Figliuolo è Stranamore con echi del fanfarone

Abbiamo trovato il nostro personaggio preferito della stagione dei Migliori (confessiamo che all’inizio siamo stati disorientati dalle piaggerie della stampa nei confronti di Draghi: quella della moglie che “si stende dentro il sarcofago della cripta di San Nicola perché gli ospiti possano osservare meglio le reliquie” e l’incidente diplomatico con la Turchia come esempio di parresia ci avevano deliziato). Parliamo del Generale Figliuolo. Il Commissario Straordinario all’emergenza Covid, Sovrintendente alle Vaccinazioni, già al suo debutto da Fazio ci aveva fatto sognare: “Johnson&Johnson è monodose, quindi averne 25 milioni sarà come averne 50 dei vaccini odierni”, non 25 come l’aritmetica decimale e il principio di identità potrebbero far pensare. Prodigi dei Migliori. Ora, benché i suoi numeri siano costantemente smentiti dal divenire, compare in tutti i pastoni dei Tg, a rettificare come nulla fosse le sue asserzioni precedenti: “Le stime mi danno 15 milioni a maggio”, ha detto giovedì; per la precisione, “dal 27 al 29 aprile arriveranno oltre 2 milioni e mezzo di dosi e poi dal 30 fino al 4-5 maggio quasi 2,6 milioni”. Quindi dal 6 al 31 maggio ne aspettiamo 12 milioni 400mila. Ma se ad aprile ne sono arrivati 8, più i 2 degli ultimi tre giorni che fanno 10, ne arriveranno a maggio solo 4 milioni e rotti in più (non il doppio come annunciano tutti). Dov’è la svolta? “Per maggio sono molto, molto positivo”: siamo al pensiero magico.

(Premessa tardiva: sappiamo che non si può fare satira sui militari, provateci e avrete contro tutta la stampa di destra e migliaia di minacce freelance sui social. Emissari di insulti e minacce ricevuti negli anni in ordine crescente di gravità degli stessi: cattolici integralisti; fondamentalisti islamici; renziani; fan e colleghi dei due marò. Non sono molto ironici da quelle parti; del resto il dito-reliquia di Santa Caterina da Siena viene usato per benedire le Forze Armate: scherza coi santi e lascia stare i fanti).

Figliuolo, sempre in mimetica nel caso ci fosse un’imboscata del nemico Coronavirus, compare sempre col cappello in testa, con piuma degli alpini bianca o nera (“Non esistono missioni impossibili per gli alpini”, Repubblica). Scattante, saluta tutti (pure i civili) col saluto militare; il petto maiolicato di mostrine, appena apre bocca fa una gaffe o pronuncia una castroneria: “A règime (sic) prevedo…”, “Chiunque passa va vaccinato”. Benché a tratti ricordi Peter Sellers nel Dottor Stranamore, Figliuolo sembra più il miles gloriosus, il soldato fanfarone di Plauto. Come Pirgopolinice, esorbita, arremba: “Fiato alle trombe! Fuoco alle polveri! Svolta o perdiamo tutto!”. Ultimamente resta sul vago: “Dopo gli over 80, toccherà agli over 70 e poi si vede”.

Nessuno ormai sente più quello che dice; siamo troppo impegnati a scommettere quanto ci metterà a cascargli la mascherina, troppo evidentemente lasca per star su. E infatti gli cala con regolarità inesorabile e terrificante (ma che problema hanno, questi commissari straordinari e ordinari, con le mascherine? Ad Arcuri non gli ci entrava il naso, Bertolaso non riesce a indossarla due minuti di seguito e infatti s’è contagiato, il Generale per cui nessuna missione è impossibile non riesce a gestire una pezzuola che rappresenta il primo argine contro il virus, bah).

Ogni giorno i cronisti lo inseguono mentre, boots on the ground, visita gli hub di Puglia, Calabria, Piemonte, per vedere che sia tutto a règime; dalle tensostrutture donate dal Qatar alla Basilicata, dice che “c’è gente che si nasconde fra i caregiver” (stanarla è un lavoro per il Generale Figliuolo) e che la regione ha retto il “test stress” (“stress test”, ndr). Lo impuntura il capo della Protezione civile Curcio: “Siamo in guerra e servono norme da guerra”. Stando a quanto il Gen. diceva a metà marzo, ora dovremmo viaggiare sulle 500mila somministrazioni al giorno. E invece giovedì, al suon di grancassa, si è celebrato il picco delle 350mila; buono, per carità, ma mica lo abbiamo detto noi che ad aprile sarebbero state 500mila. A ogni modo, sono 20mila in più della settimana precedente; se gli hub vaccinali sono 2360, vuol dire che in ciascun hub sono state fatte 8 iniezioni in più al giorno. Hai capito, il Generale. Comunque siamo al 16° posto su 23 Paesi quanto a persone che hanno ricevuto la prima dose, sotto a Ungheria, Serbia e Cile. È vero che la Difesa ha impiegato risorse e personale medico, ma siamo sicuri che un militare sia più bravo a fare quello che c’è da fare, al di là di queste incursioni sul campo per tenere alto il morale delle truppe vaccinali? Questo rovesciamento della metafora bellica mediante i segni macchiettistici dello stato di guerra è davvero efficace ai fini della lotta al virus? (Pure Eschilo nelle Eumenidi paragonava la peste alla guerra civile, ma uno che dice “a règime” avrà letto Eschilo?).

