Trojan, rischia di saltare l’espulsione di Palamara

Due procure – Napoli e Firenze – indagano in modo coordinato sulle modalità di intercettazione del trojan targato Rcs. Le indagini – a Firenze per esempio si ipotizza il reato di frode in pubbliche forniture – potrebbero portare a un dato banale o a un dato esplosivo. È troppo presto per comprenderlo, data la complessità della regolamentazione di uno strumento come il trojan, che necessità di “rimbalzi” tra più server per risultare anonimo e non consentire, al bersaglio da intercettare, di scoprire che la procura gli sta infettando il telefono. Quando Duilio Bianchi, direttore divisione Ip della Rcs, ha spiegato alla procura di Firenze “l’architettura” del sistema, ha fornito una versione diversa rispetto a quella data nel luglio scorso dinanzi al Csm. E dinanzi al Csm aveva spiegato il funzionamento del trojan all’interno delle vicende disciplinari legate al caso Palamara che riguardano il magistrato e parlamentare Cosimo Ferri: è stato proprio un trojan Rcs, infatti, a registrare le conversazioni tra Ferri, Palamara e Luca Lotti, la notte tra l’8 e il 9 maggio all’hotel Champagne di Roma, mentre discutevano del futuro apo della procura di Roma. Quel che si scopre oggi, nell’interrogatorio reso a Firenze, è la conferma di quanto scoperto dall’avvocato in sede disciplinare di Cosimo Ferri, Luigi Panella, che dopo aver disposto delle perizie tecniche ha fatto una scoperta: i dati del trojan, prima di giungere al server installato nella Procura di Roma, transitavano da un server installato nella procura di Napoli.

Un server del quale nessuno fino ad allora conosceva l’esistenza. Bianchi due giorni fa, dinanzi alla procura di Firenze – che, su richiesta del procuratore capo di Perugia, Raffaele Cantone, ha inviato il verbale di interrogatorio e altri atti alla procura umbra – ha confermato l’esistenza di questo server “fantasma”. Ora il dubbio è che sia stato violata una norma di procedura penale – la procura di Perugia aveva autorizzato le attività soltanto sul server romano – e il gup dovrà stabilire se le intercettazioni captate con il trojan siano ancora utilizzabili. Se non bastasse, Bianchi ha rivela che questa architettura quindi l’esistenza del server napoletano) ha funzionato non solo per Perugia ma per tutte le procure italiane alle quali Rcs ha fornito la sua tecnologia. E lo scenario diventa surreale: la conversazione intercettata dal trojan al’hotel Champagne finì per travolgere la nomina del procuratore generale di Firenze, Marcello Viola, che assolutamente ignaro di quelle manovre, aveva ottenuto la maggioranza nella commissione del Csm e sembrava pronto per l’investitura del Plenum. Quelle conversazioni portarono alla defenestrazione di Palamara dalla magistratura e a un terremoto giudiziario. La scoperta della perizia dell’avvocato Panella – ora certificata da Bianchi e dalla Procura di Firenze – in teoria può produrre effetti devastanti. Da un lato la Procura perugina è orientata a considerare quello di Napoli un semplice “impianto”, non suscettibile di alcuna autorizzazione, e a difendere l’utilizzabilità delle intercettazioni. Dall’altro la difesa di Palamara contrattacca: “Bianchi ha corretto il tiro rispetto a quanto aveva dichiarato al Csm, una testimonianza centrale per la radiazione del nostro assistito. C’è anche la ‘famosa’ cena all’hotel Champagne e quindi se le intercettazioni dovessero essere dichiarate inutilizzabili si rimetterebbe in gioco tutta la vicenda. Ora vogliamo capire se ci sono state manipolazioni delle intercettazioni con il trojan”, ha commentato ieri l’avvocato Benedetto Buratti, legale di Palamara.

