“Concessione violata e report copia-incolla: Stato complice nella strage del Morandi”

La strage del ponte Morandi non è solo la storia di una concessionaria privata che si è arricchita tagliando sulla sicurezza. L’atto di accusa della Procura di Genova riguarda anche il ruolo di uno Stato, che attraverso i suoi più alti dirigenti (come l’ex direttore generale della Vigilanza Vincenzo Cinelli, tra gli indagati) “ha omesso sistematicamente di vigilare – in palese violazione degli obblighi imposti dalla normativa e dalle condizioni concessorie – sull’attività di sorveglianza, manutenzione e riparazione tempestiva dei difetti”. Autostrade per l’Italia non ha semplicemente ingannato il controllore pubblico, inviando dati falsi che sottostimavano l’ammaloramento del viadotto: il ministero, secondo i pm, è rimasto “volontariamente all’oscuro” e si è “volontariamente disinteressato”. E “in conseguenza della totale ignoranza – volontariamente perseguita – delle condizioni di manutenzione e di sicurezza del viadotto Polcevera, l’opera più importante e più fragile dell’intera rete autostradale”.

la data fondamentalein cui inquadrare il grande fallimento nei controlli pubblici è marzo 2018, quando arriva nella fase di approvazione il progetto di ristrutturazione dell pila 9, quella poi effettivamente che ha dato origine al crollo. Aspi lo presenta come un “retrofitting”, ovvero un miglioramento della rete, qualificazione che permetterebbe alla società di scaricarne i costi, 21 milioni, sugli utenti. Un altro passaggio cruciale è la classificazione: “intervento locale”, dicitura che consente di evitare un collaudo e una verifica di sicurezza obbligatori.

A esaminare il progetto è una commissione del Provveditorato alle opere pubbliche. I membri, tutti indagati, sono: il provveditore Roberto Ferrazza; due funzionari interni, Giuseppe Sisca e Salvatore Buonaccorso; due consulenti esterni, Mario Sevetto (esperto di traffico) e Antonio Brencich (unico strutturista). Quest’ultimo è l’autore di un “documento informale” in cui definisce il degrado del ponte “impressionante”. Se quel report fosse stato messo agli atti, contestano i pm, avrebbe implicato la “chiusura al traffico”. Alla commissione la Procura contesta anche di non essersi accorta degli “evidenti copia e incolla dei rapporti di Spea”. Fa riflettere anche il tempo a disposizione della commissione per valutare sei faldoni di documenti presentati da Aspi: una settimana. L’atto di approvazione dei lavori prodotto dai commissari, denunciano i consulenti delle parti civili, è a sua volta un “copia e incolla” di quanto scritto da Aspi, a eccezione di una pagina di osservazioni. Il risultato è stato che il ponte è caduto prima dell’inizio dei lavori.

L’Aifa rinnova tutti gli interinali, tranne una: incinta

Scadono i contratti di 44 lavoratori interinali e vengono rinnovati tutti tranne uno: quello di una donna in congedo per gravidanza. Questa plateale discriminazione di genere non si è verificata in un’azienda privata; a mandare a casa l’impiegata incinta, mentre tutti i colleghi ottenevano la proroga, è stata l’Agenzia italiana del farmaco. È successo nel giugno del 2020, quindi già nel pieno dell’emergenza sanitaria. Ecco perché ieri l’Aifa è stata condannata dal Tribunale di Roma e ora dovrà risarcire l’addetta pagando le mancate retribuzioni.

Una storia che si colloca nel vasto mondo del precariato degli enti pubblici, a cui si aggiunge, questa volta, la storia personale di una donna penalizzata per aver deciso di diventare madre.

Il gruppo dei lavoratori interinali si occupa prevalentemente di amministrazione ed è stato reclutato tramite l’agenzia di somministrazione Orienta. Il 30 giugno dello scorso anno, come detto, quei rapporti sono arrivati al termine, ma l’Aifa aveva ancora bisogno di loro, perciò ha chiesto la proroga. In quei giorni, la lavoratrice era sospesa dal servizio poiché in attesa. E proprio sulla base di questo è stata esclusa dal rinnovo. Quando poi ha chiesto spiegazioni, Aifa ha risposto che nel frattempo il ministero della Salute aveva ordinato di non abusare più di contratti a termine. Aveva ormai perso il treno, in pratica.

