Lo studio al Cts: “Riaperture precoci. Rischio quarta ondata”

Il 16 aprile, spiegando le riaperture poi disposte a partire da oggi, Mario Draghi parlava di “rischio ragionato” e chiariva che “le decisioni sono basate su evidenze scientifiche”. Proprio in quelle ore il Comitato tecnico scientifico, mai chiamato a esprimere un parere formale, ascoltava Stefano Merler, l’uomo dei modelli matematici della Fondazione Bruno Kessler che dal febbraio 2020 studia i numeri dell’epidemia per l’Istituto superiore di sanità. E Merler spiegava che, con l’indice Rt a 0,72 al 3 aprile, il “margine per le riaperture” era circa di 0,28, cioè era possibile riaprire un po’ meno di un terzo di quanto era chiuso senza che il tasso di riproduzione del virus superasse 1 (una persona infetta ne contagia in media più di una), anzi “in realtà meno perché sono state riaperte le scuole” – era successo dopo Pasqua, dal 7 aprile – ma l’effetto “sarà osservabile solo fra un po’ di tempo”.

Secondo Merler “riaperture precoci, entro aprile” anche se Rt resta pari a 1 (l’ultimo dato, diffuso venerdì ma risalente al 7 aprile, dice 0,81), possono portare a un “costante ma alto numero di morti giornaliere”. Questo sarebbe invece “estremamente ridotto con riaperture a valle di un marcato calo dell’incidenza (es. riaperture graduali a partire da inizio-metà maggio, mantenendo Rt<1)”. E concludeva che con l’aumento di Rt a 1,1 l’epidemia “potrebbe non essere facilmente controllabile senza ulteriori restrizioni, soprattutto in caso di riaperture precoci (entro aprile)”. Se salisse a 1,25 rischiamo la “quarta ondata” che “richiederebbe misure importanti per evitare un altissimo numero di morti in breve tempo”.

Gli scenari di Merler presentano l’incertezza di tutti i modelli matematici però lo studioso trentino ci aveva visto giusto un anno fa, come a fine gennaio sulla variante inglese. I governi hanno impiegato sempre un po’ più del necessario ad agire di conseguenza. Ora invece si corre a riaprire. “È stata una decisione politica, certamente legittima, ma è un azzardo. Rischiamo di dover richiudere tra un mese” dicono, con diversi accenti, alcuni membri del Cts. Il governo ha solo incontrato il coordinatore e il portavoce del Comitato, i professori Franco Locatelli e Silvio Brusaferro, e soprattutto Locatelli ha confermato che all’aperto si rischia meno. Hanno parlato anche del calcetto. Poi sono uscite queste misure un po’ ibride: al bancone del bar no ma almeno in strada sì perché se no Matteo Salvini non sa cosa rispondere delle promesse che ha fatto; ma allora anche il cinema perché lo chiede il ministro Dario Franceschini; il calcetto sì e le piscine all’aperto non ancora.

Le “evidenze scientifiche” su cui Draghi ha deciso interessano molto agli scienziati più perplessi sulle riaperture. “Stiamo pensando di fare l’accesso agli atti per capire. Il presidente del Consiglio ha parlato di rischio ragionato. Quale ragionamento è stato fatto? – chiede Andrea Crisanti, professore di Microbiologia a Padova, autore degli studi sui contagi a Vo’ Euganeo e sui test antigenici che non funzionano come dovrebbero –. Ne ho parlato con Massimo Galli (il direttore dell’Infettivologia del Sacco, ndr), Roberto Battiston (il fisico, ndr) e Nino Cartabellotta (Fondazione Gimbe, ndr), anche loro sono d’accordo sull’accesso agli atti della Presidenza del Consiglio, del ministero della Salute e del Cts. Bisogna proprio chiedere se hanno fatto dei calcoli e quali. Quali rischi sono stati evidenziati e su quale base. Rischiamo di tornare a 5-600 morti al giorno”, dice ancora Crisanti. Con l’accesso agli atti, troveranno gli scenari di Merler. E poi chissà.

Salvini pesta il suo governo: “Il coprifuoco va cancellato”

Ha aspettato la mezzanotte del 25 aprile, Matteo Salvini. Ma non per festeggiare i 76 anni dalla Liberazione dal nazifascismo: per chiedere la “liberazione” dalle restrizioni anti-covid. E lanciare, con una diretta Facebook notturna, una petizione che invita i cittadini a firmare contro le misure approvate dal governo di cui la Lega fa parte. In particolare contro una restrizione che proprio non va giù a Salvini: il coprifuoco alle 22. Nonostante oggi riaprano molte attività nelle 15 regioni in zona gialla, il leader della Lega non accetta la limitazione dell’orario serale e per questo i ministri del Carroccio mercoledì avevano provocato la prima rottura nel governo Draghi non votando il decreto sulle riaperture. “È ancora troppo poco, le aperture di lunedì non sono sufficienti – ha detto domenica notte Salvini lanciando la petizione – qualcuno per ideologia vede solo rosso e se dipendesse da Speranza staremmo tutti chiusi in casa”. Poi ha inviato un messaggio ai propri elettori che sembrava invitare a boicottare le restrizioni: “No coprifuoco, no proibizioni, no restrizioni in quelle regioni che sono sotto controllo – ha continuato Salvini – se saremo 10 mila è un conto, se saremo 100 mila, 200 mila, 1 milione…”. Il leghista ha anche attaccato il ministro dell’Interno Lamorgese sui controlli: “Ci sono poliziotti mandati nei vicoli a controllare se i ragazzi sono troppo vicini invece che cercare i delinquenti”. Nella petizione si chiede anche di riaprire tutte le attività al chiuso: secondo il decreto, ristoranti, palestre e piscine lo faranno dall’1 giugno. A fine giornata le firme sul sito della Lega con l’hashtag #nocoprifuocosono arrivate a 45 mila. Salvini ha lanciato l’iniziativa per galvanizzare parte del suo elettorato, tra cui ci sono molti ristoratori costretti a rimanere chiusi (io disobbedienti di #Ioapro hanno già annunciato che oggi non rispetteranno le restrizioni), ma anche per fare pressione sul governo perché riveda il prima possibile il decreto approvato mercoledì senza il voto della Lega.

Così ieri è arrivata la risposta durissima del segretario del Pd Enrico Letta a Mezz’Ora in Più: “Se la Lega non vuole stare al governo non ci stia. Oggi Salvini sta partecipando a una raccolta firme contro il coprifuoco che l’esecutivo, di cui lui fa parte, ha deciso”. Poi ha fatto balenare la possibilità che il Carroccio lasci la maggioranza commentando l’astensione dei ministri della Lega in Cdm: “Voglio che il governo vada avanti due anni, ma è successo una volta e non può succedere più – ha concluso Letta – Chi lo fa deve tirare le conseguenze”. Un’uscita che ha provocato la replica stizzita di Salvini: “Il segretario del Pd Letta non si fida degli italiani e li vuole tenere ancora chiusi in casa”.

