La lotta di classe in Italia l’hanno vinta i ricchi (ereditieri)

Una vera e propria inversione delle fortune ha investito l’Italia a partire dalla metà degli Anni 90, un periodo segnato da una generale stagnazione dei redditi e un susseguirsi di due gravi crisi finanziare e recessioni economiche, rafforzate anche da una crisi del debito.

In un nuovo lavoro di ricerca (The concentration of personal wealth in Italy 1995–2016, Acciari, Alvaredo, Morelli), stimiamo che la quota di ricchezza dell’1% degli adulti più ricco del Paese è aumentata dal 16% nel 1995 al 22% nel 2016. Parliamo di circa 500 mila adulti con almeno 1,4 milioni di euro e con ricchezza netta media di circa 4 milioni di euro, per un totale di ricchezza possedute di circa 1.700 miliardi di euro. Le crescenti necessità di finanziamento sollevate dalla crisi pandemica del Covid-19, hanno spinto molti ad avanzare politiche per frenare le crescenti disuguaglianze, incluso la creazione di imposte sulla ricchezza personale. Eppure, nonostante il crescente interesse politico, la conoscenza della distribuzione della ricchezza rimane attualmente limitata. Proprio per fare dei passi avanti in questa direzione, abbiamo fatto leva su una nuova banca dati ancora non utilizzata: i registri dell’imposta di successione in Italia. Facendolo, riusciamo a misurare i patrimoni degli italiani sommando il valore di tutti gli immobili e i terreni in possesso, gli oggetti di valore, il valore delle piccole imprese di famiglia, di tutti i conti di risparmio e di investimento, incluso i fondi di previdenza integrativa e di assicurazione vita. A questo sottraiamo poi tutti i debiti ed i mutui contratti.

I risultati principali ci indicano che l’Italia è uno dei Paesi con il più alto rapporto ricchezza-reddito nel mondo sviluppato. Se il totale del reddito disponibile delle famiglie vale circa 1.150 miliardi nel nostro paese il valore aggregato dei patrimoni delle famiglie vale circa 8.500 miliardi. Stiamo parlando di un rapporto di circa 7 a 1. E questo rapporto è triplicato negli ultimi 40/50 anni. Cresce dunque il peso dei patrimoni privati nell’economia. Con questi dati possiamo anche osservare come si distribuiscono questi patrimoni nella popolazione. Ad esempio, riusciamo ad osservare la quota di ricchezza totale spettante, ad esempio, allo 0,1% più ricco (50.000 individui). Questo gruppo di ricchi fra i ricchi ha visto raddoppiare la sua ricchezza netta media reale (da 7,6 milioni di euro a 15,8 milioni di euro ai prezzi del 2016), facendo raddoppiare la sua quota dal 5,5% al 9,3%. Al contrario, il 50% più povero controllava l’11,7% della ricchezza totale nel 1995 e oggi solo il 3,5%. Questo corrisponde a un calo dell’80% della sua ricchezza netta media (da 27.000 euro a 7.000 euro a prezzi 2016).

In confronto con altri Paesi, il livello di concentrazione della ricchezza osservato in Italia sembra essere in linea con altri grandi stati membri dell’Unione come Francia, Spagna e Germania. Tuttavia, la sua evoluzione temporale è più vicina a quella riscontrata negli Stati Uniti. Per contro, mentre la quota del 40% medio italiano rimane relativamente alta, la quota del 50% inferiore (composta da circa 25 milioni di individui) ha sperimentato il più forte declino dalla metà degli Anni 90 se confrontata con gli altri Paesi.

La disponibilità di ricchezza acquisisce un ruolo sempre più importante per il benessere delle famiglie, fornendo un cuscinetto di risorse per far fronte ad incertezze e colpi improvvisi dovuti, tra gli altri, alla perdita del lavoro, ad una malattia (o ad una pandemia). Una base di ricchezza permette maggiore libertà di scelta e di pianificazione, permette di rischiare di più, di azzardare un’attività imprenditoriale. Ma la ricchezza è anche potere e non solo riduzione di vulnerabilità. Grandi patrimoni sono sinonimo di influenza sul funzionamento dell’economia (attraverso il controllo di attività produttive e risorse ambientali) e sulla società nel suo complesso.

Misurare la distribuzione della ricchezza, tuttavia, rappresenta solo il primo passo. Identificare i canali che ne influenzano l’evoluzione rimane la questione dirimente, con importanti implicazioni per le politiche pubbliche. Sapere che buona parte delle grandi fortune sono frutto di risparmi e di attività imprenditoriali innovative e di successo è chiaramente diverso dal riscontrare un peso rilevante e crescente della ricchezza che proviene da lasciti ereditari o donati (non “accumulati”), che allontanano l’attuale distribuzione di ricchezza da una ragionevole approssimazione di “merito”.

I nostri dati non risolvono questo nodo così complesso e cruciale ma forniscono alcuni indizi di cui tener conto. Ad esempio, emerge chiaramente un ruolo crescente delle eredità e delle donazioni in vita, le quali valgono oggi circa il 15% del reddito nazionale raddoppiando dal 1995. A crescere è anche la concentrazione di queste eredità nelle mani di pochi. Inoltre, mostriamo, da un lato, come una percentuale sempre minore di eredità milionarie è soggetta a tassazione oggi rispetto alla metà degli Anni 90 e, dall’altro lato, come sia sostanzialmente diminuito l’onere fiscale medio sui lasciti milionari, minando la progressività stessa dell’imposta sulle successioni e donazioni. Le eredità generate da lasciti di valore superiore ai 10 milioni di euro versano oggi circa l’1% di questo valore in imposte. Nel 1995, l’aliquota effettiva media era 6 volte superiore.

