India e Virus: anche i ricchi piangono

“Fossi stato ricoverato una settimana dopo, forse non sarei qui a raccontarlo”. Prithvi Salian, 29 anni, impiegato nell’industria navale a Mumbai, si considera un miracolato. Ieri in India per il terzo giorno consecutivo, i nuovi casi di Covid sono stati 346.786 mila, un record mondiale che travolge in particolare il Maharashtra, dove si trova Mumbai (7.221 nuovi casi venerdì). Salian è stato dimesso una decina di giorni fa: “Quando sono risultato positivo credevo che la mia età mi avrebbe protetto”. Invece i danni polmonari hanno portato al ricovero, e pochi giorni dopo è toccato anche a sua madre e sua sorella: “A quel punto, era già diventato impossibile trovate un posto letto in un ospedale privato – a Mumbai molti hanno una assicurazione privata che copre le spese, e nessuno si fida delle strutture pubbliche. Dopo tre giorni, e solo grazie a conoscenze, sono state ricoverate. Mia sorella, che ha 25 anni, in terapia intensiva”.

E non è tutta colpa della famosa variante a “doppia mutazione”, che si pensa si sia originata in India spiega il dottor Akshay Yadav, vicepresidente del Network giovani medici indiani: “Con il lancio delle vaccinazioni, la gente ha iniziato a sentirsi sicura, sono sparite le mascherine, il distanziamento. Così i più giovani si sono ammalati in modo serio, portando il virus a casa” spiega il medico, che lavora nell’ospedale pubblico Sion. “Ricoveriamo ventenni senza comorbità che presentano danni polmonari importanti. Non è diminuito il tasso di infezione tra i più anziani, è aumentato drasticamente quello tra i più giovani”.

Una situazione spaventosa dal punto di vista medico e personale: “Ho 25 anni, mi sono già infettato a ottobre e all’epoca mi dicevo pazienza, non rischio la vita. Ora non è così, e il pensiero genera ulteriore stress”. Al tempo stesso, smentisce la carenza di posti letto: “Nella mia struttura siamo al limite ma posti letto e ossigeno ci sono. La classe media cerca strutture private, non si fida degli ospedali pubblici e sbaglia: da noi il triage è eccellente”. Estremi tipici della cosiddetta Maximum City spiega Sameer Mehta, giornalista freelance: “All’opposto di un anno fa, uno dei distretti più colpiti è l’esclusiva Malabar Hill, quartiere tra i più ricchi d’Asia”. Stando a una analisi del quotidiano Indian Express, il 90% dei casi è concentrato nelle aree più ricche della città e solo il 10% nelle baraccopoli o slum. Secondo Mehta, l’errore delle autorità cittadine, che ora hanno imposto un lockdown più duro, è stato non prevedere che la nuova variante, diffondendosi a tassi senza precedenti, avrebbe investito la metropoli in poche settimane: “Se il governo centrale è stato criticato per aver portato avanti manifestazioni politiche e aver consentito un festival hinduista che ha radunato milioni di persone, a livello locale la stalla è stata chiusa quando i buoi erano scappati. Mumbai è il cuore economico della nazione, è comprensibile il timore di chiudere tutto ma, se da un lato non puoi prevedere una variante, dall’altro la mancanza di ossigeno non è scusabile”. Concorda il dottor Vitthal Salve, di Chhattisgarh, che da tempo studia la situazione di Mumbai: “Dall’amministrazione locale ai privati, tutti cercano forniture di ossigeno e le autorità non erano preparate”. “Il governo si è concentrato troppo sulle vaccinazioni, mentre la popolazione è stata negligente. Il risultato è stata la catastrofe”. Secondo Pratik Jain, 32 anni, la richiesta di ossigeno e posti letto privati su Whatsapp è incessante: “Il mio cellulare non smette di suonare. A differenza della prima ondata, ora a essere colpiti non sono conoscenti ma familiari, amici, colleghi. La mia vicina di casa è stata ricoverata a soli 35 anni. Tanti si curano a casa, e cercano ossigeno” racconta. “Il mercato nero di bombole, ma anche di alcuni medicinali come il Remdesivir, è un problema”, ammette il dottor Dnyaneshwar Dhobale Patil, dell’ospedale pubblico JJ Hospital Mumbai. “La mutazione è più virulenta e con i numeri di Mumbai (circa 20 milioni di abitanti, ndr) è arduo assicurare posti letto e ossigeno. Al momento la mia struttura regge, è stato chiesto di posporre interventi non urgenti, per risparmiare ossigeno”.

Piuttosto, secondo Patil, si sarebbe dovuto lavorare su altri fronti: “Sono stati aumentati i posti letto, ma mancano medici e infermieri. Servono incentivi e retribuzioni in linea con il rischio che si corre”. Sull’altro fronte, i cittadini sono spaventati. E sfiduciati: “Questa è l’ondata dei colletti bianchi” spiega Jaya Shaikh, impiegata 45enne. “Nei mesi scorsi gli uffici sono stati riaperti al 50%, bisognava andare al lavoro ma i treni erano contingentati, così abbiamo condiviso i servizi di car sharing” ricorda. “Inoltre, è iniziata la stagione calda e umida, il meteo ha superato i 35°: indossare la mascherina tutto il giorno è faticoso, qualcuno ha smesso”. Un quadro complesso: “C’è stata generale disattenzione. Gli anziani che per paura non si sono vaccinati, ora lo pagano. Si dice che i dati ufficiali siano sottostimati. Parlando di carenze di ossigeno, i media hanno innescato il panico e il raddoppio dei prezzi. Insomma: una lezione che spero altre nazioni imparino”.

