Gramsci, la verità sulla notte dell’arresto

“Bisogna impedire a questo cervello di funzionare per venti anni”: così il pubblico ministero concludeva la sua requisitoria al processo che decretò la condanna di Antonio Gramsci dinanzi al Tribunale speciale fascista. Mai divieto fu meno efficace: nel dominio dove non comandano le catene, ma solo la libertà di pensiero, l’ordine espresso da Mussolini non poteva essere eseguito e il detenuto n. 7.047 a Turi partorì quegli straordinari manoscritti diventati i Quaderni del carcere, un’opera tradotta in tutte le lingue e ancor oggi oggetto di riflessioni e approfondimenti da parte di studiosi dei cinque continenti.

A distanza di un secolo, c’è ancora tanto da scoprire, intorno alle vicende che portarono Gramsci nelle carceri fasciste: quando il 9 novembre 1926 fu approvato dalla Camera l’ordine del giorno di Augusto Turati, che decretava la decadenza dei deputati aventinisti e comunisti, l’onorevole Antonio Gramsci già languiva da ventiquattr’ore nel carcere di Regina Coeli a Roma.

il doppio imbroglio l’input di Mussolini e del re

Per compiere questo atto illegittimo, non poteva non esservi la complicità del primo garante dell’assemblea di Montecitorio: quell’Antonio Casertano che – già da presidente della Giunta delle elezioni – aveva cercato invano di interrompere la denuncia di Matteotti, nella seduta dell’Assemblea del 30 maggio 1924. Quello stesso Casertano che, il 29 aprile 1926, succeduto a Rocco come Presidente della Camera, osò pronunciare un beffardo necrologio di Giovanni Amendola – definito “infermo di un male che non perdona” – nel dare l’annuncio del suo decesso all’estero, in realtà dovuto alle percosse inflittegli dai fascisti a Serravalle Pistoiese. Eppure, fallito l’Aventino, era ancora in Parlamento che andava cercata la sede pubblica per la denuncia del regime: il pestaggio con cui era stato accolto il tentativo di rientro in aula degli aventinisti, il 16 gennaio 1926, affidava questo compito ai soli deputati comunisti. La sera dell’8 novembre 1926, Antonio Gramsci comparve a Montecitorio e, unitamente ad alcuni colleghi, tenne una riunione del gruppo comunista per prepararsi alla seduta dell’indomani. In Assemblea, le opposizioni avrebbero avuto il proscenio, per la prima volta dopo due anni: poiché si sarebbe discussa la legge che avrebbe decretato la proscrizione definitiva dei partiti politici. Era evidente che – per i deputati riuniti intorno a Gramsci – sarebbe stata la lotta per la vita; confidavano che la stampa internazionale accreditata a Montecitorio avrebbe rilanciato la denuncia all’opinione pubblica internazionale. Sarebbe stata un’insperata replica del grande sdegno suscitato nel Paese per il rapimento e il ritrovamento del cadavere di Matteotti in seguito al suo vibrante discorso in aula.

Per impedirlo, occorreva uno scacco in due mosse: la prima era di equiparare i deputati aventinisti (da far decadere per la “riprovevole” condotta di conservare le prerogative “senza esercitare il mandato” parlamentare) ai deputati comunisti. Il giurista e massone Casertano si incaricò di argomentarla, il giorno dopo in aula, dimostrando quanto fossero profetiche le parole di Gramsci, nell’unico discorso parlamentare che gli fu concesso di pronunciare pochi mesi prima, allorché dichiarò che la massoneria sarebbe passata in massa al fascismo. Quanto fosse fragile la motivazione del presidente della Camera è evidente, poiché Mussolini, la sera dell’8 novembre, verso le ore 20, chiamò a Palazzo Chigi Farinacci e Augusto Turati e comunicò loro che bisognava aggiungere all’elenco i deputati comunisti. Farinacci fece presente che l’ordine del giorno motivava l’espulsione con l’abbandono, da parte degli aventiniani, dei lavori parlamentari, mentre i comunisti vi avevano preso parte. Mussolini rispose che la Corona voleva così.

Nel dopoguerra, Vittorio Emanuele III tentò una difesa – dall’accusa di aver favorito la fine, anche formale, della democrazia parlamentare in Italia – confondendo ad arte la decadenza del 9 novembre con l’entrata in vigore delle leggi liberticide che reintroducevano la pena di morte. Lo scopo del re, tre volte traditore, era di rivendicare indirettamente, ancora nel 1945, una fasulla agevolazione della fuga in Francia dei capi dell’opposizione. Ma questo discorso comunque non vale per i comunisti, che ben prima erano stati messi saldamente ai ferri.

