Manzotin è poesia. Per un pezzo di carne il “Conte Ugolino” recitava canti e terzine

Somigliava a Dante Alighieri, anche per il naso aquilino che lo caratterizzava, ma lo chiamavano Conte Ugolino per via della sua tendenza a nutrirsi di carne, anche se la carne che mangiava non era dei suoi figli, no, lui si abbuffava di Manzotin. Abitava sotto un cavalcavia accanto a Ponte Mazzini, in una casa di cartoni ordinatissima: dormiva su un giaciglio di vecchie coperte, cucinava il suo caffè su un fornelletto in riva al fiume, trascorreva le sue giornate a recitare la Divina Commedia e a guardare il mondo dal basso. Era dignitoso, e anche profumato, sapeva di sapone di marsiglia.

Il Conte Ugolino era il nostro portafortuna, era un barbone-amuleto che ci proteggeva da mali e pericoli. Non voleva denaro, accettava solo doni e generi di conforto, soprattutto carne in scatola, preferibilmente Manzotin. Era la sua etica, la sua morale. Aveva un suo tariffario: per una terzina dantesca che recitava chiedeva una scatola di Manzotin, due terzine due scatole, fino ad arrivare a dieci per un intero canto. Disprezzava gli altri barboni che frequentavano Ponte Mazzini perché, secondo lui, avevano un livello intellettuale infinitamente più basso.

L’unico barbone con cui legava era un certo Giovanni detto il Boccaccio, perché convinto d’essere l’erede naturale del grande scrittore. Camminando sul lungo fiume facevano dotte conversazioni citando i versi danteschi e le novelle del Decamerone. Un giorno trovammo il Conte Ugolino disperato: “Che succede Conte?” – “Quel disgraziato di Boccaccio mi ha fatto fuori tutta la mia scorta di Manzotin, se l’è mangiata!” – “Vabbè, si vede che più che ’l dolor poté ’l digiuno” – “Ma non capite sciocchi che siete, quella era la carne dei miei figli, solo io posso mangiarla!”. Chissà cosa ci mettono nelle scatolette di Manzotin.

 

Il villaggio hitleriano Colonia Dignidad: l’orrore del nazismo (per 40 anni) nel Cile di Pinochet

Colonia Dignitad è stata per quattro decenni del dopoguerra una specie di fattoria del nazismo, un esperimento di laboratorio. Esperimento riuscito: mostra tutti gli ingredienti di un hitlerismo in miniatura ma altrettanto letale; pur nei limiti di un luogo isolato, segregato in un’area sperduta del Cile, noto e ignoto. Ma certamente temuto, tra gli anni della fuga dall’Europa di alcuni criminali di guerra e la fine, in Cile, del regime di Pinochet.

Storia e personaggi della “Colonia Dignidad” sono il materiale con cui cui una intelligente scrittrice cilena, Lola Larra, ha composto il suo libro, Sprinters (Editore Edicola): allo stesso tempo fiction e documento di qualcosa che è realmente accaduto, e non è mai stato davvero investigato.

Le ragioni di attenzione per questo libro sono molte. Una è la modernità e attualità di una vicenda che è spenta e dispersa in Cile da due decenni (memoria, prove, testimoni) senza mai diventare dramma internazionale. L’altra ragione è che (anche se non era l’intenzione dell’autrice) la narrazione ci dice molto sugli ingredienti del nazismo, come una sinistra ricetta di cose spaventose che il mondo ha già vissuto ma (molti, troppi) senza capirne la gravità e il pericolo. Apparentemente la storia è semplice: si tratta di ricostruire vita, opere, delitti e complici una ben funzionante cellula nazista costruita in un Paese che non sa e non vuole sapere. L’autrice coglie certi punti essenziali di ciò che Colonia Dignidad realizza e rappresenta e (che sia o no, un intento del libro) ci guida a cogliere alcuni ingredienti fondamentali di ciò che la storia crede di avere archiviato. Per esempio ci porta a capire che il corpo (il controllo del corpo umano) è ciò che viene fanaticamente cercato dal nazismo, al modo in cui religioni come il cristianesimo cercano l’anima e le religioni orientali si interessano ai sensi.

Ma il corpo, come materiale da costruzione di un regime e di un governo, rivela la necessità di un luogo (un campo) di concentramento da regolare secondo norme inviolabili, in un mondo assoluto ottenuto lungo i due percorsi della persuasione e della sottomissione.

Ma c’è un altro punto essenziale, tipico dei fascismi ma riportato in luce dal tuttora misterioso modo di governare di Donald Trump. È il mentire, per il bene della patria. Cito da Colonia Dignidad: “La bugia è importante per la nostra sicurezza. Non è bugia, è protezione. Non siamo obbligati a dire la verità a una persona che ha cattive intenzioni”.