 

La giraffa dalla gola profonda e il segreto per accedere in Paradiso

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:

Italia 1, 21.20: Ransom, film. Un gruppo di delinquenti rapisce un bambino di nove anni e chiede un riscatto di 2 milioni di dollari. I genitori rispondono: “Tenetevelo. È un bravo bambino, ma non vale 2 milioni di dollari”.

National Geographic, 20.00: Il pianeta che vive, documentario. Per rendere interessanti i documentari non sanno più cosa inventare. Prendete quest’episodio: è un reportage sulla giraffa. Titolo della puntata: “Gola profonda”.

Rai 1, 10.15: La Santa Messa, game-show. Sulla croce Gesù spiega ai due ladroni cosa serve per essere accolti in paradiso: prontezza di riflessi e cultura musicale.

Canale 5, 13.40: Beautiful, soap. Donna accusa Stephanie di averla spinta giù dalle scale di casa Spaulding, ma Donna mente, anche perché casa Spaulding è in Sentieri.

La7, 20.35: Non è l’Arena, talk show. Massimo Giletti conduce una nuova puntata del programma di approfondimento culturale dedicato ai telespettatori appassionati di Massimo Giletti.

Rai 3, 13.15: Passato e presente, documentario. Covid-19: a memoria d’uomo, non era mai successo che si arrivasse tanto rapidamente dal sequenziamento di un virus all’iniezione di un vaccino sperimentale nel deltoide di un volontario (che adesso sta bene, grazie, e senza effetti collaterali, a parte la capacità di attraversare i muri). Paolo Mieli ne parla con Roberto Burioni.

Iris, 23.25: Eureka Joe, film-avventura con Gene Hackman. Dopo aver fatto fortuna, un cercatore d’oro si ritira ai Caraibi, dove presto sviluppa un’ossessione morbosa per le noci di cocco.

Canale 5, 14.10: Una vita, telenovela. Gli interpreti di una telenovela spagnola sono vittime della messa in onda.

Nove, 23.30: Hamburger Hill, film-guerra. Un gruppo di marines deve conquistare una collina presidiata dai Vietcong. L’avranno vinta, ma con perdite durissime, e uno share di appena l’1%.

Sky Cinema Family, 21.00. Genitori vs Influencer, film-commedia. La trama di questo film è molto divertente. Poi accendete la tv.

Canale 5, 21.20: L’isola dei famosi, reality. Un programma che ti fa venire voglia di registrarlo su una chiavetta Usb per poi bruciare la chiavetta Usb. Già che ci siete, bruciate anche il tinello: mi immagino com’è, se guardate programmi del genere.

Rete 4, 21.20: Quarta Repubblica, attualità con Nicola Porro. Uno spazio sui principali avvenimenti di cronaca sostenuto da un rigoroso e appassionato trucco & parrucco.

Fox, 21.00: The Good Doctor, telefilm. Il dottor Murphy asporta il cervello di Casey, dopodiché Casey sembra finalmente in grado di controllare l’ansia.

Rai 4, 21.05: Killer Elite, film-azione. Robert De Niro, assassino su commissione, stanco della sua vita da mercenario si ritira, ma quando scopre che il suo amico Hunter è stato rapito in Oman ripensa ai vecchi tempi in cui lavorava con bravi registi.

Rai 1, 15.55: Il Paradiso delle signore, soap. Rocco scopre che Alfredo ha ripreso a frequentare Maria e, in preda alla collera, schiaffeggia il suo cane. Il cane, per nulla intimorito, restituisce lo schiaffo.

Canale 5, 21.20: Amici, talent. È vero che, secondo l’Aifa, il suono della voce di Maria De Filippi può causare impotenza? Sì, ma sono più i benefici dei rischi.

