Viso, voce, sguardo (basso), postura. Tutto ha del “condannato”, Flavio Insinna, davanti al computer prestato da un membro de L’Eredità. “Sì, non è il mio. Non ne ho uno”. Possibile? “La tecnologia non è per me, sono per gli esseri umani”. Lei non è neanche da intervista, soffre. “È vero, perché quello che sei lo dimostri sul lavoro, poi c’è la vita reale; (cambia tono, ma leggermente) poi succede, sono qui, e in questi casi è interessante capire se si è in grado di rispondere”. Niente è scontato. “Mai!”
Complesso, non complicato; articolato, non contorto; strati e strati di vita ragionata, sofferta, assimilata e da assimilare, come se fosse un millefoglie di esperienze da equilibrare, per poi offrire il giusto sapore di un’esistenza.
Da attore teatrale, di cinema e televisione, da un quindicennio è uno dei conduttori più lodati, con discese ripide e ripide risalite, ma da qualche tempo stabile punto di riferimento pre-serale con L’Eredità su Rai1.
Eppure suo padre la sognava in altra veste.
Da chirurgo sperava di avere in casa l’ennesimo laureato. E con un lavoro riconosciuto; uno dei primi dolori che gli ho dato è quando mi sono congedato da ufficiale dei carabinieri e al rientro in famiglia, davanti ai documenti universitari belli apparecchiati, ho deciso di non nascondere la verità: “Dobbiamo sederci e parlare”.
Un outing.
Premessa: se non avessi il terrore, e sottolineo il terrore, degli aghi, avrei seguito l’esempio di mio padre, ma sarei svenuto con la siringa in mano.
Per carità.
Era l’aprile del 1986 e fu l’inizio di un dramma.
Proprio non se l’aspettavano.
No, eppure con mia sorella ci portavano all’Opera o al cinema per vedere film come Indagine su un cittadino…; poi a otto anni il primo vero segnale con Aggiungi un posto a tavola e lì, credo, alla fine, al momento della colomba, mi sono incantato davanti alla reazione estasiata del pubblico; (cambia tono) la botta finale è arrivata con il maestro (Gigi Proietti) e A me gli occhi please: ricordo in maniera nitida, quasi alla moviola, dove ero e cosa ho pensato all’uscita del teatro.
Cosa?
Mentre slegavo il motorino dal palo, riflettevo: “Questo signore, da solo, fa ridere e commuovere. Che mestiere fantastico”. Da lì è scattata la paura di ammetterlo, anche a me stesso; comunque alla fine, dopo la mia dichiarazione, il capolavoro è stato di mamma: per un paio di anni si è “vestita” da Onu, e ha ricucito tra me e mio padre, anche bluffando con l’uno e con l’altro sulle nostre reali intenzioni. “Papà ha detto che potrebbe venire a vederti”; “A Flavio farebbe molto piacere se andiamo da lui”.
Suo padre?
Si tranquillizzò quando si rese conto del mio impegno, della dedizione; lui traduceva il “voglio diventare attore” con “non ho voglia di fare nulla”; per un po’ gli restò il timore per il futuro. “Se va male, cosa farà?”.
Questa domanda non se la poneva?
Allora no; (tono basso) sabato scorso sono stato in piazza del Popolo, a Roma, per la Manifestazione dei bauli: lì ho trovato attori e attrici straordinari, protagonisti anche di spettacoli al Sistina, senza lavoro da più di un anno.
Nella vita da cosa è sfuggito?
Italo Calvino sosteneva che “io” è il pronome più pericoloso, lo definiva il pidocchio del discorso: questo è un mestiere in cui è facile incapparci, quindi è necessario mantenersi ben piazzati sulla terra.
Voi artisti, spesso…
(Blocca la domanda) Qui penso a De Chirico quando ripeteva: “Bisogna essere artigiani”.
Niente artista.
Per me lo è il maestro Proietti: non possiamo rientrare nella stessa definizione; una volta un grande insegnante di sci mi disse: “Voi scendete, salvate la pelle. Sciare è un’altra cosa”; (sorride) lo capii bene una mattina, quando non sapevo di stare sulla stessa funivia con Marc Girardelli…
Uno dei grandi con gli sci.