Sull’argomento è intervenuto anche il ministro della Salute Roberto Speranza secondo cui ci vuole “fiducia e prudenza” e spiegando che ci sarà un monitoraggio continuo dei dati: “Se ci saranno le condizioni faremo dei passi avanti”. Anche il presidente del Consiglio Superiore di Sanità Franco Locatelli ha difeso il coprifuoco alle 22: “Nessuno ha il gusto sadico di impedire i movimenti, faremo la verifica a metà maggio”. Il compromesso del governo potrebbe essere quello di allungare il coprifuoco alle 23 a partire dal 17 maggio. Anche perché ieri il Viminale, con una circolare inviata a prefetti e questori, ha smentito l’interpretazione “morbida” del coprifuoco data dal ministro di Forza Italia Mariastella Gelmini sul Messaggero secondo cui “i cittadini possono stare al ristorante fino alle 22 e poi tornare a casa senza essere multati”. Invece no, non sarà possibile: “Il decreto ha confermato la permanenza del limite orario degli spostamenti tra le 22 e le 5” ha chiarito il ministero dell’Interno.

Mentre la Lega fa pressione sul governo, gli alleati del centrodestra di Fratelli d’Italia provano a spaccare la maggioranza. Mercoledì al Senato sarà votata la mozione di sfiducia contro Speranza (la Lega è indecisa tra il no e l’astensione) definito ieri da Giorgia Meloni “il simbolo del coprifuoco, di folli disposizioni e dei disastri sulla gestione dell’emergenza”. Ma la spaccatura nella maggioranza potrebbe già verificarsi martedì alla Camera sull’ordine del giorno del capogruppo di FdI Francesco Lollobrigida proprio per abolire il coprifuoco. Lollobrigida provoca la Lega: “Non esiste il dono dell’ubiquità politica per cui si è contro e a favore a seconda del luogo dove si esprime il parere”. L’ennesimo ostacolo per una maggioranza già sotto stress.

Ma mi faccia il piacere

L’Etica Renzomachea. “Renzi nel board del principe saudita. Il Parlamento studia un codice etico” (Stampa, 24.4). Ovviamente il Parlamento saudita.

La Supersega. “Andrea Agnelli: ‘Patto di sangue, la Superlega andrà avanti’” (Maurizio Molinari, Repubblica, prima edizione, 21.4). “Andrea Agnelli: ‘La Superlega andrà avanti, trattiamo con l’Uefa’” (Maurizio Molinari, Repubblica, seconda edizione, 21.4). Commento sui social: “S’è sciolto il sangue”.

La voce del padrone. “Sul calcio l’effetto pandemia” (Gianni Riotta, Repubblica, 20.4). Ah, ecco di chi è la colpa della Superlega: non di Agnelli, ma del Covid.

Il fedelissimo. “Tra Pd e 5Stelle l’alleanza non funzionerà: Conte potrebbe lasciarli” (Matteo Renzi, leader Iv, Repubblica, 19.4). Purtroppo non tutti sono leali come lui.

Numerologia. “I numeri parlano chiaro: i gay sono più tutelati delle donne” (Carlo Giovanardi, ex deputato e sottosegretario Udc, Libero, 12.4). Soprattutto se i numeri li dài tu.

Se citofonando. “Un Paese dove c’è l’attore che chiama per denunciare il vicino di casa non è un Paese civile, non è un bel modello la delazione di Stato… è da Unione Sovietica. Ma vai a citofonare al vicino! Gli dici: ‘Guarda che stai facendo casino, non rischiare’. Invece chiamano la polizia per fare i fenomeni sui giornali! Che tristezza” (Matteo Salvini contro Alessandro Gassmann, Quarta Repubblica, Rete4, 19.4). E magari, già che ci sei, citofonando gli domandi pure se spaccia.

Nordio libera tutti. “La sentenza sull’ergastolo per chiudere gli anni bui” (Carlo Nordio, ex magistrato, Messaggero, 16.4). Gli anni cui in cui i mafiosi restavano in galera.

Paniz e pesciz. “Adesso tocca ai 1.500 parlamentari che dalla sera alla mattina hanno perso ogni tipo di sostentamento. È un atto di giustizia. Formigoni quale altra fonte di sostentamento ha? Come andrà avanti dopo quarant’anni dedicati alla vita politica?” (Maurizio Paniz, ex parlamentare FI, Corriere della sera, 15.4). In effetti, sono bei drammi.

L’imboscata. “Mi dica, dottor Davigo, cosa ne pensa del caso Grillo?” (Maria Elena Boschi, deputata Iv, intervistata dal Riformista, 22.4). Caso unico al mondo di un’intervistata che, invece di rispondere alle domande, ne fa delle altre a un terzo che non c’entra nulla.

L’Emerito. “Giustizia, perchè è consigliabile un’inchiesta parlamentare” (Sabino Cassese, Corriere della Sera, 23.4). Così finalmente gli imputati processeranno i magistrati.

Cartabia copiativa. “Ddl penale, la linea Cartabia: ‘Processo giusto e breve’” (Dubbio, 17.4). Ammazza che volpe.

Slurp. “Rivoluzione Draghi. L’approvazione del Pnrr è vicina: una svolta epocale che ha del miracoloso” (Foglio, 21.4). “Un Recovery da sogno. Esclusiva” (rag. Claudio Cerasa, Foglio, 23.4). “Il nostro libro dei sogni. L’Italia che sarà. Il Recovery di Draghi parola per parola” (Foglio, 24.4). Recoveràtelo.

Forchettoni. “Mani Pulite un colpo di Stato. La mia sanità avrebbe resistito meglio al virus” (Roberto Formigoni, Giornale, 22.4). Certo, come no. Ora però, da bravo, caccia la refurtiva.

La discontinua. “Questo governo è in forte discontinuità con il precedente” (Elena Bonetti, ministro Iv delle Pari opportunità e Famiglia nei governi Conte-2 e Draghi, Stampa, 19.4). Quindi tu non conti una mazza.

L’ideona. “Open Arms, la strategia di Salvini: portare in aula Conte e Toninelli” (Corriere della sera, 194). Non male la linea difensiva del trust di cervelli Bongiorno&Salvini: anziché sostenere di essere innocente, denunciare altri due complici. Così, se tutto va bene, scatta pure l’associazione per delinquere.

Bei tempi. “Napoli, una città che ha una caduta verticale della sua classe dirigente” (Paolo Cirino Pomicino, Repubblica, 23.4). Non ci sono più i tangentari di una volta.