 

I sogni bagnati salveranno l’Italia

 

• Titolo in prima: “Un recovery da sogno”. Svolgimento: “È un libro dei sogni (…) ma oltre a tutto questo è prima di tutto un piano che punta a ridisegnare la geografia economica, politica e istituzionale dell’Italia nei prossimi sei anni (…). Draghi non sarà l’uomo della Provvidenza, ma la lettura del Pnrr – e la consapevolezza che le riforme iscritte in questo piano accompagneranno l’Italia dei prossimi sei anni, pena il blocco immediato dell’erogazione dei fondi europei – ci dice che oggi forse sognare si può”.

Il Foglio

 

• Il premier Mario Draghi ha accettato di chiamarla “la rivoluzione verde” (…) C’è dunque un ‘filo verde’ che spinge l’ambizione di un cambio di paradigma nell’economia e che può essere anche lo strumento con cui cominciare a chiudere le falle delle troppe disattenzioni e pigrizie nel passato sul versante della politica industriale e del ruolo stesso dello Stato nell’economia”.

La Repubblica

Il negazionista leghista batte pure “Posaman”

In fondo dovremmo essere riconoscenti all’on. Claudio Borghi Aquilini, perché ha il coraggio di dire, senza pensare, le stesse corbellerie che Matteo Salvini pensa ma non osa dire. Giovedì sera, a Piazzapulita, l’estroverso leghista faceva ridere più del Posaman del comico Lillo quando sventolava gli studi sul “lockdown che non serve a niente”, prodotti da tal “Ioannidis, professore dell’Università di Stanford”. Un cervellone che il prof. Crisanti, provocato dall’Aquilini (“lei è esperto di genetica della zanzara non di questi temi”), e dunque punto sul vivo, ha rivelato essere, come dicono a Roma, una mezza sòla: “Stanford ha cancellato i video di costui che si è pure scusato”. A questo punto Corrado Formigli ha chiesto se la negazione del lockdown e di ogni altra restrizione fosse la linea condivisa anche da Salvini. Al che il Borghi prima ha confermato, poi ha farfugliato, sudando copiosamente.

Di affermazioni negazioniste del Covid da parte dell’ex Capitano gli archivi dei giornali traboccano e infatti, ora che è al governo, fa un po’ tenerezza vederlo piatire un’ora in più sulle chiusure serali di bar e ristoranti. Proprio lui che quando era di lotta ostentava con fiero cipiglio l’assenza di mascherina. Il fatto è che alla base del salvinismo virale c’è la stessa teoria politico-sanitaria che agli albori della pandemia fece dire al presidente brasiliano, Jair Bolsonaro: “Tranquilli, tanto prima o poi tutti dobbiamo morire”. Infatti nel suo Paese si muore prima. Una forma abborracciata di darwinismo sociale secondo la quale piuttosto che paralizzare l’economia con odiosi divieti e dannose quarantene è molto più conveniente lasciare che la falce epidemica faccia il suo lavoro spedendo al creatore i più anziani e i più fragili. Selezione naturale che ha permesso all’Inps di risparmiare nel 2020 qualcosa come 11,9 miliardi. Un saldo virtuoso che, prepariamoci, i Borghi Aquilini sventoleranno con orgoglio nel prossimo talk. Mentre governo e regioni, maggioranza e opposizione si dedicano al gioco delle parti (sulle chiusure alle 22, no alle 23), le strade intorno sono intasate di auto e di persone che si godono la primavera. Controlli zero, eppure Roma che sarebbe zona arancione già si comporta come zona bianca. Altro che decreti, trionfa il liberi tutti autogestito. Il resto è noia.