Questi dati dovrebbero preoccupare perché crescenti livelli di concentrazione della ricchezza possono avere effetti corrosivi sull’uguaglianza delle opportunità e sull’efficienza stessa nel nostro tessuto produttivo, proprio quando questi si cristallizzano nel tempo, in chiave dinastica. Le misure comparative disponibili e confrontabili suggeriscono già oggi che l’Italia sia un paese in cui lo status socio-economico dei figli e delle figlie è altamente dipendente da quello dei genitori, implicando una bassa mobilità tra le generazioni.

Una politica lungimirante potrebbe intervenire nei meccanismi che permettono alle disuguaglianze di risorse economiche oggi di riprodursi indisturbate, trasformandosi in disuguaglianze di opportunità domani.

Il peso di Fink in Italia: 10 miliardi in Borsa da Stellantis a Intesa

Aveva qualcosa vicino all’adorazione, su Repubblica del 16 aprile, la paginata di intervista firmata da Mario Platero a Larry Fink, l’amministratore delegato del gigante statunitense dei fondi comuni BlackRock. D’altronde come si può negare una lenzuolata al capo-azienda di uno dei maggiori azionisti dell’editore? Già, perché mister Fink rappresenta il quinto azionista di Stellantis, il quarto maggior gruppo automobilistico mondiale nato a inizio anno dalla fusione di Fca della famiglia Agnelli, proprietaria di Gedi che stampa Repubblica, e della francese Psa.

Prima della fusione, secondo i dati al 13 novembre dell’anno scorso, la holding Exor possedeva il 28,54% di Fiat Chrysler Automobiles e alle sue spalle c’era proprio BlackRock con una quota del 4,21%. Dal 16 gennaio, quando è divenuta operativa la fusione Fca-Psa, Exor possiede il 14,4% di Stellantis, la famiglia Peugeot il 7,19%, la banca pubblica francese Bpifrance il 6,18% e la cinese Dongfeng Motor il 5,62%. BlackRock è al primo posto tra gli azionisti istituzionali di Stellantis con il 2,52%. Secondo i corsi di chiusura della seduta di venerdì 23 aprile a Wall Street, Stellantis ha un valore di Borsa di 57,3 miliardi di dollari pari a 47,6 miliardi di euro. Ai prezzi del New York Stock Exchange, la quota di BlackRock in Stellantis vale 1,2 miliardi di euro. Una bella somma che però rappresenta meno di un ottavo dei 10 miliardi che i fondi a stelle e strisce hanno investito sulle società quotate a Milano. Dalle banche alla moda, dall’industria all’energia, dalle telecomunicazioni alla finanza, da anni BlackRock si muove da protagonista a Piazza Affari, facendo e disfacendo pacchetti azionari a seconda della convenienza e delle opportunità.

Una traccia delle scorribande del mega-gestore americano in Italia emerge dai dati Consob sulle partecipazioni rilevanti, quelle che superano la soglia prestabilita del 3% nell’azionariato delle società quotate. Secondo le ultime informazioni, aggiornate al 18 aprile, la casa di investimento Usa possedeva indirettamente attraverso i suoi fondi il 5% dell’Enel, salendo al terzo posto tra gli azionisti dopo il ministero dell’Economia (23,59%) e i concorrenti di Capital Group (5,03%). Agli ultimi valori di Borsa, la quota di BlackRock nel gigante elettrico nazionale vale 4,4 miliardi sugli 88 di capitalizzazione complessiva. Alla stessa data, BlackRock controllava poi anche il 5,005% di Intesa Sanpaolo, secondo grande azionista dietro Compagnia di San Paolo (9,888%) davanti alla Fondazione Cariplo (4,68%). Una quota del valore di 2,16 miliardi. C’è poi la partecipazione in Finecobank, della quale BlackRock è di gran lunga il primo azionista: nell’ex banca online del gruppo UniCredit la casa d’investimento Usa detiene una partecipazione del 9,201% davanti ai concorrenti di Capital Group (5,05%) e di Fidelity (3,377%). Agli ultimi corsi di Piazza Affari, vale oltre 777 milioni. Sul fronte della manifattura BlackRock è presente in Prysmian, l’ultima incarnazione dell’ex Pirelli Cavi e Sistemi, di cui controlla il 5,012% davanti a T. Rowe Price Associates (3,066%), per un controvalore di 359 milioni sui 7,16 miliardi di capitalizzazione. Non manca la moda: in Moncler la casa di investimento Usa è terzo azionista con il 5,168%, per un valore di 753 milioni, dietro al presidente e amministratore delegato Remo Ruffini (19,341%) e a Morgan Stanley (7,987%) e davanti a Capital Group (5,054%).

Ma BlackRock sa come entrare e uscire dalle società quotate a Piazza Affari. A fine 2019 deteneva il 5,084% di UniCredit, per un controvalore dell’epoca pari a 1,48 miliardi, il 5,63% di Azimut, società di risparmio gestito, per 172 milioni. A fine 2018 possedeva il 5,006% di Rai Way, per circa 60 milioni. Al 30 giugno di quell’anno deteneva anche il 5,121% di Atlantia, la holding di controllo di Autostrade, per 1,04 miliardi, ma ne è uscita dopo il crollo del ponte Morandi di Genova del 14 agosto 2018. A fine 2017 possedeva quote rilevanti in Ei Towers (9,959%, 140 milioni) e in Snam (4,999%, oltre 690 milioni). A fine 2015 era presente in forze nell’azionariato di Banco Popolare (5,374%) e in Ubi (5,055%).

Briciole, rispetto a 9mila miliardi di dollari in gestione a BlackRock, ma somme comunque importanti per una piazza finanziaria ormai marginale come quella italiana.

