Salvini sapeva? Adesso “il Tempo” smentisce se stesso

Matteo Salvini non avrebbe chiesto al suo avvocato Giulia Bongiorno, come riportato da Il Tempo, informazioni riservate sulla vicenda del presunto stupro che vede indagato il figlio di Beppe Grillo, Ciro. Bongiorno, oltre a essere senatrice della Lega, è legale della ragazza che ha denunciato il figlio di Grillo. Il quotidiano romano mercoledì aveva riportato una frase di Salvini nel programma Quarta Repubblica di Nicola Porro: “Qualcosina su come siano andate le cose, mi ha detto il mio avvocato, dato che è lo stesso della ragazza che ha denunciato lo stupro, Giulia Bongiorno”. In base a questa affermazione, la sottosegretaria alla Giustizia del M5S, Anna Macina, aveva posto un dubbio: “In tv Salvini ha riferito di aver parlato con Bongiorno e ha detto di aver saputo altri dettagli”. Fonti della Lega fanno sapere che Salvini “non ha mai parlato di informazioni riservate sull’inchiesta” e “non ne ha mai fatto cenno all’avv. Bongiorno come fonte di informazioni segrete”. Il direttore del Tempo Franco Bechis ieri si è scusato per “l’inesattezza”: nel colloquio con Porro, Salvini non ha fatto riferimento a informazioni segrete. Ha detto: “Non mi interessa il processo… Mi sono solo informato… Ho chiesto al mio avvocato (…) e rischia meno uno stupratore di quanto non rischio io…”. È stato Porro invece a fare riferimento a Bongiorno.

Grillo jr., i legali al contrattacco col video

Raccontano che l’escalation degli ultimi giorni è stata forse il momento più duro degli ultimi due anni. Un momento così difficile che da alcuni familiari dei ragazzi indagati per violenza sessuale insieme a Ciro Grillo è arrivata la richiesta di modificare o quantomeno ridiscutere la strategia comunicativa. Il martellamento di indiscrezioni giudiziarie, commenti politici e trasmissioni televisive è diventato talmente pressante da spingere a pensare a un contrattacco fino a poche ore fa inimmaginabile: tra chi finora è rimasto un passo indietro c’è chi ha ipotizzato di rendere pubblico il video di cui parla ormai tutta Italia, che riprende una scena di sesso tra S.J., studentessa italo-norvegese, e i giovani incontrati quella notte al Billionaire ora sotto inchiesta per stupro. Un segnale di insofferenza che sarà oggetto di una riunione fra tutti gli avvocati difensori, che si riuniranno domani per fare il punto anche sull’aspetto comunicativo della vicenda.

Quel filmato, come ormai noto, riprende una scena di sesso di gruppo che è oggetto di due interpretazioni diametralmente opposte: per gli avvocati delle parti civili è un elemento di prova della violenza sessuale, da quanto raccontato mostra scene di una brutalità inaudita, e in ogni caso la chiave della vicenda va inquadrata nello stato di debolezza della ragazza legato all’assunzione di sostanze alcoliche; per i difensori dei quattro ragazzi, al contrario, è la dimostrazione che la giovane era consenziente e che non c’è mai stata alcuna violenza sessuale nell’appartamento di famiglia di Grillo.

Fino a oggi la posizione degli avvocati difensori dei quattro ragazzi indagati – Ciro Grillo (nella foto), Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria – non è mai cambiata: “Per noi il processo va condotto in aula, non sulla stampa o in tv. Certo, siamo consapevoli che in questo momento questa scelta possa significare esporsi a un massacro mediatico”. Tradotto: in questo modo rischia di passare solo una versione dei fatti. Una scelta oltre tutto indebolita dall’exploit di Beppe Grillo, che del tutto autonomamente ha diffuso sui social un video in difesa del figlio che ha imbarazzato lo stesso Movimento 5 Stelle.