Ricordate la “ verità alternativa” proposta da Steve Bannon? I fascismi si parlano a distanza e libri come questo ci aiutano a capire.

 

Nella Bce sono ripartite le pressioni dei rigoristi: lo scontro vero sarà dopo l’estate

Sulle 11 domande poste alla presidente della Bce durante la conferenza di giovedì, ben 5 hanno riguardato il programma pandemico PEPP. A margine di un Consiglio che non ha offerto nessun tipo di novità, confermando tassi d’interesse e dimensioni/tempi dei programmi di acquisto, si è cercato di capire quanto sia ferma la volontà nella Banca centrale di procedere speditamente con il PEPP. Le risposte di Christine Lagarde, che a volte è sembrata anche un po’ seccata, hanno confermato che il “significativo aumento” del ritmo di acquisti è pienamente condiviso e funzionale al mantenere favorevoli condizioni di finanziamento all’economia. Ha anche sottolineato come è del tutto prematuro ipotizzare o speculare su una riduzione dal terzo trimestre in poi, come i membri tedesco, olandese e austriaco della Bce hanno affermato nelle scorse settimane.

Questo significativo aumento di acquisti però non è nei numeri né in quelli settimanali né tantomeno in quelli mensili, indicati dalla presidente come il vero riferimento da prendere: fino al dato diffuso il 19 marzo, sono stati acquistati in media alla settimana titoli per circa 13,3 miliardi di euro, 59 miliardi nelle ultime quattro settimane. L’ultimo dato disponibile di aprile ci dice che da allora gli acquisti son passati a 16,4 miliardi di media, 65,6 nelle ultime quattro settimane.

Un aumento, certo, ma ben lontano dal ritmo dei 28 miliardi effettuato nei primi mesi in cui in programma era in funzione e lontano anche dagli almeno 20 miliardi alla settimana che gran parte degli analisti si aspettavano. È probabile che la decisione di procedere ad un ritmo più spedito non sia così pienamente condivisa e che, trascorso il periodo più buio della crisi pandemica, i falchi della Bce abbiano ricominciato a far sentire la propria influente voce. D’altronde, alla fine di marzo 2022, la banca centrale riuscirebbe ad impiegare per intero i 1.850 miliardi annunciati anche se venisse confermato un ritmo moderatamente più alto di quello attuale. Mancano infatti “solo” 874 miliardi da impiegare e con 18,2 miliardi in media alla settimana (per le 48 settimane rimaste) si utilizzerebbero tutti.

Resta però l’incognita di cosa potrà succedere dopo l’estate. Se, come ci si augura, le previsioni venissero confermate, la pandemia fosse ormai sotto controllo e l’economia in ripresa, le pressioni dall’ala rigorista interna alla BCE potrebbero farsi molto insistenti. Ancor più perché l’inflazione attesa per l’eurozona alla fine del 2021, per effetto di fenomeni transitori legati ai bassi livelli raggiunti lo scorso anno, viaggia intorno al 2%, ed in Germania verso il 3%. Si farà così sempre più complicato, politicamente, resistere alle argomentazioni di chi vorrà ridurre il PEPP o terminarlo anticipatamente. Anche per questa ragione sarebbe importante aumentare adesso gli acquisti.

Quello che si spera per il prossimo futuro è che la Bce sappia resistere alle pressioni e continuare a sostenere la riprese mantenendo ancora una politica monetaria accomodante. L’errore del 2011, quello del doppio rialzo dei tassi mentre il mercato interno dei capitali stava collassando, non deve essere ripetuto.

 

Situazione grammatica tra ridicoli asterischi e classici defenestrati

 

BOCCIATI

Servum vocas quemquam tu? “La Howard University ha deciso di chiudere il Dipartimento dei Classici come parte dei suoi sforzi di prioritarizzazione e sta attualmente negoziando con la facoltà e con altre unità del college su come meglio riposizionare e riutilizzare i nostri programmi e il personale. Queste discussioni si sono svolte in un clima cordiale, e la facoltà rimane fiduciosa che il dipartimento possa essere mantenuto intatto a un certo livello, con la sua facoltà e i suoi programmi”. La Howard – l’ateneo in cui si so no laureati la vicepresidente Kamala Harris e la vincitrice del Nobel Toni Morrison – ha così comunicato la decisione di chiudere il dipartimento dedicato ai Classici. Leggiamo sul Corriere che Cornel West, “socialista non-marxista sandersiano e kamikaze dell’antirazzismo ha scritto sul Washington Post un intervento in cui ricorda come i classici siano alla radice della formazione di eroi della lotta per i diritti civili dei neri, “da Frederick Douglass che leggeva di nascosto Cicerone e Omero a Martin Luther King che da ragazzino in seminario si innamorò dei greci e nella sua Lettera dal carcere di Birmingham, testo sacro dell’antirazzismo, cita per tre volte Socrate”. Il discorso di Abramo Lincoln dopo la battaglia di Gettysburg è ispirato a quello di Pericle dopo la guerra del Peloponneso. Come diceva Toni Morrison (se possiamo citarla) questo è “esattamente il momento in cui gli artisti devono mettersi al lavoro. Non c’è tempo per la disperazione, non c’è luogo per l’autocommiserazione, non serve il silenzio, né la paura. Parliamo, scriviamo, creiamo il linguaggio. E’ così che le civiltà guariscono”. Non abolendo Socrate o Seneca (di cui la citazione in incipit). Possibilmente senza “prioritarizzazione”.