Lo step. “Vaccini, la volata di fine aprile. Prossimo step: 430mila al giorno” (Repubblica, 19.4). Ma non erano già 500mila a metà aprile?

I titoli della settimana/1. “Il coprifuoco scatta alle 23” (Messaggero, 21.4). “Coprifuoco alle 22, strappo Lega” (Messaggero, 22.4). Ma il titolista chi è: Salvini?

I titoli della settimana/2. “Berlusconi ancora ricoverato. Rinviata la sentenza Ruby ter” (Giornale, 16.4). È il Ricoveri Plan.

I titoli della settimana/3. “Accanimento su Berlusconi costretto a inseguire i pm” (Verità, 22.4). In barella.

I titoli della settimana/4. “Le monetine in testa a Craxi furono la ‘fine della politica’” (Alessandro Gnocchi, Giornale, 20.4). “A proposito di politica: non ci sarebbe qualche cosarellina da mangiare?” (Totò, Fifa e arena, 1948).

Foria, dalle parodie alle “Cortesie” in tv: “Più che comica, nasco come logorroica”

Dici Barbara Foria e ti viene in mente l’imitazione di Myrta Merlino che esclama “pazzesco!”, al limite della sovraesposizione sotto i fari del suo talk televisivo. Il tono di voce profondo e l’espressione con cui scandisce ogni sillaba sono la chiave della riuscita dell’ultimo personaggio di Barbara Foria approdato a Quelli che il calcio. Mimica e fisicità sono essenziali, come nelle altre imitazioni: la versione megalomane di Serena Bortone oppure la parodia di Scianel di Gomorra calata in una via di mezzo tra una televendita e un reality di cucina. “Non mi definirei un’imitatrice”, ragiona di sé la comica napoletana. “Faccio parodia, esaspero i tratti che mi hanno colpito di più e che ho amato di più”. La somiglianza aiuta, ma ne può fare a meno: “Prima o poi mi piacerebbe fare l’imitazione di un conduttore uomo. Che so, Amadeus o Bonolis”.

Barbara Foria si racconta volentieri come un tipo istintivo, “una che non segue le regole”. Invece ora la vedremo nei panni di quella che le regole le fa. Da domani, su Real Time, vestirà la toga (metaforica) di “giudice” del game show Cortesie in famiglia (spin off del cult Cortesie per gli ospiti) in onda dal lunedì al venerdì alle 20.20. “È stata una fortuna poter viaggiare in pieno lockdown nelle case degli italiani. Mi sono sentita a casa ogni volta. Sono empatica”. Con Michela Andreozzi e Ciro Priello dei The Jackal, Foria fa parte della squadra di giudici “aggiunti” a rotazione al duo rodato di Enzo Miccio e la chef Chiara Maci. Il loro compito è valutare l’ospitalità delle due famiglie che a ogni puntata si sfidano a organizzare un pranzo o una cena accogliente per gli ospiti. Per una come lei, ammette, giudicare “è stato durissimo. Sono una buona, avrei dato dieci a tutti”. Un tratto comune delle famiglie che ha visitato, racconta, è la centralità delle donne: “La mamma, la moglie, la suocera o la sorella maggiore sono sempre figure preponderanti”.

Dalla coppia all’amore al sesso, l’universo femminile è suo cavallo di battaglia: dagli esordi in Sessosenzacuore.com al suo primo one woman show di successo del 2010 (Sto matrimonio non sa… d’affare!). “Da donna non potrei che parlare di donne, e mi piace quando mi dipingono come una paladina, una power girl”.

E anche se lei si sente più comica “da teatro”, il rapporto tra palcosenico e telecamera è osmotico. “Il mio sogno è portare il mio pubblico televisivo a teatro”. Il giro di boa lo show Mediaset Colorado, che ha integrato nel 2012. Monologhi esilaranti quanto eloquenti: “La verità è che io nasco come logorroica. Per questo mi sono laureata in Giurisprudenza. In famiglia dicevano ‘con questa parlantina può fare solo l’avvocato’. Il monologo è stato un approdo naturale”. Nonostante un anno professionalmente pieno grazie alla tv, ora l’attrice e autrice spera di tornare presto a guardare in faccia il suo pubblico. La piena ripartenza delle sale se la immagina per settembre, quando anche nei temi l’attualtà pandemica sarà forse meno pressante. Anticipazioni? “Prima o poi farò uno spettacolo intitolato Amore a prima vista”.

Milva non canterà più: Bella ciao, pantera “Rossa”

La polvere. Quando, tre anni fa, la figlia Martina andò al Sanremo baglioniano a ringraziare per conto della madre, il messaggio di Milva era già un lascito: “La musica spazza via la polvere dalla vita e dall’anima degli uomini. Ma perché questo accada bisogna studiare e attingere dal passato”. L’odore del palco, le nebbie della memoria, i piedi nudi immersi nella Storia. C’è tutto, in quelle parole. E acquista un senso che la sua figura resistenziale se ne sia andata, a quasi 82 anni, alla vigilia del 25 aprile.

Milva “la Rossa” (come nella canzone scritta su misura da Jannacci) non solo per la chioma più da Leonessa che da Pantera. Andava in prima elementare nei giorni della Liberazione, in famiglia scuotevano il capo vedendo le bandiere della Dc: eppure la mandarono in collegio dalle suore. Maria Ilva amava disegnare abiti, e mamma Noemi che non aveva studiato “e aveva la testa piena di domande” glieli realizzava. Socialista, quando spuntò la stella di Craxi Milva si votò a Berlinguer, il Pci che non sembrava da bere. Un giorno vide Napolitano in tv, mandò un telegramma: “Presidente, non prenda freddo. Si metta una sciarpa”. Arrivò la risposta dal Quirinale: “Non tutti gli italiani provano tanto affetto per me”.

Era “figlia” per vocazione: a 21 anni, formidabile emergente, sposò il regista Maurizio Corgnati. Lui aveva più del doppio d’età, era un “vecchio”. I rotocalchi mugugnarono, ma peggio andò otto anni più tardi: la Rossa se ne andò dalla sera alla mattina, portandosi via Martina, folgorata dalla passione per un attore coetaneo, Mario Piave. Scandalo. Se ne sarebbe pentita: “Lasciare Maurizio è stata la più mia grande cavolata”. Anche perché con Piave conobbe la dimensione tragica dell’amore: Mario tentò due volte il suicidio e venne misteriosamente ucciso con cinque colpi di pistola mentre guidava la sua Taunus a Lavinio. La loro liaison era finita da tempo: il filosofo Massimo Gallerani la confortò per altri quindici anni, salvo lasciarla per una donna più giovane. E fu di nuovo la volta di un attore, Gigi Pistilli. Che come Milva soffriva di depressione, e un brutto giorno la accusò di non amare gli uomini, bensì di “masticarli”. Si impiccò prima di una recita, chiedendole scusa in un biglietto per quell’intervista: “È infame”.