Sanità lombarda: l’ex presidente deve dare 47mln

Scherzi del destino: proprio mentre arriva in libreria un libro di 500 pagine in cui Roberto Formigoni tenta di riabilitare se stesso (Una storia popolare, con tanto di prefazione del cardinale Camillo Ruini), arriva anche la sentenza d’appello della Corte dei conti che, il 21 aprile, smonta ogni pretesa innocentista e rigetta il ricorso di Formigoni, confermandogli la condanna a pagare 47,5 milioni come risarcimento del danno, in solido con presidente e direttore della Fondazione Maugeri, Umberto Maugeri e Costantino Passerino, e con i mediatori Pierangelo Daccò e Antonio Simone. Follow the money, segui il denaro: e i giudici contabili lo seguono con una precisione che diventa per Formigoni una disfatta. L’allora presidente della Regione Lombardia – scrivono i giudici – ha stretto un patto (c’è anche la data, indicata da Maugeri e Passerino: 6 settembre 2001) per organizzare un “sistema corrotto e corruttivo” in cui le cosiddette funzioni non tariffabili, sommamente discrezionali, venivano superpagate dalla Regione. Così il denaro pubblico veniva “distratto in maniera illecita”, “sottratto alla sua destinazione per l’espletamento di funzioni sanitarie d’interesse pubblico” e dirottato per “formare oggetto di illecite dazioni a favore del presidente Formigoni e degli intermediari, nonché suoi amici personali, Daccò e Simone”. Il “contenuto delle delibere regionali è stato, con l’intermediazione del faccendiere Daccò, per così dire tagliato su misura delle esigenze economiche della Fondazione Maugeri”. “L’obiettivo perseguito e raggiunto era quello di ottenere, a parità di prestazioni, una maggiore remunerazione, accettando ovviamente di pagare un (sovra)prezzo: quello della corruzione”. I pagamenti alla Maugeri erano decisi personalmente da Formigoni: il suo è un “ruolo assolutamente centrale, vero e proprio deus ex machina, svolto in virtù del ruolo istituzionale e dell’indubbio carisma personale del presidente”, con un “sostanziale svuotamento del ruolo della dirigenza e dello stesso assessore alla sanità, estraneo al cerchio magico di Formigoni”. “Oggetto del patto corruttivo è stato il mercimonio della funzione del presidente, non la delibera finale adottata dall’organo collegiale”.

Così i soldi regionali entravano nelle casse della Maugeri, da cui sono poi usciti 71 milioni, “di cui 61.485.583 euro destinati a finanziare la corruzione degli amministratori regionali e degli intermediari”: Formigoni, Daccò e Simone. Nel periodo 2006-2011 “il prezzo della corruzione del presidente è stato conseguentemente quantificato in euro 37.312.209,00”.

Respinti i tentativi di Formigoni di conquistare la prescrizione contabile, sostenendo che debba essere calcolata a partire dalle delibere con cui la giunta ha finanziato le operazioni non tariffabili (2007-2010) e non dal suo rinvio a giudizio (2014). Niente da fare: si conta dal 2014. Provata “la distrazione delle risorse dal fine pubblico al quale erano destinate”. Accolto, in parte, solo il ricorso di Simone, a cui è revocato il sequestro conservativo: è sì il mediatore della corruzione, ha indicato lui alla Maugeri Daccò come strada per arrivare a Formigoni, ha messo a disposizione i conti all’estero per far sparire i soldi della Fondazione, ma non è “agente contabile di fatto”, perché “non ha disposto materialmente del denaro pubblico”.

Stop al vitalizio ai condannati: Senato contro Formigoni&C.

Ha sfondato quota 100mila firme l’appello con cui il Fatto ha chiesto ai massimi vertici del Senato di rimediare alla decisione di ridare i vitalizi ai condannati portando la questione di fronte alla Corte costituzionale. Sì, perché a Palazzo Madama dieci giorni fa l’organo di giustizia interna presieduto da Giacomo Caliendo di Forza Italia ha cancellato le regole che il massimo organo politico dello stesso Senato si era dato nel 2015 quando aveva deciso di chiudere i rubinetti agli ex inquilini che si fossero macchiati di reati gravissimi, dalla mafia al terrorismo passando per la corruzione. In una sorte di autogolpe, che ha favorito non solo Roberto Formigoni che aveva fatto ricorso per riavere l’assegno, ma pure tutti gli altri, da Berlusconi a Dell’Utri passando per Del Turco a cui era finora rimasto negato per via del casellario giudiziale non esattamente puro come un giglio. Un conflitto tra poteri tutto interno a Palazzo consumato sulla questione dell’argent. Che conta eccome. E ieri Formigoni ha attaccato il Fatto: “Nessun altro esponente di partito si è espresso, riconoscendo la giustezza della Commissione contenziosa. È stato solo il M5S, agitato dal proprio house organ, che è il Fatto Quotidiano, alimentato dagli odiatori, ma ho pietà per loro”.

 

Non è una pensione

Così, mentre si riflette sul ricorso alla Consulta, il segretario generale del Senato, Elisabetta Serafin, che guida l’amministrazione di Palazzo Madama, ha impugnato in appello la sentenza di Caliendo&C. Con un ricorso che smonta in radice il presupposto che ha consentito di riaprire i rubinetti a Roberto Formigoni e ad altri 12 condannati (o loro eredi) baciati, diciamo così dalla fortuna. Perché, checché ne dica la Contenziosa, il vitalizio non è affatto una pensione pure se lo si vuol far a tutti i costi credere. “L’affermazione della natura previdenziale dell’assegno degli ex parlamentari che sarebbe contenuta nelle ordinanze delle Sezioni unite del 2019 (ossia la novità giurisprudenziale invocata a sostegno della tesi sostenuta dalla Contenziosa, ndr) non si evince dalla portata delle ordinanze stesse” ha scritto infatti il segretario generale sottolineando come le ordinanze in questione si limitino ad affermare “che il cosiddetto vitalizio rappresenta la proiezione economica dell’indennità parlamentare per la parentesi di vita successiva allo svolgimento del mandato. Ma sulla natura previdenziale non viene specificato nulla di più”.

