vogliono sostenerla e farle campagna elettorale, perché i sondaggi raccontano che è competitiva, più di quanto pensassero più o meno tutti, e nella base del Movimento è ancora popolarissima. Ergo, adesso la sindaca di Roma per molti rappresenta un’ancora a cui aggrapparsi in tempi difficili. Pronta a cercare il bis in Campidoglio con un progetto che farà leva su liste civiche di supporto – una sarebbe già pronta – e su una campagna “fatta in strada”, raccontano, che punterà molto sulle periferie: il vero bacino di voti a Roma, dove secondo alcune stime la 5Stelle sarebbe oltre il 30 per cento nei sondaggi.

Però la sindaca ha anche alcune grane sulla sua strada. Una è politica, ed è il silenzio di Giuseppe Conte, con cui la sindaca non ha contatti da tempo, e di conseguenza neppure segnali di appoggio. L’altra, e anche qui c’entra indirettamente Conte, è innanzitutto organizzativa, ed è il caos della transizione a 5Stelle. Perché dopo lo strappo con Davide Casaleggio e la sua associazione Rousseau, al momento il M5S non ha una piattaforma web su cui votare. Ma Raggi adesso ne ha bisogno: non solo e non tanto per un voto che la rilegittimi come candidata (“per quello può bastare anche un’assemblea” ricorda un big), quanto per selezionare i candidati per il Comune e nei Municipi. E non è un dettaglio. Nell’attesa la 5Stelle prepara la campagna, dove avrà il pieno supporto di Alessandro Di Battista, anche lui fautore di un’apertura alle civiche. Si lavora già ai dettagli operativi, innanzitutto con Francesco Silvestri, deputato romano e referente regionale del M5S.

Di fatto la cerniera di collegamento tra la sindaca e i 5Stelle, anche quando i rapporti reciproci erano ai minimi storici. Ora la situazione pare decisamente migliorata, e la conferma si è vista nella riunione tra Raggi e i parlamentari romani di domenica scorsa. Un punto in cui si è discusso soprattutto dei temi su cui puntare in campagna elettorale: dalla legalità, con in primo piano la lotta ai clan, al verde, passando per il risanamento dei conti del Campidoglio. Piani e temi, sempre con quell’incognita sopra la testa, il nuovo assetto del M5S che ancora non si materializza.

“Si vaccina di più”. Così Draghi ha calcolato il rischio

Il modello matematico che consigliava di riaprire a maggio dopo l’abbassamento dell’incidenza dei nuovi casi di Covid-19 “non è stato ignorato, è stato valutato attentamente insieme ad altre evidenze scientifiche”, spiegano da Palazzo Chigi. Non è chiaro quali. Ma i “pilastri” su cui Mario Draghi ha iniziato a riaprire da ieri, secondo il suo staff, sono tre: “L’accelerazione delle vaccinazioni, la gradualità delle riaperture stesse e comportamenti responsabili degli italiani, assicurati da maggiori controlli”. Come vediamo, è più facile annunciare i controlli che farli.

Insomma, il governo non ha chiesto un parere preventivo al Comitato tecnico scientifico sulle misure poi adottate per decreto, ma afferma di aver tenuto in debita considerazione le previsioni consegnate il 16 aprile allo stesso Cts. Le aveva elaborate il matematico Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler, che dal febbraio 2020 lavora con l’Istituto superiore di Sanità: indicò subito un anno fa il rischio di una rapida diffusione del virus così come, lo scorso gennaio, il dilagare della variante inglese che ha determinato la terza ondata. Le sue conclusioni, anticipate ieri dal Fatto, erano appunto che “riaperture precoci, entro aprile” possono portare a “un costante ma alto numero di morti giornaliere”. Questo anche se Rt non supera 1: l’ultimo dato è 0,81 ma è del 7 aprile, diverse Regioni anche gialle sono sopra 1. Il rischio invece “sarebbe estremamente ridotto con riaperture a valle di un marcato calo dell’incidenza”, ossia con “riaperture graduali a partire da inizio-metà maggio, mantenendo Rt<1”. Se invece Rt salisse a 1,1 si rischierebbe una “situazione non facilmente controllabile senza ulteriori restrizioni, soprattutto in caso di riaperture precoci (entro aprile)”. Con Rt a 1,25 il pericolo sarebbe “una quarta ondata che richiederebbe misure importanti per evitare un altissimo numero di morti in poco tempo”.