Una giustificazione insufficiente secondo gli avvocati Matilde Bidetti, Andrea Circi e Carlo De Marchis. E anche secondo il giudice, il quale ha spiegato nell’ordinanza che non è necessario dimostrare la chiara volontà di discriminare, l’importante è l’effetto prodotto dalla decisione di Aifa. “Deve aversi riguardo – dice l’ordinanza – alla oggettiva idoneità del comportamento a ledere la parità di trattamento del soggetto, non necessitando, a tal fine, la consapevolezza dell’autore o il suo intento lesivo”.

Naufragio al largo della Libia: “Salvataggio negato, navigavamo in un mare di cadaveri”

È stato come navigare in un mare di cadaveri, dei natanti restava poco, delle persone neanche il nome”. È il racconto di Alessandro Porro, presidente di Sos Mediterranee Italia, che si trovava a bordo della Ocean Viking che ieri non è arrivata in tempo per soccorrere un barcone alla deriva. “130 persone annegate, l’Ue e Frontex sapevano del caso di emergenza, ma hanno negato il salvataggio”, ha denunciato con un tweet la ong tedesca Sea Watch. Quella di ieri, è solo l’ultima di una lunga sequenza di tragedie, che da decenni vede il Mar Mediterraneo inghiottire le vite di uomini, donne e bambini. Indelebile il naufragio del 3 ottobre 2013, in cui persero la vita 368 persone. “Potevano essere salvati, ma tutte le autorità le hanno consapevolmente lasciate morire in mare”, tuona Alarm Phone che era stata in contatto con il gommone, in cui c’erano anche 7 donne, di cui una incinta. È stato un pescatore a segnalare l’imbarcazione quando si trovava al largo della Libia, Alarm Phone ha subito allertato le autorità competenti, senza però ottenere risposte.

Mail Box

 

Vaccini, ci si è scordati del personale dei negozi

È cosa buona e giusta vaccinare innanzitutto gli anziani e le persone “fragili”. Purtroppo, una categoria che è stata esposta al contagio sin dalla prima ora e senza soluzione di continuità, è quella del personale dei supermercati (cassiere/i in particolare) e dei negozi di alimentari. Perché non si provvede a dare la precedenza anche a queste persone che sono ad alto rischio di contagio?

Michele Spirito

 

Cinque domande a Giulia Bongiorno

Visto che il Fatto Quotidiano è specializzato nel porre pubblicamente domande scomode, mi piacerebbe fare queste all’avvocato, deputato ed ex ministro del Conte-1. Onorevole Bongiorno, vorremmo sapere se la famiglia anglo-svedese era già sua cliente, per cui potrebbe essere comprensibile – ma non giustificabile, visto il suo ruolo istituzionale – che lei si occupi della difesa di S. J.. Nel caso non sia così, ci piacerebbe conoscere come e perché questa famiglia che abita in Svezia sia potuta arrivare a chiedere di essere difesa da un così importante personaggio politico italiano. Nel caso ci fossero arrivati proprio da soli, in base a quali criteri lei ha accettato un incarico di giustizia convenzionale, nonostante gli impegni assunti nel nome del popolo italiano? Cosa aveva di speciale questa situazione per indurla ad accettare, nella sua posizione, una causa del tutto analoga ad altre centinaia? Da quanto tempo lei ha assunto la difesa di S.J.?

Maurizio Contigiani

 

Con le riaperture si potrebbe anche votare

Dunque per maggio-giugno è possibile riaprire attività commerciali, sportive e ricreative mentre, fin da febbraio, è stata tassativamente esclusa la possibilità di votare nello stesso periodo. Pertanto l’alternativa “Conte o elezioni” era valida e praticabile, e ancor più incomprensibile la sua frettolosa rinuncia da parte delle forze che l’avevano pubblicamente sostenuta e garantita!

Valentino Ballabio

 

Cosa si nasconde nel “rischio ragionato”?

