Cadaveri nel ventre della balena di Giona: le isole di Stoccolma funestate da omicidi

Samuel è un diciottenne di Stoccolma. La mamma Pernilla vive da sola con lui. Ex ragazza madre e figlia unica, perdipiù, di un rigido e cupo pastore pentecostale. I drammi domestici l’hanno segnata. Dapprima la separazione dei genitori, indi la gravidanza con un musicista “sballato”. E ora questo figlio sbandato. Samuel non studia più e fa parte di un gang di spacciatori capeggiata dal russo Igor. Fin qui siamo nella cronaca di tutti giorni. Storie metropolitane di ordinaria fatica e ordinario squallore.

Accade però che Samuel scappi di casa. Pernilla ha scoperto un pacchetto di coca e l’ha buttato. Per evitare la vendetta di Igor, il diciottenne si rifugia in un porto dell’arcipelago di Stoccolma. Legge un annuncio di lavoro. Ancora una madre e un figlio soli. Rakel accudisce Jonas, paralizzato per un incidente. Cerca un ragazzo per tenere compagnia a Jonas, leggergli libri, fargli ascoltare musica. Abitano in una villetta su una piccola isola. Samuel si trasferisce lì. Allo stesso tempo la polizia indaga su due cadaveri restituiti dal mare. Avvolti e incatenati in coperte: si tratta di due ragazzi. Manfred e la sua collega Malin scoprono un labile filo tra gli omicidi e la gang di Igor. È la pista giusta?

L’osannata e brava Camilla Grebe torna nelle librerie italiane con un altro thriller rompicapo ben strutturato, Sotto la cenere (traduzione di Gabriella Diverio). Sinistre suggestioni bibliche (il profeta Giona nel ventre della balena) si mescolano con le inquietanti dipendenze social della nostra èra, fino al sorprendente epilogo. E il succedersi degli eventi scorre accanto a un altro dramma, quello della figlioletta di Manfred, in coma dopo essere caduta dalla finestra. Un thriller per lettori dai nervi saldi, senza dubbio.

 

Sotto la cenere

Camilla Grebe

Pagine: 491

Prezzo: 20

Editore: Einaudi

 

Com’è triste la “Primavera” di James e Kate

Un pulcino di tordo cade dal nido e muore. I genitori continuano a portargli vermi, tentando di imbeccarlo invano, girando di tanto in tanto la testa, incapaci di capire come mai non li prenda. È un’immagine che trafigge James con un dolore che “non ha più dimenticato”.

Accade a Londra, una mattina di primavera, “aprile è il più crudele dei mesi”, stagione poco consolatoria, nonostante il simbolismo di fertilità e rinascita, per chi si sente, seppur appena trentenne, già a corto di speranze e ambizioni e soprattutto, come i due tordi che si guardano attorno perplessi, rimugina all’infinito sul perché niente vada come vorrebbe. Prima milionario grazie a una start-up, poi, causa fallimento, costretto a ridimensionare abitudini, abbassare aspettative e farsi andar bene una “vita decorosa”, James si barcamena tra un lavoretto e l’altro, compresa l’ippica al limite della legalità e prova a far girare una relazione che non spicca il volo.

Protagonista di Primavera – terzo romanzo di David Szalay, nel 2013 nella lista dei migliori scrittori britannici (ha origini canadesi) under 40 secondo Granta, finalista al Booker Prize 2016 con la raccolta Tutto quello che è un uomo (Adelphi) –, James incontra Katherine, receptionist in un albergo di lusso col sogno di aprirne uno suo in una location esotica, separata ma non divorziata da un paparazzo appassionato di fotografia paesaggistica, a una cerimonia nuziale, in inverno. I due scivolano da subito in una liasion inconsistente, noiosa, brachicardica che ruota intorno alla completa evasività di lei – che tre volte sì e una no si sottrae all’intimità (un flop totale, per inciso), risponde a monosillabi e preferisce trascorrere il tempo libero per conto suo, salvo poi ritrattare con crudele seduttività se le fa comodo – e l’inclinazione all’insistenza di lui, alla mercé degli snervanti umori di lei. James fatica a capire – non ci riesce neanche quando lei, di fronte all’aneddoto del tordo, abbozza solo un “oh, no”, sforzandosi di addolorarsi senza riuscirci, che per sentirsi soli in coppia tanto varrebbe esser single.