La seconda mossa fu, infatti, ancora più sleale: finita la riunione di gruppo, i deputati comunisti furono seguiti e arrestati, in violazione dell’immunità parlamentare che lo Statuto albertino garantiva. Finora su questo evento odioso avevamo solo la testimonianza di Gramsci: “Ustica, 19 dicembre 1926. Carissima Tania, arrestato l’8 sera alle 10 e mezzo e condotto immediatamente in carcere” (Lettere dal carcere). Quella sera furono arrestati e condotti al carcere giudiziario, a disposizione dell’autorità di PS lui e i suoi compagni, secondo il memoriale difensivo. Sull’ora dell’arresto sappiamo che dalla sua casetta di via Morgagni, dove abitava, Antonio Gramsci, alle ore 22:30 esce ammanettato.

la prova il foglio matricolare

Ora leggiamo direttamente sul foglio matricolare che l’ingresso dei deputati nel carcere di Regina Coeli fu anticipato di una notte: ulteriore dimostrazione che i preziosi tesori documentali dell’Archivio di Stato di Roma meritano di essere valorizzati, vieppiù quando si collocano sulla direttrice istituzionale. La Commissione per la Biblioteca e l’Archivio storico del Senato, che mi onoro di presiedere, con l’attività programmata per l’immediato futuro si farà carico di tutte le sinergie possibili, per consentire al grande pubblico di fruire di testimonianze importanti della nostra storia.

Nell’anniversario del martirio di Gramsci, non può mancare un riconoscimento ulteriore, di cui questo ritrovamento è testimonianza: la simbolica riattribuzione al grande pensatore sardo della sua dignità parlamentare violata. La medaglietta di deputato, che nel momento dell’arresto non servì a impedire la violazione statutaria, sia coniata di nuovo per la Casa Museo di Antonio Gramsci: il monumento nazionale a Ghilarza in Sardegna, nel quale l’amatissima madre visse l’umiliazione della notizia del figlio detenuto, riceva dal presidente della Camera dei deputati questa simbolica restituzione dell’onore di rappresentante eletto del popolo.

“Rischio calcolato” da domani? No, rischio e basta

Da lunedì inizierà una lenta ripartenza con il ritorno delle regioni gialle e la riapertura di attività chiuse da tempo. Rischio calcolato, è stato definito dal governo. Definizione azzardata, perché se c’è una cosa che abbiamo imparato è che, con i dati e i sistemi di monitoraggio a nostra disposizione, qualunque modello predittivo ha quasi sempre fallito e non a caso ci siamo fatti sorprendere per ben tre volte dalle ondate epidemiologiche. Meglio quindi parlare di rischio, e basta.

Un rischio che il governo ha deciso di assumere sulla base di decisioni giustamente non soltanto scientifiche ma anche politiche, sociali ed economiche. I dati non sono mai oggettivi, a seconda della prospettiva da cui vengono interpretati, possono portare a conclusioni opposte. Che la situazione epidemiologica sia in progressivo miglioramento è certamente vero. I casi positivi diminuiscono da sei settimane ma la discesa è estremamente lenta e i contagi continuano a oscillare tra i 10 e i 15 mila al giorno. Sono numeri ancora troppo alti, soprattutto dopo un mese di forti restrizioni. Gli ingressi in terapia intensiva giornalieri continuano a essere tanti, sopra i 150, seppur anch’essi in discesa, e abbiamo ancora 11 regioni al di sopra della soglia critica di posti letto occupati.

Non c’è ancora una regione al di sotto della soglia di incidenza che permetterebbe di ricominciare a tracciare i contagi (50 casi ogni 100 mila abitanti). Abruzzo, Umbria, Molise e la P.A. di Bolzano quelle messe meglio, sono sotto i 100 casi; Valle d’Aosta, Puglia, Campania e Basilicata le peggiori, hanno oltre 200 casi ogni 100 mila abitanti registrati negli ultimi 7 giorni. La campagna di vaccinazione ancora non è in grado di dare effetti sulla riduzione dei contagi: 10% di popolazione interamente vaccinata, 23% con una dose. Numeri ancora troppo bassi per arginare la trasmissione del virus. Incoraggianti, invece, i dati sulle fasce di popolazione più a rischio: l’84% degli over 80 ha avuto la prima dose, più che sufficiente per scongiurare sintomi gravi. E nella fascia 70-79, il 45% ha ricevuto la prima dose. Proprio sulla protezione delle persone più vulnerabili si basa la valutazione del rischio del governo. Per effetto delle vaccinazioni sugli over 70, la letalità dovrebbe ridursi di circa il 62% a livello nazionale. E oltre al numero dei decessi, diminuirà finalmente la pressione sugli ospedali.

Ecco, è proprio questo il punto: il numero dei contagi. Difficile pensare che, a partire da lunedì possano continuare a scendere. D’altronde, se di fronte al dilagare della variante inglese abbiamo dovuto abolire le zone gialle un motivo c’è. Lo scenario più probabile è quindi quello di una risalita del numero dei casi positivi che colpirà soprattutto i giovani, ma anche la fascia 35-60 anni, ancora troppo lontana da una vaccinazione di massa.