È un modello matematico e come tale non fornisce certezze ma indica tendenze. Alla base, Merler ha assunto vari dati della letteratura scientifica e stimato una copertura vaccinale del 75% delle classi d’età chiamate alle somministrazioni entro il 31 luglio, con una media di 300 mila iniezioni al giorno dal 12 aprile e un’efficacia dei vaccini calcolata tra il 76 il 95% rispettivamente per le prime e le seconde dosi. Nell’ultima settimana siamo arrivati a 350 mila dosi giornaliere e il generale Francesco Paolo Figliuolo punta a superare le 500 mila giovedì 29. Per questo il governo ritiene che la popolazione suscettibile di infettarsi possa diminuire rispetto alle stime di Merler.

Ma è pur vero che le somministrazioni giornaliere non dipendono solo da Figliuolo e dalle Regioni: è anche necessario che le fiale arrivino per tempo. Proprio ieri l’Unione europea ha confermato l’intenzione di fare causa ad AstraZeneca per i ritardi nelle forniture. Alla Salute, come al Cts, c’è preoccupazione per l’effetto delle riaperture e degli assembramenti visti in tutta Italia. Nel frattempo si è diffuso un forte allarme per la cosiddetta variante indiana. Ma è “scientificamente infondato, almeno in questo momento”, afferma Graziano Pesole, genetista e direttore di Elixir, l’infrastruttura europea con sede a Bari che insieme a una rete di università e centri di ricerca italiani gestisce il Covid-19 Data Portal dove si riportano i genomi delle varianti di tutto il mondo.

Luca Zaia, presidente del Veneto, che ieri ha dato notizia della variante indiana nella sua regione. “Per potersi esprimere sulla presenza e pericolosità della variante indiana bisogna guardare i genomi sulla banca dati internazionale Gisaid”, aggiunge Pesole. “Al momento, non ce ne sono: in Veneto non è stato analizzato l’intero genoma dei due pazienti affetti, presumibilmente, da variante indiana, ma solo un pezzo della spike”, la proteina che il virus utilizza per infettare l’organismo. “Potrebbe non trattarsi di variante indiana”.

Matteo Chiara, bionformatico della Statale di Milano impegnato nel Covid-19 Data Portal, spiega al Fatto che “anche in India, i dati del genoma indicano che la variante autoctona presenta meno mutazioni di quella britannica e appare molto meno trasmissibile. Come nel resto del mondo, quella britannica ha preso il sopravvento”.

La Lombardia adesso corre (e resta senza AZ)

Dopo una partenza drammatica, la campagna vaccinale Moratti-Bertolaso corre. Addirittura troppo, tanto che la Lombardia ha terminato le riserve di AstraZeneca e ne ha sospeso la somministrazione agli over 60. Da due settimane, infatti, le vaccinazioni si sono impennate, arrivando a toccare le 72.552 dosi/giorno il 24 aprile scorso. Ma, secondo il Piano nazionale elaborato dal generale Figliuolo, in quel giorno si sarebbero dovute fare “solo” 60.180 iniezioni. Idem il giorno precedente, 70.224 dosi fatte, 51.000 quelle previste. È una buona notizia per i lombardi, meno per il resto del Paese: se infatti si supera il target fissato ogni settimana dal piano nazionale – tarato sulla disponibilità/distribuzione effettiva di dosi a livello nazionale –, ci si ritrova con le scorte esaurite costretti o a fermarsi o a fare pressioni su Roma per averne di più. E avere più vaccini, in questo momento, significa sottrarli a un’altra regione. In ogni caso, il primo problema è la scarsità del magazzino. Come accaduto sabato, quando il dg del Welfare Giovanni Pavesi ha comunicato a tutti i centri vaccinali che da questa settimana AstraZeneca servirà solo per i richiami e che a tutti i 60/79enni saranno iniettati Pfizer e Moderna.