La Procura di Perugia ha chiesto al gup di sentire Bianchi nella prossima udienza del 3 maggio. C’è un ulteriore dettaglio che emerge dall’interrogatorio di Bianchi e riguarda proprio la fase in cui dati transitano dai server di Napoli: “In tale fase, ai dati che non erano criptati, potevano aver eventualmente accesso in remoto solo gli amministratori di sistema di Rcs spa dalla sede di Milano”. Il tutto, però, in un fase che, fino all’altro ieri, lo stesso Bianchi aveva negato che esistesse. “Per quale motivo – chiedono i pm fiorentini a Bianchi – in sede di autorizzazione al Csm non ha riferito in ordine all’architettura CSS ed Hdm (i due server napoletani, ndr)?”. Ecco la risposta di Bianchi: “Il 28 luglio 2020 ho fornito al procuratore di Perugia, nella persona del dottor Formisano, una nota di chiarimento in cui vi è descritta l’architettura del sistema. Durante l’audizione al Csm mi sono riportato sostanzialmente alle informazioni contenute in tale nota. Soltanto successivamente, avendo ricevuto una convocazione davanti al Csm nel procedimento nei confronti di Cosimo Ferri, ho ascoltato la registrazione su Radio Radicale dell’intervento della difesa che esponeva di aver individuato un Ip di Napoli come destinatario della trasmissione di dati da parte del trojan (…). Mi sono reso conto allora dell’errore che avevo fatto nella descrizione dell’architettura indirizzata a Perugia ed esposta nell’audizione al Csm”.

Solo Lega e Fi possono sparlare di indagini

Quando la ministra della Giustizia Marta Cartabia invita le istituzioni al “massimo riserbo” sulle “vicende giudiziarie aperte”, solleva un tema legittimo. A cui però segue una domanda: dov’era fino ad adesso la ministra Cartabia?

Giovedì sera, la Guardasigilli ha bacchettato la sua sottosegretaria 5Stelle Anna Macina, che aveva accusato l’avvocata e senatrice Giulia Bongiorno di aver spifferato a Matteo Salvini alcuni dettagli dell’inchiesta per stupro sul figlio di Beppe Grillo, in cui lei assiste la vittima. Peccato che da mesi ministri, sottosegretari e parlamentari si diano un gran daffare nel commentare processi in corso sotto il naso della inerte ministra, spesso con toni che ricordano le mitiche barricate forziste a difesa di Silvio Berlusconi.

 

Il coro. In difesa di matteo

Il caso più evidente è quello che riguarda Salvini, appena rinviato a giudizio per il mancato sbarco della Open Arms e difeso proprio dalla Bongiorno, la quale non risparmia stoccate pubbliche ai magistrati, che “non possono sostituirsi alle urne”. Proprio mentre la Cartabia rimproverava la Macina, l’altro sottosegretario alla Giustizia, il berlusconiano Francesco Paolo Sisto, parlava col cuore in mano a Italpress: “Sul rinvio a giudizio di Salvini credo sia impossibile pensare che abbia commesso tutto da solo”. Forse la ministra richiamerà anche lui, o magari preferirà passarci sopra come sempre avvenuto con chi, a destra, accusa i pm di portare avanti un processo politico. La ministra Mariastella Gelmini, per esempio, una settimana fa difendeva Matteo: “Trovo surreale questo rinvio a giudizio. Mi ricorda le vicende vissute da Berlusconi”. Una solidarietà espressa anche dal titolare del Turismo Massimo Garavaglia, che al grido di “ForzaMatteo!” ha rilanciato sui social l’hashtag #iostoconSalvini.