 

Coprifuoco alle 23 solo con scontrino: “IoApro” cambia nome in “IoChiudo”

Caro direttore, non state tributando il giusto riconoscimento al piano per l’inserimento lavorativo dei giovani del Governo di centrodestrasinistra incalzato dai presidenti di regione guidati dal leghista Fedriga. Bisogna riconoscere a Lega e a Iv che c’è del genio nell’aver preteso la riapertura dei ristoranti anche al chiuso e aver imposto di tenere chiuse le scuole superiori. Un grande disegno per formare una generazione di camerieri. Il premier, in maniera avventata, aveva promesso di aprirle al 100%, per poi scendere al 70, ma loro le volevano più chiuse, almeno al 60, anche in zona gialla. Pazienza se tra i minorenni ci sia un aumento del 50% di richieste di aiuto e se uno studente su quattro sia a rischio dispersione scolastica. L’essenziale è che le lezioni riprendano subito – ha tuonato Fedriga – riferendosi però a quelle individuali in palestra. Le scuole, spiega Fedriga, non possono riaprire perché c’è il problema dei trasporti. nel senso che in un anno le regioni non hanno fatto nulla per risolvere il problema dei trasporti. Forze ostili al rilancio del settore servizio ai tavoli hanno però imposto il coprifuoco alle 22. Inutilmente Fedriga, con Toti e Cacciari hanno fatto presente che non basta riaprire i ristoranti: bisogna pure dare il tempo a chi cena fuori di tornare a casa, spostando il coprifuoco alle 23. L’ipotesi di consentire di sforare il coprifuoco ai clienti che esibiscono lo scontrino ha scatenato le proteste dei ristoratori di “Io Apro” che hanno subito dato vita al movimento “Io Chiudo”. Peccato: la mozione-Toti avrebbe garantito il rispetto distanziamento durante la passeggiata per digerire, non essendo molte le famiglie che hanno i soldi per andare a cena fuori. A risolvere il nodo-trasporti ci ha pensato il governo: dei 25 miliardi di Recovery destinati ne investe 12 sulla Tav e appena 1,7 sui treni regionali. In caso di futura pandemia, invece di recludere gli studenti in casa per non affollare gli autobus, li spediremo a scuola a Lione.

Taiwan resta a secco: la tecnologia rischia il black-out mondiale

In Italia – Nell’ultima settimana aria fresca e instabile ha ancora indugiato generando rovesci e temporali sparsi, anche forti grandinate domenica scorsa a Roma, Olbia e Palermo, martedì intorno a Udine e giovedì a Forlì, e qualche nevicata a 1.000-1.500 metri dalle Alpi, alla Sardegna, alla Sila. Piogge abbondanti da 30-50 mm lunedì presso Otranto e giovedì sul basso Lazio, mentre a parte gli acquazzoni irregolari il Nord è rimasto più asciutto. La seconda decade di aprile è risultata una delle più fredde da decenni in tutto il Paese con temperature sotto media da 1 a 3 °C (all’osservatorio di Parma tocca risalire al 1958 per trovare una metà di aprile così fresca), tuttavia questo weekend sta finalmente regalando tempo più soleggiato e tiepido, e ieri pomeriggio c’erano 23 °C a Firenze e Alghero.

Nel mondo – “Surigae”, rimasto per fortuna al largo delle Filippine, sabato 17 è divenuto il più violento ciclone tropicale mai registrato al mondo in aprile con raffiche di vento fino a 315 km/h (categoria 5). L’arcipelago, per quanto solo lambito dalla tempesta, ha comunque subito danni rilevanti e almeno 7 vittime. Siccità e incendi in Nepal, soffocato dai fumi dei quarantamila roghi divampati da gennaio, e in Sudafrica, dove a Città del Capo il “Table Mountain fire” ha bruciato la biblioteca dell’Università e lo storico Mostert’s Mill, il più antico mulino a vento ancora esistente nel Paese. Carenza idrica pure a Taiwan, dopo che il 2020 è stato l’anno più caldo di sempre e con metà della pioggia normale sulle montagne. Gli invasi da cui dipende l’industria dei semiconduttori che alimenta l’elettronica mondiale sono quasi a secco, e per tentare il salvataggio del settore le autorità hanno sacrificato l’agricoltura interrompendo le forniture d’acqua per l’irrigazione. Piogge alluvionali invece nel Nord-Est dell’Australia (oltre 400 mm in una settimana nella zona di Cairns), ma pure in Perù, Cambogia e Angola, qui con 24 morti nella capitale Luanda. Gran parte d’Europa è ancora rimasta al freddo, e in Francia la media nazionale delle temperature notturne della seconda decade di aprile (3 °C sotto norma) è stata la più bassa dal 1947 insieme ai casi del 1954 e 1978. Per contro calori straordinari ancora una volta dal Nord Africa, al Medioriente (38,4 °C a Damasco), al Caucaso, fino a Corea del Sud e Giappone (record di 30-31 °C). Caldo improvviso e inusuale anche in Alaska con i 24 °C più precoci nella storia dello Stato. L’Organizzazione meteorologica mondiale ha diffuso il suo State of the Global Climate in 2020, i cui indicatori – nonostante il rallentamento delle attività umane per la pandemia – continuano a lampeggiare in rosso sul cruscotto dell’astronave Terra: è stato uno dei tre anni più bollenti dal 1850 con 1,2 °C sopra la media preindustriale malgrado l’effetto raffreddante della “Niña”, inoltre caldo record da 38 °C nell’Artico e 54,4 °C nella Valle della Morte, il maggior numero annuo di tempeste tropicali atlantiche (30), nuovi massimi nelle concentrazioni di gas serra e dei livelli marini, 50 milioni di persone colpite da eventi estremi i cui effetti sono stati affrontati con ancor più difficoltà per colpa del Covid. Il presidente Biden ha ravvivato l’attenzione sull’urgenza climatica convocando i leader mondiali al Summit virtuale del 22-23 aprile in occasione della Giornata della Terra, da cui sono scaturiti ulteriori impegni di riduzione delle emissioni tra cui il loro dimezzamento al 2030 proprio da parte degli Usa, quando peraltro era appena giunta notizia dell’accordo Ue sulla neutralità climatica al 2050 e dell’impegno del Regno Unito a un taglio del 78% al 2035, l’obiettivo più ambizioso al mondo. La volontà sembra corale, vedremo se dalle parole si passerà ai fatti.