La situazione è grammatica. “Sei un giovane artist* o fai parte di un collettivo artistico? Hai tra i 25 e i 35 anni? Sei residente o domiciliat* in Regione Lombardia?”: così recita un bando per giovani artiste e artisti lumbard, in una storia apparsa sul profilo Instagram della Regione. Come è noto l’asterisco serve a usare un linguaggio inclusivo, evitando la desinenza maschile o femminile per rappresentare tutti i generi. Purtroppo “artista” è già inclusivo in sé: è un sostantivo desinenza neutra (come dentista, giornalista, farmacista). E non si abita in Regione Lombardia (a meno che uno non viva nel Palazzo della giunta), si risiede semplicemente in Lombardia.

 

PROMOSSI

Altro che ep! Nei primi tre mesi del 2021, secondo i dati Deloitte per Fimi, il vinile è tornato a superare il cd. In Italia non succedeva dal lontano 1991. Nel primo trimestre dell’anno il vinile è cresciuto del 121% rispetto allo stesso periodo del 2020 generando maggiori ricavi rispetto al cd, che segna invece un calo del 6%. Amarcord da pandemia?

C’era una volta un pezzo di legno. Chi è lo scrittore italiano più tradotto nel mondo? In un bellissimo pezzo di Luigi Mascheroni sul Giornale scopriamo che non è Dante. “Un anno fa Sergio Malavasi, il Richelieu della bibliofilia, libraio antiquario d’eccellenza e motore umano di maremagnum.com (il sito più avanzato dove cercare libri antichi, moderni, fuori catalogo e introvabili), ha provato a risolvere la questione”. Ecco il risultato: primo Pinocchio di Collodi, tradotto in 260 lingue. Segue, con nostra somma gioia, il grande Mondo piccolo di Giovannino Guareschi: il primo romanzo della serie di Don Camillo conta 59 traduzioni. Il nome della rosa di Umberto Eco tocca invece quota 51 versioni.

Splendida Albione. La Superlega dei ricchi è durata come un gatto in tangenziale. Grazie ai tifosi inglesi che hanno ricordato ai padroni del vapore che lo sport, perfino il calcio del terzo millennio, non è solo merce da vendere ma è fatto di persone, sogni e fantasia. Non di soli diritti tv.

 

la Pazza logica leghista: “Crisanti ‘zanzarologo’, e il lockdown è inutile”

 

PROMOSSI

La politica alla macchina della verità. “Capisco che vi dia fastidio e capisco che non riguardi solo l’Italia ma c’è un’ovvietà che va ricordata: la dad, il coprifuoco, le chiusure, non sono obblighi ma decisioni politiche. Per qualcuno necessarie, per altri ineludibili, per altri ancora discutibili. Ma sempre scelte”: l’inconfutabile post con cui Guido Crosetto ha commentato la discussione di questi giorni sulle misure contenute nel nuovo decreto in vigore da oggi, contiene un concetto che dovrebbe ormai essere ovvio da tempo, ma che ovvio ancora non è. Dopo più di un anno dall’inizio di questa faticosissima esperienza collettiva, in molti non si sono ancora rassegnati all’idea che non esiste “Il manuale della gestione sanitaria perfetta”, che il decreto ineccepibile non è contenuto nelle sacre scritture, e che ciascun provvedimento passa sempre da una decisione politica. Che si scelga di rischiare in maniera ragionata, che si scelga di farlo dissennatamente o che si scelga di non rischiare affatto, si tratta comunque di una scelta fatta in base al punto di vista e alla sensibilità del decisore. I comitati tecnici forniscono dati, ipotizzano scenari possibili in base alle misure adottate, ma non decidono nulla (anche in questi giorni il Cts si è smarcato dalla scelta fatta dal governo in merito al coprifuoco). È sempre e solo la politica a scegliere quale strada imboccare: sta a lei valutare se siano più i pro o più i contro a tener chiuso un Paese, o invece a riaprirlo; se salvare subito un’economia al collasso valga bene un maggior numero di morti; se mettere in salvo le categorie fragili sia più urgente di mettere in sicurezza quelle produttive. È proprio in base a queste scelte, anzi, che un politico rivela la sua natura più profonda, come se venisse costretto dagli eventi ad affrontare la macchina della verità. Dopo un anno, fingere di non averlo capito e abbaiare alla scienza è piuttosto ipocrita.