L’ultimo terremoto è arrivato ieri, dopo il racconto della vittima diffuso in contemporanea su Quarto Grado, La Stampa e altri quotidiani Gedi. La giovane che viene trovata nuda sul letto dall’amica in lacrime: “Mi hanno stuprata tutti”. Il racconto di alcuni testimoni sentiti dalla Procura, come l’istruttore di kitesurf, che il giorno successivo dice di aver notato che la ragazza era di umore diverso dal solito, come se le fosse successo qualcosa. Per arrivare ai messaggi sui telefonini dei giovani ritrovati dalla Procura: “3 vs 1”. E ancora, Capitta: “Ho paura che quella ci ha denunciato”.

 

Bongiorno & C: gli avvocati vero partito di maggioranza

È il partito più numeroso in Parlamento. Ma non ha colore politico: niente bandiere rosse, verdi, azzurre. È trasversale e molto influente, soprattutto quando si parla di giustizia: è il Partito degli Avvocati (PdA). Le elezioni del 2018 sono state una manna dal cielo per gli Azzeccagarbugli nostrani: gli avvocati eletti in Parlamento sono ben 132, 87 a Montecitorio e 45 a Palazzo Madama. Un record considerando che nella legislatura precedente (la XVII) erano 113. Non c’è altra professione che sia più rappresentata nelle due Camere: secondo un rapporto di inizio legislatura, a fronte dei 132 avvocati, ci sono 116 imprenditori, 114 impiegati mentre molto più in basso si posizionano gli ingegneri (21), sindacalisti (13) e gli operai (2).

tra i parlamentari non c’è solo la più famosa Giulia Bongiorno, già legale di Giulio Andreotti e Gianfranco Fini, eletta a Palazzo Madama nelle file della Lega per rappresentare la nazione e nel frattempo avvocato di Matteo Salvini nei processi sui migranti e anche di altri clienti privati come la ragazza che ha denunciato il figlio di Beppe Grillo per stupro. I nomi noti sono molti. Alcuni hanno sospeso l’attività per ragioni istituzionali, molti parlamentari semplici invece continuano a praticare liberamente. Tra gli avvocati eletti più famosi c’è la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, i legali di Berlusconi Niccolò Ghedini e Francesco Paolo Sisto (oggi sottosegretario alla Giustizia), le ministre Mariastella Gelmini ed Erika Stefani, ma anche l’ex Guardasigilli del M5S Alfonso Bonafede, la capogruppo di FI al Senato Anna Maria Bernini, i renziani Francesco Bonifazi e Maria Elena Boschi, ma anche Piero De Luca (Pd), Ignazio La Russa e il presidente della commissione Giustizia, Andrea Ostellari (Lega). Molti di questi propongono, discutono, chiedono modifiche e votano leggi in materia di giustizia che, oggi o domani, potranno tornare utili nella difesa dei propri assistiti. E per dare l’idea del potenziale conflitto d’interessi, basti pensare che la maggioranza dei parlamentari che siede nelle commissioni Giustizia, e quindi quelli più coinvolti nei provvedimenti sul tema, sono avvocati. A Palazzo Madama sono ben 17 su 24 (il 71%) mentre alla Camera 26 su 46 (il 57%).

È proprio per questo che una legge per rendere incompatibili le professioni di avvocato e parlamentare non arriverà mai. E sì, che di tentativi in passato ce ne sono stati. Basti ricordare la proposta del 2003 di Giuseppe Fanfani per rendere incompatibili le cariche di avvocato e ministro e obbligando i parlamentari a scegliere tra le due professioni. Poi nel 2010 l’allora senatore Marco Follini scrisse una legge che impediva agli avvocati/parlamentari di difendere clienti privati in cause con lo Stato fino a quella dell’ex pm di Mani Pulite, Antonio Di Pietro (anno 2011) che prevedeva la secca incompatibilità. Tutte cadute nel nulla. In questa legislatura, chissà perché, non c’è alcuna proposta di legge che provi a risolvere questo conflitto d’interessi. Eppure la questione è regolata in molte democrazie occidentali. In Spagna è prevista l’incompatibilità, in Francia e negli Usa gli avvocati/deputati non possono difendere aziende o persone che hanno cause con lo Stato mentre in Germania il codice di condotta del Bundestag obbliga i deputati a informare il presidente su ogni incarico con interessi contro lo Stato o la Pubblica amministrazione.