 

Cura senza profitto- Gesù è il buon pastore affezionato al suo gregge

Gesù presenta se stesso e dice: Io sono il buon pastore. E subito indica pure chi egli non è affatto, il suo opposto: un mercenario – che non è pastore”. Il brano evangelico che leggiamo (Gv. 10, 11-18) è tutto centrato su questa opposizione drammatica. Il pastore e il mercenario sono due figure che si oppongono fragorosamente, così come lo sono la pecora e il lupo. Bianco e nero. Dio è pastore, quello “buono” – cioè quello “vero” – e non è un mercenario, il quale invece può avere l’apparenza di uno che si prende cura del gregge, ma che pastore non è perché lo fa per soldi. Se lo fa per il profitto, allora non è “vero”: questo è il criterio di riconoscimento.

E dove si vede la differenza? Nelle parole dell’evangelista Giovanni, Gesù la spiega innanzitutto in azione più che in astratto. Il mercenario che fa? Vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde. In una manciata di parole si consuma il dramma. Curioso che non si dica “le uccide, le divora”. Certamente questo accadrà, ma avverrà dopo. Qui l’aggressione è colta nei suoi primissimi effetti dirompenti: consiste nell’essere rapiti e dispersi. È il panico, il caos, la fuga angosciosa e senza meta, il momento in cui i riferimenti sono persi. Perché il mercenario abbandona le pecore? Perché non gli importa di loro. Ecco, questo non è Dio. Dio non abbandona, e non pone condizioni per dare la sua benedizione. Non si lascia intimorire, e quindi non permette con omertà e omissione che il gregge precipiti nel caos. Non lo lascia solo. A Gesù importa del gregge. Il pastore dà la propria vita per le pecore perché le conosce: conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me. C’è un rapporto diretto, una relazione che non è di massa, ma di conoscenza reciproca, di fiducia. Non ci si può dedicare a nessuno se non lo si riconosce. La dedizione nasce da una conoscenza profonda, intima, che nulla ha a che fare con il denaro né con il puro senso del “dovere”.

Gesù guida – io devo guidare, afferma – e si prende cura perché vuol bene. E qui c’è la messa in crisi polemica del potere inteso come dominio prezzolato, che è invece proprio del mercenario. La figura del pastore viene spesso impiegata negli scritti biblici per indicare il leader. E qui non ha nulla a che fare col potere inteso come dominio e profitto. Dio, cioè l’Onni-potente, l’essere del quale non si può pensare qualcosa di più grande, è colui che si prende cura e “perde” il suo tempo a conoscere le pecore fino a perdere la sua vita. Assistiamo al capovolgimento della logica del potere. Ed è chiaro che dentro questo brano c’è una polemica di Gesù contro i capi giudaici e il loro modo di esercitare il potere. Ma anche l’annuncio che non saremo abbandonati al caos, e che il potere mercenario non sarà l’ultima parola, non l’avrà vinta. Su che cosa si fonda questa logica ribaltata del dominio? Sulla voce. In questo brano evangelico il senso che permette il riconoscimento del pastore da parte delle pecore è l’ascolto. Gesù, infatti, parla anche di altre pecore non del recinto che diventeranno anch’esse parte dell’unico gregge. Esse ascolteranno la mia voce, dice Gesù, e faranno un unico gregge. E la sua voce è per tutti: non si fanno distinzioni e non ci sono confini. No, Gesù non è un incantatore di serpenti, non ha una voce suadente e ipnotica, come molti leader mercenari d’oggi. Le pecore conoscono il pastore perché hanno appreso il timbro della sua voce nel tempo che egli ha dedicato a guidarle con cura. E non c’è bisogno di effetti visivi. La vera autorità non ne ha bisogno. Basta la voce, la nuda voce.

