Il Recovery dei migliori significa più mercato, semplificazioni, concorrenza, meno controlli

Giusta l’osservazione di Mario Draghi che nel Piano nazionale di ripresa e resilienza occorre metterci “dentro le vite degli italiani”. Ma Draghi è uomo d’onore e sa bene che il Pnrr si farà soprattutto per le garanzie offerte all’Unione europea in termini di maggiore libertà di impresa, possibilità che il mercato entri in settori dei servizi essenziali e qualche colpetto alle leggi anti-corruzione. Sembra quasi di rileggere, sia pure in un contesto tutto mutato, le raccomandazioni che lo stesso Draghi scriveva nella famigerata lettera della Bce all’Italia.

Garanzia Ue. L’importanza della garanzia europea è confermata dalla centralità che nel Piano hanno le “Raccomandazioni specifiche per Paese” elaborate dalla Commissione europea come condizione per l’erogazione dei prestiti. Questo è un punto che si ritrovava anche nel piano del governo Conte – a cui il Pnrr attuale deve rendere omaggio per le misure adottate in materia di tassazione, lavoro, reddito di cittadinanza e, addirittura, per il cashless – ma l’analisi delle poche differenze tra i due piani aiuta a capire il senso di marcia dell’attuale governo.

Quando si parla di due piani che sostanzialmente si assomigliano, ci riferiamo alle quantità allocate, alle missioni, addirittura all’impatto economico. È chiaro che il piano del governo Conte, solamente abbozzato e in attesa delle valutazioni del Parlamento, dei ministeri e delle parti sociali, fosse più scarno e ancora da completare. Le differenze però ci sono e si possono trovare soprattutto nella seconda parte “Riforme e investimenti”, di circa 40 pagine, che costituisce il brano su cui si concentrano gli occhi europei.

Qui Draghi si è dovuto prodigare in rassicurazioni, soprattutto nei tempi di approvazione dei progetti, i più rapidi possibili. Se nel piano Conte si parlava sostanzialmente di due grandi riforme, Pubblica amministrazione e Giustizia, ora ci sono anche le Semplificazioni, con un accenno inquietante alla Corruzione, e la Concorrenza a qualificare il piano Draghi. Nel testo, ovviamente, si trovano una miriade di innovazioni che sono inserite all’interno delle 6 diverse missioni – anche se nell’ultima versione di ieri pomeriggio è saltato il “salario minimo legale” che pure rappresenta una richiesta Ue – ma sono quelle le priorità inscritte in una visione chiaramente spiegata ieri da Draghi: l’obiettivo è contrastare “la debole crescita della produttività e il basso investimento in capitale umano e fisico” per “superare le debolezze strutturali che hanno per lungo tempo rallentato la crescita”. Questo orientamento di stampo neo-neoliberista (si scusi il neologismo) si ritrova nella centralità degli incentivi alle imprese, nell’idea di superare l’impianto “teorico” della scuola italiana, nell’utilizzo di ogni strumento, anche il Servizio civile internazionale, per mandare i giovani a fare stage in azienda.

Le riforme. E lo si capisce leggendo il testo. La riforma della Giustizia serve a snellire i tempi dei processi e su questo rinviamo all’articolo a fianco. La Pubblica amministrazione ha bisogno di ammodernamento ma, soprattutto, come chiaramente scrive il Pnrr di recuperare dieci anni – a opera non solo dell’attuale ministro Renato Brunetta, ma delle politiche europee che lo imponevano – di invecchiamento e impoverimento del personale che oggi dovrebbe subire una cura-choc. E per andare in questa direzione si pensa ad aggirare il concorso pubblico con chiamate dirette per quanto a tempo e in fase emergenziale (ma cosa accadrà dopo?).

Semplificare. Sulle Semplificazioni il Pnrr è molto esplicito. “Gli interventi di semplificazione più urgenti saranno adottati attraverso un decreto legge che sarà approvato dal Consiglio dei ministri entro maggio e convertito in legge entro metà luglio”. La velocità fa già parte del programma. E il programma prevede “semplificazioni in materia di appalti pubblici” con il progetto di allentare le “verifiche antimafia”, semplificare la “Conferenza di Servizi”, limitare “la responsabilità di danno erariale” e altre misure per ridurre al massimo i tempi di aggiudicazione dei contratti. In un Paese come l’Italia è chiara la ratio di tali misure, ma è chiaro anche il rischio della fiducia incondizionata al mercato. In tal senso va la speciale “Via statale” per misurare più rapidamente l’impatto ambientale, così come “vanno semplificate le norme sulle incentivazioni alle imprese localizzate nel Mezzogiorno, attualmente assai minuziose”. Snellire, certo, ma poi chi controlla?

Basta Severino? E poi l’idea di rivedere la legge Anticorruzione del 2012 la c.d. Severino, di cui vanno abrogate o riformate alcune norme, perché troppe leggi “possono favorire la corruzione” invece di ridurla. Il Piano non dice nel dettaglio quali norme, limitandosi a quelle “sui controlli pubblici di attività private” o “le duplicazioni e le interferenze tra le diverse tipologie di ispezioni”.

Più mercato. Infine la Concorrenza, con il rilancio della legge annuale prevista nel 2009. Questa legge è stata applicata solo nel 2017, ministro promotore Carlo Calenda, e si è caratterizzata sia per limitazioni allo strapotere di società tendenzialmente in monopolio – si pensi alle compagnie di assicurazione – sia soprattutto alla facilitazione per l’ingresso di privati nel comparto dei servizi pubblici (poste, trasporti, energia). Pensando, ovviamente, che più privato – i servizi come i trasporti locali –, sia la soluzione al malfunzionamento del pubblico.