Uomini addosso, come nel titolo di uno dei suoi 173 album. Ma non sempre per desiderio carnale. Strehler ne sedusse l’anima introducendola a Brecht: folgorante, L’Opera da tre soldi con Mimmo Modugno. E le parole di Moustaki per la Milord di Edith Piaf la convinsero che la prostituta del porto poteva incarnarla anche lei: la Rossa approdava all’Olympia. Piazzola la incantò col tango, Berio e Calvino la vollero per La vera storia, monologhi cripto-operistici in cui fungeva da Cantastorie, conquistando la Scala e la Germania, sua patria adottiva. E se per Milva scrisse molto Jannacci, ancor più lo fece Battiato, la penna del pop spiazzante di Alexanderplatz.

La Rossa si sentiva soffocare nella tonnara delle canzonette. Ogni anno minacciava di non tornare più a Sanremo, alla fine ne fece quindici, senza mai vincere. Il debutto fu da choc, nel ’61, in un lotto di concorrenti inquieti: c’era Paoli senza lo smoking, Celentano che si esibiva di spalle, arrivato al Festival con una licenza dal servizio militare firmata da Andreotti, Mina che prese una stecca, scoppiò in lacrime e fuggì via, Bindi con quell’anello al mignolo che per i gossipari era la prova dell’omosessualità. Infine Betty Curtis: vinse con Al di là e si abbandonò a un gestaccio contro la rivale Milva, finita terza. No, quello era un circo. Anzi, uno zoo. L’Aquila di Ligonchio, la Tigre di Cremona, e lei la Pantera di Goro? Milva nera? No, era la Rossa. Sempre Altrove. Milva era Europa, Argentina, Portogallo. Era il Piccolo, dove martedì sarà allestita la camera ardente. Cosmopolita, engagé, ma aggrappata alle radici. Dopo il ritiro nel 2010, l’ex ragazzina scalza si rivolse a Bersani: “Segretario, ora non canto più, ma per il partito potrei dedicarmi alle canzoni della libertà”.

“Il vero maestro è Proietti. Gli sms di Abatantuono e in scena è una ‘guerra’”

Viso, voce, sguardo (basso), postura. Tutto ha del “condannato”, Flavio Insinna, davanti al computer prestato da un membro de L’Eredità. “Sì, non è il mio. Non ne ho uno”. Possibile? “La tecnologia non è per me, sono per gli esseri umani”. Lei non è neanche da intervista, soffre. “È vero, perché quello che sei lo dimostri sul lavoro, poi c’è la vita reale; (cambia tono, ma leggermente) poi succede, sono qui, e in questi casi è interessante capire se si è in grado di rispondere”. Niente è scontato. “Mai!”

Complesso, non complicato; articolato, non contorto; strati e strati di vita ragionata, sofferta, assimilata e da assimilare, come se fosse un millefoglie di esperienze da equilibrare, per poi offrire il giusto sapore di un’esistenza.

Da attore teatrale, di cinema e televisione, da un quindicennio è uno dei conduttori più lodati, con discese ripide e ripide risalite, ma da qualche tempo stabile punto di riferimento pre-serale con L’Eredità su Rai1.

Eppure suo padre la sognava in altra veste.

Da chirurgo sperava di avere in casa l’ennesimo laureato. E con un lavoro riconosciuto; uno dei primi dolori che gli ho dato è quando mi sono congedato da ufficiale dei carabinieri e al rientro in famiglia, davanti ai documenti universitari belli apparecchiati, ho deciso di non nascondere la verità: “Dobbiamo sederci e parlare”.

Un outing.

Premessa: se non avessi il terrore, e sottolineo il terrore, degli aghi, avrei seguito l’esempio di mio padre, ma sarei svenuto con la siringa in mano.

Per carità.

Era l’aprile del 1986 e fu l’inizio di un dramma.

Proprio non se l’aspettavano.

No, eppure con mia sorella ci portavano all’Opera o al cinema per vedere film come Indagine su un cittadino…; poi a otto anni il primo vero segnale con Aggiungi un posto a tavola e lì, credo, alla fine, al momento della colomba, mi sono incantato davanti alla reazione estasiata del pubblico; (cambia tono) la botta finale è arrivata con il maestro (Gigi Proietti) e A me gli occhi please: ricordo in maniera nitida, quasi alla moviola, dove ero e cosa ho pensato all’uscita del teatro.

Cosa?

Mentre slegavo il motorino dal palo, riflettevo: “Questo signore, da solo, fa ridere e commuovere. Che mestiere fantastico”. Da lì è scattata la paura di ammetterlo, anche a me stesso; comunque alla fine, dopo la mia dichiarazione, il capolavoro è stato di mamma: per un paio di anni si è “vestita” da Onu, e ha ricucito tra me e mio padre, anche bluffando con l’uno e con l’altro sulle nostre reali intenzioni. “Papà ha detto che potrebbe venire a vederti”; “A Flavio farebbe molto piacere se andiamo da lui”.

Suo padre?

Si tranquillizzò quando si rese conto del mio impegno, della dedizione; lui traduceva il “voglio diventare attore” con “non ho voglia di fare nulla”; per un po’ gli restò il timore per il futuro. “Se va male, cosa farà?”.

Questa domanda non se la poneva?

Allora no; (tono basso) sabato scorso sono stato in piazza del Popolo, a Roma, per la Manifestazione dei bauli: lì ho trovato attori e attrici straordinari, protagonisti anche di spettacoli al Sistina, senza lavoro da più di un anno.

Nella vita da cosa è sfuggito?

Italo Calvino sosteneva che “io” è il pronome più pericoloso, lo definiva il pidocchio del discorso: questo è un mestiere in cui è facile incapparci, quindi è necessario mantenersi ben piazzati sulla terra.

Voi artisti, spesso…

(Blocca la domanda) Qui penso a De Chirico quando ripeteva: “Bisogna essere artigiani”.

Niente artista.

Per me lo è il maestro Proietti: non possiamo rientrare nella stessa definizione; una volta un grande insegnante di sci mi disse: “Voi scendete, salvate la pelle. Sciare è un’altra cosa”; (sorride) lo capii bene una mattina, quando non sapevo di stare sulla stessa funivia con Marc Girardelli…

Uno dei grandi con gli sci.

Era vestito come uno scappato di casa, con i cerotti sulle racchette; appena è sceso abbiamo capito il nostro errore di valutazione; (ritorna a prima) sono un artigiano.

Lino Guanciale racconta: “Proietti ci ha insegnato a non dare del tu al palco”.