Anche proteggendo i più anziani, il virus non può comunque essere lasciato libero di scorrazzare, anche questo ormai lo abbiamo capito. È probabile quindi che il sistema di chiusure alternate andrà avanti ancora per mesi, almeno fino a quando non avremo una larghissima parte della popolazione immunizzata. Le riaperture di lunedì forse sono inevitabili, ma il rischio è certamente ancora molto alto.

Vaccini, direttiva ‘dimenticata’: sui colori è tutto come prima

Diceva Mario Draghi l’8 aprile che “ci sarà una direttiva del generale Figliuolo per inserire un parametro sulle autorizzazioni alle riaperture basato sulle vaccinazioni delle categorie a rischio”. Erano i giorni in cui il governo spingeva per accelerare sugli ultraottantenni, di fronte ai modelli matematici proposti dall’Ispi (e non solo) che misuravano oltre 6 mila morti in più, da gennaio, per i ritardi nelle vaccinazioni degli anziani. La direttiva poi non l’hanno fatta e le riaperture disposte a partire da domani – ma in parte già in atto con assembramenti pericolosi in gran parte del Paese – seguiranno i colori stabiliti in base ai noti parametri per le zone gialle ripristinate, quelle arancioni e quelle rosse: Rt, incidenza, occupazione dei letti in ospedale, ecc.

Con quella regola sarebbe difficile rimettere in zona gialla l’Abruzzo, che ha vaccinato un gran numero di dipendenti della scuola (il 92,41% contro una media nazionale del 73,89%) e molti meno over 80, precisamente il 68,14% con una dose (la media è l’81,21%: 3 milioni e 699 su 4 milioni e mezzo), ma va un po’ meglio sui richiami (fatti per il 52,26%, la media nazionale è 53,82%). O la Liguria, che con le prime dosi agli over 80 è arrivata al 68,31% e con le seconde al 44,4% (peraltro è ultima sull personale scolastico: 41,37%).

Le Regioni che hanno vaccinato meno gli anziani, però, restano la Sicilia (prima dose solo al 57,8%) e la Calabria (58,39%), destinate a rimanere in arancione: qui oltre il 40% degli ultraottantenni sta ancora aspettando. Meglio di tutti hanno fatto la provincia di Trento (95,41% di prime dosi agli over 80, richiami al 67,63%), il Veneto (94,14% e 61,31%), la Toscana che pure era partita male (92,45% e 43,23%) e l’Emilia-Romagna (90,15% e 61,71%). Bene il Lazio (86,66% e 63,52%) ma anche la Lombardia (85,55% e 55,56%). Tra i 70 e i 79 anni i vaccinati con una dose sono quasi la metà, 2,7 milioni su sei (45,09%), ma solo 343 mila (5,69%) hanno avuto il richiamo. Chi ha fatto meglio è ancora Trento (62% di prime dosi, 6,22% di richiami) e ultima è la Basilicata (23,08% e 1,87%), seguita da Calabria (28,43% e 6,44%) e Sicilia (36,25% e 9,89%). Ma insomma le vaccinazioni aumentano, a volte perfino troppo con il rischio di rimanere senza fiale a fronte delle prenotazioni registrate. Nel complesso gli over 80 che hanno avuto la prima dose sono passati dal 76,09% all’81,21%, quelli con il richiamo dal 45,19% al 53,82%: più 8%. Nella fascia 70/79 anni le prime dosi sono aumentate dal 30,14% al 45,09%, nelle Rsa hanno raggiunto il 94,93%.

Sono dati diffusi ieri dall’ufficio del generale Francesco Paolo Figliuolo, dati significativi ma non sempre precisi perché le “platee vaccinali” su cui si calcolano le percentuali sono in continua ridefinizione e peraltro dipendono dalle Regioni. Alcune ad esempio dichiarano il 100% di vaccinati tra il personale sanitario e gli anziani ospiti delle residenze sanitarie assistenziali: possibile che nessuno sia stato escluso o abbia rifiutato il vaccino? In alcuni casi erano uscite perfino percentuali superiori al 100%. Ora stanno riorganizzando la dashboard: hanno eliminato la categoria “altri” e razionalizzato il comparto sicurezza/difesa ma il lavoro è ancora in corso.

Da ieri si somministra anche il vaccino monodose di Johnson & Johnson, riammesso dall’agenzia europea Ema come dalla Fda statunitense ma consigliato, dall’italiana Aifa, solo per gli over 60, come l’altro vaccino a vettore virale che è AstraZeneca. È l’effetto dei rari eventi trombotici verificatisi in Europa e negli Usa, quasi certamente riconducibili ai vaccini. Si levano diverse voci contrarie ai limiti d’età, come quella dell’assessore alla Sanità del Lazio Alessio D’Amato, che ha iniziato bene la campagna vaccinale e vorrebbe proseguire con maggiori margini di manovra. Vedremo. Figliuolo ha confermato l’arrivo di 5 milioni di dosi Pfizer entro il 5 maggio e indicato alle Regioni gli obiettivi giornalieri per arrivare a mezzo milione di somministrazioni giovedì 29 aprile, non a metà mese come promesso, ma almeno alla fine. Venerdì 23 il target era 320.289 iniezioni e ne hanno fatte oltre 380 mila.