E così il Pnrr prevede che “al fine di favorire la rimozione di molte barriere all’entrata dei mercati” bisognerà superare “alcuni ostacoli regolatori al libero svolgimento di attività economiche”. In particolare in materia di “servizi idroelettrici” di “distribuzione del gas” e “vendita di energia elettrica” o di “concessioni autostradali”. In materia di servizi pubblici locali, ancora, occorre “imporre all’amministrazione una motivazione anticipata e rafforzata che dia conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato” e spiegare perché si è scelto l’in-house e l’autoproduzione. È il pubblico che deve dimostrare che ‘pubblico è meglio’, altrimenti si ricorre al privato. La filosofia di questo Piano sembra essere questa.

L’ora X finisce in trattoria: l’aula dell’Ornamento

Parlamento fa rima con Ornamento? Il piano che deve sollevare l’Italia dalla sua malattia, curarla e proiettarla nel nuovo mondo, è giunto nelle mani dei deputati due ore fa, verso le 14 e – facendosi impellente la cena – gli si sta già sfilando. In effetti è un’apparizione. “Tutti insieme contiamo meno di un capo dipartimento del ministero dell’Economia”, dice il deputato Andrea Colletti, già provato dall’esperienza infelice con i 5stelle, dalle cui file è uscito e ora – davanti al mausoleo delle grandi opere che Mario Draghi ha illustrato nella mezz-oretta stabilita – appare in ulteriore ed evidente debito di autostima. In effetti tutto è parso un pochino più floscio perché l’appuntamento con l’ora X della politica italiana, quella col Recovery, è trascorso come un pomeriggio in trattoria. Lui, Super Mario o Super Mago (così Michele Anzaldi di Italia Viva) ha ammonito a non fare gli stupidi, “orgoglio e non stupidità” per la precisione, e i deputati hanno anche un po’ applaudito ma sempre con la mente sui rigatoni all’amatriciana. “Ha visto mai una riunione di redazione con mille giornalisti che parlano, discutono, traccheggiano, propongono, revocano? Che giornale mai uscirebbe la mattina seguente? Una cosa sterminata ma illeggibile. Un guazzabuglio”. I conti, i parametri, i paradigmi, le equazioni, i settori, le missioni. Secondo Emanuele Fiano del Pd, la prova era così complicata da non poter essere alla portata del Parlamento che avrebbe fatto solo caciara. Dunque i partiti, attraverso i propri ministri, hanno fatto conoscere sottovoce i desideri e Draghi li ha accontentati. Ricorda Fabio Mussi, osservatore estraneo al sangue versato durante la crisi di governo, che Renzi “annunciò il movimento di liberazione da Conte perché il Parlamento era stato espropriato del suo ruolo. E ora questa mimica, un siparietto per timbrare d’ufficio un piano concepito in quell’altrove di cui tanto ci si disperò? Bah”.

Bah! Sbadigli, qualche applauso, distanze confermate secondo i protocolli pandemici, e il Recovery plana nell’aula abulica, solennemente indifferente. “Mancano i partiti, questo è il guaio. La rappresentanza politica è in crisi, questo è il guaio. Un sindaco si sveglia e fa ciò che vuole. Un governatore decide per conto suo, e nessuno che si permetta di dirgli: uè, ma che stai combinando? Senza partiti non c’è Parlamento. E infatti si nota”. Guglielmo Epifani si accomiata come quegli ospiti che – seppure invitati – alla festa non trovano posto. L’aula non piroetta, non si divide, non contesta, nemmeno annuisce. “Sul Sud belle parole e poco altro”, dice Stefania Prestigiacomo. “Lo spazio per intervenire c’è. Se esiste la volontà di non accucciarsi, non una ma dieci battaglie si possono ancora fare”, annuncia Stefano Fassina.

Svanita, perché trasferita in altri lidi, la benedetta governance, resta tra le mani di coloro che annunciarono la palingenesi draghiana non il fuoco ma paglia ormai divenuta cenere. “Abbiamo un piano finalmente credibile”, dice Maria Elena Boschi, una di quelle che sei mesi fa ruggì come una leonessa ferita contro l’esproprio ordito dal “governo Casalino” e oggi accompagna con una carezza un Piano che non ha visto e nemmeno letto.

In effetti tira molto di più il coprifuoco e i suoi effetti collaterali: obbedire alla legge delle 22 oppure liberarsi dalla dittatura e fiondarsi a casa solo alle 23? Il tema divide, spacca, appassiona. Molto meglio del futuro digitale, dell’istruzione tecnica massiva, degli asili nido, e dei ponti, dei porti, del nuovo ufficio del processo penale, eccetera.

Per adesso non c’è gara. Resta il coprifuoco nel cuore del Palazzo, e infatti il Parlamento si scorda di Draghi che visto dall’Economist si rivela una “delusion” e invece raccontato in contemporanea dal Financial Times si ritrova un “modello” che mette in riga l’Italia che ama delinquere, ed esce per cena, oggi, 26 aprile, che finalmente si può.

Il “merito” giallorosa e i distinguo della Lega

Un “ottimo Piano” che “conferma, rafforza e completa” quello presentato dal governo Conte a gennaio. È l’ex ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, a dare la linea all’ex maggioranza giallorosa, che vorrebbe diventare la maggioranza Ursula (M5s, Pd e FI), estromettendo la Lega. Il Pnnr di Draghi non solo va bene, ma è in piena continuità con quello del governo precedente, il senso del suo intervento. E dunque, sia Enrico Letta che Peppe Provenzano, rispettivamente segretario e vicesegretario del Pd, scelgono di festeggiare il fatto che nel Pnrr “c’è la nostra battaglia in Europa, molto del nostro lavoro e un pezzo dell’identità del Pd. Inclusione sociale e transizione ecologica e digitale come grande occasione per creare lavoro per giovani, donne e Sud” (sono le parole dell’ex ministro del Mezzogiorno). Nei Cinque Stelle, però, il malumore non passa: le risorse per il Sud sembrano poche, il super bonus è solo un impegno. Tocca a Luigi Di Maio calmare gli animi. Ma è la Lega che manda il messaggio più forte, pur non stressandolo. All’interno del Pnnr “ci sono tutte le nostre priorità, taglio della burocrazia nella pubblica amministrazione e riforma di giustizia e fisco, in primis. Tre tasselli fondamentali per far accelerare la spesa e rilanciare il Paese sul modello Genova”, dicono i due capigruppo, Romeo e Molinari. Come ricordano fonti del Carroccio ora bisogna fare le norme. Le riforme in programma sono divisive di loro. E che poi, il difficile arrivi adesso, con l’attuazione, è consapevolezza che accomuna tutti. Ma con la doppia maggioranza che si va sempre più profilando, la strada è in salita.