E non è tutto. Perché nel ricorso il segretario generale evidenzia pure che, per ridare il vitalizio a Formigoni, l’organo di giustizia interna del Senato abbia addirittura smentito se stesso. In altre pronunce precedenti aveva infatti confermato la sospensione del vitalizio ai condannati sulla base della delibera che nel 2015 ha introdotto un nuovo presupposto di onorabilità per poterne godere: ossia le condizioni di dignità e onore che l’articolo 54 della Costituzione prevede per coloro che rivestono cariche pubbliche. Ma allora perché la commissione Caliendo oggi afferma il contrario brutalizzando con l’onta dell’illegittimità la stessa delibera?

 

La carta: Dignità e onore

E sì che, come ricorda anche nel ricorso la Serafin, prima di decidere lo stop degli assegni ai condannati, era stata fatta una istruttoria approfondita con la richiesta di pareri a costituzionalisti ma anche al Consiglio di Stato che aveva dato semaforo verde. Anche perché il provvedimento che stabilisce la sospensione dell’assegno al venir meno delle condizioni di dignità e onore, era stato modellato sulla legge Severino (che ha stabilito che le condanne di un certo tipo facciano venir meno il requisito soggettivo per il mantenimento delle cariche pubbliche) ritenuta perfettamente legittima dalla Corte costituzionale.

Ora grazie a Caliendo&C. si vorrebbe tornare all’antico, ma non senza conseguenze.

Perché quella decisione adottata peraltro non per il solo Formigoni ma erga omnes, espone il Senato non solo alle critiche e allo sdegno, ma pure “alla restituzione di rilevanti importi verso i dodici senatori nei confronti dei quali è cessata da anni l’erogazione del trattamento”. Con l’ulteriore complicazione che se in Appello la sentenza venisse ribaltata, l’amministrazione dovrebbe recuperare le somme provvisoriamente ripristinate. Per questo il segretario generale oltre a fare appello ha chiesto che la sentenza, immediatamente messa in esecuzione da Sua Presidenza Casellati, venga sospesa in attesa della definizione del giudizio di secondo grado.

Casaleggio rompe con i 5S. E Conte è pronto al debutto

Il finale ormai era noto, ma può fare paura lo stesso. Dopo che ieri mattina Davide Casaleggio e il M5S si sono detti addio da separati in casa, potrebbero arrivare una scissione o una guerra giudiziaria su soldi e simbolo, o magari entrambe. Ipotesi come nubi nere sopra il Movimento e il suo capo prossimo venturo Giuseppe Conte, che presenterà il sospiratissimo piano di rifondazione la prossima settimana,

Nell’attesa, come anticipato dal Fatto, ieri mattina Casaleggio e la sua associazione Rousseau hanno sancito lo strappo con il Movimento tramite un post sul blog delle Stelle. Una epistola dolente giù nel titolo – “Ora siamo a terra ma ci rialzeremo” – in cui l’associazione conferma “di cambiare strada, scelta dolorosa ma inevitabile” e annuncia la cassa integrazione per tutti i dipendenti “a fronte dell’enorme mole di debiti cumulati dal M5S nei confronti di Rousseau”. Ma il Movimento è gelido: “Abbiamo avviato le procedure necessarie per dotarci degli strumenti digitali necessari ad assicurare la partecipazione degli iscritti”. Ergo, si cerca una nuova piattaforma, anche perchè “Rousseau voleva svolgere una parte attiva nell’attività politica”. Ma sono ancora possibili i titoli di coda, ossia che il M5S, su ordine del tribunale civile di Cagliari, debba far votare sul web come nuova guida un organo collegiale, invece che un singolo capo politico. “In quel caso, per ragioni pratiche, si dovrebbe di nuovo chiedere a Rousseau” ammettono dal Movimento. E Casaleggio, a determinate condizioni, potrebbe dire sì. Però a questo punto è possibile tutto. Anche una causa, sui versamenti che l’associazione reclama dal M5S, 450mila euro, come sui dati degli iscritti, tuttora in possesso solo di Rousseau. Non solo. “Il dominio web movimento5stelle.it appartiene a Rousseau” sosteneva ieri una fonte vicina a Casaleggio. E non è un caso che da Roma abbiano già registrato un dominio alternativo, Italia2050 come non è fortuito che Conte pensi a un nuovo simbolo. Ma c’è anche la politica, perché la sensazione è che Casaleggio proverà a lanciare un suo partito. Lo lascia intendere la nota di Rousseau: “Partiremo con un nuovo progetto e nuovi attori protagonisti”, per “incubare composizioni civiche che diventeranno protagoniste dello scenario politico del futuro”. E da Alternativa c’è, la componente in Parlamento dei fuoriusciti dal M5S, il deputato Andrea Colletti apre: “Pronti al dialogo con Rousseau”.