Altra conseguenza è che con l’accelerazione oltre i limiti (entro questa settimana ila Lombardia prevede di toccare quota 100.000 dosi/giorno per poi raggiungere le 140.000) si deve rimodulare il calendario dei richiami, poiché la seconda dose di AstraZeneca va inoculata entro tre mesi, mentre Pfizer e Moderna entro tre settimane. Quindi nelle prossime quattro settimane si dovranno per forza rallentare le prime dosi e fare solo richiami.

Perché il Pirellone, pur sapendo che spingendo sull’acceleratore avrebbe determinato problemi, è andato comunque avanti? Per marketing: fare tante vaccinazioni significa ricostruirsi una credibilità crollata sotto il peso dei fallimenti. Significa anche poter anticipare le date delle prenotazioni per sempre nuovi segmenti vaccinali, senza però aver terminato i precedenti. Oggi in Lombardia si vaccinano i 79/60enni, ma dal 30 aprile si dovrebbero aprire le prenotazioni degli over 50 e da metà giugno quelle degli under 50.

Ma Figliuolo, con la nota del 20 aprile, ha bloccato i vaccini per gli under 60, visti i tanti over 80, 70enni, fragilissimi, invalidi e caregiver ancora in attesa. E la Lombardia non sfugge: a oggi risultano vaccinati 438.806 70enni, sui 1.006.561 totali e 91.949 60enni. Ma al 23 aprile risultavano ancora senza seconda dose 68.274 sanitari e 8.368 ospiti delle Rsa. Non per tutti si corre però: prima degli under 50, secondo il piano nazionale, si devono vaccinare i fragili under 60 con patologie (“la categoria 4” del piano Nazionale), che al momento il calendario lombardo non contempla. Interrogata dal Corriere, Moratti ha risposto: “A oggi non siamo ancora in grado di dire quando potremo partire con i fragili: dipenderà da quando l’Ue ci invierà i vaccini per questa categoria”, assicurando che saranno vaccinati insieme ai 50enni.

Conte e Letta difendono Speranza “Basta fare propaganda sul virus”

L’obiettivo non è uscire dal governo. Ma logorarlo – in particolare il ministro della Salute Roberto Speranza – sperando di ottenere il risultato auspicato. Ovvero: “Entro metà maggio, se i dati lo permetteranno, la riapertura deve essere totale e il coprifuoco va azzerato”, ha detto ieri Matteo Salvini attaccando chi, come il titolare della Sanità, vede “solo rosso”. Il leader della Lega continua a definire il coprifuoco una misura che non ha più senso “scientifico e morale” e raccoglie firme contro la norma del governo di cui il Carroccio fa parte: ieri sera la petizione #nocoprifuoco sul sito della Lega aveva raggiunto le 80 mila sottoscrizioni.

Per questo, e visto che tra oggi e domani in Parlamento la maggioranza rischia di spaccarsi sull’ordine del giorno di Fratelli d’Italia per abolire il coprifuoco e la mozione di sfiducia a Speranza, ieri sono scesi in campo i leader giallorosa per attaccare Salvini e fare quadrato intorno al ministro. Dopo la lite di domenica, il segretario del Pd Enrico Letta ha rincarato la dose: “La campagna di Salvini sul coprifuoco è andata oltre la legittima discussione – ha detto – che fa Salvini con l’ordine del giorno? Quando si sta al governo le parole hanno conseguenze”. A dare manforte a Letta è intervenuto anche Giuseppe Conte con una delle prime polemiche politiche da leader del M5S: “Cosa faranno adesso i ministri leghisti? – scrive su Facebook – Si accoderanno a firmare l’iniziativa propagandistica contro il coprifuoco lanciata ieri dal loro leader di partito, oppure si dissoceranno?”.