Alternando le voci in terza persona, con scrittura asciutta, squisitamente cinica, lontano da ogni svenevolezza sentimentale ma anche da ogni giudizio, Szalay è abile a restituire l’immagine di due solitudini moderne che nell’unirsi si fanno ancor più nette. Tormentati da un passato punteggiato di momenti gloriosi – per James le corse in cabriolet, il profumo della fama e del successo, per Katherine il ricordo del colpo di fulmine col marito e l’illusione di aver trovato l’affinità perfetta – i due si muovono “come un sacchetto di plastica portato dal vento” sullo sfondo di una Londra crepuscolare e fredda, specchio della loro interiorità disidratata.

Ma è proprio la fragilità del legame a consentirgli di arrivare al punto di rottura che costringe a tirare una riga su “ieri”, smettere di pensare a quanto sia “merdosamente triste il modo in cui tutto va avanti, scivolando verso il nuovo” (il tema del tempo che passa inesorabile, senza che se ne abbia vera coscienza, è caro all’autore) e cominciare a credere che quel “nuovo” potrebbe riservare una primavera che palpita anziché agonizzare.

 

Primavera

David Szalay

Pagine: 312

Prezzo: 19

Editore: Liberilibri

Zero, gli immigrati e i loro figli cercano la luce nella grigia periferia milanese

Attribuire all’adolescenza un superpotere non è un inedito. Nella serie I am Not Okay with This Sidney è una 17enne che ha un problema con le emozioni: quando è molto arrabbiata, o ha molta paura, sposta e distrugge gli oggetti senza toccarli. Succede una cosa simile a Omar, il protagonista di Zero. Le emozioni forti lo fanno scomparire. Ma qui il superpotere, più che una metafora dell’adolescenza, finisce per rappresentare una categoria sociale: i giovani di seconda generazione che vivono in periferia e si sentono invisibili.

Zero è la nuova serie italiana di Netflix liberamente tratta dal romanzo Non ho mai avuto la mia età di Antonio Dikele Distefano, che ha partecipato alla scrittura del teen drama. Il protagonista è un ragazzo afroitaliano che di lavoro consegna pizze e per passione disegna fumetti. Si chiama Omar e vive in un quartiere alla periferia di Milano, il Barrio, dove ultimamente succedono cose strane: motorini incendiati, clochard malmenati, statue decapitate. Omar e i suoi nuovi amici Sharif, Momo, Sara e Inno, tutti giovani di seconda generazione, scopriranno che dietro questi episodi si nasconde un progetto immobiliare che minaccia di distruggere l’identità del Barrio e rovinare la vita a chi ci abita.

La serie racconta la storia di un ragazzo che si sente invisibile e riesce a trasformare la sua debolezza in una forza. Ma racconta soprattutto il suo mondo, la periferia, e le persone che lo abitano, spesso immigrati o figli di immigrati. In questo senso Zero rappresenta uno spartiacque: è la prima serie tv italiana il cui cast è quasi interamente composto da attori afroitaliani (Giuseppe Dave Seke, il protagonista, è un esordiente). Il suo limite è quello di proporre un mondo fatto di opposti in cui i “buoni” lottano contro i “cattivi” e l’eroe cresciuto ai margini s’innamora di una ragazza ricca che dalla vita ha avuto tutto. Da una serie come Zero ci saremmo aspettati una maggiore attenzione per le sfumature.

 

“Nudes”: revenge porn al tempo delle mele

Vittorio ha il piglio sicuro di chi immagina per sé un futuro brillante. Sofia, dopo anni passati a seguire le regole, sente il bisogno di rischiare e mettersi in gioco. Ada è insicurezza pura: rispetto a chi è, a cosa vuole, al suo corpo. Tre adolescenti diversi per età (18, 16, 14 anni) e per carattere che si ritrovano accomunati dal revenge porn, la condivisione su Internet o sui social di immagini o video intimi di una persona senza il suo consenso. Il tema è al centro di Nudes, la nuova serie italiana disponibile da qualche giorno su RaiPlay.