Trasporti, rifiuti, acqua: tornano le liberalizzazioni dei servizi pubblici

A Bruxelles, pare, soffrono di una sorta di Ostalgie (la nostalgia della Ddr diffusa nell’est tedesco), ma per gli anni Novanta. È comprensibile: l’Ue era appena nata, tutti erano giovani e ottimisti e il mercato – che aveva appena trionfato sul comunismo – era una forza di progresso che sembrava conciliare l’arricchimento personale e più giustizia sociale. Mario Draghi, all’epoca dg del Tesoro, non fu certo estraneo a quel clima, ma non si sa quanto oggi – che quella paccottiglia ideologica è così squalificata – il tira e molla con la Commissione Ue sulle “riforme” da inserire nel Piano di ripresa lo trovi consenziente. Nel suo Pnrr in via di contrattazione coi tecnici brussellesi, per dire, torna in grande stile una delle ossessioni degli anni Novanta: la legge annuale sulla concorrenza, “principio cardine dell’Ue”, che il governo italiano promette di presentare “entro il 15 giugno”. Al solito, i mercati che si vogliono aprire – giuste le “Raccomandazioni” 2019 e 2020 della Commissione, che vanno rispettate per avere i soldi del Recovery – sono soprattutto quelli dei servizi pubblici locali: serve “maggiore competitività per l’affidamento” e “la limitazione del ricorso all’affidamento a società in house e partecipate”. E questo varrà anche per i trasporti, “attualmente oggetto di una disciplina speciale”. Pure l’acqua, nonostante il referendum del 2011, dovrebbe essere della partita all’insegna di slogan che l’esperienza ha rivelato falsi: il privato è più efficiente e fa più investimenti, anzi garantisce “una consistente eguaglianza sostanziale e una più solida coesione sociale”. Pur di arrivarci il governo non esita a invocare un aumento del contenzioso: la motivazione con cui l’ente locale si rivolge alla società pubblica va anticipata, “così da consentire a terzi interessati di contestarla”. E dire che la legge Giolitti del 1903, da cui nacquero le municipalizzate, pareva aver chiuso la stagione dell’idolatria del privato a tutti i costi: è che la nostalgia degli Anni 90 si applica sia al Novecento che all’Ottocento…

“Il superbonus è essenziale Il premier rispetti i partiti”

In un nuovo giorno di nuvolaglia per il governo Draghi, il 5Stelle Riccardo Fraccaro assicura di non essere preoccupato: “Questo esecutivo per noi del M5S è nato per portare avanti la transizione ecologica, per l’ambiente e lo sviluppo. Ed è su questo che dobbiamo vigilare e proporre”.

Voi del M5S siete insorti sulla proroga del superbonus, chiedendo garanzie nero su bianco in Consiglio dei ministri. Ma era davvero così rilevante?

Il superbonus ha dato ottimi risultati: il settore delle costruzioni è l’unico in crescita, con i migliori dati degli ultimi 14 anni. E questa è un’ottima notizia per le imprese ma anche per l’ambiente, perché sono investimenti essenziali per la riqualificazione energetica, indispensabile anche secondo l’Unione europea.

Il Movimento deve difendere una sua bandiera, un trofeo, no?

Tutto il Parlamento ha chiesto la proroga, senza differenze di schieramento, perché la misura funziona sia dal punto di vista economico che ambientale.

Ma Draghi e i suoi ministri…

Il governo rispetti la volontà del Parlamento.

Ma perché la proroga non era nel Pnrr, ammesso che fosse il provvedimento giusto dove inserirla?

Non lo so, e a questo punto le supposizioni non servono. Ma le misura è fondamentale: le imprese ne hanno bisogno per programmare i lavori e questo si traduce in assunzioni.

Ettore Rosato di Italia Viva obietta: Se questa proroga era così importante per i 5Stelle, perché non era contenuta nel Pnrr che loro avevano approvato con Conte?

Conte non è più a capo del governo, perché l’hanno fatto cadere loro. Ma se fosse ancora al suo posto sono certo che non avrebbe avuto problemi nell’inserirla. Ora c’è Draghi, e anche a lui va chiesto di rispettare il Parlamento.

Ora c’è Draghi, che ha mostrato il Piano ai partiti solo all’ultimo momento. A Conte rimproveravano di gestirlo con pochi ministri, una sorta di autarchia sul Recovery. Con il nuovo premier non si può più dire?