E mica i sottosegretari leghisti sono stati da meno (sempre sotto il silenzio della Cartabia). Claudio Durigon (Economia): “Si può andare a giudizio per aver difeso i confini della Patria? Forza Matteo, vinceremo anche questa battaglia!”. Vannia Gava (Transizione ecologica): “Qualcuno ancora pensa che si possa abbattere il nemico mandandolo a processo per una decisione politica finalizzata a difendere i confini dell’Europa”. Naturalmente la linea è la stessa seguita dai parlamentari di Lega e Forza Italia. Stefano Candiani, salviniano doc, dipinge un processo che “puzza da lontano di nuovo tentativo di spallata giudiziaria contro la Lega e Salvini”, la forzista Licia Ronzulli vede l’indagine come “un campanello d’allarme sul funzionamento del nostro sistema giudiziario” e sottolinea “l’uso politico della giustizia”, pur rincuorata dal fatto che “Salvini affronterà anche questa a testa alta”. Dura anche la capogruppo di FI in Senato Anna Maria Bernini: “Il rinvio a giudizio è paradossale e incongruente ed è un vulnus alla credibilità di certa giustizia”.

Ma se il riferimento della Cartabia è genericamente alle istituzioni, vanno allora ricordate le intemerate dei presidenti di Regione contro la magistratura. Per rimanere agli ultimi casi, ecco il ligure Giovanni Toti sul caso Open Arms: “Salvini viene processato per aver preso decisioni da ministro. Una brutta immagine del Paese e delle sue istituzioni”. Per non dire del governatore lombardo Attilio Fontana: “Salvini è in Tribunale per aver difeso i confini del Paese. Io sto con Salvini”.

 

Vecchi tempi. Trincea per B.

Come non pensare allora ai tempi che furono, quando i “processi politici” erano contro Berlusconi. Se lo ricorda bene la già citata ministra Gelmini, che forse al prossimo Cdm potrà intrattenere la Cartabia su quando si appassionava al processo Mediaset: “Qui è in gioco la sopravvivenza della politica. Non possiamo restare inerti. È la conferma della persecuzione da parte di Milano: toghe parziali e faziose”. Pure Renato Brunetta, ora tornato alla Pubblica amministrazione, in passato non ha mai risparmiato interventi degni “del massimo riserbo”. Sul processo Ruby ter, per esempio: “La Procura di Milano continua il suo attacco contro Berlusconi, accusato incredibilmente e in modo inconsistente di aver pagato alcuni testimoni”. E mentre Maurizio Gasparri definiva il caso Ruby “un ordigno a orologeria”, persino l’attuale presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati era prodiga di giudizi: “Le accuse contro Berlusconi sono il frutto di un teorema fantasioso, già smentito dai fatti e destinato a svanire nel nulla”. La più memorabile delle difese d’ufficio, però, è quella che propose Maurizio Paniz a Montecitorio: “Berlusconi ha telefonato alla Questura senza esercitare pressioni per chiedere un’informazione nella convinzione, vera o sbagliata che fosse, che Karima el Mahroug fosse parente di un presidente di Stato”.

 

Da un’aula all’altra

Paniz peraltro ben rappresenta l’ambiguità riemersa nella vicenda Macina-Bongiorno. Non sono pochi infatti gli avvocati che, una volta eletti, continuano a svolgere attività forense, lavorando magari su casi che hanno implicazioni politiche. Padre nobile della categoria è Niccolò Ghedini, senatore dal 2006 e avvocato di Berlusconi (come Piero Longo, eletto per dieci anni): nel 2008, tra le tante storture, Ghedini difende B. nel processo Mills e il Parlamento approva il lodo Alfano che concede l’immunità a Silvio. Poi, il Parlamento vota pure la modifica al reato di concussione proprio mentre Berlusconi è imputato nel caso Ruby. Roba da far venire nostalgia perfino a uno come Cesare Previti, avvocato promosso senatore, deputato e pure ministro da B., uscito dal Parlamento nel 2007 per una condanna per corruzione: per sua fortuna, la ex-Cirielli appena varata gli consente di uscire dal carcere dopo pochi giorni. Non da meno è l’esperienza di Carlo Taormina, altro forzista diviso tra Parlamento e tribunali ed estensore della legge sul legittimo sospetto, poi diventata legge Cirami, utilissima per spostare o ritardare i processi di B. Il colpo di genio è del 2003: mentre assiste alcuni mafiosi, FI piazza Taormina in Commissione Antimafia. Archeologia politica? No, dato che il sottosegretario alla Giustizia Sisto difende B. nel processo sulle escort. Circostanze che rendono paradossale la mancanza di una legge sulle porte girevoli tra politica e studi legali: restano solo i moniti a corrente alternata della Cartabia.