Diretta da Laura Luchetti, Nudes è l’adattamento di un’omonima serie norvegese, lo stesso percorso seguito qualche anno fa da un’altra serie di grande successo come Skam. Anche in questo caso, spiega la regista, non si è trattato di una trascrizione ma di una traduzione: “Certi meccanismi della serie originale non erano adatti alla nostra cultura. La versione norvegese è anche più pudica, la nostra invece è piena di pelle, di volti, di passioni”. Si tratta di una serie antologica che in dieci episodi racconta tre storie, accomunate dal tema del revenge porn e dall’ambientazione nella provincia bolognese (“Volevamo concentrarci su una comunità apparentemente senza problemi” spiega il produttore Riccardo Russo). Ognuna delle tre storie illumina un aspetto diverso del fenomeno e assume un punto di vista differente: quello di chi posta il video, di chi viene postato e di chi ingenuamente condivide foto intime e subisce un ricatto.

Vittorio (Nicolas Maupas, Mare fuori) è un leader nato. Ha appena vinto un progetto scolastico per la riqualificazione di uno spazio abbandonato, ma non ha nemmeno il tempo di festeggiare che riceve una chiamata dalla questura. Gli chiedono conto di un video che ha condiviso settimane prima. Gli comunicano che è indagato per diffusione di materiale pedopornografico: Vittorio prima cade dalle nuvole, poi minimizza, infine si trova costretto ad ammettere. Prima di tutto con se stesso: “Non ho calcolato le conseguenze” dice.

Sofia (Fotinì Peluso, La Compagnia del Cigno) va a una festa e incontra Tommi, il ragazzo che le piace. Le amiche convincono Sofia a lanciarsi: e lei, sempre così prudente e attenta a mantenere il controllo, si lancia. Sofia e Tommi parlano, si baciano, fanno l’amore. Il giorno dopo il video di loro due che fanno sesso gira nelle chat di gruppo della scuola. Per Sofia comincia un incubo fatto di sguardi indiscreti, commenti molesti, messaggi volgari e offensivi.

Ada (la giovanissima Anna Agio) è diversa dalle sue compagne di classe interessate solo ai ragazzi. Ma quando si accorge che anche la sua amica Claudia è cambiata s’iscrive a un’app di incontri. Comincia a chattare con un ragazzo che la riempie di complimenti e la convince a inviare delle foto senza vestiti. Passano poche ore e Ada viene contattata da uno sconosciuto: le sue immagini, le scrive, sono finite sul web.

Con Nudes prosegue l’operazione di ringiovanimento del canale digitale della Rai già avviata da prodotti come Pure e Mental. La serie ha come protagonisti i ragazzi ed è rivolta prima di tutto a loro. Il tema del revenge porn diventa lo spunto per parlare delle emozioni contrastanti che caratterizzano l’adolescenza. “C’è bisogno sia di un’alfabetizzazione informatica, sia di un’alfabetizzazione emotiva” spiega la direttrice di RaiPlay Elena Capparelli: “Questa serie parla di consapevolezza ma anche di emozioni e sentimenti”.

Di Nudes non convincono del tutto i dialoghi, che quando scadono nella banalità suonano artificiosi, e l’interpretazione di alcuni attori (l’80% di loro non aveva mai recitato prima). La serie ha però il grosso merito di trattare un tema delicato in maniera credibile e soprattutto di non assumere una posizione giudicante. Il confine fra vittime e colpevoli, infatti, tende a sfumare quando si capisce che sia gli uni che gli altri sono adolescenti fragili e incapaci di gestire le loro emozioni. Un problema che riguarda anche molti adulti: il revenge porn, del resto, non è certo un’esclusiva dei teenager.

 

Nudes

Dall’omonimo format norvegese

Su RaiPlay

Gianni Amelio torna sul set con Lo Cascio e Germano

Gianni Amelio inizierà a dirigere a maggio Il signore delle formiche, un nuovo film interpretato da Luigi Lo Cascio e probabilmente Elio Germano, prodotto da Kavac e Rai Cinema e ambientato a Busseto, Roccabianca, Milano e Velletri. Al centro del racconto le vicende di Aldo Braibanti, geniale ed eretico intellettuale comunista e omosessuale processato e condannato negli anni 60 con la pretestuosa accusa di plagio nei confronti di un giovane discepolo di famiglia ultraconservatrice.