La finanza verde non è verde: l’ambientalismo di BlackRock

Dopo aver visto le grandi compagnia della logistica navale, che inquinano ogni ora come parecchi milioni di automobili, sponsorizzare un panel Onu sul climate change è difficile stupirsi di qualcosa. Eppure scoprire che gli squali hanno una coscienza sociale ed ecologica è stato abbastanza sorprendente: è successo quando ci è stato spiegato su Repubblica che il boss di BlackRock Larry Fink nella sua annuale lettera ai capi delle grandi società “stabilisce criteri di investimento, indica obiettivi di performance ambientale e di scelte a favore di tutti gli stakeholder (lavoratori, impiegati, clienti, società civile) e non solo degli shareholder (azionisti). L’obiettivo è emissioni zero entro il 2050”.

All’inizio del 2020 il fondo d’investimento Usa – il più grande al mondo, ha appena superato i 9.000 miliardi di dollari di capitali gestiti – aveva infatti annunciato la sua svolta green: BlackRock, si disse, pretenderà dalle aziende attenzione alla sostenibilità ambientale e aumenterà i suoi investimenti “verdi”. Posizione che forse ha aiutato la già potentissima società americana nell’assegnazione da parte della Commissione europea del compito di vigilare sull’integrazione tra sostenibilità ambientale e strategie del sistema bancario (di cui, peraltro, è azionista): BlackRock, insomma, in Europa è l’arbitro della finanza verde, incarico per il quale percepirà 280mila euro, più o meno le spese dei suoi incaricati in viaggi e ristoranti. L’Ombudsman europeo, una sorta di difensore dei diritti dei cittadini, si chiama Emily O’Reilly e non ha gradito: “La Commissione avrebbe dovuto essere più rigorosa verificando che la società non fosse soggetta a conflitto di interesse”, cosa assai probabile “poiché ha un interesse finanziario nel settore”; senza contare che “il prezzo basso potrebbe essere percepito come parte di una strategia per avere informazioni e influenzare l’ambiente normativo nel settore” (questo vale anche per quelli che McKinsey & C. lavorano al Pnrr per beneficienza).

Conviene a questo punto chiedersi, ma BlackRock è davvero diventato un fondo green? Dopo un anno forse la parola più adatta è greenwashing: finora il verde è solo una patina pubblicitaria sopra il solito tran tran. Lo testimonia, tra gli altri, un report dell’associazione Reclaim Finance sugli investimenti del fondo Usa a fine ottobre 2020: “Nonostante la promessa di BlackRock di dismettere gli investimenti nel carbone termico (il combustibile più inquinante, ndr), almeno 85 miliardi di dollari sono ancora investiti nelle compagnie del carbone” come il colosso mondiale Glencore o la tedesca Rwe, mentre quelli in compagnie “con piani di espansione (nuove centrali, ndr) come Sumitomo o Kepco ammontano a oltre 24 miliardi”.

Com’è possibile? Semplice: la green policy di BlackRock esclude solo aziende che abbiano più del 25% dei loro ricavi dal carbone, ma la diversificazione è la regola nel settore energetico. Risultato: restano fuori solo aziende che valgono appena il 13% del mercato globale. Questo a non dire che le nuove regole ambientali finora sono state applicate solo alla gestione attiva del portafoglio, cioè solo a un terzo dei fondi gestiti da BlackRock: il resto mancia. E questo è più o meno tutto, nel senso che – scrive Reclaim Finance – “BlackRock non ha una politica globale di esclusione per altri combustibili fossili e materie prime dannose per il clima, in particolare sabbie bituminose, shale oil e gas, trivellazioni nell’Artico e il petrolio dell’Amazzonia”. Non bastasse: nel 2020 il fondo Usa ha votato nelle assemblee delle più grandi aziende di cui è azionista (le S&P500) 33 volte contro e solo 3 a favore di azioni contro il cambiamento climatico: s’è schierato, per dire, contro gli azionisti di Duke Energy che chiedevano all’azienda di smetterla di fare lobbying per negare l’emergenza climatica.

A compensare questo andazzo, o comunque a vendersi come paladini della lotta all’inquinamento, non basta l’attenzione a creare nuove opzioni di investimento “sostenibili” per i propri clienti (che sono comunque un miglioramento rispetto al passato). Quanto alla loro posizione in Europa, dove sono sia arbitro della finanza sostenibile che giocatore, il report segnala che BlackRock nel 2020 è stata responsabile dell’afflusso del 50% degli Etf nel mercato: gli Etf sono i “diritti a inquinare” che le società comprano per compensare il loro eccesso di emissioni, un mercato che funziona a livello finanziario, assai meno a quello ambientale.

Il Fondo d’investimento verde è un equivoco, il cui centro non sono l’ipocrisia di BlackRock o le sue legittime scelte d’investimento, quanto l’idea un po’ naif che un diverso modello di sviluppo possa nascere da chi quel modello ha contribuito a definire, peraltro guadagnandoci miliardi.

BlackRock, d’altra parte, ha un portafogli così gonfio da poter essere sia il sistema che l’anti-sistema: è azionista tanto di Pfizer che di Astrazeneca, di Google e di Facebook (e se è per questo di tutti gli altri OTT), di banche un po’ dovunque e ora ha persino piazzato tre suoi manager ai vertici dell’amministrazione Biden, cioè del governo il cui solo esercito – secondo la rivista Transaction della britannica Royal Geographical Society – tra 2001 e 2017 ha inquinato quanto 140 Paesi, essendo il singolo maggior consumatore di idrocarburi al mondo. Ora la sostenibilità arriverà al Pentagono?

La sai l’ultima?

 

Wyoming Inseguito da un orso mentre fa jogging, lo convince: “Non sono il tuo cibo”

Good morning Wyoming. In una strada del parco nazionale Grand Teton un ragazzo che faceva jogging è stato seguito da un grosso orso bruno. Il plantigrado ha manifestato un limpido interesse per il giovane umano, forse pregustando una colazione ad alto contenuto proteico. Evan Mattews – questo il nome del runner – non ha perso la calma, si è allontanato a passi brevi senza mai dargli le spalle, ha ripreso il lento inseguimento con il suo cellulare e nel frattempo si è prodotto nello sforzo di convincere l’orso a non mangiarlo. “Fermo lì, non ti avvicinare, bravo orsetto! – si sente nel video pubblicato dal Guardian – Lo so che hai fame, ma non sono il tuo cibo”. Dopo una lunga trattativa e una passeggiata di mezzo miglio, la bestia si è effettivamente convinta a rinunciare all’aggressione e si è allontanata nel bosco, Mattews ha potuto raggiungere la sua auto e raccontare al resto del mondo di quel giorno che ha convinto un orso a non farlo a pezzi.