voto 7

 

BOCCIATI

Momento Flaiano. Il momento più alto della settimana è stato toccato nella puntata di “Piazza Pulita” di giovedì, quando Claudio Borghi, deputato leghista noto per le sue uscite estreme che spesso hanno esasperato le posizioni della Lega fino a mettere in imbarazzo lo stesso partito, ha sostanzialmente dato al professor Crisanti, docente di parassitologia molecolare e microbiologo, dello “zanzarologo” inadatto a parlare di epidemie: “Io, come rappresentante dei cittadini, studio. Qui ho sentito numeri allarmistici e verità date per assodate, come il fatto che il lockdown funzioni e salvi vite. Con tutto il rispetto per il professor Crisanti, se io devo prendere una decisione importante, vado a sentire i massimi esperti al mondo di epidemiologia. Crisanti è un esperto di genetica della zanzara, che è una ottima cosa, ma non è un esperto di questi argomenti”. In sintesi Borghi ha sostenuto che il lockdown non serve a nulla e che un’idea così bislacca poteva venire solo a uno che al massimo può consigliarti come applicare l’Autan. Siamo arrivati al momento Flaiano, quello in cui la situazione è ancora grave ma ha smesso di essere seria.

voto 4

 

Superlega, anzi no. Agnelli e quella sporca dozzina di presidenti indebitati fino al collo

Spiace per la buonanima di Robert Aldrich, regista del film cult Quella sporca dozzina (1967), ma da oggi la “sporca dozzina” che conta è un’altra. Dimenticati i volti di Lee Marvin, Charles Bronson, John Cassavetes e Telly Savalas, oggi a tenere banco sono i presidenti dei 12 club della neonata e subito abortita SuperLeague: con un uomo solo al comando, Andrea Agnelli, ideatore e promotore (al pari di Florentino Perez, Real Madrid) del più grottesco pateracchio nella storia dello sport mondiale: una porcata architettata con tradimenti e colpi bassi (a colleghi presidenti e dirigenti amici) che lo hanno costretto a dare l’addio alle cariche di presidente Eca e di membro dell’esecutivo Uefa, in attesa di vedere la fine che lo attende alla Juventus.

L’ha fatta grossa, Agnelli, ora ricercato dead or alive in tutta Europa. Qui da noi i presidenti di A stanno addirittura pensando di fargli causa per la diserzione nella battaglia per i fondi d’investimento da lui portata avanti e poi mandata a picco per meri interessi personali (una clausola gli avrebbe impedito di portare la Juve in SuperLeague).

Domanda: sapete chi sono, veramente, i 12 club radunati da Agnelli (con l’intento di arrivare a 15) per dar vita al nuovo torneo spacciato come la Meraviglia delle Meraviglie? Sono i club più indebitati d’Europa. Che avendo da tempo la corda al collo causa gestioni dissennate si sarebbero divisi 3,5 miliardi (da restituire in 23 anni) prestati dalla banca americana JP Morgan per giocare tra loro e solo tra loro gettando a mare tutti gli altri club e gli altri campionati. Una sporca dozzina di desperados, in ordine di debiti: Chelsea 1.510 milioni, Tottenham 1.280, Barcellona 1.173, Real Madrid 901, Inter 630, M. United 528, A. Madrid 494, Juventus 458, Liverpool 272, M. City 200, Milan 151, Arsenal 125. Sapete a quanto ammonta il totale? A 7 miliardi e 722 milioni. Vi chiederete: sono pazzi? Com’è possibile creare una simile montagna di debiti?

Prendete Billy The Kid, alias Andrea Agnelli. Sapete quanti soldi ha speso la Juve negli ultimi 5 anni per ingrassare i procuratori, a cominciare da Mino Raiola agente di Pogba e De Ligt? 183,5 milioni. Cifre ufficiali, iscritte a bilancio, ed esattamente 51,8 nel 2016-’17 e poi, stagione dopo stagione, 42,3, 24,3, 44,3 e 20,8. Soldi che escono dal circuito e non rientrano più. E sapete, sempre negli ultimi 5 anni, a quanto ammontano le plusvalenze, quasi tutte farlocche (vedi scambio Arthur-Pjanic col Barcellona, un tacchino valutato 72 milioni scambiato con un cappone valutato 62 per originare una plusvalenza di 47 milioni per la Juve e di 49 per il Barça), messe a bilancio da Madama? 553 milioni. Guadagni in gran parte fittizi, non corrispondenti cioè a entrate vere, iniziati coi 139,4 del 2016-’17 e proseguiti con questa cadenza: 92,3, 126,7, 166,9 e per finire, causa mercato ridotto da Covid, 27,8 (sigh).