* Direttore de “La Civiltà cattolica” Antonio Spadaro S. I.*

25 aprile, niente “oblio” ma ricordare (tutto)

Non faccio parte di coloro che raccomandano la “terapia dell’oblio” (è il titolo di un libro di Paolo Mieli, Rizzoli, 2020, preceduto da un suo articolo, “Cosa c’entra il fascismo?”, Corriere della Sera, 28 ottobre 2018) per esortare e ripulire la storia del troppo passato. Perciò, se mi dite “25 Aprile” io vedo un mare di bandiere tricolori, la folla, la strada, i bambini, i partigiani a piedi e sui camion, donne e uomini armati che vengono avanti, con facce giovani e decise, nella foresta umana di gente che li ha aspettati come “liberatori” durante tre anni di crimini e di delitti commessi in pubblico con orgoglio dai fascisti che sono diventati la memoria irrinunciabile del passato di chi ha la mia età. In quel momento, in quel giorno, il tricolore è tornato a essere bandiera della liberazione, Lo era già stato con Carlo Alberto, nella Repubblica Romana, e con Garibaldi mentre liberava il Sud. Lo era stato nella liberazione di Trento e Trieste, e aveva sventolato sulla morte di massa (la prima nella storia) nelle trincee della Prima guerra mondiale. Del fascismo ricordo il nero, simboli, persone, gagliardetti, camicie, guanti, fasce elastiche nere ai fianchi, per apparire smilzi, stivali, parole nere, enormi, verniciate su muri bianchi (due erano sempre “guerra” e “combattere”). In classe c’erano il crocifisso e la faccia di Mussolini con gli occhi dilatati come se l’intento fosse di ipnotizzare, raro tricolore. Uno, grande, davanti alla scuola, con lo stemma dei Savoia o il “fascio” dipinto al centro del bianco, secondo i giorni. Non ricordo una sola sequenza in quel lugubre fascismo nero vissuto da bambino, in cui il tricolore sia stata la bandiera che volevano farci seguire. Ma tutto è cambiato di colpo quando l’Italia, con la collaborazione dei fascisti, è diventata un Paese occupato. Da quel momento il tricolore è diventato allo stesso tempo, e per tutti i cittadini che non volevano sottomettersi all’occupazione straniera e ai complici italiani di quella occupazione, il simbolo del Paese e quello della libertà. Oggi, 25 Aprile, giorno della liberazione dalla occupazione nazista e del tradimento fascista (unirsi all’occupazione e sterminare, fianco a fianco dell’invasore, i compatrioti italiani) sappiamo che è del tutto truffaldina l’ostentazione del tricolore in tutte le occasioni care a coloro che “ci difendono dai comunisti”. Il tricolore che ostenta sulla mascherina Giorgia Meloni (da un po’ ha abbassato la temperatura dell’esibizione) è la bandiera della Liberazione, della lotta partigiana contro l’occupazione tedesca, contro la rapina violenta di essere umani che chiamiamo Shoah.

Non c’era il tricolore fra i soldati occupanti tedeschi che, su informazioni italiane, hanno eseguito la razzia di cittadini italiani ebrei nel ghetto di Roma il 16 ottobre 1943. Non c’era il tricolore mentre venivano diligentemente eseguite le stragi di italiani, a cominciare dalle Fosse Ardeatine. E non c’erano sui treni che andavano ad Auschwitz. Si può anche evitare il riferimento a Matteo Salvini che si presenta, anche in questi giorni, con una mascherina per metà italiana e per metà secessionista (che del resto descrive il suo comportamento). Ma il fatto che CasaPound o le altre organizzazioni di rinforzo fasciste pronte a schierarsi dove ci sono Meloni e Salvini insistano a usare come identificazione il tricolore salvato dai partigiani e donato alla nuova libera Repubblica italiana non dovrebbe essere permesso come non è permessa la ricostituzione del Partito fascista. Noi ci dimentichiamo troppo spesso che la Repubblica di Salò è stato un golpe, reso possibile sia dalla fuga del re sia dal potere dell’invasore. Ma, persino se non si rievocano le barbarie, nulla di ciò che è accaduto nei tre anni neri di Salò (lo ha visto bene Pasolini) può essere giudicato uno dei due percorsi possibili per chi doveva scegliere e decidere quale Italia. La votazione che ha deposto Mussolini è stata legale, l’arresto del dittatore è stato legale, all’interno della struttura giuridica che il fascismo si era dato. Il re, fuggendo, ha compiuto un grande atto di viltà. Mussolini però è stato il traditore che ha permesso di agganciare il suo Paese all’universo concentrazionario tedesco e di farne un carcere di Hitler, dopo aver lasciato già da anni mano libera contro i suoi cittadini ebrei, dopo avere scritto e approvato le folli “Leggi per la difesa della razza”. Il tricolore dei liberatori non è la loro bandiera. Fare la pace in nome dell’oblio? Il fascismo è un corpo estraneo, nell’Italia liberata, in cui non può avere alcun ruolo, come la mafia. Il fascismo non è una opinione. È un reato grave. Oggi è il giorno per dirlo.

 

La Liberazione non è affatto superata

“La verità è che, fatta eccezione per quelli che per età lo hanno vissuto a suo tempo, cioè al tempo della Liberazione, il 25 Aprile è una celebrazione superata. L’Italia non ha più bisogno di ricordare l’antifascismo per evitare il fascismo. Quel 25 Aprile è un evento che alla maggior parte dei ventenni non dice niente. La cosa non interessa più”.