Cosa si cela dietro le parole “rischio ragionato”? Non dubito che i governi quando assumono delle decisioni ci riflettano sopra, e che essi abbiano il diritto/dovere di assumere decisioni per la collettività che essi rappresentano ma, dato che la nostra dovrebbe essere una democrazia rappresentativa, credo che i cittadini debbano essere informati in maniera completa per poter giudicare sulle capacità cognitive dei loro governanti. Dove si possono trovare le seguenti informazioni: quali sono gli scenari che sono stati valutati? Quali sono i rischi (incremento della mortalità per Covid?) e i benefici (economici?) associati a ciascun scenario? Su quali ipotesi sono stati calcolati rischi e benefici? Chi saranno effettivamente i beneficiati delle misure? Chi ha spinto di più verso una soluzione piuttosto che un’altra?

Gianluca Diodati

 

De Giovanni ha ragione sul ministro Speranza

Ho letto l’articolo di Maurizio De Giovanni e sono rimasta veramente strabiliata nel leggere ciò che dice del ministro Speranza, anche perché ho pensato le stesse cose anch’io ma purtroppo non potevo esternarle per mancanza di contatti. È la prima volta che vi scrivo pur essendo una lettrice della prima ora. Non ho mai perso una copia del vostro giornale, la stessa cosa dicasi per Millenium.

Laura Bielli

 

Calenda deve decidere da che parte vuole stare

Dopo l’ennesima dichiarazione di Calenda a Tagadà, mi viene un dubbio che non riesco a risolvere . Dopo le elezioni, con il 3,5% di Azione, con chi governerebbe? Ha solo ribadito: mai con i 5S, e allora con chi? Prima di chiedere i voti, deve dire con chi stare.

Salvatore Griffo

 

Lerner contro lo sport “capitalista”: bravo

L’altra sera a Otto e mezzo Gad Lerner ha incastrato lo zio Tibia riguardo al suo endorsement alla decisione dei grandi club di promuovere la Superlega. Lo zione ha detto che ormai la logica del business ha travalicato quello che era lo spirito sportivo, ormai doverosamente subordinato alla logica del profitto. Gad ha giustamente stigmatizzato questa logica improntata al capitalismo più deteriore, non rispettoso dei valori dello sport che dovrebbero essere esaltati. Bravo Gad! Vogliamo vedere le grandi squadre combattere anche in periferia e la Uefa punirle come ha promesso.

Marco Olla

 

Che bello leggere il “Fatto” e le sue firme

Premesso il mio indiscusso debole per il Direttore, devo riconoscere ogni giorno di più quanto sia gratificante e illuminante leggere le vostre penne. Iniziare con il suo editoriale, proseguire con Padellaro, Scanzi, Luttazzi, Lillo, Davigo, Gomez, Massimo Fini, la Dott.ssa Gismondo, dà una svolta alla giornata e riempie letteralmente l’anima. In fondo non è affatto una sorpresa che i migliori (quelli veri, intendo!) partecipino al vostro lavoro quotidiano e non è certo un caso che il Maestro Proietti fosse un assiduo e fervente lettore del Fatto. Meno male che ci siete! Grazie.

Silvia Ernandes

Ultimo disastro. Il concerto invisibile: se questo è il futuro, meglio niente

 

Mia figlia mi ha raccontato della débâcle del concerto di Ultimo al Colosseo (non è riuscita a collegarsi, e come lei tantissimi). E questa volta ci siamo trovati uniti nel disappunto rispetto alla tecnologia e a chi c’è dietro: pochi giorni fa ero stato una delle vittime di Inter-Cagliari su Dazn. Complimenti a tutti.