Agnelli è il presidente che per mantenere un giocatore che viaggia verso i 37 anni, CR7, spende ogni anno 88 milioni: 60 di stipendio lordo e 28 di ammortamento; il presidente che per ingaggiare Rabiot (mica Platini) ha sborsato a sua mamma una commissione di 10,5 milioni. Ecco, noi avremmo dovuto entusiasmarci per gente così: per i più incapaci, viziati, arroganti e inquietanti personaggi del pianeta pallone. SuperLeague? No grazie. Alla prossima. E mi raccomando: non dimenticate di passare alla cassa.

 

Il mistero del luogo di nascita e la lotta di un sindacalista per la trasparenza

Ma provate a mettervi nei panni di questo sindacalista. Che ha una concezione alta e nobile sia del sindacato sia del servizio pubblico. E pensa sia suo preciso dovere tenere il proprio luogo di lavoro al riparo da presenze o influenze mafiose. Egli sa – lo ha letto sui giornali, ha visto che se ne occupano spesso i magistrati – che la ’ndrangheta calabrese ha preso di mira la sanità lombarda e sta anche andando all’assalto delle farmacie. Così ha deciso una cosa: lui che nella sanità ci lavora deve fare la sua parte. Non vuole dire fra cinque anni “ma io come facevo a saperlo?”. E ha scelto di usare gli strumenti pubblicamente disponibili. Ovvero la conoscenza, il monitoraggio degli spostamenti, delle assunzioni e delle promozioni negli uffici nevralgici, gli appalti anche di piccola manutenzione. Sapendo comunque che da sindacalista non ha diritto ad avere le stesse informazioni che ogni giorno vengono passate ai clan. E allora spulcia, come è suo diritto. Anzi, azzardo, come è suo dovere di cittadino attivo. O ci prendiamo in giro quando parliamo di monitoraggio civico?

Il sindacalista, di cui a questo punto avrete capito perché non faccio il nome, ha d’altronde imparato qualcosa. Che l’avanzata della ’ndrangheta ha successo perché nei posti essenziali finiscono misteriosamente persone che provengono dallo stesso paese o dallo stesso gruppo di paesi piuttosto lontani dalla Lombardia. Ci sono inchieste solide, peraltro, alcune concluse con condanne in terzo grado, che toccano o sono addirittura imperniate su direttori sanitari e direttori amministrativi che vengono da quei luoghi. Fondamentali per comandare. Se poi ci aggiungi qualcuno agli appalti o al personale è fatta. Un gruppo di potere si impossessa della struttura sanitaria e poi a volte tutt’intorno succedono cose strane.

Magari latitanti ricoverati sotto falso nome, false perizie mediche, summit nella stanza di un paziente… Domandatevi dunque se al posto del “nostro” non cerchereste di capire da dove arrivano non il singolo medico, ma le accoppiate o le terne di persone che possono decidere la sorte di un ospedale o di una “eccellenza sanitaria”. Davvero vengono tutte da lì? Ma in virtù di quale incredibile “probabilità”? O vuoi vedere che c’è una “strategia”? Ecco, il nostro sindacalista mi dice che con una circolare governativa del 2009 è stato deciso di togliere dai dati pubblici dei dirigenti pubblici il luogo di nascita. E mettere invece le retribuzioni, le assenze e le presenze e le mail di riferimento. Che nessuno mette. Solo il luogo di nascita hanno tolto di corsa. Perché non pertinente. Per rispetto della privacy, dicono. Lo si è deciso forse per tutelare i dirigenti meridionali da qualcuno che urla “il Nord ai settentrionali”? Ma no, quel qualcuno comanda e, tutto sapendo, promuove nei posti di potere proprio i signori che poi finiscono nelle inchieste.

Eccoci al punto, allora: il nostro sindacalista chiede alle autorità nazionali, attraverso Storie italiane, di fare abolire questa sospetta anomalia. Non si può chiedere ai cittadini di collaborare e “segnalare” se si oscurano le prime informazioni di riferimento per qualsiasi funzionario responsabile. “Gli squilibri di potere”, dice, “nascono anche dagli squilibri nell’accesso alle informazioni. Loro hanno orecchie e occhi dappertutto, e a me le leggi tolgono invece le informazioni che dovrei avere”. Appello accorato, dunque: il governo vuole rimediare a questa giuliva stramberia, e magari obbligare a pubblicare retribuzioni e assenze? P.S. A proposito, immaginando i cori vittimisti: se sentiste l’accento del nostro sindacalista vi rendereste conto che viene praticamente proprio da “quei” posti. Per questo ne conosce bene i tipi. Solo che, come la maggior parte dei siciliani, dei calabresi e dei campani, è antimafioso. E non è fesso.