Mario Draghi ha trattato più con Ursula von der Leyen che con i partiti. Soprattutto per la parte riforme, raccontano da palazzo Chigi. I suddetti partiti – tramortiti – stamattina presenteranno una risoluzione il più “light” possibile per dire sì alle comunicazioni. D’altra parte, non si vota il Piano (sul quale non ci si è mai espressi), ma solo le parole del premier. Fino a quando durerà questo stato vagamente catatonico della politica? Si vedrà presto, appunto, con le riforme. Non a caso Draghi si è blindato con il meccanismo di governance: prevede “l’attuazione delle riforme, nonché la gestione delle risorse” in capo ai ministeri; le funzioni di “monitoraggio, controllo e contatti con la Commissione europea” affidati al Mef; una cabina di regia “presso la presidenza del Consiglio”. Tradotto: il Mef si preoccuperà di tenere a bada i partiti, Draghi dirà l’ultima parola. Nel tentativo di non lasciare tutto lo spazio a Salvini, ieri Letta e Giuseppe Conte sono usciti coordinati attaccando il leader della Lega. Il tentativo è quello di provocarlo: voterà o no l’ordine del giorno di Fdi sul coprifuoco? Voterà o no la sfiducia a Roberto Speranza? Vorrebbero costringerlo a uscire allo scoperto, possibilmente a uscire del tutto dal governo. Per ora, un desiderio. Enzo Amendola, sottosegretario agli Affari europei, che era nella squadra che negoziò con Conte i fondi del Recovery ha un sorriso che va da un orecchio all’altro: “Con tutti questi soldi che arrivano, non capisco perché non c’è un’aria di festa”. Apparentemente scherza, di fatto fotografa un disagio composito.

Draghi s’appella ai “suoi” partiti: “Accettate il Piano e le riforme”

Mario Draghi inizia a parlare alle 16.20. Tiene la parola per poco meno di un’ora. Del suo discorso di presentazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (191 miliardi, più i 30 del fondo complementare e 26 “extra”, 248 in totale) illustrato ieri alla Camera – che il testo lo vede per la prima volta e lo voterà in bianco – quel che conta davvero sono l’inizio e la fine: il Recovery Plan è tutto quel che l’Italia si è decisa di dare nei prossimi 5-10 anni ed è in questa cornice che si inquadrerà tutta la politica economico-sociale del decennio, le famose “riforme”. A questo concetto Draghi dedica i passaggi, per così dire, più alti e sentiti. In mezzo, c’è spazio per un mero e a tratti algido elenco delle 6 missioni, e relative cifre, in cui si divide il Piano. Il nodo della governance del nuovo piano non viene sciolto. Oggi si replica in Senato.

“Il destino del Paese sta in questa serie di progetti”, esordisce il premier, “la misura di quello che sarà il suo ruolo internazionale, la sua credibilità e reputazione come fondatore dell’Ue”. “Nel realizzarli, ritardi, inefficienze, miopi visioni di parte peseranno direttamente sulle nostre vite. E forse non vi sarà più il tempo per porvi rimedio”. L’ex governatore della Bce cita un celebre discorso di De Gasperi del 1943 (“l’opera di rinnovamento fallirà se in tutte le categorie e i centri non sorgeranno uomini disinteressati pronti a faticare e a sacrificarsi per il bene comunè”), perché spetta “a noi l’onere e l’onore di preparare l’Italia di domani”.

Tanta enfasi e il collegamento metaforico con la Ricostruzione hanno una loro logica, connessa al ruolo che Draghi si sta ritagliando. Come noto, il Pnrr è stato approvato dopo un duro negoziato con Bruxelles sulle “riforme”, la parte rilevante della riscrittura del testo lasciato dal Conte 2. Palazzo Chigi fa filtrare che è stato sbloccato solo dalla garanzia politica del premier, spesa coi vertici della Commissione.

Fisco, Pubblica amministrazione, concorrenza, semplificazione degli appalti, giustizia: le riforme su cui si è battagliato sono tutte previste entro giugno o luglio, prima che parta il semestre bianco che porterà all’elezione a febbraio del nuovo presidente della Repubblica. L’attuale premier resta il candidato più credibile in un Parlamento balcanizzato e la paura che possa avere poco tempo a Palazzo Chigi filtra nella stampa internazionale. Il Financial Times da giorni lo incensa come l’astro nascente della politica europea in grado di “far diventare l’Italia un modello per l’Ue”: “Mentre almeno una delle sue controparti in Germania e Francia cambierà, Draghi dovrebbe rimanere fino alle prossime elezioni politiche nel 2023”, scriveva domenica. Un auspicio più che un fatto.

Non è un caso che il premier proceda a passo di carica e abbia promesso a Bruxelles di presentare i decreti con la riforma della P.A., la deregulation sugli appalti (e i controlli) entro giugno, così come l’alleggerimento della normativa anticorruzione (riducendo controlli e rivedendo la legge Severino del 2012). A luglio arriveranno le partite politicamente più esplosive come la delega fiscale e la legge sulla concorrenza, dove Draghi promette liberalizzazioni nei servizi pubblici, dal digitale all’energia, fino alle concessioni, con una forte apertura al privato. Tutti temi su cui sarà scontro coi partiti. Draghi promette di “mitigare gli effetti negativi”, ma punta a presentarle subito e calca la mano con la sua maggioranza: se dite no, dite no al ruolo dell’Italia in Europa, e pure ai soldi.