“I pannoloni sono molto peggio del Covid”

Appena ho sentito la sua voce ho pensato a uno sketch di Crozza: imitava Giuliano Cazzola (bolognese, socialista impenitente e ospite di lungo corso della trasmissione di Floris) invocare la morte degli ottuagenari.

Ero io e non è la prima volta che dico che non si può mandare in malora tutto un Paese per tutelare solo una parte di esso.

Dall’alto dei suoi 80 anni.

Questa mistica delle forze in campo per salvare dei vecchi dal Covid a me sinceramente infastidisce.

Teniamo ai nonni e ci rallegriamo se la fanno franca.

E ai nipoti chi ci pensa?

Lei non ha paura della morte

Io ho paura dei pannoloni. Più del Covid mi fa paura finire la mia esistenza senza dignità, capacità di pensare, fare, scegliere.

Ogni giorno muore un numero discreto di suoi colleghi.

Mi addolora naturalmente. Ma contesto questa lirica del novantenne che dobbiamo strappare alle grinfie del buio eterno.

Pensiamo un po’ più al Pil.

Pensiamo alle altre malattie, ai cardiopatici, agli oncologici, alle mamme che non fanno più gli screening neonatali.

Ai lavoratori autonomi…

Pensiamo a riaprire, a dare vita alla nostra povera vita.

O inseguendo i nonni finiamo con loro al cimitero

Queste cose le dico da tempo, all’inizio ero negazionista.

Come gli atei devoti.

Ritenevo che il Covid fosse qualcosa di più dell’influenza, ma nulla di drammatico.

Ha capito subito?

Dopo l’estate scorsa.

È comunque rimasto suggestionato da Trump e Bolsonaro: la vita continua e amen per chi non ce la fa.

Non a questo livello, diamine!

Però un anziano deve pur morire in qualche modo.

La morte non è figlia dell’errore dei medici. La vita ha un tempo.

Come lo diciamo ai nonni?

Guardi che lei parla con chi ha visto la morte non una, ma due volte.

Ha già spiegato che non ha paura della morte.

Le ho detto che temo di più il pannolone.

La perdita di dignità è la curva più insostenibile del fine vita.

Ecco.

Bisogna far largo ai giovani.

Ecco.

Si può fare a meno dei vecchi.

Possiamo permetterci di caricare sui giovani il debito monstre che stiamo costruendo?

C’è un’unica via di salvezza

Togliere l’Italia dall’apnea. Farla respirare.

E se si muore immaginare che per tanti scocchi l’ora e amen.

Sa cosa temo di più?

Cosa?

Il contrordine. Che “il rischio ragionato”, di cui ha parlato meritoriamente Draghi, sia interpretato come azzardo da questo mare di scienziati che dicono come vivere.

La sua è una questione insieme economica e filosofica.

Si campa solo aprendo le città.

Si può però perire a causa delle aperture.

Non siamo immortali. Accettare la finitezza dell’esistenza.

Lei ha ottant’anni.

Quindi non sono estraneo alla schiera dei nonni.

Vaccinato?

Certo. Mi vaccino sempre. Da trent’anni faccio quello dell’influenza e della polmonite.

Non era negazionista?

In che senso, scusi?