 

Salerno 85enne fermato due volte in poche ore insieme a due prostitute: “È tutta colpa del vaccino anti Covid”

Non tutte le reazioni avverse vengono per nuocere. Un arzillo 85enne della Costiera Sorrentina è stato fermato e multato per ben due volte nel giro di un paio d’ore dai vigili urbani di Eboli (Salerno), perché trovato in un camper in compagnia di due prostitute. Il signore ha spiegato agli agenti di essere stato colto da improvvisa satiriasi dopo l’assunzione del vaccino anti-Covid. Non sappiamo se AstraZeneca, Pfizer o Moderna – speriamo che Ema e Aifa non si allertino – ma l’anziano play boy ha giustificato il suo stato di bisogno indifferibile dando la colpa alla fialetta che gli era stata inoculata poco prima. La polizia l’ha beccato la prima volta verso le dieci di mattina in un camper parcheggiato sul litorale, in un’area famosa per l’adescamento delle prostitute. La seconda volta – gli agenti erano increduli – nello stesso camper, a mezzogiorno, vicino al ponte del Sele. La mattinata di passione gli è costata un migliaio d’euro, escluse le parcelle delle signorine: “Soldi ben spesi”, ha detto.

 

Garda Un ricco genio si scorda il freno a mano e lascia affondare la sua Ferrari da 330mila euro nel lago

Si dice che i soldi non comprino la felicità: è certamente difficile goderseli quando si è imbecilli. Un lord del bresciano ha fatto finire la sua Ferrari da 300mila euro nel lago di Garda. L’aveva parcheggiata su uno scivolo di cemento proprio sulla riva, dimenticandosi di mettere il freno a mano e lasciando il mezzo in folle. L’auto, lenta e ineluttabile, si è inabissata nelle acque. “È bastata una svista – scrive newsauto.it – per non far rendere conto al proprietario, un uomo di mezz’età, che la sua Ferrari 812 GTS da 336.000 euro stava per farsi un bel tuffo in acqua. L’incidente è avvenuto sulla spiaggia di Brema a Sirmione (Brescia) davanti allo scivolo delle barche. Molto probabilmente il conducente aveva sostato l’auto in folle senza considerare della pendenza della strada che sfociava sul lago di Garda, punto in cui la superar si è immersa quasi completamente. Il mezzo è stato tirato fuori da un carroattrezzi ed il proprietario è stato soccorso dalla Polizia Locale”.

 

Baltimora Una donna si vaccina con l’abito da sposa che non ha potuto indossare per colpa della pandemia

Favola agrodolce da Covid sul Washington Post: la 39enne Sarah Studley di Baltimora si è andata a vaccinare in abito da sposa. Un bel vestito bianco di raso, lungo ed elegante: Sarah l’aveva comprato per il suo matrimonio, cancellato per colpa della pandemia. La cerimonia era stata fissata per novembre 2020: doveva essere una festa in grande stile, con oltre 100 invitati, a San Diego, la città dove vive il nonno 94enne del suo compagno. Non se n’è fatto nulla, per ovvi motivi, ma la coppia ha deciso di sposarsi comunque con rito civile e ha festeggiato con una cena insieme ai familiari più stretti. Il vestito di Sarah era rimasto nel cassetto: quale occasione migliore, per sfoggiarlo, dell’auspicato ritorno alla normalità? Così si è presentata all’M&T Stadium di Baltimora, trasformato in hub vaccinale, con il suo vestito bianco e il velo a pois: “Non ho potuto farlo l’anno scorso, voglio prendermi questo momento per festeggiare me stessa”.

 

Lavori meravigliosi Il bando del ministero dei Trasporti: “Il Trentino assume 12 marinai entro l’undici maggio”

Il Trentino assume marinai. Ripetiamo: il Trentino assume marinai. È stato pubblicato un bando di concorso esterno per 12 posti di “marinaio” (c’è scritto proprio così) che scade l’11 maggio 2021. Il soggetto alla ricerca di queste figure professionali è l’ente Gestione Navigazione Laghi del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. I famosi marinai del Trentino: la Regione con le montagne più belle d’Italia. Si candidano a essere i nuovi forestali: una figura mitologica della pubblica amministrazione. Al di là delle ironie, la notizia è spiegata dal sito Today.it: “Bisogna ricordare che il Trentino comprende all’interno del proprio territorio provinciale la riva settentrionale del lago più grande d’Italia: il Garda. Un lago solcato quotidianamente non solo da barche a vela, surf e motoscafi, ma anche dalle imbarcazioni del servizio stabile di navigazione che collega i porti lacustri sulle sponde del Trentino, del Veneto e della Lombardia”. Il ministero dei Trasporti gestisce una flotta di quasi 100 navi tra i laghi Maggiore, Garda e di Como.