“È con la fiducia che questo appello allo spirito repubblicano verrà ascoltato, che presento oggi questo Piano al Parlamento”, conclude il premier: “Ho fiducia negli Italiani, nel mio popolo. Nella nostra capacità di lavorare insieme quando l’emergenza ci chiama alla solidarietà, alla responsabilità (…) Sono certo che l’onestà e il gusto del futuro prevarranno su corruzione, stupidità e interessi costituiti”. Ora ha tre mesi per capire se l’appello alla politica a farsi ingabbiare nel pilota automatico per 5 anni è servito.

Tuttotutto nienteniente

Più passano i giorni, più si conferma che i Governi di Tutti diventano subito Governi di Nessuno. Accadde a Monti, dieci anni dopo accade a Draghi. Presto, consegnato il Recovery e proseguita bene o male (più male che bene) la campagna vaccinale, i partiti che lo sostengono come la corda sostiene l’impiccato gli (e si) domanderanno: e mo’ che ci stiamo a fare? Il vaghissimo programma enunciato in Parlamento a metà febbraio richiede una decina di legislature. Quindi non finiremo neppure questa. Basta leggere la prima intervista concessa, anzi inflitta dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia al povero Massimo Giannini, che non meritava un tale supplizio. Intervista che, intendiamoci, promette benissimo: se la Guardasigilli fa quello che dice, ci sono ottime speranze che non faccia niente, visto che in due pagine e mezza (23 risposte ad altrettante domande) riesce a non dire assolutamente nulla. E un governo con un partito guidato da un pregiudicato (FI), uno da un imputato (Lega) e uno da un indagato (Iv) meno si avvicina alla giustizia e meglio è per tutti.

Eppure di cose da raccontare, volendo, la Guardasigilli ne avrebbe avute: tipo quanti indagati, imputati e condannati ha incontrato nella sua lunga militanza in Comunione e liberazione, da Formigoni in giù. O quante parole (due? tre?) ha cambiato al piano Bonafede per l’utilizzo dei 3 miliardi di Recovery, che il suo predecessore non poté illustrare al Parlamento il 28 gennaio perché Iv, FI, Lega e centrini vari ne avevano preannunciato la bocciatura a prescindere, senza neanche leggerlo o ascoltarlo. E che ora, da lei fotocopiato e firmato con la tecnica del cuculo che nidifica in casa d’altri, è diventato uno splendore da affiggere a edicole unificate. Ma su questi dettagli la Cartabia Copiativa sorvola. In compenso approfitta del 25 Aprile, che non c’entra una mazza, per chiedere a tutti di “superare la tentazione dello scontro continuo”: quello che Giannini chiama “la guerra dei trent’anni”. Cioè il lungo inseguimento fra guardie e ladri che ha prodotto dal 1994 ottanta leggi ad personam per salvare dalla galera centinaia di potenti (soprattutto uno) allergici ai processi. Ora l’attacco sistematico, anzi sistemico degli impuniti ai loro giudici è soavemente descritto da colei che dovrebbe fermarlo come “scontro di idee e sensibilità diverse”, anzi “increspature”. Non è meraviglioso? Adesso però, a mettere d’accordo guardie e ladri, onesti e delinquenti, arriva il “metodo Cartabia”. Funziona così. Quando le chiedi se ha un’idea sulla prescrizione, lei risponde: “Ancora no”. E, se le domandi delle intercettazioni: “Per ora non le dico nulla”. Non è un amore?

“Chi ci governa non capisce che l’arte ripara i viventi”

“Nelle mie coreografie racconto la sofferenza perché il dolore non esclude nessuno, anzi accoglie. E mai come in questo periodo è davvero un’esperienza emotiva comune a tutti”. Dalla sua casa di Parigi, sua città d’elezione da decenni, Carolyn Carlson (classe 1943) è certa ma non rassegnata. Autentico mito della danza, ha ballato con divi quali Nureyev e Béjart; come coreografa è una reale artista del sentire che ha trasformato come nessuno le emozioni umane in movimento, producendo uno strappo generazionale unico: nelle sue premiatissime creazioni (tra cui Signes, Undici onde, The architets, Il cortile) l’uomo si immerge in uno spazio mistico, animato da un respiro cosmico, in cui il corpo è aperto a ogni possibilità. “Sono convinta, però – prosegue Carlson – che anche questa volta, come sempre nella Storia, l’arte sarà in grado di esorcizzare i sentimenti che la pandemia scatena. Come artista, ho il dovere di raccontare anche che la vita è bella, grazie all’amore e alla compassione. Per questo non amo che chi ci governa non parli mai d’arte. Solo di supermercati, soldi, ma mai d’arte”.

Molti lavoratori dello spettacolo protestano per la riapertura dei luoghi di cultura. C’è qualcosa che chi è al potere non comprende?

Non capiscono che le persone hanno smesso di sognare, hanno proprio disimparato la dimensione del sogno, e hanno smarrito l’immaginazione. Questa è la verità. Preservare la loro salute è fondamentale, ma serve anche l’arte. Ci guardi: siamo tanti involucri fragilissimi e vuoti, colmi solo di sofferenza e paura. Chi ci governa non capisce che l’arte non è uno svago da concedere, è un dovere affinché le persone re-imparino a sperare, i suoi valori intangibili curano le ferite e aiutano a trasformare le emozioni. Non dobbiamo solo contare i morti, ma anche riparare i viventi. Senza arte, dunque, non c’è civiltà, e agendo così si sta attuando una svalutazione della vita, ridotta a una non-vita.

Come ha vissuto questo periodo?

In Francia, come ovunque, è stato terribile. In più, con i teatri chiusi, mi manca il palcoscenico: per un artista è frustrante non avere il rapporto con il pubblico. Ma soprattutto, a me come a molti, manca lo spazio. Io sono cresciuta in California, immersa nella libertà e nella natura: da bambina correvo per le foreste e facevo il bagno nell’Oceano Pacifico. Ecco, se c’è un aspetto se vogliamo positivo del confinamento è che si è riscoperta l’importanza dello spazio inteso come connessione con le forze dell’universo: la terra, il cielo, il sole.