Guardi, non mi stupisce il percorso seguito da Draghi, dati i tempi con cui ha dovuto lavorare per la caduta del precedente governo. Mi stupisce che non parlino più coloro che rimproveravano certe cose a Conte, gli stessi che invocavano il Mes o il Ponte di Messina dentro il Pnrr, e che ora tacciono pur non avendo ottenuto ciò che invocavano. È evidente che il punto delle loro critiche non era il merito, ma l’obiettivo, cioè l’ex presidente del Consiglio.

La Lega ha ricominciato a dare battaglia, più o meno su tutto. Pensa che Matteo Salvini mediti di staccarsi dall’esecutivo o fa solo rumore per alzare il prezzo?

(Sorride, ndr) La Lega governa così. Ai tempi del Conte-1 assieme abbiamo fatto anche cose importanti, che non rinnego, ma il Carroccio cerca sempre il consenso attraverso la propaganda. Se guardiamo a quanto fatto a inizio legislatura, Salvini potrebbe andare avanti almeno un anno con questo andazzo.

Scienziati traditi: nel Pnrr pochi fondi per la ricerca di base

I ricercatori e gli scienziati, anche quelli che più di altri avevano visto nel cambio di governo il ben noto “cambio di passo”, ora sono arrabbiati: dopo un anno di lotte, lettere, petizioni, moral suasion, studi, polemiche e anche entusiasmo per chiedere che una volta per tutte i fondi destinati alla ricerca venissero portati ai livelli degli altri Paesi dell’Ue, gli schemi del Pnrr hanno loro restituito quelle che sono già state definite “semplici briciole”, meno di quanto era stato promesso dal precedente ministro dell’Università.

La mobilitazione nata più di un anno fa ha un nome: Piano Amaldi, dal nome di Ugo Amaldi, fisico del Cern. Era stato immaginato un piano di investimenti per incrementare la spesa pubblica destinata alla ricerca fino al 2026. In sostanza, si prevedevano 1,5 miliardi di euro, di cui 1 miliardo per la ricerca di base e 0,5 miliardi per quella applicata, già per il 2021 con un investimento da aumentare del 14% l’anno in cinque anni. A questo, parallelamente, sarebbe seguito l’aumento del numero di borse di studio per i dottorati di ricerca, gli organici degli atenei e degli enti di ricerca, privilegiando i gruppi di ricerca scientificamente più produttivi secondo criteri meritocratici. Il Pnrr sarebbe stata l’occasione perfetta, si chiedevano 20 miliardi in sei anni. L’investimento dello Stato in ricerca sarebbe così passato dallo 0,5% del Pil ad almeno lo 0,75%, raggiungendo così quasi l’attuale investimento della Francia (pur rimanendo lontano dalla Germania).

“Poiché nel 2019 lo Stato italiano ha investito 9 miliardi di euro in ricerca pubblica, di cui 6 in ricerca di base e 3 in ricerca applicata – si leggeva in una lettera che già rivedeva la proposta al ribasso – è necessario aggiungere al bilancio ogni anno 1 miliardo per arrivare nel 2025 a un investimento di 14 miliardi. Tra il 2021 e il 2025 questa operazione richiede complessivamente almeno 15 miliardi”. Già a gennaio gli scienziati promotori avevano reputato insufficienti gli 11,77 miliardi previsti per la ricerca in una delle bozze del Recovery Plan. Lo stanziamento, dopo lunghi tira e molla con l’ex ministro dell’Università Manfredi, sarebbe dovuto arrivare a 15 miliardi, includendo non meglio definite iniziative nazionali. Oggi, la doccia fredda: neanche quella cifra, nonostante l’attuale premier Mario Draghi, appena insediato, avesse riservato particolare attenzione al tema. Nel discorso programmatico al Senato, in febbraio, aveva fatto riferimento alla necessità di “investire adeguatamente nella ricerca, senza escludere la ricerca di base, puntando all’eccellenza” ovvero “a una ricerca riconosciuta a livello internazionale per l’impatto che produce sulla nuova conoscenza e sui nuovi modelli in tutti i campi scientifici”. Il pensiero era andato subito all’università, ai cervelli in fuga, ai centri di ricerca. Sulla carta restano invece solo 5,5 miliardi.

La parte del Pnrr “Dalla ricerca all’impresa” prevede stanziamenti per 12,44 miliardi di euro dei quali: 1,8 al “fondo per il programma Nazionale di Ricerca”, 0,6 per i programmi dei giovani ricercatori, 1,61 per i “partenariati allargati estesi a Università, centri di ricerca, imprese e finanziamento di progetti di ricerca di base” e 1,5 per progetti di interesse comunitario.

Tutte le altre voci, è il punto, sono destinate ad accordi, “ecosistemi dell’innovazione”, start up e industrie. Rivoli che si allontanano dal mondo accademico, vincolati alla valutazione di commissioni ad hoc e, soprattutto, alla loro utilità applicativa che spesso si traduce in ciò che interessa nell’immediato ad aziende e mercato.