Federico Girotti

 

Caro lettore, le “miracolose” tecnologie per la fruizione di spettacolo e sport denunciano una fragilità allarmante. Sollecitato dall’emergenza lockdown, il passaggio allo streaming si sta rivelando prematuro sul piano dell’affidabilità. L’epocale cambio nei costumi innescato dalla blindatura di stadi e location non è supportato dalle garanzie per una visione senza intoppi. Con un distinguo: il calcio è alla vigilia di una riapertura degli impianti agli spettatori, più critica è la situazione dell’agonizzante filiera musicale, costretta a un altro anno di stop per le grandi tournée. Lo dimostra il boomerang dell’incidente capitato all’incolpevole Ultimo al Colosseo: l’esibizione del cantautore romano per presentare il nuovo singolo (e con i proventi destinati all’Unicef) si è trasformata in una cocente delusione per i fans che avevano pagato 10 euro per collegarsi da remoto. La piattaforma LIVENow non è riuscita ad accogliere migliaia tra quelli che volevano virtualmente “entrare” all’Anfiteatro Flavio, chiedendo loro di pazientare o di smanettare per trovare soluzioni alternative, come se i seguaci di Ultimo (costretto poi a scusarsi) fossero tutti nerd provetti. Troppi accessi, sito in crash. A poco è valsa la mossa di LIVENow per rendere visibile l’evento nelle 48 ore successive: un concerto va vissuto come se si fosse lì, in quel momento (anche se stavolta era già registrato). E tutti insieme. Altrimenti è come guardare una partita di cui sai già il risultato, dopo essere impazzito dietro una perfida rotellina. Che è, questo, lo scenario peggiore per il calcio della prossima stagione, se il tilt di Inter-Cagliari su Dazn dovesse ripetersi. All’appassionato (che sia o meno nativo digitale) non si può chiedere di fare slalom tra costose smart tv, server al collasso, provider inadeguati. Restituiteci emozioni da godere con semplicità. Anche con un televisore obsoleto o un pachidermico pc. Quanto ai live, se il futuro è il gelo cibernetico, tanto vale spegnere la musica.

Stefano Mannucci

Le ultime verità sui partigiani

Velleitari, irresponsabili, inutili, controproducenti, esaltati dall’ideologia, quattro gatti, rubagalline, comunisti, terroristi: questa è la sfilza di aggettivi scaraventata sui partigiani in un processo alla Resistenza che, nel tempo, ha assunto un ritmo incalzante, fino a ridurre la lotta armata contro i tedeschi e i fascisti a un film dell’orrore, a un’esperienza semplicemente criminale.

Molti di questi termini derivano da una pubblicistica di destra che non fa mistero delle sue radici ideologiche; altri nascono in un filone storiografico che progressivamente ha svolto un ruolo sempre più revisionista, attaccando alla radice le fondamenta antifasciste della nostra Repubblica. Entrambi hanno contribuito ad affollare la grande arena dell’uso pubblico della storia di luoghi comuni e di stereotipi, proposti con pezze di appoggio discutibili e con un uso delle fonti e delle testimonianze fin troppo disinvolto. A svelare la sciatteria filologica di queste posizioni è il recente libro di Chiara Colombini, (Anche i partigiani però…, Laterza, 2021), che ne smonta l’impianto interpretativo nel modo più efficace, ripristinando cioè le ragioni della ricerca, documentando l’abisso che separa gli studi sulla Resistenza dalla vulgata antiantifascista costruita prima nell’universo mediatico e ora, soprattutto, nel web.

Attenzione ai contesti, ai fatti, alle fonti, ai documenti: no, non è difficile smontare l’odiosità di alcune ricostruzioni che impazzano in rete dopo aver saturato per decenni il mercato editoriale. Un esempio.

I partigiani furono pochi. In realtà furono molti di più di quanto si creda e soprattutto diffusi in una geografia italiana molto più estesa di quanto l’immagine del “vento del Nord” abbia lasciato intendere. Le ricerche degli ultimi anni (di cui Colombini offre una rassegna puntuale) mostrano che i mesi tra il settembre 1943 e il giugno 1944, nel Sud occupato dai tedeschi e teatro di feroci combattimenti intorno alla “linea Gustav”, sono pieni di episodi di Resistenza, a lungo taciuti da un’opinione pubblica troppo presto smemorata e ora portati alla luce da una storiografia attenta alla documentazione emersa negli archivi tedeschi e angloamericani. Senza contare le ricerche che hanno approfondito la presenza degli stranieri nelle bande partigiane, insieme allo straordinario contributo dato dagli italiani alle altre Resistenze europee (furono 30 mila i nostri caduti all’estero).