Casaleggio sognerebbe di coinvolgere Alessandro Di Battista, ma l’ex deputato per ora non ne vuole sapere, e rimanda ogni decisione sul suo futuro a settembre. Non può invece aspettare Conte, che ha completato Statuto e Carta dei valori, ma che prenderà altri giorni per placare l’eco del video di Beppe Grillo sul figlio. Ieri in alcune chat scrivevano che il suo piano per un nuovo M5S potrebbe essere presentato il 29 aprile, lo stesso giorno in cui l’ex premier parteciperà a un’iniziativa del dem Goffredo Bettini assieme a Enrico Letta. Ma la base già si lacera sui social. Disorientata, dalla guerra.

 

La Lega resta al governo: ha 220 miliardi di motivi

Era stato il vero motivo che aveva spinto Matteo Salvini a togliersi la felpa e indossare il vestito buono per sostenere il governo Draghi. E il leader della Lega, il 6 febbraio scorso, dopo il primo giro di consultazioni con l’ex presidente della Bce, lo aveva ammesso senza girarci tanto intorno: “Preferisco mettermi in gioco e gestire i 209 miliardi che stare fuori come vorrebbe qualcuno”. Due mesi, e molta acqua sotto i ponti più tardi, la situazione non è cambiata. La Lega – che mercoledì ha creato il primo strappo nel governo non votando il decreto sulle riaperture – per il momento non ha alcuna intenzione di uscire dall’esecutivo. E il motivo è che questo è il momento decisivo per incidere sul piano da 200 miliardi di fondi Ue che il governo dovrà presentare a Bruxelles entro fine mese. “Dobbiamo differenziarci da Pd e M5S ma incidere” è stata la frase che giovedì Salvini ha ripetuto ai suoi durante la segreteria politica. Niente Papeete bis, anzi.

“Anche perché – confida chi in queste ore ha parlato col segretario – né i nostri elettori del nord, né gli amministratori capirebbero uno strappo adesso, dopo soli due mesi”. E allora succede che nel Carroccio vada in scena quello sdoppiamento di ruoli, non sempre indolore, tra Salvini e il suo numero due, Giancarlo Giorgetti. Mentre il segretario urla e sbraita per chiedere più aperture e ancora ieri sputava veleno contro l’esecutivo che ha “fatto un blitz sui centri commerciali che non riapriranno nemmeno dal 15 maggio”, Giorgetti lavora sui dossier. E in particolare su uno: il Recovery Plan. Raccontano che il ministro dello Sviluppo economico, che fa da collante tra la pancia della Lega e Draghi, vada in giro con una cartellina con tutti i progetti a cui la Lega è più interessata che saranno inseriti nel Piano. Soprattutto perché sono quelle opere che gli amministratori del Carroccio chiedono da anni. La ricognizione è stata fatta giovedì sera nell’ufficio di Salvini al Senato con Giorgetti, i sottosegretari Durigon (Tesoro), Morelli (Infrastrutture) e Gava (Transizione ecologica) e il responsabile economico Bagnai. Ieri mattina poi il leader del Carroccio ha studiato i dettagli del piano al Mef con Durigon.

La Lega chiede che ci sia un vero “coinvolgimento del Parlamento” per modificare il piano (cosa improbabile), che vengano aggiunte, magari nel fondo extra da 30 miliardi, altre opere chieste dai territori e di contare nella governance ancora da definire. Per il resto la bozza circolata ieri contiene investimenti che scatenano gli appetiti leghisti.

Ci sono 13 miliardi per l’Alta velocità, di cui ben 8 al Nord inserite nei corridoi europei tra cui la Milano-Venezia, la Liguria-Alpi e la Verona-Brennero, nonché i collegamenti con i porti di Genova e Trieste. Ma piacciono assai anche i 5,3 miliardi sulla banda ultralarga e il 5G su cui Giorgetti, insieme al ministro Vittorio Colao, sta lavorando da settimane, come pure la priorità alle filiere produttive italiane – il Made in Italy– che riguarderà molti settori, dall’Agricoltura 4.0 alla telemedicina passando per la produzione farmaceutica.