Il romanzo di Elena Ferrante Il giorno dell’abbandono, che aveva già ispirato nel 2005 il film omonimo di Roberto Faenza con Margherita Buy, verrà trasposto per il cinema negli Stati Uniti in una produzione HBO interpretata da Natalie Portman e diretta da Maggie Betts incentrata su una donna che rinuncia ai suoi sogni per una vita familiare stabile e una volta abbandonata dal marito cerca di riportare il suo mondo all’interno di un asse in apparenza impossibile. L’incessante “Ferrante Fever” americana per la misteriosa scrittrice napoletana prevede nei prossimi mesi anche una nuova serie per Netflix tratta da La vita bugiarda degli adulti e un adattamento del libro The Last Daughter. Basato sul romanzo La figlia perduta il film d’esordio dell’attrice Maggie Gyllenhal interpretato dal premio Oscar Olivia Colman, Dakota Johnson, Paul Mescal, Ed Harris e Alba Rohrwacher vedrà in scena una donna che durante una vacanza matura un’ossessione per un’altra donna e sua figlia.

Beppe Fiorello debutterà alla regia con Stranizza d’amuri, sceneggiata con Carlo Sala, Andrea Cedrola e Josella Porto e realizzata da Iblafilm e Pepito Produzioni con Rai Cinema che racconterà la storia vera di un delitto di matrice omofoba avvenuto negli anni 70 nella provincia di Catania.

Grazie a “Minari” il sogno americano ora parla coreano

Non ci poteva essere film migliore per battezzare, lunedì 26 aprile, la riapertura delle sale. Quarto lungometraggio di Lee Isaac Chung, nato nel 1978 in una fattoria di Lincoln, Arizona da genitori coreani, Minari parte da outsider ai 93esimi Oscar con sei candidature e, comunque vada domenica notte, arriverà da favorito ai cinefili di tutto il mondo. Ha il lessico familiare di Hirokazu Kore-eda (Like Father, Like Son), la tensione all’invisibile di Hayao Miyazaki (La città incantata) e la dialettica di coppia di John Cassavetes (Una moglie). Cuore e sguardo, empatia e tecnica, e il merito è anche del produttore Brad Pitt, che con la sua Plan B si – e ci – sta regalando soddisfazioni non effimere, anche sul fronte Academy Awards, da 12 anni schiavo a Moonlight, di cui Minari rinnova la partnership con l’influente A24.

Il regista e sceneggiatore prende dall’album di famiglia e porta sullo schermo una biografia non letterale, ma emozionale e, al contempo, archetipica: il Sogno Americano è lo stesso, la frontiera ancora una volta da spostare più in là, ma sono diversi – la tanto celebrata diversity, appunto – i pionieri, coreani trapiantati in California a selezionare i pulcini per sesso e finiti in Arkansas a perseguire l’indipendenza agricola. Tra mille problemi esogeni, ce n’è uno interno, e difficilmente sormontabile: il sogno è del pater familias Jacob (Steven Yeun, perfetto) e chissà quanto la moglie Monica (Yeri Han, brava), i due figli e la suocera Soonja (Yuh-Jung Youn, super) lo condividano… Se la diversity, segnatamente quella asian-american spartita agli Academy Awards con Nomadland di Chloé Zhao, si attaglia all’agenda sociopolitica degli States, Minari può anche rivendicare una spinta oppositiva al qui e ora, peraltro assai più interessante: al bando omogeneizzazione e pacificazione, Lee Isaac Chung confida nella natura autentica delle relazioni umane, ovvero crede nel conflitto e ne fa ridondanza, uomo contro natura (e Stato), marito contro moglie, vecchi e futuro, giovani e passato. Insomma, acqua e fuoco, giacché non può esserci conforto senza contrasto, salvezza senza dissipazione, riuscita senza fallimento. Serve tempo, e il titolo dice bene: minari è un’erba piccante coreana che diventa più rigogliosa nella sua seconda stagione di crescita, e così è stato per la seconda generazione, il regista in fondo, grazie al sacrificio dei genitori. Inquadrature oblique come prospettive ideologiche sull’American Dream, rasoiate sonore (fascinosa soundtrack di Emile Mosseri) a mo’ di sveglia poetica, pensieri e sentimenti sempre all’erta e il piccolo, irresistibile David (Alan Kim) per bonus, Minari ha il coraggio, e il pudore, di raccontare un’altra volta una storia vecchia come il mondo. Mercoledì 5 maggio alle ore 21.15 verrà trasmesso in prima visione su Sky Cinema 2 (streaming su NOW e disponibile on demand), certo merita il cinema.