Certo, se paragonati alle folle oceaniche che affollavano le piazze dei discorsi del Duce, ai milioni di italiani iscritti al PNF, i partigiani furono pochi. Le cifre che si possono leggere nel libro di Colombini sono eloquenti: 9-10.000 nei mesi immediatamente successivi all’8 settembre 1943; fino a 80 mila nell’estate del 1944, quella delle “zone libere” e delle repubbliche partigiane; 30-40 mila nell’inverno 1944-1945, quando la Resistenza fu obbligata a sostenere con le sue sole forze l’urto della potenza nazifascista; 250 mila nelle giornate dell’aprile 1945, quelle della Liberazione e della fine della guerra. Si, i numeri sono questi e le loro fluttuazioni ci dicono molto sulle caratteristiche di una guerriglia che proprio nella fluidità e nel dinamismo trovava le risorse a cui attingere per imprimere efficacia alle sue azioni militari. Quello partigiano non era un esercito regolare; quando un comandante delle formazioni di Giustizia e Libertà, il cuneese Dante Livio Bianco, proponeva di sostituire le divise con le tute da operaio, aveva certamente in mente l’esempio delle Brigate Internazionali nella guerra civile spagnola, ma soprattutto vedeva in quella scelta una rottura drastica con la tradizione sabauda di un esercito su cui gravava l’esperienza drammatica e ingloriosa dello scioglimento dell’8 settembre 1943. Nelle bande si entrava e si usciva, si respirava un’aria di libertà che ne faceva, come scrisse Guido Quazza, un “microcosmo di democrazia diretta”. Era una realtà che aveva alle spalle il carattere “volontario” della scelta partigiana. È vero: quelle stesse cifre che circoscrivono a una minoranza di italiani e italiane la militanza nella Resistenza ci dicono anche che mai, mai, nella storia italiana, nel Risorgimento e tantomeno nella Prima guerra mondiale, così tanti uomini e donne avevano scelto volontariamente di impugnare le armi, scrollandosi di dosso venti anni di conformismo, di disciplina, di gerarchia, di obbedienza; mai un gesto di disobbedienza era stato così “di massa”, affollando quella minoranza di gesti e di azioni che già solo per questo possono definirsi “eroiche”.

Un altro esempio. I partigiani commisero molti errori, pagando un prezzo altissimo alla loro ingenuità così da soccombere spesso nei confronti di una Wermacht che, ricordiamolo, era la più poderosa macchina da guerra schierata in battaglia da uno Stato europeo. Ma proprio per questo l’efficacia militare delle loro azioni fu una sorta di miracolo organizzativo. I partigiani impararono a combattere combattendo. A ogni rastrellamento superato imparavano qualcosa in più, a sbandarsi e a ricomporsi, ma anche che il mito dell’invincibilità dei tedeschi si poteva sfatare e che li si poteva sconfiggere anche in campo aperto, come avvenne sul colle della Maddalena nell’estate del 1944, impedendo ai nazisti di sentirsi padroni del territorio.

Ancora un esempio. I partigiani furono “violenti”. Colombini ci propone le cifre della violenza nazifascista, contando 5.862 eccidi, con 24.384 vittime, delle quali il 53% civili, il 30% partigiani. Era una violenza brutale esercitata “non solo perché esistevano i partigiani, ma perché l’unica legge da applicare era quella della sopraffazione”. Era una violenza di proporzioni agghiaccianti, anche questa senza paragoni con il passato, visto che mai sul nostro territorio nazionale un così grande numero di civili inermi aveva trovato la morte in azioni belliche sul terreno. Ma non era solo questione di cifre; la differenza era qualitativa e non solo quantitativa. La violenza partigiana fu soprattutto una scelta individuale; dopo l’8 settembre 1943 impugnare le armi voleva dire entrare in una terra di nessuno dove si andava solo per uccidere o farsi uccidere. Un territorio estremo, per un gesto estremo: quelle armi certificavano la riconquista della propria autonomia, della propria sovranità, un appuntamento con la storia che segnò per sempre le biografie di quegli uomini e quelle donne. A tutti e a tutte l’Italia deve il proprio riscatto, una ricostruzione “miracolosa”, una Costituzione che con i suoi valori impronta ancora oggi il nostro patto di cittadinanza.