A noi diceva: “Se salite, è guerra, pure per cinque minuti, non è che ai saluti vi potete scusare”; quindi sì, è un gioco, ma uno si deve preparare bene, altrimenti alla fine ti può segnare anche l’ultima squadra del campionato; i francesi, prima di entrare in scena, dicono “andiamo a vendere cara la pelle e a difenderci”.

La giusta tensione.

Sempre alla scuola di Proietti, per una settimana, venne Arnoldo Foà: “Ragazzi, cercate sempre il signor Qualcuno”. Noi, lì per lì, non capimmo. E allora: “Ero in tournée: una domenica pomeriggio ero in un paesello sperduto, e pensavo ‘ma tanto chi deve venì?’. E l’ho fatta un po’ così, perché siamo esseri umani, e quando già pensavo al ristorante, mi ritrovo in camerino un critico famosissimo. Mi volevo ammazzare”.

Quindi…

È fondamentale darsi una necessità, pensare che c’è chi è uscito da casa, ha pagato il biglietto, ha preso la pioggia e ha cercato il parcheggio; vorrei morire e mettere sulla lapide: non era mai svogliato.

Accanto a quella di Gassman “mai fu impallato”.

Chi ce se mette davanti a lui! L’altro giorno mi ha fermato Giampiero Mughini e mi ha reso partecipe di un complimento pazzesco: “Con la mia compagna ti guardiamo e ci dai l’idea di divertirti tutte le sere”.

Molti dichiarano di seguire L’Eredità: più forte Barbarossa o D’Alessio?

Bella sfida; Gigi si confronta con Virginia Raffaele, anche Luca è pazzesco, poi c’è l’ex direttore di Rai1, Andrea Fabiano: è un cecchino micidiale; (ride) il massimo è Diego Abatantuono: quando non la indovina mi manda un audio di un’ora dove spiega che era sbagliata la parola. Un capolavoro. I suoi messaggi sono da commedia all’italiana.

Si è beccato anche qualche accusa, come da Vittorio Feltri: “Chi prepara i quesiti è ubriaco”.

(Prende tempo) Avessi ancora tutti i capelli neri ci rimarrei male, ma con gli anni ho imparato che tutto rientra nel prezzo del biglietto. E poi è un attimo, ma ogni giorno mi sveglio e mi ripeto che la vita è un regalo: ho il lavoro che desideravo, i miei mi hanno sostenuto, anche prima di ingranare, anche quando non andavo in vacanza, non spendevo una lira e cercavo qualche lavoretto per permettermi lampi d’indipendenza.

Che lavoretti?

A volte disc jockey, in altre stavo davanti alla porta dei locali..

Lei stava a “Il locale”, dove sono nati molti artisti…

Lì c’erano Papaleo, Britti, Zampaglione, Dario Bandiera, Mastandrea. Gente di belle speranze.

Il più bravo di allora.

Di Rocco e Valerio lo capivi, percepivi una certa irregolarità, come dei numeri “10” da grande squadra di calcio.

È andato in tournée con Britti e Papaleo.

Ecco, il talento puro è Britti: entrava in scena con un assolo di chitarra, un assolo così intenso che a un certo punto era costretto a staccare una corda per dimostrare che non era un disco, ma tutto dal vivo; una sera, anche io stupefatto, lo guardai e gli chiesi: “Ma quante mani hai?”. Venne giù il teatro per le risate; a casa l’ho visto farsi la ritmica, da solo, mentre si slacciava gli anfibi; cioè, riusciva a dare ritmo anche con le scarpe.

Lei era teso prima di salire sul palco?

Lo sono ancora; se lo spettacolo è alle ventuno posso parlare al massimo fino alle 19.20; staccare con il mondo è un regalo che concedi a te stesso, ti concentri solo su quella “cosa” che insegui da quando hai otto o nove anni; ripeto: io l’ho visto Luigi Proietti in arte Gigi Proietti dietro le quinte: silenzio, si preparava e iniziava la guerra.

Così ancora oggi.

Magari sono diventato un pochino più bravo a non mostrare la tensione, ma guardo sempre la porta e penso alla fuga, mi ripeto “ma chi ce lo fa fare di morire d’infarto tutte le sere?”; ma dopo quella paura si tramuta in bello.

Secondo Totò, “la vita non si sceglie. Si accetta”.

È vero; (pausa) la differenza è solo sul come reagisci, e non solo passivamente: la puoi accettare buttando via tutto dal tavolo o con un sorriso; quando questa estate, con altri amici con cui lavoro in una terra confiscata alla camorra, siamo andati dagli operai della Whirlpool in protesta, sentivo un imbarazzo, perché lì poteva scattare in automatico un “ma questo che vuole”. E invece no, ti esprimono un “grazie” perché non li hai dimenticati. Ed è come con Patrick Zaki o con la famiglia di Regeni: dimenticare è la condanna a morte (gli arriva un messaggio, l’immagine del display del telefonino è quella di Paolo Borsellino).

Popolizio sostiene…

(Anche qui ferma la domanda) Oh, comunque lei cita tutti quelli mejo de me; ma uno scarso, no? Massimo Popolizio è fantastico. (Silenzio) Qual è la domanda?

Sostiene che quello dell’attore è un mestiere di rinunce.

Allora, ho rinunciato a molti Natali, ai Capodanni, ai compleanni, ma non ci ho pensato più di tanto; sono cresciuto in una famiglia molto stretta che da sempre definisco come un branco, e quando è morto il capobranco (suo padre, ndr) siamo scoppiati, ci siamo dovuti allontanare per non sbranarci pur amandoci; (cambia tono) per questo c’è stata la rinuncia ai figli.

Perché?

Cresciuto con quel tipo di presenza, magari a volte troppa, non mi sono mai ritrovato da solo davanti a un problema; per come ho vissuto cos’è l’amore dei genitori verso i figli, non potevo sopportare l’idea che un giorno, a me, un pargolo mi dicesse: bello il film, bella la tv o il teatro, ma non ci sei mai.

Rimpianto.

È stata una rinuncia naturale, non formalizzata.

Nel 2007 ha dichiarato di non saper godere il momento.

Ci ho lavorato sopra, ho imparato a godermi gli attimi perché poi non lo sai; all’Eredità arrivano di continuo lettere e io e Fabrizio (uno degli autori, ndr) le leggiamo. Sono storie di dolore vero, di malattie, e c’è chi chiede solo un saluto; così ci dobbiamo rendere conto che, come spiegava Mastroianni, “ci pagano per aspettare”; qui ci pagano per dire “ghigliottina!”; (torna a Mughini) quando Giampiero mi dice “sembra che ti diverti”, ha ragione, perché non sono solo un privilegiato, ma uno stra-fortunato.