 

Che bravo giardiniere Manzoni. Prima la terra, poi la penna

Basterebbe dare credito a quello che raccontava di lui Carlo Dossi, suo attento conoscitore, oltre che lontano cugino, e l’immagine che scaturirebbe di Alessandro Manzoni sarebbe quella di un simpatico dialettofono, un ironico conversatore, un ex libertino ancora focoso, con tanto di poesie licenziose giovanili al suo attivo, capace di non prendersi troppo sul serio anche una volta diventato famoso. A un ammiratore che gli declama alcuni versi de L’Adelchi, ad esempio, dopo avergli fatto i complimenti, Alessandro gli domanda a chi appartengano e, quando il tipo risponde che sono i suoi, commenta: “Ditt de lu piasen anca a mi”.

È una rappresentazione che cozza con quella tramandataci per tradizione, di un uomo perennemente di mezz’età, dallo sguardo grave e mesto, come in uno dei suoi più celebri ritratti. Il paradosso conseguente a tale fraintendimento – lo diceva sempre Dossi – è che “il rivoluzionario Manzoni lo chiamano reazionario!”.

Eppure, esattamente duecento anni fa, I Promessi Sposi cominciano a essere scritti proprio sulle ceneri di una delusione politica. È appena fallita in Piemonte la rivolta contro gli Asburgo e, dopo aver scritto di getto un’ode patriottica, che subito distrugge, Alessandro si ritira a Brusuglio, mettendo mano al suo capolavoro il 24 aprile 1821, lo stesso giorno in cui Silvio Pellico viene condannato per cospirazione a quindici anni di carcere nella fortezza dello Spielberg.

Manzoni si trova dunque in campagna, nella villa che un tempo era appartenuta a Carlo Imbonati, l’amante di sua madre, per seguire il quale lei lo aveva abbandonato ancora bambino. Alessandro stesso l’aveva ristrutturata, ne aveva progettato il parco, piantando millecinquecento alberi tra castagni, querce, faggi, magnolie e acacie, meli e ciliegi. Era stato il primo in Lombardia a coltivare i limoni. A importare aceri giapponesi e cedri dell’Himalaya. Il caffè. Addirittura il cotone.

E lì, amareggiato per l’esito dei moti, preoccupato per la sua sorte, visto che molti suoi amici erano stati arrestati e lui era tenuto d’occhio dalla polizia austriaca, Alessandro continua a fare quello che fece tutta la vita: l’agricoltore. Lo considera il suo primo mestiere. Esercitato insieme all’altro, la poesia – che rappresenta invece l’impegno civile e morale – ma con lo stesso amore per lo studio e la scienza, la stessa preparazione e competenza, dedizione e maniacalità dei dettagli.

Da buon lombardo pragmatico, oltre a gestire direttamente i suoi terreni, evitando le scelte parassitarie dell’affitto e della mezzadria, commercializza i prodotti, intuendo che il guadagno gli possa arrivare dalla terra, non dalla penna. Come gli ha insegnato suo nonno, Cesare Beccaria: per uno Stato gli utili che produce l’agricoltura sono “i più durevoli contro l’urto de’ secoli e contro le vicissitudini delle politiche combinazioni”, grazie alla “costanza della natura” e “l’incostanza degli uomini”. E, siccome Alessandro gli utili li intende non solo per sé ma collettivi, includendo anche quelli per i suoi contadini, anzi, per tutti i contadini del mondo, tenta di incrementarli, sperimentando nuove tecniche che l’Italia arretrata ignora. È quest’uomo che con umanistica sfida non si rassegna al normale andamento degli eventi, ma tenta di correggerli, è quest’uomo che desidera gli italiani “fratelli su libero suol”, che, tra una semina e la cura dei bachi da seta, si mette a scrivere I Promessi Sposi. Ma solo quando, dopo pochi mesi dall’inizio, Alessandro teme di perdere l’amata moglie Enrichetta, si getta a capofitto nella sua storia milanese del secolo XVII, per esorcizzare quanto c’è di incerto, di pericoloso e persino di terribile nella felicità.