A cercare tra le altre voci, non emerge molto: 160 milioni per ricerca e sviluppo per l’idrogeno (anche in questo caso con degli strettissimi risvolti pratici sulla necessità di produrre rapidamente idrogeno verde) e 430 milioni per dottorati di ricerca e dottorati che, però, dovranno essere “innovativi”.

Accordo Draghi-Von der Leyen per evitare la figuraccia sul Piano

Forse impiccarsi al 30 aprile come data imperativa per consegnare tutto non è stata una buona idea e magari in cuor suo – e senza la grande stampa a trasformare la tempistica in un feticcio – Mario Draghi l’avrebbe evitato. Ma ormai è diventata una questione di principio. E alla fine è dovuto intervenire di persona, con una chiamata alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, per evitare la figuraccia di dover far slittare ancora i tempi di consegna del Recovery plan. Figuraccia, per così dire, auto-indotta, perché Bruxelles aveva suggerito di prendersi tempo fino a metà maggio (come metà dei Paesi Ue, peraltro). Tutto si chiuderebbe con un impegno politico.

In questa storia conta la fissazione dei tecnici europei, ma il governo ci ha messo del suo: ha deciso di consegnare il Piano prima di aver ben definito con che strumenti attuarlo. E così il Consiglio dei ministri che ieri doveva discutere del Piano è slittato per ore. Doveva iniziare alle 10: arriva, forse, solo in serata (mentre andiamo in stampa non è ancora partito). I nodi politici di sostanza sono sciolti, ma non sono quelli a pesare.

Per tutta la giornata il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che distribuisce i 190 miliardi del programma Ue (più 30 del fondo complementare in deficit) è rimasto ostaggio di un negoziato estenuante con gli uffici della Commissione. Ci sono due piani di scontro. Il primo è formale. Bruxelles non è contenta del livello di dettaglio delle “riforme” inserite nel Pnrr, la parte peraltro più incisiva della revisione del Piano lasciato dal governo Conte e quella davvero cara alla Commissione. Si va dal fisco alla lotta all’evasione, ma quelle rilevanti sono quattro: Giustizia, Pubblica amministrazione, Semplificazione e Concorrenza. Per il governo hanno un impatto positivo sul Pil nel “lungo periodo” quasi pari a quello del Piano al completo (3,2% contro il 3,6%). “Gli uffici della Commissione non sono mai soddisfatti, chiedono continue modifiche e rifiniture che rendono il negoziato infinito”, spiegano al Tesoro.

C’è poi un secondo piano, più sostanziale, quello che conta ai fini dell’attuazione dei progetti. A pesare sono i decreti che dovrebbero accompagnare il Piano garantendone l’efficacia. Il più rilevante sarà approvato tra una decina di giorni e i contenuti si annunciano di vastissima portata: dovrà disegnare la governance del Piano (monitoraggio e coordinamento al Tesoro e cabina di regia “politica” a Palazzo Chigi con poteri sostitutivi), su cui non c’è accordo con i partiti e dotare la P.A. dei poteri per assumere in (forte) deroga e a tempo decine di migliaia di figure tecniche necessarie a redigere e seguire i progetti. Il grosso degli interventi sarà di “semplificazione”, una nuova raffica di misure per “sbloccare” le procedure degli appalti e alleggerire i controlli (per esempio quello della Corte dei conti), in parte prorogando quanto già fatto dal Conte-2 in estate. L’altro decreto conterrà tutta la parte relativa alla transizione ecologica.

Come si intuisce, non proprio dettagli. Senza queste norme, il governo non sa come dire a Bruxelles come pensa di rispettare i tempi. Per questo (e per affinare le riforme) dalla Commissione avevano suggerito di prendersi del tempo. Forse memore del martellamento mediatico sui “ritardi” del Piano ai tempi del Conte-2, il governo si è impuntato sul rispetto della data simbolica del 30 aprile, complicandosi la vita.

Palazzo Chigi e Tesoro – riunendo i ministri interessati – hanno dovuto affinare diversi dettagli dei decreti a Bruxelles. Solo che alcuni nodi, a partire dalla governance, non sono ancora sciolti.

I partiti hanno visto il Piano completo solo venerdì. Ieri si è continuato a discutere delle modifiche. Il capitolo più spinoso, la mancata proroga del Superbonus al 2023, è stato risolto con la promessa di Draghi (recapitata al capodelegazione del Movimento 5 Stelle, Stefano Patuanelli) che le risorse saranno trovate nella manovra.

“Il testo è chiuso”, dicono da Palazzo Chigi. Lunedì e martedì Draghi lo illustrerà alle Camere. Giovedì il Cdm finale. Ma fino ad allora cifre e tabelle potrebbero cambiare. E fino a tarda notte si è negoziato.