Magari con merito…

E allora torno a Proietti quando ci metteva in guardia: “Regà, io ve lo insegno il mestiere, ma nonostante quello che vi trasmetto può lasciare poveri e infelici”.

Quando ha capito di avercela fatta?

Che intendiamo?

Che poteva vivere di questo mestiere.

Lo scatto c’è quando la parola “successo” non la utilizzi da sostantivo, ma da participio passato.

Oggi è 25 Aprile: guerra di Liberazione o guerra civile?

Calamandrei ha insegnato che ci accorgiamo di quanto è importante l’aria quando ce la levano. È uguale per la libertà e la democrazia; siamo stati liberati senza se e senza ma, e ce la dovremmo meritare, non darlo per scontato.

Un suo vizio?

Mannaggia, le sigarette.

Scaramanzia.

A teatro mi allaccio per tre volte una scarpa; se sul palco trovo un chiodo storto, lo prendo, e a fine tournée ne ho lo zaino pieno; infine se cade a terra il copione, lo batto tre volte.

Chi è lei?

(Sorriso più sospiro) Lo dovrebbe chiedere al mio analista; però sfrutto l’epitaffio di Cyrano: “Qui riposa Cirano Ercole Saviniano Signor di Bergerac, che in vita sua fu tutto e non fu niente!”. E aggiungo: sono uno fortunato.

 

E l’Agnellino feroce scambiò la Superlega per il privé dei cafoni

A parte i lingotti ereditati e le sopracciglia ben coltivate, non molto altro si vedeva a occhio nudo dello scalpitante Andrea Agnelli, presidente della premiata ditta Juventus, 9 scudetti negli ultimi 9 anni, appena finito in fuorigioco con la sua bella trovata della Superlega dei super ricchi, super arroganti. Diventata in meno di 48 ore una super figuraccia. E con gli ex amici pallonari, come i fraterni Aleksander Ceferin e Urbano Cairo, che lo chiamano in pubblico tre volte Giuda e una volta serpente. Perché anche nel mondo finto del calcio, fare un golpe vero è imperdonabile. Ma provarci e fallire è molto peggio: si finisce in mutande a bordo campo con il naso rosso per la vergogna, mentre il pubblico lancia monetine di compatimento.

Credendosi predestinato a tutto, l’ancor giovane Andrea non s’aspettava la sconfitta. Tantomeno dai mille club straccioni, che mediamente valgono un polpaccio di Ronaldo, per non dire dalle moltitudini plebee dei tifosi. Che hanno osato interferire con i disegni finanziari degli squadroni più forti d’Europa. I dodici eletti, guidati da Florentino Pérez, padrone del Real Madrid, dal suo scudiero Agnelli, e seguiti dalla schiera di miliardari cinesi, oligarchi russi, sceicchi foderati di petrodollari. Cioè tutti quelli che da una decina di anni, investendo nel pallone, corrono solo per vincere, vincere, vincere, sui campi planetari della Borsa, e per necessità anche in quelli degli stadi, ipnotizzati molto più dagli affari che dal gioco del calcio, anche se fanno finta di occuparsene. E che avrebbero voluto un campionato elegante, ma soprattutto esclusivo, per moltiplicare i miliardi di euro dei diritti tv e tutti i vantaggi delle élite globali. Un campionato abitato solo dalle star milionarie del dribbling – calciatori, allenatori, avvocati e procuratori – più o meno come il sogno cafone dei privé, dove l’immaginario degli arricchiti e quello dei malavitosi si disseta dalla stessa bottiglia di Cristal millesimato, offerto dall’identica Escort.

A perfezionare il capolavoro della sconfitta, l’Agnelli Cadetto ci ha messo pure un’intervista al nuovo giornale di famiglia, Repubblica, regalandoci un pezzo pregiato del nuovo giornalismo senza paracadute, in cui non sai se è più inconsapevole l’intervistatore o l’intervistato. Il quale alle nove di sera di martedì scorso dà per scontata la nascita della Superlega (“andrà avanti al cento per cento”) che invece nella notte si scioglie in nebbia. E diventa un mal di testa la mattina dopo.

Nato nel 1975 a Torino, secondogenito di Umberto Agnelli e Allegra Caracciolo, Andrea è cresciuto nella bambagia, come si addice alla famiglia regnante, ma anche nello spavento castale, come ai tempi remoti di “Vestivamo alla marinara”, quando i piccoli Susanna e Gianni venivano tormentati dalla governante: “Don’t forget, you are an Agnelli”. Essendo per di più, dopo la morte improvvisa del fratello più grande Giovannino, anno 1997, il solo erede maschio a indossare quel cognome, nella notevole nidiata dei 150 familiari. Tutti finiti sotto l’ombra freddina del cugino maggiore, John Elkann, che dalla cima del suo trono Exor, toglie o concede incarichi in tutte le province dell’ampio regno.

Dicono gli esegeti della dinastia che Andrea volesse fin da bimbo la Ferrari, nel senso di fabbrica e scuderia. Il cugino per dispetto la promette (e prontamente la nega) a Lapo che d’abitudine le Ferrari le fonde o le schianta. In compenso, nell’anno 2010, affida ad Andrea la Vecchia Signora ancora reduce dai malanni di Calciopoli, lo scandalo delle intercettazioni, i processi a Moggi e Giraudo, le condanne, la retrocessione in Serie B, prima e unica volta nei suoi 124 anni di storia, con tutto da ricostruire per i suoi 14 milioni di tifosi depressi.

Andrea ci mette la passione e il puntiglio. Oltre a una miniera di soldi. All’epoca è trentenne, ha superato i piccoli abissi del college a Oxford, la Bocconi, l’apprendistato alla Iveco, alla Piaggio, alla Philip Morris e persino una stagione in Fiat dove fatalmente si è scontrato con il cugino. Per questo, quando ottiene l’incarico di presidente e approda allo Juventus Center di Vinovo, tra gli stanchi giocatori “che si allenavano di malavoglia”, vuole a tutti i costi trasformare il suo parcheggio dorato in un trionfo.

Sceglie Giuseppe Marotta come dirigente sportivo. Nedved vicepresidente. In panchina ingaggia prima Antonio Conte poi Massimiliano Allegri, vince scudetti e coppe. Arriva due volte in finale Champions League (perdendole entrambe). Inaugura lo Juventus Stadium. Raddoppia il budget da 200 a 500 milioni. E in cima alla torta ci mette i 300 milioni di ingaggio per CR7.

Una montagna di trionfi e una di debiti. Oltre al buco nero dei biglietti trafficati con gli ultras, anno 2014, gli incontri con i capi delle curve, il sospetto, smentito dall’iter giudiziario, di avere avuto contatti con la ’ndrangheta. Una sequenza di inchieste finite per ora con una condanna federale, e un bel po’ di cattiva stampa. Ricambiata da un silenzio ostinato, non si sa se per riservatezza torinese, spocchia, o legittima difesa.