Confidando nell’ignoranza della censura austriaca, incurante dei rimproveri di Padre Tosi che lo sprona a dedicarsi alle Osservazioni sulla morale cattolica, Manzoni in quelle pagine ci mette dentro tutto. Ci mette dentro il “governo più arbitrario combinato con l’anarchia feudale e l’anarchia popolare”, le prepotenze e le leggi che danno sempre ragione ai più forti e colpiscono i poveretti, l’impunità organizzata e la “sfrontatezza nella corruzione”. Ci mette gli abbandoni e le separazioni patite nell’infanzia, le nevrosi della maturità, due figlie morte e il presentimento di altre catastrofi. Ci mette un matrimonio che non s’ha da fare, come il suo con la calvinista Enrichetta, che i preti non avevano voluto benedire per la differenza di culto, la carestia e la peste, Dio e il male, la fede restituita e lo scetticismo. E partorisce un singolare romanzo, personalissimo eppure universale, un meraviglioso libro di guerra e di pace, un libro dei tempi di emergenza. Perfetto per questi nostri tempi inquieti.

L’Asean aggiunge un posto a tavola per il generale golpista

Non può permettersi di concludersi con l’ennesima “dichiarazione di allarme” il summit dell’Asean, l’Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico che si tiene oggi e domani a Jakarta con lo scopo di trovare una soluzione congiunta all’escalation di violenza in Birmania. Ma gruppi di attivisti per i diritti umani ne contestano la premessa: dal loro punto di vista, aver invitato al tavolo il generale Min Aung Hlaing, al potere in Birmania dopo il golpe dello scorso 1 febbraio, equivale a legittimare la giunta militare e la sua violenza. Chiedono al contrario ai rappresentanti dei 10 Stati membri di Asean di considerare l’espulsione della Birmania per abusi sui civili, e di trattare solo con i rappresentanti del governo di unità nazionale che si è costituito la scorsa settimana e che inclusi parlamentari pro-democrazia e, almeno nominalmente, l’ex leader de facto Aung San Suu Kyi, detenuta dal golpe, e i leader della protesta. Un appello che l’Asean, per realismo, ha deciso di ignorare: Min Aung Hlaing ha annunciato la sua presenza fra gli altri leader, fra cui 6 capi di Stato dell’area. L’invito al generale è un test per l’Asean, che finora non ha mai interferito nella politica interna dei suoi membri: ma la tradizionale posizione di neutralità non è più sostenibile. L’Assistance Association for Political Prisoner conta 739 morti e 3300 detenuti; ma la crisi birmana, da politica e dei diritti umani, sta rapidamente diventando una emergenza economica e umanitaria. Il blocco di molte attività e lo sciopero di medici, ingegneri, dipendenti pubblici, impiegati di trasporti, manifatture, banche hanno paralizzato il Paese. In alcune aree il prezzo del riso è salito del 35%, e sale il rischio di migrazione di massa nei paesi confinanti. La crisi birmana minaccia di estendersi oltre i confini nazionali: per questo fra le proposte in discussione ci sarà una moratoria per permettere l’arrivo nel paese di provviste e medicine e la nomina di un inviato speciale per il dialogo fra i militari e il governo di unità nazionale.