Era vestito come uno scappato di casa, con i cerotti sulle racchette; appena è sceso abbiamo capito il nostro errore di valutazione; (ritorna a prima) sono un artigiano.
Lino Guanciale racconta: “Proietti ci ha insegnato a non dare del tu al palco”.
A noi diceva: “Se salite, è guerra, pure per cinque minuti, non è che ai saluti vi potete scusare”; quindi sì, è un gioco, ma uno si deve preparare bene, altrimenti alla fine ti può segnare anche l’ultima squadra del campionato; i francesi, prima di entrare in scena, dicono “andiamo a vendere cara la pelle e a difenderci”.
La giusta tensione.
Sempre alla scuola di Proietti, per una settimana, venne Arnoldo Foà: “Ragazzi, cercate sempre il signor Qualcuno”. Noi, lì per lì, non capimmo. E allora: “Ero in tournée: una domenica pomeriggio ero in un paesello sperduto, e pensavo ‘ma tanto chi deve venì?’. E l’ho fatta un po’ così, perché siamo esseri umani, e quando già pensavo al ristorante, mi ritrovo in camerino un critico famosissimo. Mi volevo ammazzare”.
Quindi…
È fondamentale darsi una necessità, pensare che c’è chi è uscito da casa, ha pagato il biglietto, ha preso la pioggia e ha cercato il parcheggio; vorrei morire e mettere sulla lapide: non era mai svogliato.
Accanto a quella di Gassman “mai fu impallato”.
Chi ce se mette davanti a lui! L’altro giorno mi ha fermato Giampiero Mughini e mi ha reso partecipe di un complimento pazzesco: “Con la mia compagna ti guardiamo e ci dai l’idea di divertirti tutte le sere”.
Molti dichiarano di seguire L’Eredità: più forte Barbarossa o D’Alessio?
Bella sfida; Gigi si confronta con Virginia Raffaele, anche Luca è pazzesco, poi c’è l’ex direttore di Rai1, Andrea Fabiano: è un cecchino micidiale; (ride) il massimo è Diego Abatantuono: quando non la indovina mi manda un audio di un’ora dove spiega che era sbagliata la parola. Un capolavoro. I suoi messaggi sono da commedia all’italiana.
Si è beccato anche qualche accusa, come da Vittorio Feltri: “Chi prepara i quesiti è ubriaco”.
(Prende tempo) Avessi ancora tutti i capelli neri ci rimarrei male, ma con gli anni ho imparato che tutto rientra nel prezzo del biglietto. E poi è un attimo, ma ogni giorno mi sveglio e mi ripeto che la vita è un regalo: ho il lavoro che desideravo, i miei mi hanno sostenuto, anche prima di ingranare, anche quando non andavo in vacanza, non spendevo una lira e cercavo qualche lavoretto per permettermi lampi d’indipendenza.
Che lavoretti?
A volte disc jockey, in altre stavo davanti alla porta dei locali..
Lei stava a “Il locale”, dove sono nati molti artisti…
Lì c’erano Papaleo, Britti, Zampaglione, Dario Bandiera, Mastandrea. Gente di belle speranze.
Il più bravo di allora.
Di Rocco e Valerio lo capivi, percepivi una certa irregolarità, come dei numeri “10” da grande squadra di calcio.
È andato in tournée con Britti e Papaleo.
Ecco, il talento puro è Britti: entrava in scena con un assolo di chitarra, un assolo così intenso che a un certo punto era costretto a staccare una corda per dimostrare che non era un disco, ma tutto dal vivo; una sera, anche io stupefatto, lo guardai e gli chiesi: “Ma quante mani hai?”. Venne giù il teatro per le risate; a casa l’ho visto farsi la ritmica, da solo, mentre si slacciava gli anfibi; cioè, riusciva a dare ritmo anche con le scarpe.
Lei era teso prima di salire sul palco?
Lo sono ancora; se lo spettacolo è alle ventuno posso parlare al massimo fino alle 19.20; staccare con il mondo è un regalo che concedi a te stesso, ti concentri solo su quella “cosa” che insegui da quando hai otto o nove anni; ripeto: io l’ho visto Luigi Proietti in arte Gigi Proietti dietro le quinte: silenzio, si preparava e iniziava la guerra.