Giuseppe De Rita intervistato dal “Messaggero”

 

Alla vigilia di un 25 aprile di molti anni fa, fui mandato dal mio giornale del tempo, il “Corriere della Sera”, a raccogliere la testimonianza di un autorevole storico antifascista. Costui, dopo una serie di affermazioni celebrative politicamente in linea con la ricorrenza, prima di congedarmi mi raccontò di essere reduce da una conferenza sui valori della Resistenza tenuta in un prestigioso liceo della Capitale, e di come ne fosse rimasto profondamente deluso. Chiesi come mai e lui rispose che mentre raccontava dell’epopea della Resistenza, i ragazzi sembravano del tutto indifferenti, salvo poi manifestare viva curiosità quando si era soffermato sulla cattura ed esecuzione di Benito Mussolini. Aggiunse che solo allora li aveva visti scuotersi con domande polemiche su piazzale Loreto, che i più definivano un atto di barbarie. “Stiamo crescendo una generazione di fascisti”, concluse amareggiato. No, pensai, stiamo annoiando una generazione con la retorica dell’antifascismo. Poiché, soprattutto se hai 16 anni, la storia raccontata dai vincitori suscita un istintivo sospetto se non si ha la capacità di raccontare contestualmente la storia dalla parte dei vinti. Poi, certo, c’è anche la narrazione opposta, quella inquinata dal fascismo eterno (per dirla con Umberto Eco) che rappresenta la Liberazione come una festa di parte, della sinistra contro la destra. “Noi partigiani”, il “Memoriale della Resistenza Italiana” finalmente in Rete che dobbiamo all’opera paziente, competente e appassionata di Gad Lerner e Laura Gnocchi, rappresenta la soluzione del problema. Per almeno due motivi: 1) La conservazione della memoria di un evento di valore fondativo per la nostra storia. Si dice che quando muore un vecchio è come se una biblioteca bruciasse insieme a lui. Grazie a Gad e a Laura quei volti antichi e gloriosi che vediamo scorrere sul portale sono “la Biblioteca” della Repubblica e della democrazia italiana che nessuno potrà distruggere. 2) L’enorme valore pedagogico contenuto nel Memoriale. Portiamo “Noi partigiani” nelle scuole italiane, facciamolo con impegno e convinzione cosicché le generazioni che si susseguono sappiano che quella è la storia dei vincitori, e dunque dei vinti, così come l’hanno vissuta i protagonisti. Senza manipolazioni. Senza versioni di comodo. Perciò, pur con il dovuto rispetto per il prestigio e l’integrità del professor Giuseppe De Rita, temiamo che abbia detto una cosa sbagliata. Il 25 Aprile non è affatto superato. Bisogna saperlo raccontare.

Antonio Padellaro

Mail box

 

Non si possono accusare i 5 Stelle per ogni male

L’ex presidente Conte, sotto attacco da destra, sinistra, giornaloni e tuttologi, avrebbe dovuto liquidarli affermando che i molteplici mali che era stato chiamato a sanare derivavano da colpe ataviche delle classi politiche del Paese. Esempi: evasione fiscale, Pubblica amministrazione, Alitalia, Ilva, mafie, gestione autostrade e compagnie cantanti… Inoltre, possibile che tutti i mali della Capitale debbano essere addossati alla Raggi e che nessun partito o politicante abbia il coraggio civile di assumersene pubblicamente la paternità?

Mario A. Querques

 

Il Quantitative easing non l’ha inventato Draghi

Scrivo per chiarire brevemente che il nostro celebratissimo presidente del Consiglio ed ex presidente della Bce viene considerato come l’ideatore del famoso Quantitative easing, cioè un metodo di politica monetaria espansiva. Questa idea nacque come una provocazione del liberista Milton Friedman nel 1969 e poi fu ripresa dall’ex presidente della Federal Reserve, Ben Bernake, che nel 2006 suggerì di applicarla alla Banca centrale del Giappone. Nel 2015 Mario Draghi, che non ha inventato niente, la utilizzò per salvaguardare l’economia dell’Unione europea. La famosa frase “whatever it takes” non è che riedizione di quanto già fatto e già sperimentato da altri.

Antonella Jacoboni

 

La giustizia presa in giro dal “ricoverato seriale”

Con riferimento ai ricoveri del Caimano programmati per evitare gli appuntamenti giudiziari, a mio modesto parere è scandaloso che la giustizia italiana possa essere presa in giro in questo modo! Chissà… forse, a nostra insaputa, siamo diventati una oligarchia.

Claudio Trevisan

 

Vitalizi, grazie al “Fatto” per aver sollevato il caso

Sono un’assidua lettrice del vostro meraviglioso quotidiano. Mi meraviglio che sia l’unico giornale che ha dato risalto alla notizia della restituzione del vitalizio al condannato Formigoni. Mi sembra che la motivazione addotta, della non disparità tra la sua situazione e quella dei percettori del reddito di cittadinanza, non sia plausibile, in quanto nel caso di Formigoni si parla di un condannato, mentre coloro che percepiscono il reddito di cittadinanza sono cittadini onesti.