Poi Conte ha lanciato un aut aut a Salvini: “Bisogna scegliere da che parte stare – ha concluso l’ex premier – se da quella di chi soffia sul fuoco o da quella di chi si rimbocca le maniche per spegnere l’incendio. È intollerabile fingere di essere all’opposizione per cavalcare il malcontento dei cittadini e al tempo stesso assestarsi comodamente al vertice di ministeri e sedersi tra i banchi della maggioranza per lucrare vantaggi, appuntarsi medaglie e piantare bandierine”. In serata la replica stizzita di Salvini: “Letta e Conte che minacciano e insultano, si fidano degli italiani oppure no?”. Ma sulle riaperture il leader della Lega ha un altro problema interno al centrodestra: Giorgia Meloni. La leader di FdI non poteva lasciare all’alleato la principale battaglia aperturiste. No, ha pensato Meloni: “Opposizione c’est moi”. E così ha disseminato sulla strada del Carroccio due mine pronte ad esplodere a distanza di 24 ore l’una dall’altra: un odg di FdI che sarà votato oggi pomeriggio alla Camera sul decreto Covid che prevede l’abolizione del coprifuoco e domani, al Senato, la mozione di sfiducia contro il tanto odiato ministro della Salute Roberto Speranza. Salvini è combattuto: la Lega è al governo e non può spaccare la maggioranza già sotto stress dopo l’astensione dei ministri leghisti sul decreto riaperture, ma allo stesso tempo votare “no” fornirebbe a Meloni l’assist per denunciare “l’incoerenza” della Lega di governo. E così fino a ieri il leader del Carroccio era pressato tra chi, i salviniani duri e puri, gli chiedeva di “dare un altro colpo” all’esecutivo e chi, i governisti à la Giorgetti, arrivavano a supplicarlo: “Se votiamo con la Meloni ci pieghiamo a lei e dobbiamo uscire dal governo”.

Nel frattempo tra Meloni e i suoi era tutto un agitare i drappi rossi per attirare il toro Salvini: “Vediamo chi sosterrà l’odg contro una misura inutile e liberticida” diceva la leader di FdI. E ancora, il capogruppo Francesco Lollobrigida: “Ho firmato la petizione leghista, loro votino il nostro odg”. Con tutti Salvini predicava calma (“Non cadrò nella loro trappola”) e ha provato a disinnescare l’odg: “Le mozioni lasciano il tempo che trovano, se si apre o se si chiude lo decide il governo”. Insomma, la Lega non voterà insieme a FdI oggi e domani. Ma con ogni probabilità spaccherà lo stesso la maggioranza perché l’ordine che è arrivato a i parlamentari della Lega sull’odg e sulla mozione è di uscire dall’aula. E chi ci sarà dovrà astenersi. A meno di sorprese, niente fiducia a Speranza ché in quel caso “diventerebbe un ministro della Lega”. Ma anche se la possibilità che Salvini lasci il governo con i fondi Ue da spendere e le 500 nomine da fare è improbabile, i leghisti vicini a Giorgetti sono allarmati: “Di questo passo ci faremo male…”.