È rimorto il M5S

Quando morì papa Luciani, 33 giorni dopo papa Montini, Lotta Continua titolò: “È rimorto il papa”. Ieri invece è rimorto il M5S. La notizia, come disse Mark Twain per smentire le indiscrezioni sul proprio decesso, “è grossolanamente esagerata”. Ma in Italia ormai le notizie le dà un branco di spostati, convinti che qualcuno li legga e che la realtà non aspetti altro per adeguarsi. Purtroppo per loro, accade l’opposto. Stiamo parlando degli stessi geni che tre mesi fa raccontavano di un Recovery Plan scritto coi piedi da Conte e dai suoi ministri incapaci e invocavano i Migliori per riscriverlo da cima a fondo e salvare l’Italia. Ora che i Migliori l’hanno fotocopiato e ci hanno aggiunto qualche marchettina pro Eni, pro Confindustria e anti-ambiente, peraltrto in ritardo, tutti gridano al miracolo per non dover ammettere di avere mentito ai lettori. Che peraltro, stando ai dati delle edicole e dei sondaggi, mostrano di essersene accorti. Ma dicevamo dell’ennesima morte dei 5Stelle: più che una notizia, una rubrica fissa settimanale che esce sulle migliori testate dalla loro nascita (4.10.2009). Stavolta il decesso sarebbe causato da tre fattori letali concomitanti: il video di Grillo sul figlio, la dipartita di Davide Casaleggio e della sua piattaforma Rousseau e il vuoto di leadership in attesa di Conte.

Libero: “Bancarotta M5S: Casaleggio taglia le paghe”. Domani: “Senza Conte, senza Grillo, senza Casaleggio, senza stelle: del M5S non rimane più nulla”. Belpietro su La Verità: “Senza capo e con i debiti il M5S è allo sbando”. Casaleggio jr. su La Verità: “Senza la regola della piattaforma, Grillo&C. copieranno i soliti partiti”. Corriere: “Addio al veleno tra i 5Stelle e la piattaforma Rousseau”. Rep: “Il big bang dei 5Stelle”, “Il Movimento a rischio estinzione”. Pensano che basti ripetere in stereo una cazzata perché si avveri. Come quando scrivevano che il M5S avrebbe perso le elezioni del 2013 e del 2018 (infatti le stravinse), che al referendum renziano del 2016 avrebbe vinto il Sì (infatti stravinse il No) o che al referendum antigrillino del 2020 sul taglio dei parlamentari avrebbe vinto il No (infatti stravinse il Sì). Sono fatti così, vanno capiti: non ne azzeccano una, però insistono. Ora pensano che agli elettori interessi qualcosa di casa Grillo o della bottega Casaleggio. Dopo 12 anni, non hanno ancora capito perché molti guardano ancora ai 5Stelle: perché gli altri fanno mediamente o ribrezzo o pena. Chi combatte i vitalizi ai corrotti? Il M5S. Chi ha costretto ieri Draghi a rimangiarsi i tagli all’ecobonus 110%? Il M5S e un post di Conte su Facebook. Che poi chissà come farà Conte a postare tutta quella roba sui social, essendo morto ancor prima di nascere.

Eleanor, l’anima del New Deal che potrebbe ispirare Joe Biden

È stata la più a sinistra dei Roosevelt, il “prisma” del liberalismo americano, dove per liberalismo si intende il significato nordamericano e non certo la paccottiglia italiana. Eleanor Roosevelt è figura emblematica della sinistra democratica negli Usa che ha rotto l’immagine della first lady all’ombra del marito. La prima a ricevere un incarico nell’Amministrazione, la prima a parlare a una Convention democratica, la prima a ricevere un incarico di rilievo nelle costituende Nazioni Unite non dal marito, ormai morto, ma da successore, Harry Truman.

Nel libro di Baritono ne viene un ritratto forte, in una voluminosa monografia che non è biografia della donna, ma cerca di esserlo degli Stati Uniti e della sua democrazia dagli anni Venti del Novecento fino al 1952. È l’anno in cui Eleanor Roosevelt lascia l’incarico all’Onu, dopo la vittoria di Dwight Eisenhower che si porta dietro il revanscismo repubblicano carico di figure come McCarthy o Richard Nixon. In un’intervista al nostro Furio Colombo del 1961, definiva il maccartismo “una vera e propria ondata di fascismo, la più violenta e dannosa che questo Paese abbia mai avuto”. Molto schierata, dunque, anche se Baritono non manca di ricordare la sua vocazione alla mediazione e al compromesso. Ad esempio sulla questione razziale, sul tema della “linea del colore” fatto esplodere da W.E.B. Du Bois e che lei cerca di padroneggiare senza risultati immediati. Eppure in occasione di un incontro nel 1935 con le associazioni femminili aveva sfidato il razzismo sedendo accanto alla leader nera Bethune, poi sua amica. Così come viene ricordato il suo giudizio fortemente positivo su Rosa Parks. Ma era un altro tempo e altre storie. In questo volume emerge come “coscienza critica del liberalismo”, e chissà che anche l’attuale presidente Joe Biden, che sta cercando di attuare una versione moderna di New Deal, non possa trovare ispirazione nella sua figura.