 

Fuga da Milano. “Vivo in campagna, lavoro in smart working e rimpiango il caos urbano”

 

“Incubi campestri: freddo becco, internet lento e niente delivery”

Cara Selvaggia, volevo andare a vivere in campagna. Canticchiavo persino la canzone di Toto Cutugno, tutto allegro, mentre lasciavo il mio appartamento in centro (ma non troppo) a Milano e cominciavo a fare gli scatoloni. Il lockdown dell’anno scorso ha dato il colpo di grazia al mio amore per la vita tra i palazzi: tutto quello che mi dava una ragione di vivere in mezzo alle persone, ai luoghi affollati e alle cose che succedono era svanito. Ho guardato troppi film di zombie per non rimanere impressionato da quello che era diventato improvvisamente un non luogo. Poi, pian piano, ho capito che di tutte le cose che non c’erano più non mi importava granché, e che ciò che più mi mancava erano proprio i weekend nella natura. Le passeggiate nel verde, attraversare l’uscita della tangenziale e andare altrove. Quando abbiamo realizzato, io e la mia compagna, che avremmo lavorato in smart working “fino a data da destinarsi”, allora abbiamo cominciato a cercare un piccolo rustico da cartolina, in Centro Italia. Sul finire dell’estate ci siamo trasferiti.

All’inizio eravamo felici come in uno spot. La casa di pietra, i prati verdi, lavorare dalla veranda in camicia, e calzoncini e infradito. Abbiamo coltivato un piccolo orto di spinaci e lattuga, l’insalata a pranzo era così croccante. Riempivamo la dispensa grazie all’alimentari del paese vicino, e la signora dopo un po’ ha cominciato a salutarci per nome. Guardavamo i telegiornali, i servizi sugli assembramenti e la calca con quella preoccupazione che però non ti riguarda, perché noi stavamo altrove. Abbiamo girato tanto tra i paesini vicini, visitato laghi e vecchi centri medievali, e ogni volta che l’ufficio virtuale chiudeva cominciava una passeggiata, un po’ di lavoro nell’orto o anche solo un bicchiere di vino, guardando il tramonto, ascoltando grilli e cicale. Respiravamo a pieni polmoni e, felici, sentivamo di essere scampati al peggio. Poi è arrivato l’inverno.

In inverno i campi tirano su un sacco di umidità e fa un freddo cane, ma roba che Milano al confronto sembra Miami. L’orto, ovviamente, non è sopravvissuto alle gelate. Fa buio presto, d’inverno: abbiamo capito come anche una squallida insegna lampeggiante dell’Esselunga, o le luci delle auto impilate sulla circonvallazione, possano avvisare che no, non è ancora ora di cena. Abbiamo cominciato a mangiare alle sei e mezza di pomeriggio perché, in fondo, non c’era poi molto da fare. La veranda ha cominciato a essere impraticabile senza cappotto e le vie dei paesini deserte (prima per il buio, poi per le nuove restrizioni). Da noi, nessuno arrivava a consegnare la cena a domicilio, impossibile ordinare una pizza. Abbiamo provato a cucinarla noi e abbiamo visto i draghi per tutta la notte. Internet ha cominciato a risentire della pioggia e delle intemperie e in azienda qualcuno ha cominciato a storcere il naso.

Da lunedì, Milano tornerà ad avere i tavoli all’aperto, i campi da calcetto, gli aperitivi senza scadenza. Qui ricomincerà l’estate ma so già che poi sarà un altro inverno e la mia visione romantica della vita in campagna si è sciolta con l’ultima nevicata. E Toto Cutugno non lo canto più!

Marco

 

Caro Marco, ho accarezzato la tua stessa scelta per molto tempo, quando Milano era solo l’ombra di se stessa. A quanto pare, ho fatto bene a fermarmi alle carezze.

 

“Io, un predatore: mi nutro di amori tossici, per il mio ego”

Cara Selvaggia, confesso che seguo con tanto interesse il suo podcast. Ogni puntata è come leggermi dentro, è come prendere consapevolezza. Anche io sono vittima di amori tossici, tanti. Vittima come lo sono, in parte, tutti i carnefici. Sono io quello che manipola, io quello che vampirizza le sue vittime. Non me ne ero mai reso conto, non totalmente almeno, oggi l’ho scoperto e ne ho preso pienamente consapevolezza grazie a lei. E questo è stato un bene. Per me. Per la mia ex moglie. Per mia figlia. E per le eventuali vittime future. Non è facile gestire i rapporti di coppia con una propensione caratteriale come la mia. Anzi credo sia impossibile, per me. È come provare a togliere a un predatore l’istinto predatorio. Come chiedere al leone di inseguire la gazzella, ma solo per gioco. È per questo che oggi non ho più rapporti di coppia con le donne. So di non poter dominare il mio istinto. Di comando. Di dominio. Di cercare di sentirmi unico, insostituibile. Una droga ai loro occhi. Sono cinque anni che ho iniziato a farlo, e da poco ho capito perché è giusto continuare con questa sorta di castità emotiva e sensuale. Io che ho vissuto per quasi quarant’anni solo di storie, passeggere e importanti. Di conquiste, di trofei umani. Dissetandomi delle loro lacrime, cercando la mia potenza nelle loro paure.