 

La produttività negli studi biblici

In principio fu l’articolo sul Financial Times, che introdusse la dicotomia teologica “debito buono” vs “debito cattivo” così che pure i giornalisti potessero far finta di parlare di economia ricorrendo a una auctoritas. Un miracolo. Poi arrivò il discorso al Parlamento, laddove il nostro enunciò l’inaudito programma “il governo farà le riforme ma affronterà anche l’emergenza”. Oggi sarà ufficiale quella che potremmo chiamare la terza lettera di Mario Draghi agli italiani p.C. (post-Covid) cioè quella che accompagna il Pnrr. Dice: “La crisi s’è abbattuta su un Paese già fragile”. Dice: i disoccupati, i Neet, il climate change, il Sud. Dice: “Dietro l’incapacità dell’economia italiana di tenere il passo coi Paesi avanzati europei c’è l’andamento della produttività”. Dice: “Tra le cause del deludente andamento della produttività c’è l’incapacità di cogliere le molte opportunità legate alla rivoluzione digitale” che accomuna la P.A. e le imprese. Dice: “Questi ritardi sono in parte legati al calo degli investimenti pubblici e privati, che hanno rallentato i necessari processi di modernizzazione della P.A., delle infrastrutture e delle filiere produttive”. Dice: “Nel ventennio 1999-2019 gli investimenti totali in Italia sono cresciuti del 66% a fronte del 118% nella zona euro. In particolare, mentre la quota di investimenti privati è aumentata, quella degli investimenti pubblici è diminuita”. Ecco, su questo punto vale forse la pena soffermarsi. Ma com’è successo che questi benedetti investimenti pubblici siano diminuiti di due punti di Pil in questi vent’anni (cioè, cumulati, di centinaia di miliardi)? Nonostante un’ispezione assai minuziosa della terza lettera di Draghi agli italiani non abbiamo trovato risposta. Un biblista di nostra conoscenza ci fa sapere, dietro garanzia dell’anonimato, che qualche spiegazione si potrebbe trovare negli atti degli apostoli a.C. (ante-Covid): ad esempio nella prima lettera agli italiani da Francoforte di Mario Draghi – forse un omonimo – dell’agosto 2011 si consigliava caldamente ai fedeli di Roma il pareggio di bilancio a rotta di collo nella peggior crisi del dopoguerra (prima di questa). Il nostro studioso anonimo sostiene che di missive simili ne circolassero un botto in quei tempi bui: chissà se è vero…

Perché è giusto vaccinarsi tutti

Il tempo imposto alla sperimentazione dei vaccini anti-Covid è stato troppo breve. Certamente se non fossimo stati nel mezzo della pandemia, con milioni di morti, nessuno si sarebbe mai preso la responsabilità di autorizzare così velocemente l’utilizzo di farmaci nuovi e complessi. L’obiettivo rimane quello di avere meno decessi ed è stato raggiunto nei Paesi dove si è riusciti a vaccinare gran parte della popolazione. Probabilmente avrebbero raggiunto risultati simili anche vaccinando solo le fasce fragili. Perché, allora, vaccinare anche le fasce giovani, o quelle che non rischiano lo stesso decorso della malattia? In assenza di spiegazioni scientificamente valide, la risposta finisce per essere: è inutile. Non sventoliamo l’obiettivo dell’immunità di gregge. Siamo davanti a un vaccino che non protegge dall’infezione. Anche se studi recenti sembrano dimostrare che il vaccinato, se si infetta, diffonde cariche virali basse, la realtà è che il virus continua a circolare.

Allora perché dobbiamo vaccinarci tutti? In questa fase dobbiamo abbattere il più possibile la circolazione del virus. Meno contagi ci saranno, minori saranno le possibilità del virus di replicarsi e produrre varianti. Non sarà sempre così: in futuro sarà necessario aggiornare i vaccini periodicamente. Le campagne vaccinali saranno probabilmente annuali, ma non più organizzate come in tempo di emergenza. Sarà probabile che si possa procedere come per la vaccinazione anti-influenzale.