“Letta rifai Mare Nostrum”. E lui ritwitta

L’ennesima tragedia nel Mediterraneo si riaccende la polemica sui soccorsi in mare. Perché nella strana maggioranza che sostiene il governo di Mario Draghi c’è LeU che con Loredana De Petris chiede che siano aperti immediatamente i corridoi umanitari e che le organizzazioni non umanitarie siano “messe in grado di riprendere in pieno la loro opera di salvataggio”. Ma anche Forza Italia che per bocca di Enrico Aimi chiede al governo di mettere al bando le ong accusate di “incentivare le partenze e alimentare il traffico di esseri umani”.

Per non parlare di Matteo Salvini (rinviato a giudizio per la gestione dei migranti a bordo di nave Open Arms nello stesso giorno in cui il segretario del Pd Enrico Letta si era fatto immortalare con la felpa proprio della ong) che di fronte ai 130 migranti morti di fronte a Tripoli se l’è presa con quanti “ di fatto, invitano e agevolano scafisti e trafficanti a mettere in mare barchini e barconi stravecchi. Altri morti, altro sangue sulla coscienza dei buonisti”.

Dando la stura a nuove polemiche destinate a deflagrare in seno alla maggioranza ora che, dopo la sciagura al largo di Tripoli, Letta ha segnalato l’urgenza che si cambi passo: “L’orrore deve spingerci ad agire. A non essere silenti. A non girarci dall’altra parte: i corridoi umanitari gestiti dall’Onu sono la soluzione”. Ma il segretario dem ha pure ritwittato l’appello che gli ha rivolto Gad Lerner a fare di più e subito. “Ben vengano i corridoi umanitari ma non possiamo aspettarli lasciando morire tante persone. Caro Enrico Letta, tu che da premier avevi promosso l’operazione Mare Nostrum, ora da segretario del Pd puoi chiedere al governo che si ripristini subito il soccorso in mare”.

Ma anche nel partito c’è chi vorrebbe che Letta prendesse a battere i pugni sul tavolo sollecitando il premier Mario Draghi a un cambio di rotta: a breve infatti dovrà esser deciso se continuare a delegare alla Libia i soccorsi in mare.

Matteo Orfini che del Pd fu presidente, affonda la lama. “Oggi tutti dichiarano commossi e indignati sulla strage di ieri nel Mediterraneo. Tutti dicono mai più. E invece accadrà di nuovo. E accadrà spesso. Va avanti così da anni e continuerà così fino a quando chiederemo alla guardia costiera libica di pattugliare il Mediterraneo. Continuerà fino a quando andremo in Libia a ringraziare per le violazioni dei diritti umani invece di esigere che smettano. Continuerà fino a quando bloccheremo in porto con scuse ridicole le navi delle ong. Continuerà fino a quando l’Italia e l’Europa non torneranno in mare a salvare vite, come ai tempi di Mare Nostrum”, scrive l’ormai deputato semplice Orfini. Che infilza Letta e chiede: “Cosa farà il Parlamento tra poche settimane sul rifinanziamento della guardia costiera libica? Cosa farà il mio partito? Cosa faranno i nostri ministri? Se ancora una volta si sceglierà di insistere in questa follia, almeno risparmiamoci i tweet e i comunicati commossi. Perché sono e saranno solo lacrime di coccodrillo”.

Superbonus, Conte fa il capo Il nuovo M5S slitta a maggio

Ora per l’avvento del rifondatore c’è un’ipotesi di data, ma chissà. Non si può sbilanciare neanche lui, Giuseppe Conte, che ieri pomeriggio ha provato a placare i giallorosa preoccupati ma soprattutto stufi di aspettare, con un post che è una promessa: “Conto di poter presentare all’assemblea degli iscritti il nuovo Statuto e la Carta dei principi e dei valori all’inizio di maggio nel corso di un grande evento online, e di procedere subito dopo alle votazioni dei nuovi documenti fondativi e dei nuovi organi”. Tradotto, se tutto va bene se ne parlerà tra un paio di settimane e non il 29 aprile. Data che circolava nelle chat a 5Stelle e che sembrava il limite da non varcare, perché lo stesso giorno l’avvocato parteciperà a un’iniziativa del dem Goffredo Bettini, assieme al segretario del Pd Enrico Letta, “e non può certo presentare la rifondazione dopo questo evento, non sarebbe il caso” sbuffavano vari grillini.