“Mister 10%” finisce senza un euro

Ieri “mullah” della politica in provincia di Varese e più su ai piani alti della Regione, oggi costretto a vivere con i 500 euro del reddito di cittadinanza, ottenuto poche settimane fa. Quella di Nino Caianiello, napoletano classe ’58, reo confesso e secondo i pm “burattinaio” del nuovo tangentificio Lombardia, protagonista di primo piano dell’inchiesta dell’antimafia milanese “Mensa dei poveri”, è una parabola unica. Lui che più di un errore nella gestione del potere politico lo ha fatto, ora torna, legittimamente, a bussare allo Stato per un aiuto economico. “Ma io – dice al Fatto – oggi vivo grazie al sostegno dei miei familiari e alla mia dignità. Ho fatto richiesta per il reddito di cittadinanza attraverso un patronato di Varese”. Chiamato “mister 10%”, Caianiello avrebbe ideato, secondo la Procura, la cosiddetta “decima”, ovvero le retrocessioni dei nominati in politica o nelle partecipate pubbliche. Ma, spiega, “sempre per la politica, mai per un tornaconto personale”. Di sé, intercettato, diceva: “Se nessuno tradisce abbiamo in mano tutta la provincia (…). Io non mi muovo, io faccio il sole e la terra mi gira attorno”. Nel suo “bar-ufficio” di Gallarate arrivava tutta la politica che conta, da Forza Italia alla Lega. Al telefono, si legge negli atti del processo, spiegava al presidente lombardo Attilio Fontana, neo eletto nel 2018, la necessità di nominare quello o quell’altro politico nella nuova giunta a trazione leghista. Tutto però crolla, quando il 7 maggio 2019 scattano gli arresti. Si scoprirà così, come scrive il giudice, che quello messo in piedi da Caianiello era “un sistema feudale” con “il pagamento della decima in favore del dominus che non ha neppure l’onere di andarla a raccogliere, in quanto i suoi vassalli si premurano di consegnargliela direttamente nel luogo da cui esercita il suo potere direttivo”.

In molti guadagnano, manager e politici. Tanti chiedono consiglio. Tra loro l’ex europarlamentare Lara Comi, imputata per truffa aggravata. Verbali e intercettazioni, addirittura portano in Svizzera, c’è chi a verbale parla di milioni nascosti a Lugano dal “Mullah”. Pista che però non diventerà mai concreta. Caianiello ha rapporti anche con la Lega di Salvini e con importanti professionisti del Carroccio, come l’avvocato Andrea Mascetti (mai indagato), animatore dell’associazione “Terra Insubre”, avamposto leghista a Varese al quale si iscriverà lo stesso Caianiello che, dopo mesi di carcere, nel settembre 2019, decide di collaborare. Dirà: “Vorrei manifestare la mia volontà di (…) una collaborazione perché voglio (…) tagliare i legami con le persone con cui ho condiviso il mio percorso politico”. Oggi, l’uomo in più di FI, vive col reddito di cittadinanza. Particolare che non influenzerà l’iter per concordare con l’accusa il patteggiamento.

Soldi svizzeri di Fontana: Ubs ha tutti i documenti

Dopo la notizia del 31 marzo scorso di una richiesta rogatoriale alle autorità elvetiche e l’accusa per il presidente lombardo Attilio Fontana di autoriciclaggio e false dichiarazioni in voluntary rispetto ai 5 milioni scudati nel 2016 poi reimpiegati in attività finanziarie, l’inchiesta della Procura di Milano sui soldi in Svizzera del governatore prosegue nel massimo riserbo. In queste settimane gli inquirenti si sono dati da fare per cercare prove oggettive a una interlocuzione informale con le autorità elvetiche rispetto alla conservazione dei documenti da parte di Ubs, presso cui la madre di Fontana ha aperto i conti a partire dal 1997. Ora quella informazione, che ipotizzava l’esistenza negli archivi della banca di tutti i documenti anche oltre i dieci anni, viene confermata da un documento interno di Ubs che sembra definitivamente togliere ogni alibi al presidente Fontana. Tanto più che a quasi un mese dalla notizia della rogatoria, ancora il presidente della Regione Lombardia non ha portato alcuna carta in Procura. Solo, attraverso la difesa, si è limitato ad annunciarne la volontà di richiesta a Ubs. Eppure nel comunicato del 31 marzo firmato dal procuratore Francesco Greco si leggeva: “La difesa del Fontana si è oggi dichiarata disponibile a fornire ogni chiarimento sia in sede rogatoriale che, se del caso, mediante produzione documentale ovvero presentazione spontanea dell’assistito”. Di più: con questo documento inedito che il Fatto ha potuto leggere, pare cadere anche l’opposizione di Fontana che ha sempre dichiarato di avere in mano solo i documenti dal 2009 in poi.