Maria Cristina Filippi

 

Gli alpini avevano stile, altro che Figliuolo

Gentile dottor Travaglio, come lei sono stato pure io un ex alpino, più precisamente un artigliere da montagna, svolgendo nel lontano 1988 il servizio militare di leva presso il “G.A.M. Asiago”, caserma “Piave”, in quel di Dobbiaco. A distanza di ben 33 anni, una ventata di nostalgia giovanile mi ha fatto ricordare, con inaspettata simpatia, i miei “superiori” di allora in caserma. Erano persone di indubbia professionalità nel loro ambito militare ma anche dotati di sincera umanità, da me forse a quei tempi non pienamente percepita. Il motto che guidava i militari del Gruppo Artiglieria da montagna Asiago era “Tasi e Tira”: in poche parole, rifuggire da qualsiasi frivola manifestazione con sfoggio di mostrine, a beneficio solo delle televisioni, e mostrare al contrario il proprio genuino lato pratico – che è la cosa più importante – con fatti veri e non con vacue parole.

Fabio Ghezzi

 

La vera storia di Pellico, Manzoni e gli Asburgo

Leggendo ieri il bel pezzo di Eleonora Mazzoni su Alessandro Manzoni, mi sono accorto di un paio di errori: primo, gli Asburgo non sono stati in Piemonte; secondo, Pellico fu condannato il 6 dicembre 1821 e la sentenza letta il 21 febbraio 1822.

Luca Dondi

 

Gentile Luca, premesso che i moti in Italia cominciano già nel 1820 e interessano tutti gli Stati con caratteristiche diverse, mentre le armate austriache si accingono ad abbattere il governo costituzionale napoletano, scoppia l’insurrezione in Piemonte. I piemontesi e i lombardi si accordano però per un’azione congiunta. E sperano di avere l’appoggio dell’esercito sabaudo: sorvolo sul fatto che poi questo non avvenne, ma sta di fatto che a marzo 1821 fallisce non solo il moto piemontese ma tutta la stagione dei moti. Quanto a Pellico: arrestato a ottobre 1820, viene a lungo interrogato e forse torturato. Ma il 24 aprile 1821 – questa è la parte che ha interessato studiosi italianisti del calibro di Raimondi o Isella – crolla e confessa. Da quel giorno inizia la sua condanna (certo, c’è tutto un iter, per cui prima si fa la prigione a Venezia, poi va a Murano, poi nello Spielgerg e nel frattempo la sua condanna a morte si riduce a “soli” 15 anni). Io ho ridotto i passaggi all’osso per raccontare proprio come quella data che Manzoni pone all’inizio dei “Promessi sposi” abbia un richiamo civile.

Ele. Ma.

La nobildonna assetata, i tarocchi di Hitler e i 100 cavalli di Winona

Dai racconti apocrifi di Buffalo Bill. C’era una volta in America un capo indiano, Schiena di Bisonte, a cui piacevano le bugie intelligenti, e annunciò che chiunque fosse stato in grado di raccontargliene due davvero interessanti avrebbe potuto sposare Winona, la sua bellissima figlia. Tutti i bugiardi matricolati s’affrettarono da lui con le loro storie, ma Schiena di Bisonte trovava sempre debole almeno una delle due bugie, e sua figlia restava nubile e sconsolata. Un giorno, un aitante giovanotto arrivò dalle praterie del nord per tentare la sorte. “Dovresti scavare una grande buca di fronte al tuo teepee”, disse a Schiena di Bisonte. “Quando farà molto caldo, potrai affittare la buca fresca e diventerai ricco”. “Che balla deliziosa!” rise Schiena di Bisonte. “E la seconda?”. “Prima che tuo padre morisse – disse il giovane – rubò a mio padre 100 cavalli. Li rivoglio indietro”. Schiena di Bisonte si trovò in un dilemma: se diceva che era una bugia, doveva dargli la figlia. Se diceva che era la verità, doveva dargli una fortuna. “Questa è la bugia più interessante che abbia mai udito”, disse alla fine. Al che l’incantevole Winona diede un sospiro di sollievo.

Dalle novelle apocrife di Charles Sorel. Il sesso non solo rende più bello lo sguardo delle donne, poiché agisce sull’intelligenza, sul carattere e sulla sensibilità; ma le rende più eloquenti. Ho udito principi, duchi e marchesi affermare che le gran dame, fra le lenzuola, sono più lascive di qualunque puttana: sanno intrattenere gli amanti con le parole più sconce, i suggerimenti più impudichi, mentre in un salotto sono maestre di auto-controllo e di morigeratezza. Non a caso, chiunque era ammesso alle corti dei nostri re Francesco I ed Enrico II sosteneva di non aver mai visto regine e dame più incantevoli, pur avendo viaggiato in tutto il mondo. Anni fa ho conosciuto una nobildonna affascinante che riconduceva gli atti sessuali alla semplicità che hanno gli atti sessuali delle piante: diceva che la pioggia del cielo non era abbastanza per dissetarla, sicché, di quando in quando, era costretta a servirsi del giardiniere e del suo innaffiatoio.