Grazie Selvaggia. Le voglio bene.

J.

 

Caro J., la tua è e una presa di coscienza, anche generosa, di cui ti ringrazio anche a nome di tutte le donne che avrebbero potuto incontrarti. Però ora che da leone quale sei hai imparato ad essere inoffensivo per gli altri, ti consiglio di imparare a renderti inoffensivo anche per te stesso. Rinunciare ad amare è una scelta troppo punitiva. Potrebbe essere un’idea intraprendere un percorso di terapia non dico per imparare a saltare nel cerchio di fuoco e addomesticarti, ma per riuscire almeno a non sbranare il domatore. Provaci.

 

Destra clericale. Il cardinale Ruini adesso diventa misericordioso per assolvere il corrotto Formigoni

La nostra storia repubblicana è piena di politici cattolici corrotti: si pensi al suicidio inglorioso della Democrazia cristiana, che si schiantò sotto il peso delle inchieste giudiziarie di Tangentopoli. Lustri dopo quel tempo, questa odiosa tradizione non si è affatto interrotta. Anzi. Ed epigono arrogante di questa schiera di cristiani devoti più a Mammona che a Dio è certamente Roberto Formigoni, governatore lombardo per vent’anni, dal 1995 al 2013, e condannato per corruzione per il “Sistema” della sanità.

In questi giorni si è fatto un gran parlare di lui. Dapprima il tribunale interno del Senato gli ha restituito il vitalizio, poi è uscita la sua monumentale biografia, oltre cinquecento pagine, raccontata sotto forma di intervista. Già democristiano e fondatore del Movimento Popolare, il braccio politico di Comunione e Liberazione, indi berlusconiano e alfaniano, Formigoni con il ponderoso volume sulla sua vita cerca ovviamente una riabilitazione a imperitura memoria della sua parabola di uomo pubblico. E per rafforzare la sua pretesa d’impunità si avvale di una densa prefazione del cardinale Camillo Ruini, condottiero della Chiesa italiana dal 1991 al 2007 che tanti guasti ha provocato con il suo interventismo politico.

Arrivato a novant’anni, Ruini non ha rinunciato alla lotta partitica e oggi è una piccola bandiera sventolata dai clericali di destra che in nome della dura dottrina osteggiano papa Francesco e la sua misericordia. Ossessionato dall’anticomunismo, l’ex presidente dei vescovi italiani dipinge con tratto enfatico il ciellino Formigoni e giunto alla fine liquida così la condanna per corruzione: “Termino con una brevissima riflessione personale: Roberto Formigoni è stato costretto a una conclusione traumatica e immeritata della sua esperienza politica. È stato un danno non solo per lui ma per quanti condividono con lui una certa visione dell’Italia e del suo futuro”.

Cioè il danno lo hanno fatto i magistrati a Formigoni, non lui ai contribuenti lombardi per “il sistema corrotto e corruttivo della sanità”, per il quale l’ex governatore deve risarcire in solido con altri rei quasi cinquanta milioni di euro. Ma a colpire è la traballante morale ruiniana, tipica dello zelo fariseo di quei clericali convertitisi dall’andreottismo al centrodestra, e che considerano la corruzione in senso assolutorio e machiavellico, ché il fine giustifica sempre i mezzi. L’esatto contrario di quanto per fortuna sostiene papa Bergoglio. Sono tante le sue uscite in questi anni contro i politici corrotti. Per esempio: “La corruzione avvilisce la dignità della persona e frantuma tutti gli ideali buoni e belli. Tutta la società è chiamata a impegnarsi concretamente per contrastare il cancro della corruzione che, con l’illusione di guadagni rapidi e facili, in realtà impoverisce tutti”. Ecco.

C’è poi un’altra invettiva francescana che fa dubitare evangelicamente del cattolico Formigoni: “C’è un fiuto cristiano per andare avanti senza cadere nelle cordate della corruzione”. Delle due l’una: o questo fiuto cristiano, l’ex governatore corrotto, non l’ha mai avuto oppure si è tappato il naso. Con la misericordiosa benevolenza di Ruini.