Un’idea di spazio che da sempre segna la sua danza.

Per me lo spazio è vivo, non è mai soltanto vuoto. Questo è il mio approccio sin dall’inizio della mia carriera. E mi deriva dagli insegnamenti, negli anni ’60, del mio grande maestro Alwin Nikolais (un vero rivoluzionario): “La danza è una creazione tra il tempo e lo spazio”. Nelle mie coreografie, lo spazio è pieno e pregno, una specie di vertigine pulsante che viene scatenata e creata sul palco e che genera emozioni. Quando un ballerino sul palco crea uno spazio, esso è un territorio di emozioni anche sconvolgenti in cui il pubblico si riconosce. Ricordo ancora quando al Festival di Avignone nel ’72, ero arrivata da poco in Europa, di fronte alla mia coreografia Rituel pour un rêve mort il pubblico fu scioccato. Facevo qualcosa di nuovo. Capii che la direzione era giusta.

Come nasce una sua coreografia?

Parto sempre da un’idea che mi impressiona. Poi ne parlo con i miei danzatori e ci mettiamo a improvvisare. Lavoro molto con l’improvvisazione. Voglio che troviamo quell’idea nel corpo. Studio ogni movimento a partire dalla sua autenticità nel corpo. Nelle mie coreografie, i danzatori non ballano, ma vivono. Tutto deve essere riconducibile al corpo. E il senso di tutto questo si trova nella poesia. Per questo dico sempre che il ballerino deve essere un poeta. La danza è effimera, per questo amo la poesia, da Rilke all’Haiku: non vuole propinarti una storia, ma vive solo in quel momento, fatto di fratture e significati. Si parla spesso di contaminazione tra stili di danza, io preferisco parlare di contaminazione in generale. La mia ricerca è influenzata dalla pittura (ho dedicato spettacoli a Rothko, a Debré), ma anche dal buddismo zen, gli studi di Jung.

Con il pubblico italiano e l’Italia ha un rapporto speciale: nel 2006 ha ricevuto il Leone d’oro.

Molto. La vita del ballerino è una vita vagabonda, ma in Italia mi sento un po’ a casa. Ci ho vissuto due momenti importanti. La direzione della Biennale Danza dal ’99 al 2002, dove ho potuto svolgere un lavoro importante, e ancora prima nel 1980, quando il maestro Italo Gomez mi ha invitato alla Fenice di Venezia per formare un gruppo di ballerini e iniziare una nuova ondata coreutica. Una danza senza limiti che metta in relazione corpo, mente e cuore con la natura e le sue energie vitali; un po’ come quella bambina che ero, che sono ancora, che vuole sempre raggiungere il cielo e scavare nella terra.

Tutte le Superleghe d’Italia: regioni, musei e università

Anche per chi, come me, nulla sa di calcio, la stupefacente meteora della Superlega appare assai interessante. Intanto perché il suo epilogo conferma il cruciale ruolo politico che ancora riveste questo intrattenimento di massa: nella istantaneità con cui capi di governo come Johnson, Macron e Draghi sono intervenuti per bloccare questa ulteriore involuzione del sistema calcio, si legge la preoccupazione, quasi il terrore, delle “democrazie” per un’Europa in cui i cittadini-bambini cessino di essere distratti e appagati dal pallone. Il consenso, la pace sociale, la possibilità che tutto resti com’è (fingendo continuamente di cambiare): tutto il sistema riposa sul fatto che la palla non venga sottratta a un cittadino studiatamente mantenuto in stato di minorità.Ben altre sono le superleghe pronte a partire davvero, nella noncuranza dei più.

Partiamo dalla più somigliante a quella calcistica, una vera goccia d’acqua: l’autonomia differenziata delle regioni italiane. Non per caso nota anche (dal titolo del libro che le ha dedicato l’economista Gianfranco Viesti) come “secessione dei ricchi”, sottotitolo perfetto anche per la Superlega calcistica. L’idea è identica: in un certo sistema (in questo caso l’Italia) i più ricchi (in questo caso Lombardia, Veneto, Emilia Romagna) decidono di giocare da soli, facendosi le loro regole e smettendo di condividere gioco, soldi e benefici con tutti gli altri membri del sistema. Il principio è semplicissimo, nell’eterna banalità del male: l’egoismo che diventa politica, senza mediazioni. Si salva chi può: da solo. C’è da sperare che il “no” che nessuno, nemmeno sui colli più alti, è stato capace finora di dire alla superlega delle Regioni italiane, l’abbia in verità detto la pandemia: che sta dimostrando (a così caro prezzo) il totale fallimento di una sanità divisa per venti regioni.

Ma altrove il modello superlega è già da tempo attivo, senza che nessuno abbia fatto una piega: anzi. Alludo alle istituzioni culturali italiane, le articolazioni del ministero (che ora sciaguratamente si chiama) della Cultura: i musei, i siti monumentali, le biblioteche, gli archivi. Dalla riforma Franceschini (2014) in poi la cultura italiana è stata organizzata in un sistema di serie, come il calcio: i musei sono la serie A, i siti monumentali la B, le biblioteche la C e gli archivi la D. Un sistema in cui, scendendo, si va, come sul Titanic di De Gregori, verso il dolore e lo spavento.

Ma non bastando questo colpo alla solidarietà di quello che la Costituzione chiama il “patrimonio storico e artistico della Nazione” è stata costruita una vera e propria Superlega: quella dei musei autonomi pigliatutto, che sono stati brutalmente asserviti alla politica ma in cambio hanno ottenuto il diritto di non condividere i soldi dei loro biglietti con i fratelli più poveri. Così oggi (o meglio ieri, prima della pandemia) succede che il Colosseo non sappia dove mettere i soldi (e infatti progetta di buttarli via nella dissennata ricostruzione dell’arena: a proposito di intrattenimento circense del popolo), mentre a pochi passi la chiesa di San Giuseppe dei Falegnami vede rovinosamente crollare il tetto (2018) per mancanza di manutenzione ordinaria. La Superlega dei musei è questo: mors tua, vita mea.