Dai racconti apocrifi di Curio Mortari. La cartomante fece accomodare l’ultimo cliente della giornata. Pallido, orbite infossate, il bavero del cappotto sollevato, si sedette al tavolino dove erano ancora sparsi i tarocchi del consulto precedente. La cartomante prese posto di fronte a lui con solennità sacerdotale e lo scrutò. Notò il naso volgare, (“Basse origini”, pensò) e l’orologio di gran marca. Le indovine non leggono le carte: leggono nel volto, nell’abito, nei gesti, nelle domande, nelle reticenze. Raccolse le carte, e mentre le mescolava domandò al cliente cosa voleva sapere: amore, soldi, lavoro, salute, fortuna. E quello: “Devo prendere una decisione. Sì o no”. La cartomante stese le carte, coperte, sul tavolo. “Ne scelga una e la volti”. Era la Ruota della Fortuna. “La prima carta rappresenta il passato. Lei è stato baciato dalla buona sorte. Questa energia positiva le ha fatto conoscere trionfi. Ne scelga un’altra”. Era il Mondo. “La seconda carta rappresenta il presente. Il Mondo è in attesa. Dalla sua decisione dipenderà la sorte di molte persone. Scelga l’ultima carta”. Era la Morte. “La terza carta rappresenta il futuro. La sua fortuna l’abbandonerà, se decide di fare quello che sta per fare. L’esperienza porterà lutti. Non sarà gratificante, né per lei, né per chi verrà coinvolto nella sua impresa. Alla sua domanda, la risposta dei tarocchi è no”. “Quanto le devo?”. “10 marchi”. “Eccone 1.000. Buonasera”. E così, il giorno dopo, Adolf Hitler non invase la Polonia.

 

Fico è pronto per Napoli se Draghi aiuta sui debiti

Il primo passo è sempre quello più lungo. Prima di ufficializzare la candidatura a sindaco che un giorno sì e l’altro pure Pd e M5S gli stanno proponendo per chiudere la partita Napoli, Roberto Fico vuole pensarci bene. “Non vorrei fare il sindaco che va lì solo per tagliare”, ha confidato ai tanti interlocutori, grillini e non, che lo hanno sondato in questi giorni. Con un evidente riferimento alla preoccupazione per le finanze in semidissesto, mentre volge al crepuscolo l’era de Magistris. Numeri da brividi, estratti dall’approvazione a dicembre del bilancio consolidato, 4 miliardi e 600 milioni di euro di indebitamento complessivo, 683 milioni nei confronti dei soli fornitori, sia pure con un lieve miglioramento sull’anno precedente. È di poche ore fa la notizia che a battere cassa c’è anche la Cappella del Tesoro di San Gennaro, che reclama mancati pagamenti della retta annuale a partire dal 2011, per un totale di 773mila euro.

Per ripianare i conti di Napoli ci vorrebbe un miracolo come quello dello scioglimento del sangue e Fico non è un santo, ma un politico molto attento alle cose terrene, che sin dall’insediamento alla presidenza della Camera studia bilanci e flussi finanziari della sua città d’origine. “È una sua preoccupazione costante, al di là dell’eventuale candidatura”. Nelle scorse settimane ha chiesto dati e analisi al viceministro dell’Economia Laura Castelli, vicina a Luigi Di Maio. Fico si sente pronto al passo, e si aspetta un segnale chiaro dal governo Draghi su Napoli e sui Comuni in difficoltà finanziaria.

Se dovesse arrivare il suo via libera, fioccherebbero i sospiri di sollievo. Quelli di Enrico Letta e Di Maio, in primis, che avvalorerebbero su Napoli – e forse solo su Napoli tra le grandi città – una candidatura col nome simbolo per eccellenza della costruenda alleanza giallorosa. Quello del segretario del Pd di Napoli, Marco Sarracino, che da mesi teorizza la necessità di un candidato unitario del centrosinistra da individuare senza passare per sanguinose primarie che a Napoli sono sempre state sinonimo di brogli e catastrofi e infatti chi è tornato a chiederle? Matteo Renzi, che propone in quota Iv Gennaro Migliore. Non è sicuro il via libera a Fico del governatore Pd Vincenzo De Luca, che con i pentastellati ha un problema culturale oltre che politico. Ma al momento giusto Letta gli ricorderà che il figlio Piero non fa il presidente vicario dei deputati dem per grazia ricevuta.

Peraltro, il nome di Fico riscuote buoni riscontri dai sondaggi. L’ultimo di Quorum premia l’asse Pd-Cinque Stelle e i politici. Roberto Fico raggiunge quasi il 40 per cento (39,8 per la precisione), davanti a Catello Maresca, candidato in pectore del centrodestra, al 26,7 per cento. La candidata di Dema Alessandra Clemente raccoglie il 16,8, l’indipendente di sinistra Antonio Bassolino l’8,9, seguono nomi sparsi. Con l’ex rettore ed ex ministro dem Gaetano Manfredi al posto di Fico come nome dell’alleanza giallorosa, si scende al 34,1%. E salgono di diversi punti sia Maresca che Bassolino.

Renzi imprenditore, la rete e i suoi viaggi: una società al centro

C’è una società che collega gli ultimi viaggi di Matteo Renzi tra Africa e Golfo Persico. Si chiama Iss Global Forwarding, è una multinazionale che porta a Marco Carrai e al patto tra le monarchie sunnite della Penisola arabica e Israele, gli Accordi di Abramo.

Arabia Saudita, Bahrein, Dubai e Senegal sono i Paesi in cui si è recato, da gennaio a oggi, il senatore. Viaggi che nulla hanno a che fare con il suo ruolo di parlamentare, visto che il leader di Italia Viva fa parte della Commissione Igiene e Sanità. Cos’è andato a fare allora Renzi in tutti questi Paesi? Non l’ha mai spiegato. “I miei viaggi sono legittimi, la mia dichiarazione dei redditi è pubblica, i miei numerosi incarichi internazionali sono tutti rispettosi delle regole del nostro Paese”, ha dichiarato. Vero, perché la legge italiana non gli impedisce di svolgere attività d’affari private, tant’è che il senatore di Rignano ha appena aperto, come rivelato dall’Espresso, una società di consulenza basata a Roma, la Ma.Re Consulting.