E poi ci sono due riforme su cui la Lega punta molto: le semplificazioni (il Carroccio chiede di eliminare il codice degli appalti) e quella della giustizia civile e penale su cui Salvini sta battendo da settimane in chiave garantista. Unico neo, per i leghisti, la cancellazione di Quota 100 a fine anno liquidata con due righe: “Sarà sostituita da misure mirate a categorie con mansioni logoranti”. “Per noi resta una misura fondamentale” dicono dalla Lega. Ma quella è un’altra partita.

“Tenuti all’oscuro”. I ministri irritati e il Consiglio slitta

Doveva essere il giorno del Piano nazionale di ripresa e resilienza – che deve spendere i 190 miliardi e dispari del piano europeo – con il primo passaggio in Consiglio dei ministri. E invece tutto è rinviato a oggi: il nuovo Cdm è previsto per le 10 di stamattina. Un testo costruito tra Palazzo Chigi, Tesoro e i ministeri tecnici – il digitale di Vittorio Colao, la transizione ecologica di Roberto Cingolani e le Infrastrutture di Enrico Giovannini – non poteva che produrre un cortocircuito.

La gestione affidata da Mario Draghi al fidato ministro Daniele Franco non ha concesso nulla nemmeno alla finzione: i partiti, tenuti completamente all’oscuro, vogliono pesare e ieri una irritazione senza colori di parte ha fatto saltare tutto. Giovedì era circolata una sintesi – 16 pagine e 9 tabelle – estremamente stringata, messa a punto dal Tesoro, e solo questa era arrivata nelle mani dei ministri ed è stata condivisa nella cabina di regia tenuta in mattinata. Del testo definitivo nemmeno l’ombra. Ed è così che oggi Palazzo Chigi voleva discuterne. Ieri mattina, però, c’è stata la fuga di notizie. Molti ministri hanno dovuto leggere la bozza (318 pagine, “un testo vecchio di una decina di giorni”, dicono al Tesoro) sulle agenzie: “E questo dopo che per giorni siamo stati incontrati insieme a Regioni, enti locali e sindacati solo per ascoltarci”, sbotta uno con l’Adnkronos.

Oggi è atteso il confronto in Cdm, che non sarà accompagnato da un voto. Prima ci sarà il passaggio alle Camere, Draghi illusterà il Piano lunedì alla Camera e martedì al Senato (il voto sarà solo in forma di risoluzione, e la cosa non piace ai partiti). Poi un nuovo Consiglio dei ministri per il via libera prima dell’invio del testo a Bruxelles. La scadenza è il 30 aprile, ma non è perentoria: metà dei 27 Paesi, infatti, consegnerà i testi a metà maggio. Così era stato consigliato di fare anche all’Italia, tanto più che la Commissione non sarebbe ancora soddisfatta dal testo, ma Draghi ne ha fatto una questione di principio: niente slittamento.

La cosa ha un effetto paradossale. La discussione con i partiti si dovrà svolgere in una settimana (col Parlamento a fare da spettatore). Il testo circolato ieri, per dire, dice che il Superbonus edilizio sarà prorogato al 2023, come chiedono i 5 Stelle, ma nei ministeri non risulta affatto (le risorse rendono possibile solo un parziale prolungamento fino a fine 2022 e ancora più ridotto al giugno successivo) e su questo provvedimento bandiera il M5S non vuol cedere. La Lega invece si vede messo per iscritto che il governo non prorogherà l’anticipo pensionistico detto “Quota 100”. In generale, nessuno nella maggioranza può essere contento. Anche perché nessuno aveva visto il testo per intero fino a ieri.

Il cortocircuito maggiore riguarda però la catena di comando del Piano. La bozza, come previsto, consegna la gestione ordinaria dei progetti ai ministeri e alle amministrazioni locali, ma affida il monitoraggio tecnico e il coordinamento del piano a una struttura ad hoc del Tesoro. Il cuore del controllo politico è invece destinato a una “cabina di regia” a Palazzo Chigi. Uno dei punti più controversi del Recovery Plan, motivo di scontro già nel governo Conte. A questa cabina sarà attribuito il potere di monitoraggio, ma pure di “proporre l’attivazione dei poteri sostitutivi, nonché le modifiche normative necessarie per la più efficace implementazione delle misure”.

Un piano che ha scadenze – finali e parziali – così definite non può non prevedere la possibilità di esautorare le amministrazioni inadempienti. Il punto è: a chi sarà affidato questo potere? Nessuno lo sa, come nessuno sa come sarà composta la cabina di regia. Palazzo Chigi avrebbe voluto solo ministri di peso, oggi in mano quasi tutti a tecnici scelti da Draghi (e benedetti dal Colle); i partiti chiedono che partecipino tutti i ministri coinvolti. Questo punto, insieme alle norme sulle assunzioni nella Pa e che “sbloccano” gli appalti, sarà inserito in un decreto nei prossimi dieci giorni. Il governo Conte-2 voleva affidare tutto a una task force di Palazzo Chigi con poteri sostituivi creata grazie ad assunzioni in deroga. Si sta tornando lì. Solo che i partiti ora contano molto meno.