È piuttosto stupefacente notare come per il calcio si sia parlato di “immoralità” con toni colmi di indignazione (come se poi Uefa, Fifa etc fossero il regno dell’etica…), mentre per la condanna a morte del patrimonio culturale “minore” del Paese nessuno (o quasi) abbia fiatato. Non è forse abbastanza evidente che è immorale anche inaugurare mostre da milioni di euro mentre nel cratere sismico dell’Italia centrale non ci sono soldi per evitare che piova sugli affreschi delle chiese ancora senza copertura?

Se la Superlega dei musei sembra ormai passata in giudicato, almeno per ora, c’è un altro ambito cruciale della cultura in cui da anni si prova a realizzarne una identica, per ora senza riuscirci: l’università. Il sogno proibito dei liberisti all’amatriciana che popolano i giornali italiani è quello di costruire una Superlega di atenei (del Nord) che abbiano i soldi per fare ricerca (al servizio del mercato), distinta per legge da una pletora di università di serie B che facciano solo didattica, cioè avviamento alle professioni. Un progetto che cementificherebbe la diseguaglianza cognitiva che già attanaglia il Paese, e sterilizzerebbe definitivamente quel poco di pensiero critico che ancora gli atenei riescono a produrre, a dispetto dell’aziendalizzazione imposta dalla Legge Gelmini e da una burocrazia della valutazione che sembra fatta apposta per distruggere la libertà del sapere.

L’ossessione di creare esclusivi (cioè escludenti) club per ricchi è uno dei riflessi condizionati di una società che ha fatto della selezione e del controllo l’unica religione. Nel calcio, questa volta, è stata stroncata sul nascere: ma in tutto il resto come andrà a finire?

Il sangue dei partigiani “eretici” disprezzati dal Pci di Togliatti

La storiografia ufficiale della Resistenza italiana ha ignorato le formazioni partigiane minori, quelle che non aderivano al Comitato di liberazione nazionale: dagli anarchici ai romani del Movimento comunista d’Italia, che pubblicavano il periodico clandestino Bandiera Rossa, e ai piemontesi di Stella rossa, propugnatori di un Partito comunista integrale in contrapposizione classista al Pci di Palmiro Togliatti. Spesso e volentieri, durante i venti mesi di guerra partigiana, il Pci non esitò a sostenere come alcune di quelle formazioni fossero al soldo della Gestapo. Il grido di Spartaco, uno dei fogli clandestini del Pci, il 26 dicembre del 1943 scriveva che Stella rossa “vive all’infuori della grande battaglia contro l’hitlerismo che stanno conducendo i popoli liberi e il nostro popolo che vuole riconquistare la libertà. Gli avventurieri ed i provocatori devono essere isolati ed additati al disprezzo di tutti gli operai”.

Eppure quei gruppi, come i militanti di Bandiera rossa a Roma, erano considerati nemici pericolosi dai nazifascisti. Quanto a Stella rossa, a Torino, poi, “nei primi mesi della lotta di liberazione, furono soprattutto i militanti del gruppo dissidente ad organizzare, anche con coraggiosi colpi di mano ed ‘espropri proletari’, il sostegno concreto ai primi nuclei partigiani in val di Lanzo”. A ricordarlo è Roberto Gremmo, attento indagatore della sinistra radicale nell’Ottocento e nel Novecento, nel suo studio I partigiani di Stella Rossa – Il Partito Comunista Integrale nella Resistenza torinese, pubblicato come fascicolo monografico della rivista Storia ribelle (numero 55).

Il primo numero del giornale Stella rossa uscì a Torino nel novembre del 1943, con articoli in forte “contrasto con la politica unitaria e ‘collaborazionista’ con la Dinastia”, scrive Roberto Gremmo, “e le forze borghesi sostenuta invece dal Partito comunista ufficiale”. Stella rossa, che presto si radicò nel movimento operaio torinese, come asserisce lo storico Giovanni Artero in uno scritto sul comunista Giovanni Boero, critica “il Pci per la collaborazione con il governo Badoglio e l’adesione al Cln”. Ma non mette “in discussione lo stalinismo, a cui si richiama, e contrappone alla teoria della ‘democrazia progressiva’ quella leninista della distruzione del meccanismo statale borghese”. E “definisce fascismo e democrazia forme diverse del dominio del capitale”.

Il suo capo riconosciuto era Temistocle Vaccarella, un commerciante affiliato alla massoneria, che durante l’occupazione delle fabbriche del 1920 aveva fatto parte delle guardie rosse alla Fiat. Venne assassinato a Milano, in circostanze mai chiarite, il 19 giugno del 1944. La sua morte portò la dissoluzione del gruppo di Stella rossa, che sarebbe quindi confluito nel Pci.

Chi ordinò l’assassinio di Vaccarella? Gremmo scrive che per i comunisti di Togliatti e di Pietro Secchia era un uomo “da eliminare a ogni costo”. Il Pci, infatti, temeva che fosse “messa in crisi la propria egemonia politica”, e invece di confrontarsi con Vaccarella e i suoi compagni aveva bollato “sprezzantemente i capi della ‘Stella Rossa’ come agenti oggettivi della Gestapo e traditori, calunniandoli senza alcun ritegno”.