 

Toronto Fondamentali scoperte scientifiche: chi spolvera, cucina, fa giardinaggio e riordina casa è più intelligente

Straordinaria notizia dalle colonne del Messaggero: chi ramazza casa è più intelligente. Lo studio destinato a ribaltare le regole del senso comune è frutto del lavoro degli scienziati scienziati del Rotman Research Institute del Baycrest Centre, a Toronto. “Spolverare, riordinare, pulire, ma anche cucinare, fare la spesa o giardinaggio, insomma dedicarsi ai lavori domestici, fa bene alla mente, amplia le capacità cognitive e aiuta perfino a prevenire patologie come la demenza senile”, scrive il Messaggero. Come spiega uno dei ricercatori, “gli scienziati sanno già che l’esercizio fisico ha un impatto positivo sul cervello, ma il nostro studio è il primo a dimostrare che lo stesso può essere vero per le faccende domestiche”. Lo studio è stato condotto su 66 individui sani, tra i 65 e gli 85 anni: gli anziani che dedicavano più tempo agli impegni casalinghi – pulizie, spazzare, cucinare e fare giardinaggio – sono risultati quelli con un volume cerebrale maggiore.

 

Bari Ladro ricercato chiama e irride la polizia: “Non mi costituirò mai”. Ma viene arrestato grazie alla telefonata

Un ladro situazionista a Monopoli, in provincia di Bari. “Era ricercato – scrive Bari Today – perché destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, in quanto ritenuto responsabile di un furto in appartamento avvenuto a febbraio 2019. L’uomo, un 53enne barese con precedenti, si era reso irreperibile presso la propria abitazione, e aveva anche contattato telefonicamente il commissariato, riferendo che non si sarebbe mai costituito. Proprio quella telefonata, però, ha consentito ai poliziotti di mettersi sulle tracce dell’uomo e di arrestarlo”. Insomma, ha chiamato la polizia per irriderla: gnegnegne, non mi prenderete mai. Ed è stato catturato per colpa di questo sublime atto di imbecillità e alterigia. “Sono state quindi elevate le sanzioni per il mancato rispetto delle norme anticontagio, relative al divieto di spostamento, e notificato il provvedimento del divieto di ritorno presso il Comune di Monopoli per tre anni, emesso dal Questore di Bari. L’uomo è ora in carcere”.

“Andrea non si muove da lì, ma la figuraccia è stata planetaria”

Non cucina, non stira, non lava.

Nossignore.

Juventina affluente ma attualmente a lutto.

La figura è stata purtroppo planetaria.

Enormemente contigua alla famiglia Agnelli.

Chi mi odiava o soltanto antipatizzava mi chiamava “la signora degli Agnelli”, per segnalare la mia eccessiva familiarità e adombrare, come si usa, il favore immeritato. Le malelingue non hanno età, hanno invece tempo libero e svolgono ottimamente il loro compito. Le posso dire? Me ne sono sempre infischiata!

Ora di Evelina Christillin si parla come della futura presidente della Juventus.

Assolutamente infondata la notizia e già plurismentita. Nessuno mi ha chiamata e se vuole la mia opinione penso che Andrea Agnelli continuerà nel ruolo.

Bah, tutto potrebbe cambiare.

Con la Juve è un amore infinito, inesauribile, totale. Ed è già un orgoglio il solo fatto di poter essere annoverata tra le possibilità. Non ha fondamento l’ipotesi ma fa immenso piacere per la stima che immagino la sostiene.

Anche dopo questa figura planetaria resta orgogliosa, sfacciatamente fan bianconera?

Anche ora.

Invece la moltitudine dei tifosi è senza guida e la fede vacilla. Il presidente della Lega Paolo Dal Pino non riesce nemmeno più a pronunciare il nome, figurarsi a fare il tifo a cui era abituato.

Beh, conta anche il fatto di essere stato sfiduciato, tra gli altri, dal presidente della Juve. Ma è un caro amico, e bravissimo. Vedrà che resisterà. La ruota gira, lo ricordi.

Dica una parola compassionevole al popolo bianconero addolorato e sfibrato.

Dobbiamo avere una visione diacronica del fenomeno Juve. Resistere alle pulsioni del presente, alla figuraccia patita, all’impellenza di un giudizio e confortarci con la storia più che centenaria di questa grande squadra. È sempre stata in mano a una sola famiglia mentre le altre compagini sono barattoli che viaggiano tra gli Emirati, la Cina e fondi americani. La nostra è una storia vittoriosa, ineguagliata.

Christillin, lei parla già da presidente.

Ma che dice?

È membro della società affluente e decidente. E dunque le piacerà sicuramente Draghi.

Ha una reputazione internazionale invidiabile, una rete di relazioni unica.

Non avevo dubbi.

Ma anche Conte mi pare una persona ben assestata, con una presenza di tutto rilievo.

Non avevo dubbi.

Rispetto al naif leghista è lord Brummel.

Lei è commendatore della Repubblica.

E Stella d’oro.

Anche Grand’Ufficiale.

Anche Collare d’oro.

Nel cda della banca Carige?

Non più.

Dunque: teatro Regio.

No.

Anche Presidente della fondazione del Museo Egizio.

Quello sì. Ed è un impegno che mi dà tante soddisfazioni. A maggio Einaudi pubblica un mio libro sulla necessità della memoria per guardare al futuro.

Ora in Credit Agricole.

Membro del cda e presidente del comitato remunerazioni.

Dimentica qualcosa?

Milan&Partners. Si occupa dell’immagine di Milano nel mondo. Designata da Beppe Sala, il sindaco.

E poi l’Uefa.

Un vero orgoglio.

Ma questo presidente Ceferin sembra un buttafuori.

Non commento il suo giudizio e non parlo della politica dell’Uefa.

Ha modi gangsteristici.

Non commento. So che è un abile e competente presidente.

Comunque se non era per gli inglesi voi dell’Uefa eravate fritti.

Questo è abbastanza vero.

Gli italiani tutti accucciati.

Alcuni aspettavano la chiamata evidentemente.

Evelina Christillin, la più grande scalatrice d’Italia.

Non ho ricevuto calci nel sedere, non sono raccomandata. Sono arrivata dove sono grazie al mio lavoro.

Ah, stavamo dimenticando che è stata presidente dell’Enit, l’ente nazionale del turismo.

