“Incubi campestri: freddo becco, internet lento e niente delivery”
Cara Selvaggia, volevo andare a vivere in campagna. Canticchiavo persino la canzone di Toto Cutugno, tutto allegro, mentre lasciavo il mio appartamento in centro (ma non troppo) a Milano e cominciavo a fare gli scatoloni. Il lockdown dell’anno scorso ha dato il colpo di grazia al mio amore per la vita tra i palazzi: tutto quello che mi dava una ragione di vivere in mezzo alle persone, ai luoghi affollati e alle cose che succedono era svanito. Ho guardato troppi film di zombie per non rimanere impressionato da quello che era diventato improvvisamente un non luogo. Poi, pian piano, ho capito che di tutte le cose che non c’erano più non mi importava granché, e che ciò che più mi mancava erano proprio i weekend nella natura. Le passeggiate nel verde, attraversare l’uscita della tangenziale e andare altrove. Quando abbiamo realizzato, io e la mia compagna, che avremmo lavorato in smart working “fino a data da destinarsi”, allora abbiamo cominciato a cercare un piccolo rustico da cartolina, in Centro Italia. Sul finire dell’estate ci siamo trasferiti.
All’inizio eravamo felici come in uno spot. La casa di pietra, i prati verdi, lavorare dalla veranda in camicia, e calzoncini e infradito. Abbiamo coltivato un piccolo orto di spinaci e lattuga, l’insalata a pranzo era così croccante. Riempivamo la dispensa grazie all’alimentari del paese vicino, e la signora dopo un po’ ha cominciato a salutarci per nome. Guardavamo i telegiornali, i servizi sugli assembramenti e la calca con quella preoccupazione che però non ti riguarda, perché noi stavamo altrove. Abbiamo girato tanto tra i paesini vicini, visitato laghi e vecchi centri medievali, e ogni volta che l’ufficio virtuale chiudeva cominciava una passeggiata, un po’ di lavoro nell’orto o anche solo un bicchiere di vino, guardando il tramonto, ascoltando grilli e cicale. Respiravamo a pieni polmoni e, felici, sentivamo di essere scampati al peggio. Poi è arrivato l’inverno.
In inverno i campi tirano su un sacco di umidità e fa un freddo cane, ma roba che Milano al confronto sembra Miami. L’orto, ovviamente, non è sopravvissuto alle gelate. Fa buio presto, d’inverno: abbiamo capito come anche una squallida insegna lampeggiante dell’Esselunga, o le luci delle auto impilate sulla circonvallazione, possano avvisare che no, non è ancora ora di cena. Abbiamo cominciato a mangiare alle sei e mezza di pomeriggio perché, in fondo, non c’era poi molto da fare. La veranda ha cominciato a essere impraticabile senza cappotto e le vie dei paesini deserte (prima per il buio, poi per le nuove restrizioni). Da noi, nessuno arrivava a consegnare la cena a domicilio, impossibile ordinare una pizza. Abbiamo provato a cucinarla noi e abbiamo visto i draghi per tutta la notte. Internet ha cominciato a risentire della pioggia e delle intemperie e in azienda qualcuno ha cominciato a storcere il naso.
Da lunedì, Milano tornerà ad avere i tavoli all’aperto, i campi da calcetto, gli aperitivi senza scadenza. Qui ricomincerà l’estate ma so già che poi sarà un altro inverno e la mia visione romantica della vita in campagna si è sciolta con l’ultima nevicata. E Toto Cutugno non lo canto più!
Marco
Caro Marco, ho accarezzato la tua stessa scelta per molto tempo, quando Milano era solo l’ombra di se stessa. A quanto pare, ho fatto bene a fermarmi alle carezze.
“Io, un predatore: mi nutro di amori tossici, per il mio ego”
Cara Selvaggia, confesso che seguo con tanto interesse il suo podcast. Ogni puntata è come leggermi dentro, è come prendere consapevolezza. Anche io sono vittima di amori tossici, tanti. Vittima come lo sono, in parte, tutti i carnefici. Sono io quello che manipola, io quello che vampirizza le sue vittime. Non me ne ero mai reso conto, non totalmente almeno, oggi l’ho scoperto e ne ho preso pienamente consapevolezza grazie a lei. E questo è stato un bene. Per me. Per la mia ex moglie. Per mia figlia. E per le eventuali vittime future. Non è facile gestire i rapporti di coppia con una propensione caratteriale come la mia. Anzi credo sia impossibile, per me. È come provare a togliere a un predatore l’istinto predatorio. Come chiedere al leone di inseguire la gazzella, ma solo per gioco. È per questo che oggi non ho più rapporti di coppia con le donne. So di non poter dominare il mio istinto. Di comando. Di dominio. Di cercare di sentirmi unico, insostituibile. Una droga ai loro occhi. Sono cinque anni che ho iniziato a farlo, e da poco ho capito perché è giusto continuare con questa sorta di castità emotiva e sensuale. Io che ho vissuto per quasi quarant’anni solo di storie, passeggere e importanti. Di conquiste, di trofei umani. Dissetandomi delle loro lacrime, cercando la mia potenza nelle loro paure.
Grazie Selvaggia. Le voglio bene.
J.
Caro J., la tua è e una presa di coscienza, anche generosa, di cui ti ringrazio anche a nome di tutte le donne che avrebbero potuto incontrarti. Però ora che da leone quale sei hai imparato ad essere inoffensivo per gli altri, ti consiglio di imparare a renderti inoffensivo anche per te stesso. Rinunciare ad amare è una scelta troppo punitiva. Potrebbe essere un’idea intraprendere un percorso di terapia non dico per imparare a saltare nel cerchio di fuoco e addomesticarti, ma per riuscire almeno a non sbranare il domatore. Provaci.