Di accuse “vergognose” e false parlò anche Luigi Cavallo (1920-2006), un altro degli esponenti principali di Stella Rossa. Rievocando le sue attività partigiane, Gremmo contribuisce a fare un po’ di chiarezza almeno sul passato resistenziale di un uomo che, tra gli Anni Cinquanta e Ottanta del Novecento, avrebbe fatto parlare moltissimo (e male) di sé. Il suo nome compare in relazione ad alcuni grandi misteri italiani: dall’attività anticomunista del gruppo di Pace e Libertà, fondato da Cavallo (che però se ne andò quasi subito) aed Edgardo Sogno, fino alle vicende riguardanti il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e le scorrerie finanziarie e mafiose di Michele Sindona. Non è questa la sede per riesumare le gesta vere o presunte di Cavallo, ma va ricordato tuttavia che in un libro famoso, a lui dedicato, venne definito il “Provocatore”. E proprio per queste ragioni, per i tanti misteri della sua vita nel Dopoguerra, anche i trascorsi nella Resistenza, la militanza in Stella rossa, furono fatti passare per sospetti.

Invece Gremmo, carte alla mano, restituisce al Cavallo partigiano ciò che gli spetta, smontando le calunnie contro di lui e Stella Rossa.

Fatah e Hamas. Altro che Israele, i palestinesi si spiano tra loro

Fatah e Hamas si fanno la guerra, ma stavolta invece che mettere mano al kalashnikov hanno messo in azione le tastiere dei computer. Facebook ha disabilitato gli account utilizzati dal Preventive Security Service – l’intelligence interna dell’Autorità Palestinese – usati per spiare giornalisti, attivisti per i diritti umani e oppositori politici in Cisgiordania, Gaza, Siria e, in misura minore in Turchia, Iraq, Libano e Libia. Il gigante dei social media ha anche bloccato operazioni di spionaggio “politicamente motivate” da parte di un gruppo con base a Gaza e affiliato ad Hamas, il partito che governa la Striscia dal 2007. Con le elezioni amministrative palestinesi fissate per il prossimo mese – le prime dopo 16 anni – le due principali componenti della politica palestinese si stanno sfidando senza esclusione di colpi, al punto che quasi certamente anche questa volta il voto verrà posticipato in una data da destinarsi.

Operando dalla Cisgiordania, gli agenti della sicurezza palestinesi hanno utilizzato “malware a bassa sofisticazione mascherato da applicazioni di chat sicure” per infiltrarsi nei dispositivi Android e raccogliere informazioni da essi, inclusi “registri delle chiamate, posizione, contatti e sms”. Il PSS aveva anche creato una falsa App dove i giornalisti erano invitati a presentare articoli relativi ai diritti umani per la pubblicazione. II servizio di intelligence ha poi utilizzato falsi account spacciandosi per giovani donne “sostenitrici di Hamas, Fatah, vari gruppi militari, giornalisti e attivisti” per creare un clima di fiducia con le persone prese di mira e indurle così a installare software dannoso. Operazioni di spionaggio informatico sono state lanciate da Gaza dal gruppo Arid Viper contro altri palestinesi, soprattutto persone associate a gruppi pro-Fatah, organizzazioni governative palestinesi, personale militare e della sicurezza, gruppi di studenti in Cisgiordania. Il gruppo ha utilizzato oltre un centinaio di siti web che ospitavano malware per IOS e Android per rubare le credenziali. Facebook ha rimosso gli account affiliati sia al PSS che a Arid Viper, bloccato i domini associati alla loro attività, ma è inevitabile: presto ne verranno creati altri.

 

Epurati i Caschi Blu del Tigray: E l’Onu fa finta di non sapere

Le Nazioni Unite sono al centro di uno scandalo in Etiopia. Da settimane l’Onu allerta sui massacri nella regione del Tigray, dove l’esercito federale di Addis Abeba e l’esercito eritreo si battono contro il Fronte popolare di liberazione del Tigray (FLPT). Ma, al tempo stesso, l’organizzazione sta assistendo in silenzio all’“epurazione”, all’interno dei suoi stessi contingenti, dei caschi blu etiopi, originari del Tigray, che vengono arrestati dai soldati di Addis Abeba e inviati nel loro paese, dove alcuni di loro sarebbero stati torturati e uccisi. “Tacendo, l’Onu sta violando il suo dovere di promuovere e tutelare i diritti umani”, osserva un dipendente delle Nazioni Unite. Diversi mesi fa, l’Onu ha creato una task force per far fronte a questa situazione, ma è evidente che non sta dando risultati. All’interno dell’organizzazione si avverte un profondo imbarazzo.

Il segretariato generale di New York, di solito reattivo, ha impiegato una settimana a rispondere alle nostre domande. Diversi scambi di mail e diverse riunioni si devono essere tenute in quei giorni per decidere quali elementi rendere pubblici e quali tenere nascosti. Alla fine l’Onu non ha confermato le nostre informazioni, ma non le ha neanche smentite, limitandosi a fornire dettagli noti e ricordando, con le solite formule di rito, i principi generali dell’istituzione. “Il caso del presunto maltrattamento di caschi blu originari del Tigray è grave e preoccupante”, è stato ammesso da un portavoce del dipartimento per le operazioni di pace. Per il resto i fatti sono stati negati o minimizzati. Tutto è iniziato con l’offensiva militare lanciata il 4 novembre 2020 dal governo centrale dell’Etiopia contro le forze del FLPT, che dirige il Tigray. Quasi immediatamente, alcuni caschi blu originari del Tigray sono stati brutalmente allontanati dai contingenti etiopi della UNMIS, la missione di pace delle Nazioni Unite in Sud Sudan, il cui comando militare è assicurato da un etiope e che conta tre battaglioni etiopi, circa 2.000 uomini. La stessa cosa è successa all’interno della UNISFA, la missione Onu per la regione dell’Abyei, rivendicata dal Sudan e dal Sud Sudan, e il cui contingente di caschi blu è costituito esclusivamente da etiopi (4.500 uomini). A fine novembre 2020, la rivista americana Foreign Policy aveva già pubblicato alcuni elementi di un documento riservato delle Nazioni Unite, indicando che quattro ufficiali originari del Tigray della UNMIS erano stati forzati a rientrare in Etiopia. Si precisava che “tutti gli ufficiali e soldati del Tigray” erano sistematicamente fermati e posti in detenzione al loro arrivo a Addis Abeba. Alcuni sarebbero stati vittime di torture e uccisi. “Stiamo verificando i fatti”, aveva detto all’epoca un portavoce delle Nazioni Unite. Oggi, a cinque mesi da quella pubblicazione, la UNMIS declina ogni responsabilità: “Il mandato della UNMIS si limita al Sud Sudan. L’Etiopia è sola responsabile della condotta delle sue truppe”, ci è stato risposto. Nel frattempo, il numero due della UNISFA, il generale Negassi Tikue Lewte, originario del Tigray e sotto contratto con le Nazioni Unite, ha lasciato all’improvviso il suo incarico nel novembre 2020 e non si è più visto. Un ufficiale etiope ha spiegato al segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, che il generale Lewte era partito in vacanza e che aveva deciso di non tornare ad Abyei. Ha poi precisato che per Addis Abeba era un “disertore”.