La sua stringata dichiarazione non è però sufficiente a spiegare il motivo del continuo girovagare. Per capire perché Renzi da gennaio ad aprile si sia recato nello stesso numero di Paesi extraeuropei di Luigi Di Maio, ministro degli Esteri, si più partire da ciò che accomuna le nazioni visitate. Ed è qui che ci si imbatte in Carrai, da sempre grande amico dell’ex premier.

Il consigliere e amico

Console onorario di Israele in Toscana, Lombardia ed Emilia-Romagna, tra i tanti incarichi all’attivo, Marco Carrai ha anche quello di consigliere d’amministrazione della Iss Global Forwarding Italy, sede a Milano, attiva nel settore delle spedizioni. È la filiale italiana della multinazionale Iss Global Forwarding, gigante della logistica, energia in particolare. Presente in oltre 100 nazioni, è controllata dalla Investment Corporation of Dubai, braccio finanziario dell’emirato. Lo stesso dove Renzi si è recato a marzo in compagnia di Carrai, ha rivelato La Stampa.

Non è la prima volta che l’imprenditore amico dell’ex premier si ritrova in imprese dove si uniscono interessi italiani e mediorientali. Succede anche nella Wadi Ventures, società d’investimento basata in Lussemburgo: accanto a manager e imprenditori nostrani come il costruttore Michele Pizzarotti, il finanziere Davide Serra e l’ex consigliere di Leonardo Fabrizio Landi, nel capitale spicca per quantità di denaro investito la Golden Landscape di Dubai. Come raccontato dal Sole 24 Ore, a staccare l’assegno da 500 mila euro con cui l’anonima società emiratina è diventata il principale investitore del veicolo lussemburghese è stato in realtà il Kingdom Wealth Fund, fondo creato da Mohamad Al Akari, imprenditore nel settore petrolifero, consulente d’affari della famiglia reale saudita e di altre monarchie del Golfo.

Wadi Ventures fa capo a un’altra lussemburghese, la Wadi Ventures Management Company, ed è tra gli azionisti di quest’ultima che compare Carrai, o almeno compariva. Poi, il 24 marzo scorso, ha ceduto tutte le sue quote all’israeliano Jonathan Pacifici, presidente del Jewish Economic Forum. Il risultato è che oggi i beneficiari della Wadi Ventures Management Company sono tre. Oltre a Pacifici c’è Vittorio Giaroli, socio anche della Cambridge Management Consulting, l’impresa fiorentina fondata dallo stesso Carrai, e c’è Marco Norberto Bernabè, figlio di Franco, l’uomo appena scelto dal governo Draghi come presidente di Ilva. Coincidenza. Anche Carrai è alle prese con vecchie acciaierie da far ripartire: è infatti nel cda della ex Lucchini di Piombino, oggi di proprietà della famiglia indiana Jindal, per il cui rilancio s’immagina un futuro fatto di idrogeno, gas e logistica. Proprio i settori in cui opera Iss Global Forwarding.

Gli accordi di abramo

Dubai è al centro degli Accordi di Abramo e degli affari che ne conseguono. Firmati il 15 settembre scorso alla Casa Bianca, i patti hanno normalizzato i rapporti diplomatici tra Israele, Emirati Arabi Uniti (di cui fa parte Dubai) e Bahrein. Secondo il governo degli Emirati, gli accordi potrebbero portare fino a 500 milioni di dollari di nuovi scambi con Israele.

Sullo sfondo c’è l’Arabia Saudita, altra nazione dove Renzi si è recato ultimamente in virtù di due incarichi affidati direttamente dal principe Mohammed Bin Salman (come consigliere del Future Investment Institute e come e della Royal Commission for Al Ula, come rivelato di recente dal Domani). Capitale mondiale dell’islam sunnita e della produzione petrolifera, Riyad non ha firmato gli Accordi di Abramo ma ha benedetto l’intesa dando il permesso di attraversare il proprio spazio aereo agli aerei commerciali che fanno la spola tra Israele e Dubai.

Dubai e l’hub africano

Infine c’è il Senegal, altro Paese visitato da Renzi. In questo caso il motivo del viaggio l’ha spiegato il presidente della Repubblica africana, Malick Sall: Renzi è stato a Dakar in compagnia della famiglia Ferrari, titolare dell’azienda di trasporti bresciana Germani, per parlare di “un progetto per una piattaforma di trasporto e logistica nella zona economica speciale di Diass”, ha detto Sall. Il Senegal punta a diventare l’hub africano del trasporto internazionale di merci gestito da Dubai. Lo dimostra l’accordo firmato lo scorso novembre dal governo di Dakar per aderire al “World Logistics Passport”, un progetto con cui l’emirato dice di voler aumentare il commercio tra le nazioni del sud del mondo. Obiettivo strategico: trasportare merci tra Americhe e Asia, attraverso Senegal e Dubai.

Negli ambienti renziani, nessuno vuol rilasciare commenti sugli eventuali interessi del senatore di Italia Viva. La multinazionale Iss Global Forwarding, nella cui filiale italiana è presente Carrai, potrebbe però essere la pedina costruita per partecipare a questa partita che unisce interessi politici ed economici. Un nuovo Grande Gioco.