Unico mantra dei suoi anni migliori: “La nostra storia ci obbliga a vincere”. Che vuol dire niente inutili buonismi. Nessun rimorso se si vince sempre, se si vince troppo. Accettando il peso di essere antipatici a tutti, tranne che ai propri tifosi, perché se sei simpatico, significa che stai perdendo.

Ed è questa ossessione il veleno che ha condotto l’Agnellino a immaginare la Superlega: un calcio da Playstation, da gara muscolare tra iper campioni, strapagati. Adrenalina per i nuovi tifosi che non concepiscono più le lentezze di una partita, il sacrificio, la favola di una piccola squadra che batte quella grande, e che a forza di pretendere gli highlight, finiscono per dimenticarsi del gioco. E persino degli zar che lo governano. Il piccolo golpe (per ora) è fallito. L’immenso Gigi Riva ha scritto: “Andrea Agnelli è il bambino che porta il pallone e che pretende non solo di giocare sempre, ma anche di scegliere le squadre”. E meglio non si poteva rovesciare in rete.

Il grande gioco delle parole nel dizionario della risata

Mi hanno arrestato per aver detto nove parole: culo, palle, succhiacazzi, figa, fanculo, figliodiputtana, piscio, merda e tette. Lenny Bruce (1966)

Come dicevamo, ogni gag modifica un frame (schema narrativo) diventandone una parodia. Tramite operazioni che possono essere logiche, analogiche, o anche aleatorie (come nel cut-up, la tecnica letteraria Dada che consiste nel ritagliare con le forbici frasi da altri testi per poi combinarle a caso: negli anni ’60, William Burroughs ci componeva romanzi lisergici), la gag introduce nel testo semiotico (linguistico, visivo, gestuale, musicale, filmico, &c.) un percorso di senso non pertinente (allotopia), cioè una sorpresa che diverte per i motivi già visti (Qc #46 e #48). Se sai cosa accade a livello micro nelle gag linguistiche, puoi creare gag più efficaci in ogni arte. Cominciamo da alcuni fondamentali.

 

ELEMENTI DI SEMANTICA

La semantica studia il significato di parole, frasi e testi. Distingue semi (i tratti distintivi del significato), lessemi (le combinazioni virtuali di semi) e sememi (le combinazioni di semi diventate parole, con effetto di senso). Greimas (1966) classifica i semi in nucleari (figurativi, caratterizzano il lessema in modo stabile) e contestuali (astratti, cambiano in base al contesto; sono detti anche classemi). Per esempio, nel lessema cazzo, un sema nucleare è appendice, e semi contestuali sono eretto e flaccido.

Un semema indica uno o più oggetti: il cazzo è un genitale, ma il semema cazzo indica meno oggetti di quelli che indica il semema genitale. Per riferirsi a questa caratteristica dei sememi, si parla di intensione (indicare meno oggetti) e di estensione (indicare più oggetti): il semema genitale ha maggior estensione del semema cazzo, il semema cazzo ha maggior intensione del semema genitale.

 

LIVELLI DI ARTICOLAZIONE DEL LINGUAGGIO

Il linguaggio è formato da unità che si articolano a vari livelli. Le unità del significante (cioè dell’espressione fonica o grafica) sono:

livello 0: tratti distintivi;

livello 1: fonemi / grafemi, sillabe, parole;

livello 2: sintagmi, frasi.

Le unità del significato (cioè del concetto) sono:

livello 0: semi;

livello 1: sememi / morfemi / ipolessemi, lessemi, proposizioni;

livello 2: sviluppi (sequenza di proposizioni descrittive, narrative, &c.).

Il livello 3, per entrambi, è il testo.

 

INSIEMI DI PAROLE

Per un comico, gli insiemi di parole sono una manna. “Ci sono 400.000 parole nella lingua inglese, ma sette non le puoi dire in tv. Le sapete, no? Le sette parole che non si possono dire in tv: merda, piscio, fanculo, figa, succhiacazzi, figliodiputtana e tette” (George Carlin, 1972). Le parole formano insiemi di diverso tipo, a seconda che si considerino:

1) il significato assieme al significantefamiglie di parole: originano da una parola-madre (per esempio, figa) come derivate (figata, figame), alterate (figona), composte (sfiga);

parole con lo stesso affisso: per esempio –aggine (cocciutaggine, scempiaggine, lombaggine).

2) il solo significantepolisemia: stessa parola con significati diversi, ma apparentati o derivati (per esempio, pisello, che è sia il vegetale, sia il cazzo);

omonimia: stessa parola con significati diversi, ma non apparentati o derivati (per esempio, fallo, che è sia il pene, sia la seconda persona dell’imperativo del verbo fare unita al pronome clitico lo con raddoppiamento fonosintattico; e pene, che è sia il cazzo, sia il plurale di pena). Fallo è omonimo in senso stretto (in entrambi i significati, la pronuncia è uguale: è un omofono). Pene è omonimo in senso largo (nei due significati, l’accento cambia da pène a péne: è solo un omografo).

3) il solo significatosinonimia: parole diverse, stesso significato (per esempio, fessa, fregna, mona, passera, patata, patonza, sorca, topa, vagina, vulva). I sinonimi che sono varietà regionali diverse sono detti geo-sinonimi (esempio: il napoletano bucchiacca e l’italiano vagina, oppure il toscano bischero e l’italiano pène). A Benigni bastò una litania di sinonimi (gattina, chitarrina, fisarmonica, bernarda, gnocca, pistolino, pipino, randello, banana, asta, verga, mazza, cetriolo, pesce, uccello, sventrapapere, spaventapassere) per creare uno sketch che resterà nella storia della tv italiana (shorturl.at/hktQ5);

iponimia: il significato di una parola è incluso nel significato di un’altra (per esempio, cazzo e fica sono iponimi di genitale; per converso, genitale è iperonimo di cazzo e fica). Serie iponimica: cazzo – genitale – organo;

meronimia: una parola indica la parte di un intero (per esempio, glande è meronimo di cazzo; per converso, cazzo è olonimo di glande);

solidarietà semantica: una parola ricorre di preferenza con altre (per esempio, puzzolente ricorre con piscio, ma non con nove). È all’origine del priming semantico, fenomeno cognitivo per cui le parole in solidarietà semantica sono elaborate più rapidamente di quelle che non lo sono;

antonimia: parole di significato contrario (per esempio, racchia/figa). Gli antonimi grammaticali sono creati con prefissi (per esempio, fortunato/sfortunato). Strano: esiste sfigato, ma non c’è figato;

complementarietà: antonimi che si escludono a vicenda: eretto/barzotto;

inversione: due parole esprimono le due direzioni di una relazione semantica (per esempio, dare/prendere);

campo semantico: insieme di parole che hanno una relazione di significato (per esempio, bisturi, coltello, raschiatore, periostomo, scalpello, sonda, staccatendini, tenaglia sono tutti attrezzi chirurgici);

contesto semantico: non sempre i sinonimi sono interscambiabili. In è sinonimo di dentro, ma non sempre. “Pisciare in una piscina e pisciare dentro una piscina sono due cose molto diverse” (Demetri Martin).