I responsabili delle Nazioni Unite si sono resi conto che l’Etiopia nascondeva delle informazioni gravi. “Il generale Lewte ha chiesto un permesso nel novembre 2020, che gli è stato accordato. Da allora non si è più presentato al lavoro. Siamo molto preoccupati per la sua sicurezza”, sostiene oggi l’ONU. Il generale è ancora vivo? Altri caschi blu avrebbero subito la stessa sorte negli ultimi mesi. Alcuni sarebbero stati arrestati mentre partecipavano alla missione Onu e trasferiti su aerei delle Nazioni Unite a Juba, la capitale del Sud Sudan, prima di essere imbarcati su aerei etiopi. L’ONU non ha voluto rispondere su questo punto. “Stiamo lavorando attivamente sul caso, ma per motivi di riservatezza e sicurezza non possiamo fornire ulteriori dettagli”, ci hanno risposto dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, che ha sede a Ginevra. Da New York confermano che “tra il 13 e il 22 novembre 2020 quattro caschi blu etiopi sono stati trasferiti in Etiopia senza un’adeguata coordinazione con la UNMIS”. Il 22 febbraio, dei caschi blu del Tigray di un contingente in partenza per Addis Abeba hanno rifiutato di imbarcarsi all’aeroporto di Juba. È scoppiata una violenta rissa. Secondo le nostre informazioni, alcuni caschi blu sono stati obbligati a salire sull’aereo. Altri tredici sono riusciti a restare a Juba. Un quotidiano locale ha pubblicato le loro foto. Alcuni erano feriti. Al giornale hanno spiegato che temevano di essere vittime di persecuzioni in Etiopia e di aver chiesto l’asilo. La UNMIS ha confermato che le autorità del Sud Sudan si sono fatte carico dei tredici soldati, con l’appoggio dell’Alto Commissario per i rifugiati, ma quest’ultimo non ha fornito dettagli. Secondo una fonte informata, l’Etiopia avrebbe poi inviato una lettera ufficiale alla UNMIS, dicendo in sostanza che avrebbe ritrovato quei caschi blu, che li avrebbe rimpatriati e processati e che meritavano la pena di morte. L’ONU non ha né confermato né negato l’esistenza di questa lettera. Dopo questo episodio, un responsabile militare etiope ha accusato i soldati che si erano rifiutati di imbarcarsi di essere dei “traditori sostenuti dall’Alto commissariato per i rifugiati e dai cittadini del Tigray che lavorano alle Nazioni Unite” e di militare per il FLPT. “I caschi blu rimpatriati con la forza sono molti di più di quanto sia stato detto ufficialmente, prima e dopo il 22 febbraio 2021”, sostiene una delle nostre fonti, aggiungendo che due caschi blu del Tigray erano riusciti, la notte prima degli incidenti allo scalo di Juba, a fuggire dal campo dove erano detenuti. E non è tutto. Almeno un civile etiope sotto contratto con la UNMIS è dovuto fuggire dal Sud Sudan. È grazie a lui che si è potuto capire cosa stava succedendo ai caschi blu del Tigray: è stato lui infatti a tradurre dall’amarico dei messaggi che alcuni caschi blu avevano inviato ai civili della missione, con le foto dei colleghi torturati nei campi dell’Onu.

Quest’uomo, minacciato insieme alla sua famiglia dal governo etiope, è ormai costretto a nascondersi. L’ONU non gli ha offerto nessuna protezione, limitandosi a concedergli un congedo a tempo indeterminato. “Quest’uomo rischia di trovarsi in una situazione ancora più complicata se l’Onu dovesse decidere di rompere il suo contratto”, secondo uno dei colleghi. “L’ONU, che dovrebbe essere in prima linea nella difesa dei diritti umani, può continuare a limitarsi a esprimere preoccupazione e, in tutta coscienza, a lavorare con gli etiopi? Non si può fare nient’altro?”, si chiedono alcuni dipendenti dell’organizzazione. All’interno della task force, alcuni membri vorrebbero che l’Onu adottasse una posizione forte, anche se Addis Abeba dovesse ritirarsi dalle operazioni di pace. Altri preferiscono mantenere un basso profilo, dal momento che l’Etiopia fornisce all’Onu caschi blu in grande quantità, anche se altri Stati sono candidati a partecipare alle operazioni di pace, una fonte di reddito interessante per loro. L’alto commissariato per i diritti umani non conferma l’esistenza di conflitti interni: l’Onu e le sue agenzie stanno “lavorando di concerto” su questo fascicolo, viene riferito. Il caso non riguarda solo le Nazioni Unite. Diverse centinaia di caschi blu etiopi originari del Tigray in missione per l’Unione africana in Somalia sono stati trasferiti con la forza nel loro paese alla fine del 2020. Che fine hanno fatto? Il portavoce del presidente della Commissione dell’Unione africana, la cui sede è a Addis Abeba, e che nel novembre 2020 ha licenziato il suo capo della sicurezza, un etiope, su richiesta delle autorità etiopi, non ha risposto alle nostre domande.

(Traduzione di Luana De Micco)