Ma di tempo ne serve ancora, innanzitutto perché bisognerà ancora trattare con Davide Casaleggio e la sua creatura, Rousseau, con cui pure è strappo definitivo. Perché è vero, “il percorso di rifondazione e rinnovamento è stato completamento definito” conferma Conte, ma prima di imboccarlo serve “un passaggio fondamentale”, ossia “il trasferimento dei dati degli iscritti da Rousseau al M5S”, che non li ha mai avuti. Essenziali per votare su una nuova piattaforma, peraltro ancora non individuata (ne sono state visionate diverse). “Confido che tutto si svolga in pochi giorni”, auspica Conte, che per convincere Casaleggio gli offre un accordo economico: “Il Movimento si farà carico di eventuali debiti contratti da Rousseau per conto del M5S”. E non si parla dei 450mila euro di arretrati richiesti dal figlio di Gianroberto, “ma di debiti risultanti da fatture” interpreta un grillino. Riassunto in cifre, si parla di un’offerta a Casaleggio di 150mila euro. Ma l’avvocato aspetterà comunque la fine del mese, anche perché deve capire cosa arriverà dal pm del Tribunale civile di Cagliari, mosso dal ricorso di una ex consigliera regionale del M5S. A giorni, il magistrato potrebbe imporgli di dover far votare un nuovo organo collegiale a cinque come guida dei 5Stelle, e non un capo politico con un’ampia segreteria, la struttura di governo che Conte ha già definito nel nuovo Statuto, “perché vuole una governance ampia e collegiale, guidata da un primus inter pares” spiegano. In quel caso, come si farà? L’ex premier conta di imporre a Rousseau di ospitare la votazione sull’organo a cinque, con una disposizione urgente di un giudice.

Un voto a cui Conte si presenterebbe come leader di una squadra con altri 4 nomi di sua fiducia, eventualmente contrapposti ad altri candidati. Con una premessa d’obbligo: prima il regolamento andrebbe cambiato, perché l’avvocato è tuttora non iscritto al M5S (“ed è un problema su cui potrebbero inciampare” sibila un 5Stelle, con qualche ragione). Se l’ordine del pm non dovesse arrivare, sarà invece l’assemblea degli iscritti a votarlo come capo assieme alla segreteria, su un’altra piattaforma. Ma è tutto ancora in bilico, tra ostacoli personali (l’unico 5Stelle con cui Casaleggio ancora parla è il tesoriere Claudio Cominardi) e legali. Una selva di botole, che costringe Conte a tenersi vago sui tempi. Nell’attesa ha battuto un colpo, da capo. “Il superbonus è fondamentale e va prorogato fino al 2023, anzi va ancora più semplificato” ha sostenuto su Facebook, mentre sulle agenzie i 5Stelle protestavano. Per questo ha invocato “segnali politici forti e chiari”, perché “la transizione ecologica è una priorità sia per me che per il M5S, e non può essere rimandata per difetto di lungimiranza o carenza di volontà politica”.

Ergo, Conte tira moderatamente per la giacca il suo successore, Mario Draghi: “Il governo ha abbracciato la svolta della transizione ecologica e bisogna essere conseguenti”. Tra venerdì e ieri mattina ha chiamato un po’ di big per capire l’aria e anticipare che anche lui si sarebbe fatto sentire. Doveva tamponare i suoi, compreso quel Luigi Di Maio che da giorni fa trapelare la sua irritazione per la tempistica dilatata. Cioè incerta, come il futuro dei 5Stelle.