“Allah Akbar”: jihadista sgozza agente disarmata

Ancora una volta si è tornato a uccidere in Francia al grido di “Allah Akbar”. Intorno alle 14.20 di ieri, Stéphanie, un’agente amministrativa di polizia di 49 anni, è stata ammazzata mentre rientrava nel suo commissariato dalla pausa pranzo. Un uomo l’aspettava, è entrato con lei e, davanti ai colleghi, l’ha aggredita con un coltello da cucina, colpendola più volte alla gola. Fonti della polizia hanno confermato che ha gridato “Allah Akbar” mentre la sgozzava. I colleghi della donna sono intervenuti il più rapidamente possibile. Uno di loro ha sparato due colpi e ha abbattuto l’aggressore. Stéphanie è morta pochi minuti dopo. È successo a Rambouillet, una cittadina tranquilla e residenziale a una sessantina di chilometri a sud-ovest Parigi, nel dipartimento delle Yvelines. La vittima aveva due figli, di 13 e 18 anni. In quanto funzionaria amministrativa non era in uniforme e non era armata, né era formata per far fronte a un attacco di questo tipo. Lavorava al commissariato di Rambouillet da una ventina d’anni. Era allo sportello di accoglienza. Il terrorista, un tunisino di 37 anni, era arrivato in Francia clandestinamente ed era stato regolarizzato nel 2009.

Addosso gli è stato trovato un permesso di soggiorno valido fino al 25 dicembre 2021. Sul cellulare, l’ultima pagina consultata era un video su YouTube in riferimento al jihadismo. Si era trasferito da poco a Rambouillet, dove lavorava come fattorino a domicilio. Era incensurato e non era schedato per radicalizzazione. Gli agenti di polizia sono bersagli del terrorismo islamista da diversi anni in Francia. Uno degli attentati contro dei poliziotti che si ricorda di più è successo proprio nello stesso dipartimento delle Yvelines, nel 2016: un’altra funzionaria di polizia era stata uccisa, a coltellate, con il marito, poliziotto anche lui, nella loro casa di Magnanville, davanti al figlio di tre anni. Il terrorista, Larossi Abballa, affiliato all’Isis, con precedenti penali, era stato abbattuto dalle forze speciali. Ed è sempre nello stesso dipartimento, a Conflans-les-Yvelins, che è stato ucciso, decapitato, il 16 ottobre 2020, anche Samuel Paty, il professore di storia che voleva insegnare cosa è la libertà di espressione ai suoi allievi mostrando le caricature di Maometto. Ieri l’inchiesta per omicidio è stata affidata alla Procura antiterrorismo. Se il profilo dell’aggressore, così come il suo percorso verso la radicalizzazione, per ora non sono noti, le modalità dell’omicidio, che si ripetono sempre uguali a ogni nuovo attacco di questo tipo, non lasciano dubbi sul movente islamista. Stéphanie era “un’eroina del quotidiano”, ha detto ieri il premier Jean Castex. “Non cederemo nulla ai terroristi”, ha scritto Emmanuel Macron in un tweet, una frase che i francesi gli sentono ripetere spesso, in un Paese dove la minaccia terrorista resta forte.

“Delitti, economia, virus. Amlo mente su tutto e alle urne sarà punito”

“Sono pronto a non tradire il mio popolo, questa è la mia promessa. Non ho diritto di sbagliare”. Era il 1° dicembre 2018, Andrés Manuel Lopez Obrador – primo presidente di sinistra messicano dopo un secolo di egemonia della destra – dava inizio alla “quarta trasformazione” dopo l’indipendenza, la riforma e la rivoluzione. Sei anni a conclusione dei quali il Messico avrebbe raggiunto una profonda trasformazione. “Un progetto forse troppo ambizioso, che Amlo preparava da decenni mentre organizzava la sua elezione e che per raggiungere, in questa prima parte, del suo mandato ha dovuto fare il tutto per tutto, compreso mentire”. Il 6 giugno si terranno in Messico le elezioni di mezzo termine, banco di prova della “trasformazione” del presidente di Morena e per l’occasione l’Ong Signos Vitales, che prende il polso della situazione del Paese, ha pubblicato il primo dei suoi quattro report annuali.