(53. Continua)

I rifugiati rimandati a casa: “La Siria è un Paese sicuro”

La Capitale della Siria, Damasco, è un luogo sicuro in cui fare ritorno: il primo Paese europeo a stabilirlo ufficialmente e a revocare permessi di residenza ai cittadini dello Stato di Assad, fuggiti dal conflitto in corso da ormai dieci anni, è la Danimarca. Una scelta del governo condannata dall’Unione europea, che ricade solo su alcuni rifugiati originari di particolari aree, come Damasco, e che lascia fuori dalle liste di chi deve fare ritorno obbligatorio in patria due categorie di richiedenti asilo: quanti possono dimostrare di temere per la propria vita e chi può essere obbligato ad imbracciare le armi nell’esercito di Assad, una volta rimesso piede in Siria. Una clausola, quest’ultima, che tutela in particolare gli uomini molto più delle donne. Oggi sono oltre 35mila i siriani che ormai da cinque anni vivono, studiano, si sono sposati e lavorano nello Stato: tra loro a 185 è già stato negato il rinnovo del permesso, altri 500 rimangono in attesa dei documenti che sono in via di “rivalutazione”. Alle critiche, subito piovute sulle autorità da ong, nazionali e straniere, e altre istituzioni, Copenaghen ha risposto ribadendo che i permessi concessi erano solo “temporanei”, come la protezione assicurata ai migliaia che hanno cercato rifugio da terrore, bombe e morte. Se durante l’esodo dalla ragione mediorientale la Danimarca ha accolto oltre ventimila persone, le richieste d’asilo nel Paese nel 2020 sono state solo poco più di 1500: un numero così basso è stato registrato solo alla fine degli anni 90. Ma nella nazione che per prima ha firmato la Convenzione per i rifugiati dell’Onu nel 1951 le politiche dei social democratici al governo, in tema di immigrazione, sono ormai indistinguibili da quelle della destra più conservatrice. A marzo scorso la premier Mette Frederiksen aveva preannunciato: “Il nostro obiettivo è avere zero richiedenti asilo, non devono arrivare troppe persone altrimenti la coesione sociale del Paese scomparirà”. Una dichiarazione che ha fatto eco a quella chiosata dal ministro dell’Immigrazione, Mattias Tesfaye, che vuole aiutare le “persone nei loro Paesi d’origine”, perché “molti di quelli che arrivano non hanno bisogno di alcuna protezione”.

Affare Wirecard: la Merkel e la strana missione in Cina

Ora che sta per lasciare la scena politica che ha dominato per ben 15 anni, la potente cancelliera Angela Merkel vede la propria autorevolezza messa in discussione dagli avversari e, probabilmente, dietro le quinte anche dai colleghi del fronte cristiano-democratico. Chiamata a rispondere al Bundestag, il Parlamento tedesco, sul proprio sostegno accordato alla società Wirecard durante una visita di Stato in Cina, ha dato una risposta considerata troppo sibillina. La leader del blocco cristiano-democratico ha risposto alla commissione di inchiesta che “non c’era motivo di credere che nel 2019 Wirecard stesse commettendo una frode”. Due anni fa, al cospetto delle autorità di Pechino, Merkel fece pressioni per conto della società bavarese risultata insolvente.

L’anno scorso il comitato interpartitico parlamentare aveva chiesto di ascoltare alcuni ministri dopo che era stato scoperto un buco di 1,9 miliardi di euro (2,3 miliardi di dollari) nelle casse dell’ex società finanziaria quotata al DAX.

Intanto l’amministratore delegato di Wirecard, Markus Braun, rimane agli arresti con l’accusa di frode, manipolazione del mercato e riciclaggio di denaro, mentre il direttore operativo, Jan Marsalek, è fuggito in Bielorussia entrando nella lista dei ricercati dall’Interpol. Tutti gli investitori nel frattempo hanno perso almeno metà del denaro stanziato. A sentire Merkel, il supporto degli interessi commerciali tedeschi fa parte delle facoltà e doveri della Cancelleria. “Wirecard AG non ha goduto di alcun trattamento speciale durante il viaggio”, ha puntualizzato la longeva leader. All’epoca, Wirecard stava progettando di rilevare una società cinese di tecnologia finanziaria chiamata AllScore Financial. La società tedesca è stata da allora criticata per l’acquisizione aggressiva di altre aziende, spesso al di sopra del valore di mercato, per mascherare il proprio fallimento nella crescita organica. Fabio De Masi, del partito socialdemocratico, Spd, ha detto che la testimonianza della Merkel ha lasciato ancora molte domande inevase. Usando un perfido paragone gastronomico, De Masi ha stigmatizzato: “Quando vai a trovare l’uomo più potente della Cina, è strano fare pressioni per qualche chiosco di patatine fritte”. Danyal Bayaz del partito dei Verdi ha fatto notare che la tempistica del viaggio della Merkel è stata cruciale dato che erano già stati diffusi avvertimenti sull’insolvenza della Wirecard. Per molti, l’affare Wirecard è la dimostrazione della cultura di complicità che esiste tra le imprese tedesche di blue-chip e l’establishment politico.

L’ex ministro della Difesa del governo Merkel, Karl-Theodor zu Guttenberg, è stato infatti sottoposto a un’audizione più approfondita in quanto nel 2019 era un lobbista di Wirecard. E Merkel ha confermato alla commissione di aver avuto una conversazione di 45 minuti con zu Guttenberg prima del suo viaggio, ma non di non essere in grado di ricordare se Wirecard fosse stata menzionata. “Per me è normale accettare richieste di conversazioni da ex membri del mio governo”. Anche il ministro delle Finanze, Olaf Scholz, è apparso davanti alla commissione per difendere la propria posizione come capo ultimo dell’autorità di supervisione finanziaria della Germania, BaFin, che è stata sottoposta a inedite critiche dopo lo scandalo. Scholz, che corre come candidato cancelliere socialdemocratico alle elezioni di quest’anno, ha detto di aver implementato delle riforme e rafforzato i poteri della BaFin come diretta conseguenza degli eventi dello scorso anno. La Commissione di inchiesta si è finora riunita per più di 300 ore e ha esaminato centinaia di migliaia di pagine di documenti.