“Il giudice pagato per scarcerare i mafiosi”. Nascosti soldi anche nelle prese elettriche

Scarcerazioni in cambio di soldi. Anche ai mafiosi. Decine di migliaia di euro che il giudice del Tribunale di Bari, Giuseppe De Benedictis, organizzava in mazzette rilegate con elastici e nascondeva anche nelle prese elettriche della sua abitazione. I carabinieri del Nucleo investigativo di Bari, coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia di Lecce, lo hanno arrestato ieri mattina, ma De Benedictis sapeva già di essere nel mirino degli ex colleghi leccesi. Il 9 aprile scorso, i militari avevano perquisito il suo ufficio e ritrovato una mazzetta da 6mila euro che il giudice aveva appena intascato. Qualche giorno dopo, al telefono, spiega a un amico di essersi dimesso “per evitare il carcere”. “Sono a casa – dice, intercettato – ad aspettare se mi fanno i domiciliari, speriamo che mi fanno i domiciliari”. Ma De Benedictis finirà in carcere e con lui anche l’avvocato barese Giancarlo Chiarello. Era il legale il collettore delle tangenti: tra i criminali del Barese e del Foggiano, tutti sapevano che averlo come difensore significava ottenere almeno i domiciliari. I carabinieri hanno perquisito anche il suo appartamento e quello del figlio: proprio qui hanno trovato tre zaini con una montagna di denaro. Contanti per oltre 1 milione e 200mila euro. Chiarello era già finito nei guai diversi anni fa per aver rivelato l’esistenza di indagini a carico di alcuni malavitosi pugliesi, ma aveva continuato a esercitare la professione forense diventando un punto di riferimento per esponenti dei clan di Bari e di Foggia. Nel 2013, come raccontano le cronache locali, era tra i partecipanti alla cena organizzata in occasione dell’arrivo di Silvio Berlusconi impegnato nella campagna elettorale. Il legale era un habitué dell’ufficio del gip: “Chiariello – si legge nell’ordinanza – entra nella stanza del giudice e chiede di parlare, lui si alza, lascia il telefono nel cassetto e raggiunge l’avvocato. In alcuni casi restano a confabulare nel corridoio, sotto l’occhio attento ma discreto degli operanti, altre volte si danno appuntamento davanti al solito bar dove scambiano qualche battuta davanti al bancone o, nel periodo delle restrizioni Covid, rimanendo all’esterno”. Altri incontri avvenivano in luoghi segreti, come l’ascensore del palazzo in cui viveva il professionista. Tutti in concomitanza di provvedimenti che il giudice emetteva su richiesta di Chiarello. E nonostante avessero la certezza dell’imminente arresto, gli affari continuavano. Una corruzione inarrestabile “fino all’ultimo momento, e anche oltre”, come si legge negli atti.

Strage per amore, volevano far fuori la famiglia di lei

Avevano organizzato una strage nei minimi dettagli i due giovani fidanzati – 18 anni lei, 22 anni lui – rei confessi per l’omicidio di Aldo Gioia, funzionario di 53 anni della Fca di Pratola Serra e padre della ragazza, ucciso nella notte tra venerdì e sabato ad Avellino. L’uomo, colpito da sette coltellate mentre si trovava addormentato sul divano di casa, ha fatto in tempo a reagire. Il trambusto generato ha permesso alla moglie e all’altra figlia di lanciare l’allarme: i due ragazzi avevano pianificato di uccidere anche loro e fuggire via insieme. Gioia è morto nella notte nel locale ospedale “Moscati” per le ferite riportate. Sarebbe dovuta sembrare una rapina finita male, ma le indagini della Squadra mobile di Avellino si sono strette rapidamente attorno alla coppia, incastrata dai messaggi telefonici scambiati. I due hanno quindi confessato nella mattinata di ieri. Alla base dell’omicidio, la disapprovazione della famiglia della ragazza per la loro relazione: il ragazzo, autore materiale del delitto, aveva già precedenti per droga e reati contro la persona.