 

Le politiche “green” costano: occhio a chi far pagare il conto

L’obiettivo della riduzione del riscaldamento globale è importantissimo, ma non è intrinsecamente di sinistra. Lo è migliorare la distribuzione della ricchezza, specie quando le ricchezze maggiori non appaiono meritate. Oppure, usando una definizione dell’economista americano Galbraith, è di sinistra “non pensare, vedendo un povero, che è colpa sua” (che al fondo riguarda sempre la distribuzione della ricchezza). La lotta ai cambiamenti climatici sembra diventata adesso la bandiera universale cui si sono allineati tutti i partiti di sinistra (ma non solo). Suona purtroppo molto più una scelta in mancanza di altre idee, che il frutto di una motivata analisi. Naomi Klein ha scritto che essere ambientalisti oggi è il modo migliore per far crollare il capitalismo. Se però rimandiamo momentaneamente obiettivi rivoluzionari, i dubbi su quanto sia di sinistra mettere l’ambiente al primo posto tra gli obiettivi politici appaiono molto seri.

Il maggior studioso di distribuzione “storica” del reddito, il neomarxista francese Piketty, conferma che la distribuzione più equilibrata dopo la rivoluzione industriale si è avuta nel periodo di massima crescita economica, l’ultimo cinquantennio del secolo scorso. Con il rallentamento della crescita, anche la distribuzione del reddito, almeno all’interno dei paesi industriali, è peggiorata. Ma altri due fenomeni economici sembrano connessi a distribuzioni più equilibrate: la globalizzazione, che ha fatto sì che siano usciti dalla povertà assoluta, con la veloce crescita dei paesi asiatici, alcuni miliardi di persone, nonostante il quasi raddoppio della popolazione mondiale. Oggi i “poveri assoluti” sono circa il 10% dell’umanità, erano il 50%. E il fatto che all’interno dei singoli paesi gli squilibri siano aumentati sembra meno rilevante della povertà assoluta: credo, con il filosofo Rawls, che pesi di più come stanno gli ultimi del fatto che i primi siano più ricchi.

Tra i fenomeni positivi sembra si possa anche annoverare il progresso tecnico molto accelerato che si ebbe all’inizio del secolo scorso, con i consumi di massa di cui il super-reazionario Henry Ford fu il massimo promotore, con la catena di montaggio che ha consentito a moltissimi lavoratori di divenire anche i consumatori principali di quello che producevano. Non era certo così nel secolo precedente. E il progresso tecnico consente anche la mitigazione degli effetti degli eventi estremi legati al clima: tali eventi sono certo aumentati, ma le loro conseguenze, soprattutto in termini di vittime, sono diminuite, e tanto più nei paesi a più alto reddito, dotati di strumenti di allarme ed intervento efficaci e tempestivi.

Guardando ora al futuro emerge un altro dubbio: nessuno studioso serio assume che i cambiamenti climatici arresteranno o invertiranno la crescita economica, ma solo che la rallenteranno. Questo di per sè significa che c’è il serio rischio che politiche ambientali che colpiscano troppo pesantemente i redditi delle generazioni presenti spostino ricchezza in favore di generazioni che saranno più ricche delle attuali, un effetto sostanzialmente regressivo.

In sintesi: se il capitalismo produce di più, lo deve vendere. Certo non tutto quello che produce è utile, e producendo si consumano risorse ambientali. Ma per la “decrescita felice” bisogna davvero fare la rivoluzione, e su questo abbiamo sospeso il giudizio. Insomma, la crescita economica è una condizione importante per la distribuzione, ma anche viceversa: la maggior propensione al consumo delle categorie a più basso reddito genera più crescita (cioè va d’accordo con Keynes, di fatto collocabile all’interno di una sinistra moderata). Ci si potrebbe chiedere: esistono politiche verdi che fanno crescere l’economia e distribuiscono meglio il reddito? A priori no: a parità di utilità di un prodotto, uno “verde”, nella maggior parte dei casi, costa di più, o ci penserebbe il mercato e il problema ambientale sparirebbe spontaneamente. Bisogna intendersi però su cosa significa quel “costa di più”. Se sono costi di lavoro, in un contesto di forte sotto-occupazione non è un problema maggiore in termini distributivi, anzi il contrario. Ma guai a scommettere su questa strategia per il lungo periodo: emergerebbe che conviene tornare a tecniche ad alta intensità di lavoro, un neo-luddismo micidiale per la crescita, di cui si vedono tracce in Italia. In estrema sintesi, occorre evitare luoghi comuni di moda, che appaiono tanto più deleteri quanto più occorre gestire contemporaneamente due problemi epocali, come la distribuzione della ricchezza e l’ambiente, che a priori sembrano molto più densi di conflitti che di aspetti comuni.