Così ancora oggi.
Magari sono diventato un pochino più bravo a non mostrare la tensione, ma guardo sempre la porta e penso alla fuga, mi ripeto “ma chi ce lo fa fare di morire d’infarto tutte le sere?”; ma dopo quella paura si tramuta in bello.
Secondo Totò, “la vita non si sceglie. Si accetta”.
È vero; (pausa) la differenza è solo sul come reagisci, e non solo passivamente: la puoi accettare buttando via tutto dal tavolo o con un sorriso; quando questa estate, con altri amici con cui lavoro in una terra confiscata alla camorra, siamo andati dagli operai della Whirlpool in protesta, sentivo un imbarazzo, perché lì poteva scattare in automatico un “ma questo che vuole”. E invece no, ti esprimono un “grazie” perché non li hai dimenticati. Ed è come con Patrick Zaki o con la famiglia di Regeni: dimenticare è la condanna a morte (gli arriva un messaggio, l’immagine del display del telefonino è quella di Paolo Borsellino).
Popolizio sostiene…
(Anche qui ferma la domanda) Oh, comunque lei cita tutti quelli mejo de me; ma uno scarso, no? Massimo Popolizio è fantastico. (Silenzio) Qual è la domanda?
Sostiene che quello dell’attore è un mestiere di rinunce.
Allora, ho rinunciato a molti Natali, ai Capodanni, ai compleanni, ma non ci ho pensato più di tanto; sono cresciuto in una famiglia molto stretta che da sempre definisco come un branco, e quando è morto il capobranco (suo padre, ndr) siamo scoppiati, ci siamo dovuti allontanare per non sbranarci pur amandoci; (cambia tono) per questo c’è stata la rinuncia ai figli.
Perché?
Cresciuto con quel tipo di presenza, magari a volte troppa, non mi sono mai ritrovato da solo davanti a un problema; per come ho vissuto cos’è l’amore dei genitori verso i figli, non potevo sopportare l’idea che un giorno, a me, un pargolo mi dicesse: bello il film, bella la tv o il teatro, ma non ci sei mai.
Rimpianto.
È stata una rinuncia naturale, non formalizzata.
Nel 2007 ha dichiarato di non saper godere il momento.
Ci ho lavorato sopra, ho imparato a godermi gli attimi perché poi non lo sai; all’Eredità arrivano di continuo lettere e io e Fabrizio (uno degli autori, ndr) le leggiamo. Sono storie di dolore vero, di malattie, e c’è chi chiede solo un saluto; così ci dobbiamo rendere conto che, come spiegava Mastroianni, “ci pagano per aspettare”; qui ci pagano per dire “ghigliottina!”; (torna a Mughini) quando Giampiero mi dice “sembra che ti diverti”, ha ragione, perché non sono solo un privilegiato, ma uno stra-fortunato.
Magari con merito…
E allora torno a Proietti quando ci metteva in guardia: “Regà, io ve lo insegno il mestiere, ma nonostante quello che vi trasmetto può lasciare poveri e infelici”.
Quando ha capito di avercela fatta?
Che intendiamo?
Che poteva vivere di questo mestiere.
Lo scatto c’è quando la parola “successo” non la utilizzi da sostantivo, ma da participio passato.
Oggi è 25 Aprile: guerra di Liberazione o guerra civile?
Calamandrei ha insegnato che ci accorgiamo di quanto è importante l’aria quando ce la levano. È uguale per la libertà e la democrazia; siamo stati liberati senza se e senza ma, e ce la dovremmo meritare, non darlo per scontato.
Un suo vizio?
Mannaggia, le sigarette.
Scaramanzia.
A teatro mi allaccio per tre volte una scarpa; se sul palco trovo un chiodo storto, lo prendo, e a fine tournée ne ho lo zaino pieno; infine se cade a terra il copione, lo batto tre volte.
Chi è lei?
(Sorriso più sospiro) Lo dovrebbe chiedere al mio analista; però sfrutto l’epitaffio di Cyrano: “Qui riposa Cirano Ercole Saviniano Signor di Bergerac, che in vita sua fu tutto e non fu niente!”. E aggiungo: sono uno fortunato.