Lazio, c’è un’altra graduatoria targata Pd Due sindaci assunti grazie al piccolo comune

Sette persone in graduatoria fra vincitori e idonei, di cui cinque collegati alla politica: due sindaci, un consigliere comunale e due “parenti”. Quattro di loro fanno riferimento al Pd, uno si smarca e si dice “civico credente”. Dopo il casus belli di Allumiere, un altro concorso in un piccolo comune nella provincia di Roma agita i dem del Lazio. E non solo. Siamo a Rocca Santo Stefano, borgo di 951 anime arroccato sui Monti Prenestini, a 60 km a est della Capitale. Qui il 21 gennaio 2019 è stata pubblicata la graduatoria del concorso per 1 posto da istruttore amministrativo (categoria C). La vincitrice si è subito “eliminata”, essendo stata chiamata a Roma, dove aveva partecipato al concorsone 2010. La seconda classificata, entrata, si chiama Emanuela Panzironi ed è, in quota Pd, l’attuale sindaca di Zagarolo, che guida uno dei comuni più importanti dell’area prenestina. L’altro sindaco del lotto si chiama Danilo Felici, a capo del comune di Gerano, limitrofo a Rocca Santo Stefano: sostenuto da una lista civica, si definisce “centrista” e ora lavora al comune di Guidonia – la terza città del Lazio – dove è stato chiamato perché nel frattempo aveva vinto un concorso in un altro paese della zona, Palestrina. A Guidonia, invece, fa il consigliere comunale del Pd Emanuele Di Silvio, che oggi lavora a Zagarolo: a Rocca Santo Stefano si era classificato quarto. Gli altri due finiti in graduatoria a Rocca sono parenti del segretario locale Pd. Cosa c’entra con il caso Allumiere? La coincidenza stavolta è che il sindaco di Rocca Santo Stefano, Sandro Runieri, nel 2018 è stato nominato a capo del gabinetto dell’attuale vicepresidente della Regione Lazio, Daniele Leodori. Quest’ultimo aveva portato in Consiglio regionale il sindaco di Allumiere, Antonio Pasquini, che poi aveva sottoscritto la convenzione con l’ormai ex presidente dell’aula, Mauro Buschini, per assumere alla Pisana 16 persone “pescate” dalla graduatoria allumierasca. Nella commissione di Rocca Santo Stefano compare Barbara Dominici, a capo del servizio Anticorruzione in consiglio regionale e già capogruppo nel consiglio comunale di Trevignano Romano, di una lista civica di centrosinistra. Ovviamente, come per Allumiere, anche in questo caso le procedure sono state svolte in punta di diritto amministrativo e non sono rilevate irregolarità.

Ponte Morandi, lettera del 2014 annunciava crollo

“Il vecchio ponte crolla, penso che sia meglio intervenire”. Una lettera anonima inviata l’8 ottobre 2014 anticipava quanto poi davvero accaduto: il cedimento del Ponte Polcevera. La missiva, forse scritta da una fonte interna, era stata mandata fra gli altri all’ex amministratore delegato Giovanni Castellucci, all’allora ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Maurizio Lupi e provocò reazioni. La Guardia di Finanza ha raccolto una risposta firmata nell’ottobre dello stesso anno da Massimo Meliani, responsabile Ponti e viadotti di Aspi, e Fulvio di Taddeo responsabile opere strutturali, entrambi indagati per il crollo. In realtà, la possibilità di una catastrofe era tutt’altro che un segreto, anche all’interno della stessa Autostrade per l’Italia: lo dimostra, ad esempio, il Catalogo dei rischi approvato un anno prima, nel 2013, che indica specificamente “il rischio crollo del viadotto Polcevera per ritardate manutenzioni”. La lettera, mostrata ieri dal tg di La7, fa parte del materiale acquisito nell’inchiesta di Genova.