Borghi e il duello impari con la zanzara-Crisanti

Faceva quasi tenerezza giovedì sera, a Piazzapulita, l’onorevole Claudio Borghi. È arrivato in studio con la sua faccia paciosa da leghista buono che i migranti li rimanderebbe sì tutti a casa loro, ma con francobollo, cartolina del Colosseo e “scrivi quando arrivi!”. È arrivato con un foglietto stropicciato in mano, che era un po’ una cosa a metà tra la sua auto-certificazione di autorevolezza (“Vi ho portato uno studio!”) e la lettera del figlio morto in guerra alla mamma, conservata gelosamente dal soldato amico in trincea. Borghi sudava e stringeva il foglietto a sé, erano lui e il suo amico di cellulosa contro tutti, contro il soldato Padellaro, contro il soldato Calabresi ma, soprattutto, contro il temuto generale Crisanti. L’uomo che a parere della Lega ha il gusto sadico di chiudere tutto e tutti, il lugubre studioso che come una vestale di Satana succhia le energie vitali dalle saracinesche abbassate e che a ogni partita Iva chiusa guadagna un anno di vita. Bisogna dire che in effetti Borghi aveva iniziato bene. La sua premessa è stata: “Sono una persona fortunata, non a tutti succede di fare il deputato”. E voglio dire, che già escludesse il merito e riconoscesse la sonora botta di culo, mi era parsa una presa di coscienza encomiabile, specie per un leghista.

Ma il sogno è durato poco. “E quindi io studio”, ha aggiunto con la faccia sorniona di chi sta per estrarre il coniglio dal cappello. È lì che è entrato in gioco il suo inseparabile amico di cellulosa: il fogliettino. L’ha sventolato due, tre volte un po’ per asciugarsi il sudore sulla fronte, un po’, forse, per governare l’effetto doppler e dirigere le eventuali nanoparticelle su Formigli, poi è partito all’attacco: “Negli ultimi mesi tante cose sono state date per assodate, che il lockdown funzioni, che salvi vite… ora, con tutto il rispetto per Crisanti, io su queste cose devo sentire i massimi esperti al mondo e poi decido, Crisanti è un esperto di zanzare, non di queste cose. Con tutta la simpatia per lui, ascolto esperti come il professor Ioannidis, epdimio… epidomio.. epidemiologo… Lui dice che il lockdown non mostra benefit!”. (in realtà lo studio citato da Borghi dice tutt’altro).

Vorrei avere le parole giuste per descrivere la faccia di Crisanti, liquidato da un Borghi qualunque come un signor “Né unti né punti”, come uno che nella vita monta zanzariere nel Comacchio mentre i leghisti divorano trattati di epidemiologia confrontandosi su osservazioni cliniche in base ai dati raccolti da Salvini durante le dirette su Instagram. Crisanti – lo si vede chiaramente dal monitor – sembra stia diventando il protagonista di un nuovo body-horror di David Cronenberg, un remake de La mosca, solo che si sta trasformando in zanzara. Una gigantesca, abnorme zanzara incazzata nera. Formigli chiede a Borghi come mai allora nel Regno Unito il lockdown abbia funzionato, Borghi risponde che in realtà i dati del Regno Unito sono sovrapponibili a quelli di altri Paesi che hanno tenuto aperto, dunque da febbraio dello scorso anno, se avessimo lasciato aperto, probabilmente sarebbe stato lo stesso. Insomma, secondo Borghi a giugno del 2020 eravamo a 100 contagi al giorno perché il sole era entrato nei Gemelli, mica perché avevamo fatto tre mesi di lockdown. A quel punto, si sente un forte ronzio: è Crisanti che vuole parlare. “Io sono contento di essere un esperto di malaria, perché io ho potuto studiare le epidemie mentre lei stava in Parlamento, mentre quelli del suo partito dicevano che il virus era morto”.

A quel punto Borghi abbraccia il suo amico di cellulosa, lo stringe ancora più forte cercando conforto. E comincia a snocciolare una perla dietro l’altra: “Guardiamo il Brasile… Bolsonaro ha meno morti di noi per popolazione… Abbiamo tolto due anni di vita ai giovani!… Io sventolo studi, voi dogmi! Crisanti vada a leggere gli studi! Salvini è d’accordo con me!”. Crisanti, ormai completata la sua mutazione in zanzara, lo guarda come fosse un predatore che gli ha appena mangiato le uova. Padellaro e Calabresi lo guardano come fosse un pirla.