Ah, stavamo dimenticando che sono stata nominata dal sindaco di Genova presidente dello steering committee della The Ocean Race, la regata velica intorno al mondo che arriverà a Genova a giugno 2023.

Finito?

Finito.

“Non fummo tutti ‘brava gente’: serve scegliere sempre”

Pubblichiamo il discorso tenuto dal presidente del Consiglio al museo storico della Liberazione di Roma di via Tasso.

Vi ringrazio per avermi invitato, ma soprattutto per questa visita molto commovente. Si vede la sofferenza quotidiana di un popolo inerme, senza libertà, senza cibo, nel terrore, attraverso queste foto, questi manifesti, questi allarmi, queste minacce. Questo è un luogo simbolo della nostra memoria nazionale. Via Tasso evoca, anche nei ricordi familiari, l’orrore dell’occupazione nazista, la ferocia delle dittature.

Nel momento in cui anche i musei riaprono, mi auguro che, con le necessarie precauzioni, molti giovani abbiano l’opportunità di visitare queste stanze, di conoscere le storie di tanti combattenti per la libertà che qui sono stati torturati e uccisi, di capire fino in fondo il senso del loro sacrificio. E di comprendere che, senza il loro coraggio, oggi non avremmo le libertà e diritti di cui godiamo. Libertà e diritti che non sono conquistati per sempre e non sono barattabili con nulla. Sono più fragili di quanto non si pensi. Non dobbiamo rivolgerci soltanto ai giovani ma a tutti i nostri concittadini. Perché il dovere della memoria riguarda tutti. Nessuno escluso. Assistiamo oggi, spesso sgomenti, ai segni evidenti di una progressiva perdita della memoria collettiva dei fatti della Resistenza, sui valori della quale si fondano la Repubblica e la nostra Costituzione, e a troppi revisionismi riduttivi e fuorvianti. Ecco perché questa ricorrenza non deve invecchiare e subire l’usura del tempo. Nel conoscere in profondità la storia di quegli anni, del fascismo e dell’occupazione nazista, saremo più consapevoli dell’importanza dei valori repubblicani e di come sia essenziale difenderli ogni giorno.

Constatiamo inoltre, con preoccupazione, l’appannarsi dei confini che la Storia ha tracciato tra democrazie e regimi autoritari, qualche volta persino tra vittime e carnefici. Vediamo crescere il fascino perverso di autocrati e persecutori delle libertà civili, soprattutto quando si tratta di alimentare pregiudizi contro le minoranze etniche e religiose. Il linguaggio d’odio, che sfocia spesso nel razzismo e nell’antisemitismo, contiene sempre i germi di potenziali azioni violente. Non va tollerato. È una mala pianta che genera consenso per chi calpesta libertà e diritti – quasi fosse un vendicatore di torti subiti – ma diffonde soprattutto il veleno dell’indifferenza e dell’apatia. La senatrice Liliana Segre ha voluto che la scritta “Indifferenza” fosse messa all’ingresso del memoriale della Shoah di Milano per ricordarci che, insieme ai partigiani e combattenti per la libertà, vi furono molti che si voltarono dall’altra parte in cui – come dice lei – è più facile far finta di niente.

Nell’onorare la memoria di chi lottò per la libertà dobbiamo anche ricordarci che non fummo tutti, noi italiani, “brava gente”. Dobbiamo ricordare che non scegliere è immorale per usare le parole di Artom. Significa far morire, un’altra volta, chi mostrò coraggio davanti agli occupanti e ai loro alleati e sacrificò sé stesso per consentirci di vivere in un Paese democratico. Ma è nella ricostruzione del presente, di un presente in cui il ricordo serve a dirci quel che non vogliamo ripetere, che avviene la riconciliazione. È la ricostruzione basata sulla fratellanza, sulla solidarietà, sull’amore, sulla giustizia che porta alla riconciliazione.

Una “rivoluzione verde” molto grigia e piena di buchi (non per Eni e Snam)

Il piano nazionale di ripresa e resilienza del governo Draghi tradisce tristemente le promesse del premier di fare del recovery plan una rivoluzione verde. Al di là delle parole quello che contano sono i numeri ed in questa breve analisi cercherò di spiegare come si è tradita la transizione ecologica e come alcuni progetti sono vero e proprio greenwashing.

Le risorse sul trasporto pubblico sono assolutamente insufficienti per far fronte all’emergenza smog e traffico nelle città. Per i treni regionali, utilizzati dai pendolari, si prevede l’acquisto di solo 53 nuovi treni, il piano Conte ne prevedeva 80, mentre allo stato attuale in circolazione abbiamo 456 convogli regionali di cui 256 a diesel. Su una flotta di 42.800 autobus circolanti in Italia il Pnrr ne prevede la sostituzione di 5.500 pari al 12,8% del totale. I percorsi ciclabili urbani passano da 1.000 km della precedente proposta Conte a 570 mentre le vie ciclabili turistiche scendono da 1.626 km a 1.200. Non c’è la rivoluzione verde sulla mobilità elettrica su gomma dove sono previsti solo 750 milioni di euro sulla ricarica, mentre in Germania sono stati investiti 5 miliardi.

Sul fronte dell’energia non c’è una strategia sulle rinnovabili: previsti 4,2 GW, potenza sufficiente solo per coprire meno di un anno di crescita per rispettare i target europei. L’efficienza energetica passa dai 7 miliardi di euro del piano Conte a 2 del Pnrr Draghi e su 32 mila edifici scolastici prevede risorse solo per 195 scuole.

Eni e Snam invece sono le aziende che trarranno il massimo beneficio dal piano nella finalizzazione delle risorse attraverso l’idrogeno prodotto dal gas, e nella filiera transizione è previsto il sito stoccaggio CO2 a Ravenna, progetto Eni dal costo di 1,35 miliardi di euro, che consentirà a Eni di continuare a estrarre idrocarburi anche dopo il 2050 come scritto nei suoi piani industriali. Eni ha un fatturato di 70 miliardi di euro e non c’è alcuna ragione che sottragga soldi pubblici per progetti da greenwashing.