Lea Schiavi, “antifa” reporter giramondo che visse due volte

Al Freedom Forum Journalists Memorial di Arlington, in Virginia, il suo nome è il primo tra quelli delle donne giornaliste cadute in guerra. Il suo ricordo è scolpito dalla primavera del 1996, quando il Memorial venne inaugurato a maggio da Hillary Clinton, che disse: “Nella vita e nel lavoro di questi 934 giornalisti, azioni e parole sono inseparabili”. Quel nome è di un’italiana, un’antifascista: si chiama Lea Schiavi. Nata a Borgosesia, in Piemonte, il 2 marzo 1907, venne assassinata nell’Azerbaigian dell’Iran il 24 aprile 1942 da un killer curdo. Segnalata dalla polizia di Mussolini nel 1938 per discorsi contro il Duce e Hitler, aveva scritto per vari giornali, da L’Impero a Lidel, da Cinema Illustrazione a L’Ambrosiano, e nel giugno del 1938 tradusse un racconto di John Steinbeck per il rotocalco Omnibus fondato da Leo Longanesi, che, a detta di Indro Montanelli, era “forse il giornale più intelligente che fosse apparso in Italia negli ultimi vent’anni”.
Il delitto, un delitto politico, è rimasto impunito. Si sospettò non troppo a torto che i mandanti fossero agenti nazifascisti. Anche se nel dopoguerra si parlò di un omicidio commissionato dai sovietici, forse per una vendetta nei confronti del marito di Lea, il giornalista americano Winston Burdett, che fino al 1941 era stato comunista e in rapporti con spie dell’Urss.

Le leggi razziali La decisione: “In italia non ci torno”
Lea Schiavi è onorata negli Stati Uniti. In Italia è sconosciuta. Nonostante il regime fascista avesse spiccato un ordine di arresto per lei fin dagli inizi degli anni Quaranta, non figura negli elenchi, pur generosi, della Resistenza, e tantomeno in quelli delle reporter cadute in guerra.
Il vuoto, a ottantun anni dall’assassinio, viene ora colmato dalla significativa decisione di Paolo Tiramani, classe 1983, sindaco di Borgosesia e deputato della Lega, di intitolarle i giardini pubblici davanti al Comune. La cerimonia si svolgerà il 25 aprile alle 10, in piazza Martiri. Il primo cittadino si è appassionato alla sua storia leggendo quel poco che è stato scritto su Lea, peraltro ignota alle stesse associazioni partigiane della zona.
Bella, colta, elegante, Lea lasciò per sempre l’Italia nella primavera del 1939, quando riuscì a farsi mandare in Jugoslavia per alcuni reportage. E nei Balcani, tra Belgrado, Sofia, Bucarest e in seguito Ankara, maturò l’impegno contro il nazifascismo, in cui ebbe un ruolo fondamentale la scoperta delle persecuzioni degli ebrei. Dopo le leggi razziali, e per i rapporti dei servizi segreti di Mussolini che l’avevano indicata come antifascista e addirittura come “comunista fuoriuscita” (che non era vero), decise di non rientrare in patria. A Sofia si sposò con Burdett, inviato di guerra per l’americana CBS del leggendario Ed Murrow. Winston avrebbe poi ammesso nel 1955 di essere stato un militante comunista e di avere compiuto delle missioni contro i nazisti per l’Urss.

Il giallo dell’omicidio Spie, Cbs e Urss: tutti contro tutti.
Con Burdett, alla fine del 1941, Lea raggiunse l’Iran. Legata ai gruppi di Radio Londra, a Teheran creò un comitato antifascista, cercando di coinvolgere i connazionali residenti e di smascherare le trame dei fascisti e dei tedeschi. Il viaggio in Azerbaigian, mentre Burdett si trovava in India, ebbe il tragico culmine il 24 aprile del 1942.
Alcune guardie stradali curde fermarono l’auto su cui viaggiava con un’amica armena, e una di loro, dopo avere chiesto proprio di lei, le sparò, a circa sessanta chilometri da Tabriz. Venne sepolta a Tabriz, ma la sua tomba nel cimitero cattolico non esiste più.
Chi ordinò la sua morte? Il mandante potrebbe essere stato il colonnello dei carabinieri Ugo Luca, funzionario dello spionaggio fascista, il SIM, e successivamente implicato nell’omicidio del bandito Salvatore Giuliano. Accusato da Burdett nel ’45, Luca, che si era avvicinato alla Resistenza, fu prosciolto in fretta dal Tribunale di Roma. Nel ’55, tuttavia, deponendo a uno dei sotto-comitati anticomunisti del Senato degli Usa, l’inviato della CBS accusò l’Unione Sovietica. Cambiò idea solo per il ripudio del suo passato comunista, in quel clima di “caccia alle streghe”? I russi smentirono sempre il loro coinvolgimento nel delitto, accusando gli agenti dell’Asse.