Ecco le riforme: addio Quota 100, soldi alle imprese, meno controlli

Le riforme di Draghi sono arrivate, finalmente mostrate nel Piano nazionale di ricostruzione e resilienza distribuito a ministri e partiti e che oggi sarà discusso in Consiglio dei ministri. Riforme in larga parte richieste dall’Unione europea tramite le “Raccomandazioni specifiche”, nitidamente riportate (e che, en passant, obbligano il governo a riconoscere la positività di quanto fatto dal governo Conte, ad esempio il “cashless”.)

Si possono sintetizzare in due assi: modernizzazione (Pubblica amministrazione e Giustizia) e mano libera alle imprese (concorrenza, appalti, semplificazioni varie).

Dal punto di vista dei progetti non ci sono differenze rilevanti, mentre è proprio nell’elencazione delle riforme che il documento di 319 pagine è importante. Accanto a quelle più rilevanti – se ne individuano di tre tipi: orizzontali, abilitanti e settoriali – ce ne sono alcune più limitate ma significative come la laurea che abilita direttamente all’esame di Stato, ma anche l’abolizione di “quota 100” sulle pensioni sostituita da un intervento sulle “mansioni usuranti”.

Il documento spiega anche la governance, anzi la spiega a metà. Attuazione in carico alle amministrazioni che potranno assumere un bel po’ di personale in deroga e a tempo determinato; monitoraggio e controllo in capo al Mef; e poi una imprecisata “cabina di regia” a Palazzo Chigi che però non viene dettagliata e su cui si appuntano le speranze e i malumori dei partiti di governo.

Sull’impatto economico, si prevede un aumento del Pil al 2026, del 3,6% ma solo nello “scenario alto” mentre si prevede anche uno scenario “medio”, al 2,7 e uno “basso” a 1,8%.

La distribuzione percentuale delle risorse beneficia soprattutto gli investimenti, un po’ meno i consumi privati e molto le importazioni, ma tra incentivi e defiscalizzazioni, il 20% finirà alle imprese – al netto della quota investimenti – e un 5% alle famiglie.

Le due riforme più importanti sono quella della Pubblica amministrazione e quella della Giustizia. Soprattutto la prima, il cui impatto sul Pil è stimato al 2026 nell’ordine del 2,2%, mentre quello della Giustizia allo 0,5%. Qui si tratta di capire se “accesso, digitalizzazione, competenza e buona amministrazione” produrranno una burocrazia di standard mediamente europeo. Di sicuro al momento ci sono le assunzioni: fuori dai concorsi sono previste tre modalità, per l’emergenza Recovery e quindi con contratti a tempo determinato. Addirittura il ministero di Renato Brunetta punta ad assumere “1000 esperti” per garantire il funzionamento del piano e a tutte le amministrazioni periferiche è lasciata la libertà di creare task force come se piovesse. Si provvederà in parte con un decreto legge previsto entro maggio.

La giustizia si muove nel solco delineato dall’ex ministro Bonafede. L’obiettivo è velocizzare i processi addirittura con una “selezione” per i ricorsi in appello sia nel procedimento civile che in quello penale. Ulteriori assunzioni rispetto alle 13.000 previste dal governo Conte, riorganizzazione degli uffici, responsabilizzazione dei capiufficio. Nel processo civile si punta ai riti alternativi (Alternative Dispute Resolution). Si colloca qui l’ipotesi di velocizzare gli accessi in magistratura. La riforma si farà con legge delega e il suo impatto è previsto entrare in vigore nel 2024.

Sugli appalti e semplificazioni si procederà per decreto legge. Nel primo caso è prevista l’abolizione del controllo della Corte dei Conti – visto che esiste già il controllo Ue – e la riduzione della responsabilità “per danno erariale”. Le semplificazioni saranno il cuore del Pnrr, infatti è previsto un “ufficio” speciale a Palazzo Chigi – e prevedono anche una “speciale Via statale”, la valutazione di impatto ambientale.

La “concorrenza” prevede l’approvazione, entro il 15 luglio 2021, del disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza, ma nel piano è compresa anche la riforma del fisco basata sulla revisione dell’Irpef, sulla riduzione della pressione fiscale conservando la progressività, la riforma degli ammortizzatori sociali e l’istituzione di un salario minimo legale.