I fondi sull’economia circolare sono concentrati solo sulla gestione dei rifiuti e non su un piano che coinvolga industrie e Pmi. Sulle reti idriche che perdono 100.000 litri a secondo c’è un investimento di soli 900 milioni. La nostra rete perde il 41% di acqua e il governo Draghi vorrebbe intervenire su 25.000 km di rete di distribuzione dell’acqua con 900 milioni di euro: l’acqua persa potrebbe dare da bere ad una popolazione di 40 milioni di persone.

Sulla rete fognaria e sulla depurazione delle acque reflue è prevista la cifra barzelletta di 600 milioni di euro: l’Italia ha una condanna da parte della Corte di Giustizia europea perché in alcune zone del paese come Sicilia e Calabria, non depura le acque reflue, condanna che costa al nostro paese 80 mila euro al giorno.

Le risorse destinate alla qualità dell’aria attraverso la tutela delle aree verdi e marine sono 780 milioni e non c’è un piano per contrastare la perdita della biodiversità.

Il problema delle bonifiche dei siti inquinati è stato completamente dimenticato: sei milioni di persone vivono in siti altamente inquinati come ad esempio Taranto, Priolo, Gela, Milazzo, Brescia, Porto Torres, la Terra dei fuochi, Val d’Agri.

Nel piano, non c’è alcun riferimento alle Strategie UE “Farm to Fork” e “Biodiversità 2030” indicando la priorità dell’incremento della superficie agricola certificata in agricoltura biologica, lo sviluppo di filiere del “Made in Italy” biologiche e la creazione dei biodistretti.

Nel capitolo riforme si parla di semplificazioni nelle procedure di Valutazione impatto ambientale ed edilizie ma di una legge fondamentale per l’ambiente come la legge sul consumo di suolo e dell’obiettivo già deciso da molti paesi europei come quello di vietare l’immatricolazione delle auto a diesel e benzina a decorrere dal 2030-35 non se ne trova traccia.

Una domanda a cui il governo deve una risposta: tra i fondi su nuove tecnologie satellitari e filiere industriali ci sono i finanziamenti per spese militari come chiesto dalla Camera dei Deputati?

 

Il Piano ‘divisivo’ arriva in Aula. “Lo ha avuto l’Ue prima di noi”

Una corsa a perdifiato, tra consigli dei ministri notturni e telefonate non proprio concilianti sull’asse Roma-Bruxelles. Ma il governo ha calato le carte: l’Italia ha il suo Recovery Plan. Il testo attorno cui è stata costruita l’intera operazione di potere che ha portato Mario Draghi a Palazzo Chigi sarà illustrato al Parlamento tra oggi (Camera) e domani (Senato).

Il coinvolgimento degli eletti in questa fase cruciale consiste in ben due sedute e atrettante votazioni. Non è il massimo, e Fratelli d’Italia ha gioco facile: “Il Recovery Plan italiano è stato inviato all’Unione europea mentre il nostro Parlamento lo voterà al buio. È uno scempio”, attacca la senatrice Isabella Rauti. Ma i tempi della democrazia sono questi: il governo andava di gran fretta, l’obiettivo era rispettare la data fatidica (e mediatica) del 30 aprile, entro la quale bisognava consegnare all’Euorpa i frutti del lavoro draghiano. Missione compiuta, ma la partita politica inizia adesso.

Perché il cuore del Recovery Plan non è solo economico – i 191,5 miliardi di euro, più altri 30 del fondo complementare – ma si gioca soprattutto sulle riforme strutturali che Draghi si è impegnato a realizzare con gli zelanti osservatori europei. E su queste si rischia di ballare parecchio, perché gli interventi che devono guarire – nelle intenzioni del premier – le debolezze endemiche dell’economia italiana non sono affatto neutrali: le differenze politiche interne alla multicolore coalizione di governo potrebbero uscire allo scoperto tutte insieme. Prendiamo il capitolo concorrenza: si tornerà a spingere sulla liberalizzazione dei servizi pubblici locali, una questione storicamente divisiva (qualcuno ricorda i referendum sull’acqua?). È difficile immaginare di conciliare sensibilità tanto diverse come quelle dei partiti di governo (e sarà interessante inoltre vedere come saranno gestite le proteste immancabili delle categorie svantaggiate dalle liberalizzazioni).

E sulla Giustizia? Le riforme dell’ex ministro Bonafede sono state tra i principali pretesti della crisi di governo e della caduta di Conte. Gli stessi partiti ora si mettono d’accordo per metterci mano insieme? Poi ci sono le pensioni. Dalla versione finale del piano è scomparso il riferimento a quota 100 che aveva dato molto fastidio alla Lega, ma la sostanza non cambia: il Pnrr richiama le raccomandazioni Ue del 2019 che chiedono di ridurre il peso delle pensioni di vecchiaia (resta il fatto che quota 100 non sarà rifinanziata). E poi ancora il fisco: come si scrive una riforma che rende felici sia i tifosi della “flat tax” che quelli della tassazione progressiva?

Il Recovery Plan sulla carta è scritto. Ed è scritta pure una prima scansione delle riforme (si parte con il decreto semplificazioni entro fine maggio, una legge delega per la riforma fiscale entro il 31 luglio e per la stessa data anche una legge annuale per la concorrenza). Il piano è finito, ora inizia la politica.

Test, ospedali e asintomatici: disastro di Zaia in autunno

Report torna in Veneto e racconta la seconda ondata, quella dell’autunno, molto violenta dopo che la prima era stata gestita con buoni risultati. Luca Zaia – il leghista capace, altro che Salvini e i disastri lombardi – era stato rieletto a settembre con uno stratosferico 78,79%. Poi però il virus ha fatto 7 mila morti tra ottobre e gennaio: “Duemila in più della media nazionale” dice Maurizio Manno del Coordinamento veneto sanità pubblica nel servizio di Danilo Procaccianti di Report (ore 21,30, Raitre). È come se in Italia in quei mesi fossero morte 64 mila persone anziché 50 mila.