L’obiettivo che, a oggi, sembra realizzabile è una convivenza possibile del virus, che sarà caratterizzato da una bassa carica circolante, con anziani e fragili protetti da vaccini aggiornati e il resto della popolazione asintomatica, anche se positiva, rare manifestazioni patologiche, curabili efficacemente con anticorpi monoclonali e terapie antinfiammatorie precoci.

direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Lettera alla madre di Daniela: “Compia il miracolo, la salvi”

Sono una madre. Le scrivo nella speranza che al suo indirizzo possano raggiungerla un oceano di missive come questa. Un oceano le cui acque abbiano la potenza disperata di una calamità, capace di aprirle il petto, come le acque divise del mar Rosso – un popolo di smarriti a fenderle e quel popolo, dentro le acque aperte simili al costato di un animale, si è poi salvato; o squarciarle di pietà i pensieri, le certezze, gli orgogli issati a scudo. Vedo sua figlia, vedo in tv la donna che lei ha consegnato alla vita, malgrado tutto. Durante il programma di Federica Sciarelli, Chi l’ha visto?, incontro il volto di Daniela.

Non ho mai veduto occhi così pesti per un male, così neri, da non riuscire a credere, da sentirne il dolore battente, una fitta propagarsi sotterraneamente da lei, stringermi, impaurirmi; stigmate nella tenera e delicata pelle di Daniela, torturata dalla chemioterapia.

Quella donna, a occhio e croce, senza di lei, signora madre, morirà. C’è un test genetico e cure sperimentali che potrebbero guarirla, tutto questo può avvenire soltanto attraverso di lei, signora madre.

Suo malgrado, ha consegnato alla vita una bambina 49 anni fa, e quella bambina non è morta, è vissuta, è diventata una madre a sua volta. È stato un miracolo. Lei, signora madre, è stata l’alfiere di un miracolo, pur nel diniego. Spero siate state felici, malgrado tutto. In quell’orbita del “malgrado tutto” è conservato il suo coraggio signora madre, perché la bambina è nata, e lei signora madre ha sopportato nove mesi di nausee e presumo solitudini infinite e i dolori e l’ha affidata. Ed era già un coraggio epico, santificante, da madre. Il destino adesso le riconsegna a lei, signora madre che rifiuta ogni comunicazione, o la vita o se crede l’Eterno, di nuovo il compito: salvarla. Ancora una volta.

Salvare sua figlia. Con un prelievo di sangue. Nel risentimento, dentro qualsiasi inferno coltivato in seno alla vita quando sa essere severa, con un suo oscuro disegno. E lei la salverà, come allora. Nel sentimento confuso, nel baratro spalancato, lei eseguirà di nuovo il compito: e la salverà.

Coercitivamente, contro ogni superbia, scudo, efferato pudore, risentimento mal indirizzato, protezione di sé: la salvi.

E lei la salverà.

Sua figlia Daniela non morirà. Me lo prometta. Lo prometta alla parte di quel genere umano che si aspetta ancora la venuta del Giorno e dei Giusti e dei Buoni. Lo faccia ancora una volta, faccia trionfare l’amore, la giustezza. Non il male, non il dissidio. Il miracolo.

Lo faccia a nome di tutte le madri che aspettano il solo gesto da lei, con le lacrime agli occhi. Non la lasci andare, non lasci andare Daniela.

Non ha abortito, quel giorno, di 49 anni fa, nell’orfanotrofio di Rebbio. Non può farlo adesso.

Lo sa che c’è un miracolo che incombe su di lei, signora madre? Pure nell’imperscrutabile durezza del destino che sembra molto le abbia tolto, e invece troppo le ha consegnato, il compito gravoso di perdonare, di replicare la vita, nella lacerazione dell’insulto, della violenza, dell’ignominia. Replicare la vita. Alla violenza, lei signora madre ha reagito regalando l’innocenza, la tenerezza di una bambina. Oggi è una donna ed è viva perché 49 anni fa è nata dal suo coraggio, signora madre.