Ora a pagina sette del documento intitolato “Data Privacy Note” si legge chiaramente: “Ubs conserva i dati personali per la durata del rapporto o del contratto con Ubs più ulteriori dieci anni, che riflette il periodo di tempo consentito per la presentazione di azioni legali a seguito della cessazione di tale rapporto o contratto”. Meglio ancora: “Un procedimento legale o regolamentare pendente o minacciato può portare a un mantenimento oltre tale periodo”. I documenti quindi esistono. Si tratta solo di poterli leggerli. La Procura punta direttamente al secondo conto, per l’accusa solo apparentemente collegato alla madre di Fontana. Si tratta del conto del 2005 aperto sempre presso la Ubs di Lugano, riferito a una società nelle Bahamas gestito da due trust di Nassau che si sono alternati nel tempo e con trustee una fondazione familiare a Vaduz in Liechtenstein. Ora questo conto, codice finale 102, nel 2005 riceve 3 milioni dal conto 404 aperto sempre presso Ubs nel 1997. Il trasferimento è firmato dalla madre di Fontana, firma che secondo la Procura sarebbe falsa. Dopodiché nel 2016 Fontana stesso scuderà 5 milioni. I pm si accorgono però che il conto 102 si apre con in pancia già 2 milioni di euro. Questi soldi, spiega l’accusa, non possono arrivare dal presunto nero della madre, che nel 2005 è in pensione da sette anni percependo un reddito previdenziale di 20mila euro. Il primo obiettivo dei pm è capire chi ha aperto quel conto e chi ha messo i due milioni. Domande che ora sappiamo potranno avere una facile e rapida risposta, visto che il conto del 2005 è stato chiuso nel 2016 e dunque, seguendo il documento di Ubs, la banca come policy interna manterrà i documenti sino ad almeno il 2026.

Il documento interno a Ubs spiega poi che la banca “è tenuta a registrare le conversazioni telefoniche esterne e interne di tutti i collaboratori” e “memorizza per un periodo di dieci anni tutti i dati relativi alle comunicazioni in entrata e in uscita private e aziendali all’interno di un archivio elettronico separato e adeguatamente protetto”. Un super-caveau con tutti i dati sensibili. Tra questi ci sono “informazioni personali” e soprattutto “informazioni finanziarie, ivi comprese registrazioni di pagamenti e transazioni e informazioni relative alle proprietà del cliente (inclusi immobili), bilanci, passività, tasse, proventi, guadagni e investimenti (compresi gli obiettivi di investimento)”. Esattamente ciò che cerca la Procura. Nella rogatoria si legge infatti: “Con riferimento alle relazioni sopra indicate (i conti del 1997 e del 2005, ndr) si richiede di acquisire la relativa documentazione di apertura, quella inerente ai soggetti delegati a operare, oltre agli estratti conti e ai giustificativi delle movimentazioni”. Insomma, alla luce del documento di Ubs, si attendono a breve svolte importanti nell’inchiesta.

No a prescrizione e Csm: troppo divisivi per Draghi

Convincere Bruxelles che le riforme per rendere efficiente la giustizia in Italia si faranno, pena la perdita dei soldi del Recovery Plan e, contemporaneamente, non dire nulla, ma proprio nulla che inneschi una miccia a combustione rapida che faccia consumare questa maggioranza di governo tenuta su con gli spilli. Ecco spiegato l’intervento del premier Mario Draghi ieri alla Camera incentrato sull’obiettivo di ridurre gli arretrati. Chi non sarebbe d’accordo? Ed ecco spiegato perché nel Pnrr, approvato dal Consiglio dei ministri, i capitoli dettagliati riguardano processo civile, ufficio del processo, digitalizzazione, edilizia giudiziaria e penitenziaria, vale a dire quelli ripresi dal piano dell’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Ma quando si legge di prescrizione – che per ogni maggioranza di governo è come la kryptonite per Superman – o di riforma del Csm, ci sono dichiarazioni di intenti, generiche, alcune scadenze e non molto altro perché centrodestra (con renziani annessi) e centrosinistra della maggioranza sono su fronti opposti. La ministra della Giustizia Marta Cartabia, consapevole che le fratture nella maggioranza, se va avanti così, porteranno alla caduta o alla paralisi, ha tentato un monito: “La giustizia è stata una trincea, ora – ha detto a La Stampa – deve diventare il terreno dove cercare una convergenza per il bene delle future generazioni”.