Il titolo non lascia adito a dubbi: Il valore della verità e Carlos Lascurain, direttore dell’organizzazione, ci spiega da Città del Messico che “le bugie sono ormai pane quotidiano per Lopez Obrador” il quale, secondo la Ong, utilizza “le sue mañaneras, conferenze stampa quotidiane mattutine per snocciolare dati falsi e intestarsi vittorie, senza dare la possibilità ai giornalisti, se non vicini al potere, di porre domande”. Un diluvio sul bagnato in un Paese in cui gli omicidi dei giornalisti sono all’ordine del giorno – da inizio anno ne sono già morti già 14 –. “Sì, in effetti le conferenze stampa dal salone della Tesoreria del palazzo Nazionale potevano essere uno strumento positivo, non tutti i presidenti rendono conto ogni mattina ai cittadini del proprio operato. Ma col tempo si sono trasformate in strumento di propaganda oltreché in un’escamotage per non lasciar trapelare altre voci dal governo”, dice Lascurain. Ma la questione non è solo formale. “I dati forniti sono falsati: si va dalla lotta alla povertà – secondo Lopez Obrador in questi tre anni di governo avrebbe contribuito più di tutti gli altri presidenti alla crescita, ma secondo il nostro report dopo una crescita iniziale, il 30% della popolazione soprattutto di classe media ha sofferto un impoverimento a fine 2020. Alla questione della sicurezza, altro cavallo di battaglia di Amlo. A sentire lui la criminalità è azzerata, quando noi sappiamo che ha rimandato l’esercito a pattugliare le città dopo aver tagliato i fondi alla sicurezza, ma gli omicidi si sono ridotti solo dello 0,34%”, continua il direttore di Signos Vitales. La ministra per i Problemi della Sicurezza, Rosa Icela Rodríguez, ha reso noto che dall’inizio della campagna elettorale, a marzo, sono dieci i candidati uccisi o che risultano desaparecidos. In totale finora le autorità hanno ricevuto denunce di minacce da parte di 117 candidati a varie cariche, e a 41 di essi il ministero ha fornito specifica protezione. Una situazione fuori controllo che con la pandemia è letteralmente esplosa. “Il presidente Lopez Obrador mente anche sui numeri del Covid-19, se è per questo. Il governo sa benissimo che i morti sono 214 mila, ma in conferenza stampa ne toglie sempre 14 mila al computo”, racconta Lascurain. In più, continua a sostenere che l’economia non ha quasi risentito delle conseguenze del virus e che la Sanità e l’educazione messicana hanno tenuto, quando, anche su questo i dati che presentiamo nel report dicono che il 28.5% delle attività ha fallito nell’ultimo anno, ad esempio”. L’Ong è cosciente che la pandemia è destinata a lasciare tracce indelebili sull’economia mondiale, “ma – spiega il direttore di Signos Vitales – è scoraggiante sapere che il nostro presidente aiuta solo le imprese pubbliche come la compagnia petrolifera Pemex infischiandone dell’iniziativa privata, così come dei finanziatori internazionali dai quali dipendiamo, i quali, ogni qual volta che lui parla e li attacca fanno sentire il proprio dissenso in Borsa.

Quanto alla ripresa economica e agli investimenti, Amlo non sembra stia puntando sui progetti giusti, come la scuola magari fornendo ai ragazzi strumenti per la didattica a distanza, al contrario ha appena stanziato milioni di pesos per il colossale progetto del treno Maya. Un’idea molto bella, ma non certo urgente in questo momento”. Per chiudere, Lascurain ci ricorda un altro dato fondamentale per il Messico sul quale Amlo mentirebbe. “Quello dei femminicidi. Non soltanto, secondo i nostri dati, le donne continuano a morire – 800 per 100 mila abitanti negli ultimi due anni – ma le Ong che da sempre lottano contro la violenza si sono sentite dire dal presidente che prima del suo arrivo non esisteva neanche il termine femminicidio”. Intanto sono proprio le organizzazioni femministe messicane ad aver identificato tra i candidati ai 500 seggi del Congresso federale, 15 governatori e l’80% di sindaci e consigli comunali del Messico, quanti, tra gli uomini, siano stati denunciati per violenza, molestie o stupro, se non addirittura condannati. Insieme al report di Signos Vitales le Ong sperano di “incidere sulla decisione dei connazionali al voto”. Secondo Oraculus, che raggruppa i sondaggi finora pubblicati, il partito di Amlo, Morena, calerebbe di 20 punti percentuali rispetto al 2018 ottenendo il 44% dei voti, seguono Pam e Pri al 17%. “Sarebbe un Congresso molto più variegato di quello attuale”, commenta Lascurain. Mentre Amlo scende al 63% del gradimento dal 75% e oltre di inizio mandato. Forse è la “quinta trasformazione”.