Ora sappiamo che la tesi leghista è che i lockdown non servono a niente. Sarà, eppure se Borghi giovedì sera avesse rispettato il coprifuoco e non fosse andato con l’amico di cellulosa da Formigli, di sicuro avrebbe tutelato non so se la sua salute, ma almeno la sua reputazione.

Ridevano dei banchi a rotelle. Ma li avevano comprati loro

L’imbarazzo è forte, ma più forte ancora è il timore di finire nel mirino dei pm. Ché a Padova, sulla questione dei banchi a rotelle, si è consumato un pasticcio colossale ed è già partito lo scaricabarile. A far deflagrare la bomba, un servizio del Tg5 e le parole del vicepresidente della Provincia, Vincenzo Gottardo (FI) che a favor di telecamere ha mostrato lo scempio: un corridoio zeppo di sedute per la didattica frontale, mai utilizzate e ancora impacchettate. Colpa di chi?

Nel servizio finiscono sulla graticola il già commissario per l’emergenza Domenico Arcuri e pure l’ex ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina: ma i banchi in questione ancora incellophanati e respinti al mittente dalle scuole che non li hanno voluti sono quelli acquistati dalla Provincia di Padova, con fondi europei, quando i banchi inviati da Arcuri erano stati già consegnati alle scuole che ne avevano fatto richiesta. E la caccia al colpevole si trasforma in un autogol, a tener fede alle date, ai bandi di gara e alle parole dello stesso Gottardo, che al Fatto dice: “Colpa dei presidi”.

Ma andiamo con ordine: la gara per l’acquisto viene indetta il 21 luglio 2020 da Arcuri. Da quel momento, gli istituti e i dirigenti scolastici possono comunicare al ministero il proprio fabbisogno di banchi tradizionali e di sedute con le rotelle. Nonostante sia spesso specificato che i banchi con le rotelle richiedano un diverso tipo di approccio alle lezioni, tantissimi li ritengono utili per il distanziamento e quindi garantire la scuola in presenza. In tutta Italia, comunque, su un ordine totale di 2,4 milioni di banchi, poco più di 400 mila sono sedute innovative.

Il fabbisogno totale di queste ultime che al 10 agosto arriva dai 42 istituti scolastici della provincia di Padova è di 3.754 banchi: le consegne di Arcuri, a quanto risulta al Fatto, iniziano dal 10 settembre e vengono ultimate entro ottobre. Intanto, però, inspiegabilmente la Provincia di Padova si muove anche da sola e il 14 agosto decide di acquistare autonomamente banchi e banche a rotelle, tanto che il 17 agosto pubblica il relativo bando di gara impiegando i soldi provenienti dai fondi Pon.

Risultato? La Provincia il 25 settembre chiude i contratti con i fornitori per una spesa di 688.994 euro di cui 197 mila circa proprio per altre sedute innovative, circa mille, di cui la metà però restano su groppone dell’amministrazione: per farla breve tra scuole che si lamentano per la loro poca qualità e altre che evidentemente non ne hanno più bisogno, quando a Natale vengono consegnati circa 500 finiscono, nuovi nuovi, a prendere polvere in magazzino.

“Ma che ne sapevo io che le nostre scuole avevano già fatto richiesta dei banchi a rotelle al Commissario? Se sapevano che li avrebbero ricevuti da Arcuri perché a me non hanno detto niente lasciando che la nostra amministrazione acquistasse quello di cui dicevano di aver bisogno?” si sgola il vicepresidente della provincia Gottardo. Che giura di “aver agito in buona fede. Avremo anche noi qualche responsabilità. Ma allora i presidi?”. Per l’ex ministra dell’istruzione, Lucia Azzolina, è difficile credere che non sapesse: “Figuriamoci – dice al Fatto –. Se così fosse bisognerebbe credere all’ipotesi che i dirigenti scolastici non sapessero di aver comunicato quei fabbisogni anche a noi”.