E ieri, Draghi alla Camera ha provato a rassicurare e ha puntato su quanto nessuno, almeno a parole, metta in discussione che vada fatto, anche se proviene dal progetto del governo Conte. “La riforma della giustizia affronta i nodi strutturali del processo civile e penale. Nonostante i progressi degli ultimi anni, permangono ritardi eccessivi”, ha detto il premier. Che si è soffermato sulla riforma civile, strategica per Bruxelles, per rilanciare gli investimenti stranieri in Italia, non divisiva per la maggioranza: “In media sono necessari oltre 500 giorni per concludere un procedimento civile in primo grado, a fronte dei circa 200 in Germania”. E ricorda punti essenziali già contenuti nella riforma Bonafede: “Il Piano rivede l’organizzazione degli uffici giudiziari e crea l’Ufficio del processo (voluto da Bonafede, ndr), una struttura a supporto del magistrato nella fase ‘conoscitiva’ della causa. Nel campo della giustizia civile si semplifica il rito processuale in primo grado e in appello, e si dà definitivamente attuazione al processo telematico, come richiesto nei mesi scorsi dal Senato”. Ed ecco un altro passaggio per mettere al sicuro i soldi del Recovery: “Il governo intende ridurre l’inaccettabile arretrato presente nelle aule dei tribunali. È uno degli impegni più importanti ed espliciti che abbiamo preso verso l’Ue. L’obiettivo finale che ci proponiamo è ambizioso, ridurre i tempi dei processi del 40% per il settore civile e almeno del 25% per il penale”. Nel Pnrr si parla anche delle oltre 20 mila assunzioni nel settore giustizia, presenti nel piano del governo precedente.

Ma è quando il Pnrr tocca punti come Csm o prescrizione che si capisce quanto traballi la maggioranza. Partiamo dall’accenno alla prescrizione in puro politichese: “Vengono prese in considerazione eventuali iniziative concernenti la prescrizione del reato, inserite in una cornice razionalizzata e resa più efficiente, dove la prescrizione non rappresenti più l’unico rimedio di cui si munisce l’ordinamento nel caso in cui i tempi del processo si protraggano irragionevolmente”. E sulla riforma del Csm: “La Commissione si appresta a individuare un testo base sul quale proseguire l’esame, nell’alternativa tra il disegno di legge governativo e alcune proposte di iniziativa parlamentare” e ipotizza il voto a giugno. Il governo tanto deve barcamenarsi per non far scoppiare la maggioranza, che neanche a proposito dei processi d’appello – i più falcidiati dalla prescrizione, insieme ai procedimenti in udienza preliminare – si fa cenno all’ipotesi di un giudice monocratico anche in secondo grado, come propone la riforma Bonafede. Ma dai punti assenti (o generici) nel Pnrr, su riforma giustizia, non si può dedurre che non ci saranno nella riforma che voterà, se la voterà, il Parlamento. Si ha solo la conferma che la vera battaglia sui temi “caldi” è in Parlamento. A partire dalla commissione Giustizia della Camera dove la settimana scorsa hanno sì tutti votato (a eccezione di Azione) come testo base quello della riforma penale di Bonafede, ma si continua a rinviare i termini per presentare gli emendamenti, cartina tornasole di quanto succederà da qui all’autunno. Il termine ultimo era fissato al 24 aprile, poi a oggi e, infine, ieri è slittato a venerdì, mentre per il Csm la scadenza è il 17 maggio, in attesa della proposta del gruppo istituito al ministero da Cartabia.