E quel coraggio non deve farla dormire, deve tenerla desta e illuminata fino a trascinarla davanti alla porta di un laboratorio medico, fino al momento in cui Daniela nascerà di nuovo, con il suo prelievo di sangue.

 

È la televisione che ha rovinato il business calcio

 

“Il senso del calcio è che vinca il migliore in campo, indipendentemente dalla storia, dal prestigio e dal budget”

(Johan Cruijff, giocatore e allenatore olandese, tre volte “Pallone d’oro”)

 

Non è stato il Covid né la conseguente chiusura degli stadi a mettere in crisi il business del calcio. I bilanci della maggior parte delle società erano già in rosso da prima che scoppiasse l’epidemia da coronavirus, a causa soprattutto dei maxi-stipendi elargiti ai giocatori e agli allenatori. E anche per le generose commissioni versate ai procuratori: nel 2019, un totale di 187 milioni di euro, dai 44 della Juventus ai 31 dell’Inter, 23 della Roma, 19 del Milan, fino ai 506.209 euro del povero Brescia. È stata la televisione – o meglio i diritti tv e il loro dissennato impiego – a rovinare l’industria del pallone, ampliando la platea delle partite e moltiplicando il numero degli spettatori, ma drogando così i conti delle squadre: tanto che sarebbe opportuno imporre un “tetto” ai budget delle società, magari per fasce di categoria e livello di professionismo. È dunque una nemesi storica quella che, in forza del tifo calcistico, ha bloccato la temeraria e disperata operazione di dodici “padroni del calcio” – tra cui in prima linea il presidente juventino, Andrea Agnelli – che hanno concepito il “golpe” fallito della SuperLega. Per coprire i debiti accumulati in tanti anni di cattiva gestione, all’insegna degli acquisti avventurosi e dei costi insostenibili, hanno tentato in extremis di salvarsi dal disastro e sono stati costretti a ritirarsi per la ferma opposizione dei capi di governo europei, delle organizzazioni calcistiche e specialmente dei tifosi.

È stato anche un flop giornalistico per Repubblica e in particolare per il suo direttore, Maurizio Molinari, nonché direttore editoriale del gruppo Gedi che fa capo alla Fiat. Con raro sprezzo del pericolo e impavido aziendalismo, Molinari s’è avventurato a raccogliere un’infelice intervista del presidente della Juventus che è stata smentita dai fatti nell’arco di una nottata, costringendo il giornale a modificare il trionfalistico titolo di prima pagina (“Patto di sangue, la Superlega andrà avanti”) in un più cauto “La SuperLega andrà avanti, trattiamo con l’Uefa” nella seconda edizione. Un cortocircuito mediatico, fra la proprietà familiare e “Stampubblica”, che non giova né alla credibilità né tantomeno all’immagine del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. Ma, al di là dell’infortunio professionale, la verità è che in questo modo il giornale ha rinnegato la sua linea originaria di rigore, accreditando un’operazione che molti giudicano scandalosa e contraria ai valori dell’etica sportiva.

La pacifica rivolta dei tifosi, da Liverpool alla Torino bianconera e a Milano, dimostra invece che il calcio – nonostante tutto – è ancora passione, senso di appartenenza a una squadra e a una maglia, identità sentimentale ed emotiva. E questo non è soltanto un dato anagrafico o un legame che deriva dal luogo di nascita. Spesso vale anche a distanza, si eredita in famiglia, diventa una scelta di fedeltà.

Piuttosto che ingaggiare tanti “paperoni del pallone”, le società calcistiche farebbero meglio a investire sui propri vivai per avvicinare ed educare i giovani allo sport. E anche per rifornire così i ranghi della Nazionale, costretta ormai a scegliere fra il 45% dei calciatori della Serie A. Non a caso gli stranieri che giocano in Italia sono molto più numerosi degli italiani che militano all’estero. Altrimenti, invece di proclamare “vinca il migliore!”, dovremo rassegnarci a dire “vinca il più ricco”. Ma, allora, sarebbe la fine del “gioco più bello del mondo”.