 

Eleanor Roosevelt

Raffaella Baritono

Pagine: 596

Prezzo: 35

Editore: Il Mulino

 

“Per me l’adolescenza è stata un’età adulta”

Dove Roma sfuma tra le ville dell’Olgiata e i casolari della Cassia, ecco la campagna che si affaccia sul lago di Bracciano. Qui, in una vecchia stalla ristrutturata, vive un settantenne dal fisico asciutto. Trascorre il suo tempo in una stanzetta con vista sul giardino. Dentro c’è il divano sul quale si siede a scrivere con un quaderno poggiato sulle ginocchia, il letto in cima a un soppalco, due chitarre appese a una parete, una statua lignea dono del suo amico Mauro Corona.

Erri De Luca da trent’anni scala le rocce ma anche le classifiche dei best-seller. I lettori si contendono i suoi libri smilzi come fossero prontuari sapienziali, sedotti dalla sua prosa rarefatta e aforistica. La critica ha smesso di recensirlo, bollando le sue storie di “estetismo proletario”. De Luca raccoglie i postumi hemingwayani dell’azione e quelli pasoliniani dell’impegno, in un compendio tra vita e letteratura che per taluni profuma di autenticità, per talaltri di mitomania.

Lo spettro delle identità dell’autore napoletano sfiora il sincretismo: c’è il militante di estrema sinistra che non rinnega il salto nell’illegalità di occupazioni e rapine; c’è il mistico che studia da autodidatta l’ebraico antico al mattino prima di andare in fabbrica; c’è il pacifista che durante il conflitto nella ex Jugoslavia guida i convogli che portano aiuti umanitari; c’è l’intellettuale engagé che sposa le lotte in val di Susa e finisce in tribunale per istigazione al sabotaggio. De Luca continua a restare fedele a se stesso, a un universo valoriale che non ha nulla a che spartire con le mollezze di tanti suoi colleghi di lettere.

Nato in una famiglia napoletana della piccola borghesia, non ancora maggiorenne si trasferisce a Roma inseguendo la chimera della rivoluzione. La sua iniziazione è in una baraccopoli, installa luce elettrica abusiva a nuclei di disperati. Aderisce a Lotta Continua, si mantiene con il magro salario di operaio perché “noi sceglievamo di vivere con gli stessi mezzi di coloro con cui lottavamo”. Approda da volontario in Africa, pianta pale a vento per costruire serbatoi sopra i pozzi. Ritorna in Italia, si reinventa come operaio di rampa all’aeroporto di Catania e poi come muratore tra Milano e Napoli. Proprio a Milano, alle prime battute del processo Calabresi, ospite di una ex compagna di Lotta Continua appena assunta come segretaria alla Feltrinelli, nasce la sua carriera di scrittore. L’amica recupera il suo primo “mucchietto di fogli” e ritorna con un contratto. Nel 1989, alle soglie dei quarant’anni, esce il suo esordio Non ora, non qui. È la rievocazione della sua infanzia tra i vicoli di Napoli.

Nel suo ultimo A grandezza naturale, da pochi giorni in libreria e centrato sul rapporto tra padri e figli, si legge: “A Napoli l’adolescenza è stata un’età adulta”. Verità che ha raccontato in Tu, mio: un ragazzino che sull’isola di Ischia cresce tra i pescatori, in Montedidio: storia di un tredicenne che va a bottega da un falegname.

Nella narrativa di De Luca la politica è un sottofondo costante. In Aceto, arcobaleno le lotte sociali trasformano un operaio in un terrorista, in Tre cavalli un uomo in Argentina si arruola nella lotta clandestina contro la dittatura. Altro tema ricorrente nelle sue opere è la natura. In Storia di Irene una bimba è salvata in mare dai delfini, in Il peso della farfalla va in scena un duello in montagna tra un camoscio solitario e un cacciatore.

De Luca scrive con polpastrelli martoriati dalla fatica del corpo e non riesce a emanciparsi dal suo vissuto. In La parola contraria rinnova un movente ideologico che ai più appare fuori tempo: “Oltre a quella di comunicare, è questa la ragione sociale di uno scrittore, portavoce di chi è senza ascolto”. Forse è questo a risultare indigesto ai puristi, una vocazione letteraria che trae legittimazione unicamente da se stesso. Sovviene un racconto che potremmo eleggere a emblematico della cifra di De Luca nell’orizzonte della nostra narrativa recente. Si intitola La città non rispose: un manovale “a nera” napoletano va tutte le mattine in cantiere a impastarsi di sudore e di calce. Riprende fiato solo nel sottosuolo della metropolitana, dove in piedi, quasi sull’attenti, legge Viaggio al termine della notte di Céline.