Una falla era nei test antigenici rapidi, usati a profusione anche in ospedali e Rsa, contesti a rischio dove l’eccesso di falsi negativi (fino a uno su due) può fare disastri. In Veneto li ha fatti. Report documenta i tentativi di far passare sotto silenzio lo studio del professor Andrea Crisanti, già consulente di Zaia, sui limiti degli antigenici (Il Fatto ne ha scritto il 29 marzo). Alcuni medici presero le distanze dallo studio: “Siamo stati presi per collo e con tutte le relative possibili minacce sottostanti” dice un primario, registrato a sua insaputa. E il direttore della Sanità regionale, Luciano Flor, spiega: “Detto inter nos la ditta ci fa causa quindi meglio dire lo studio non c’è. Cazzo, glielo dico sette volte e non capisce…” dice di Crisanti. “Ora lui, cazzo, è un puro. È un ingenuo. Non riesce a star zitto”. No: vede un rischio e avvisa, fa uno studio e lo pubblica.

Il Veneto fu a lungo zona gialla – giova ricordarlo nel giorno delle riaperture – nonostante la più alta incidenza di nuovi casi. Allora contavano solo Rt e gli ospedali non troppo pieni. Report però ha verificato che per un periodo il Veneto dichiarava il 95% di asintomatici (esclusi dal calcolo di Rt, in media sono il 30/40%) e misurava l’occupazione delle terapie intensive su mille posti che, secondo le organizzazioni degli anestesisti, esistevano solo in teoria. Zaia si difende come può, Crisanti attacca, Sigfrido Ranucci riconosce al leghista capace di averci “messo la faccia”.

“Matteo come me nel ’98? Prodi ha un’ossessione…”

“Qui siamo nel campo delle ossessioni”. Fausto Bertinotti risponde a Romano Prodi e scomoda categorie della psicanalisi. Il professore l’aveva chiamato in causa per descrivere le fibrillazioni di Matteo Salvini nel governo Draghi: il leghista si è “bertinottizzato”, dice l’ex premier dell’Ulivo. Bertinotti ci ride su: “Questa battuta l’aveva fatta già ai tempi di Renzi. Dopo un quarto di secolo bisognerebbe avere ricordi memorabili, Prodi invece coltiva la sua ossessione personale. Il responsabile della crisi fu Prodi medesimo, ma è inutile tornarci: era un altro secolo, un altro mondo”.

Veniamo al presente. Che ne pensa delle agitazioni di Salvini?

Non posso dire che il tema mi appassioni, mi paiono puramente strategiche. Sfumature tattiche nella destra populista: Salvini sta al governo nello stesso modo in cui Meloni sta all’opposizione. Si contendono la guida del centrodestra.

La appassiona invece il dibattito sul Recovery Fund? Come giudica il piano di Draghi?

Non mi pare così diverso da quello di Conte, sostanzialmente si muove sulla stessa linea. Abbiamo due problemi giganteschi. Il primo: l’Europa e il suo carattere sempre più oligarchico. C’è una messa in mora della democrazia rappresentativa negli stati europei. In questo non vedo una diversità qualitativa tra il governo di Conte e qiello di Draghi: sono entrambi figli di questa tendenza.

E il secondo?

Il modello di sviluppo. I piani dei due governi si somigliano perché sono all’ interno dello stesso processo di ristrutturazione capitalistica. È bandita ogni ipotesi di riforma sociale. Ci sono temi che neppure si possono neppure nominare: un intervento fiscale radicale nei confronti delle grandi ricchezze; un contrasto al potere dei giganti della tecnologia; un’azione vera di contrasto delle diseguaglianze. In Europa e in Italia non sono all’ordine del giorno.

La sinistra non è all’ordine del giorno.

La sinistra è nella società, in tante esperienze dal basso, di autogoverno. Di certo non è nei partiti: c’è un “popolo degli abissi”, come scriveva Jack London, privo di rappresentanza. Il centrosinistra oggi è una componente puramente governativa. E l’Italia galleggia nello scontro tra un assetto tecnocratico (che contiene il centrosinistra) e una destra rozzamente populista.

Non ha fiducia – eufemismo – in uno schieramento progressista sull’asse Pd-Cinque Stelle.

Ma la sinistra per poter interloquire con un’altra realtà, come i Cinque Stelle, prima deve esistere come tale. La sinistra è lotta alle diseguaglianze, ma il partito dell’eguaglianza in Italia non c’è. Lei è in grado di riconoscere una posizione critica di sinistra, da parte del Pd, sul recovery plan?

Era solo un’illusione credere che dalla pandemia uscisse un’Europa diversa?

L’Europa è cambiata, in parte, seguendo il corso degli eventi. L’austerity non è più un dogma e sono state intraprese politiche monetarie espansive: il recovery è figlio di questo nuovo ciclo. Ma resta molto in comune con l’impostazione precedente: l’inesistenza della riforma sociale. Il cambiamento è uno spasmo di sopravvivenza del sistema economico, è indotto dal primato del profitto, dell’impresa, del mercato; dall’esigenza di evitare una recessione ingovernabile. Ma non c’è riforma sociale, la questione delle diseguaglianze è ignorata.

Però c’è un nuovo spirito ecologista.

Molto bene, ma le rispondo con una battuta di Chico Mendes: “L’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio”. Vorrei sollevare, infine, un’obiezione di merito.

Quale?

Le pare possibile che il recovery plan possa essere discusso dal Parlamento italiano in due giorni? Il parlamento possa ancora chiamarsi tale? È il risultato di anni di svuotamento democratico, le istituzioni sono profondamente impoverite.