La polemica non finisce mai: “Spesso torna in auge quando ci sono difficoltà di altri e si vuole provare a nascondercisi dietro. Si vuole far credere che il ministro abbia deciso quali banchi ordinare per 40 mila plessi scolastici. È impensabile che il ministro sappia quali banchi siano più adatti per ogni classe, per questo le scuole hanno la loro autonomia. Potevano scegliere tra le diverse tipologie, dai i tradizionali agli innovativi e quelle scelte sono state rispettate”.

Ora però il problema nel padovano rimane. Si cerca di riparare alla spesa come si può, darli anche a qualche associazione di volontariato per riciclarli all’estero, magari in Paesi che i banchi non li hanno e manco le scuole. Ma il danno è fatto e pure coi soldi europei. “C’era questo finanziamento dell’Europa – dice Gottardo – e ci siamo detti: utilizziamolo per un giusto fine”. Apposto.

Crisanti: “Sono stati i due turisti cinesi i pazienti zero a Vo’”

Era il 30 gennaio 2020, l’allora premier Giuseppe Conte, a un mese dal giorno in cui le autorità cinesi avevano comunicato all’Oms misteriosi casi di polmonite a Wuhan, bloccava i collegamenti aerei con la Cina. Il giorno prima una coppia di turisti cinesi che alloggiava all’hotel Palatino di Roma – lui 66 anni, la moglie 65 – era stata ricoverata allo Spallanzani con i sintomi del Covid-19, subito confermato. Entrambi provenivano da Wuhan. Furono i primi casi in Italia. E ora è accertato che furono anche i “pazienti zero” del primo focolaio veneto, quello di Vo’ Euganeo, dove il 21 febbraio morì Adriano Trevisan, 78 anni, la prima vittima. È stata l’équipe dell’Università di Padova, guidata dal professor Andrea Crisanti, a individuarli, attraverso l’analisi del ceppo virale, uguale a quello circolante nel comune del Padovano all’inizio della pandemia.

La coppia, dopo essere sbarcata a Malpensa alle 5:35 del 23 gennaio, insieme a una comitiva di 20 connazionali cinesi, da Milano si era infatti spostata in Veneto. Aveva fatto una tappa di notte a Verona, una gita a Venezia. E aveva soggiornato tre giorni a Parma prima di raggiungere Roma. Adesso il sindaco di Vo’ Euganeo, Giuliano Martini, si è rivolto ai suoi concittadini affinché contribuiscano alla ricostruzione della catena di trasmissione del contagio, come richiesto dalla stessa Università di Padova, in particolare “a tutti coloro che sono risultati positivi al tampone o al sierologico tra febbraio e maggio 2020. A queste persone chiediamo gentilmente di provare a ricordare se hanno avuto contatti con le città di Venezia, Verona o Parma tra il 23 e il 27 gennaio”. Un appello che, come spiega Crisanti, “serve a stabilire un legame personale per completare lo studio, che ha un interesse storico, con evidenze di contatto. L’inizio dei contagi a Vo’ risalirebbe alla prima settimana di febbraio, quindi diversi giorni dopo la scoperta della positività dei turisti cinesi. E questo ci suggerisce anche l’esistenza di un anello mancante: qualcuno, direttamente collegato al paese padovano, che si sarebbe infettato dai due cittadini asiatici”. I due coniugi – lui ingegnere biochimico, lei umanista – hanno affrontato allo Spallanzani un lungo ricovero, tra crisi respiratorie e cure intensive, fino al 19 marzo, entrambi con polmonite interstiziale bilaterale. Erano scesi a Roma, all’hotel Palatino il 28 gennaio. E il giorno successivo, quando avevano manifestato i sintomi, la portineria dell’albergo aveva subito chiamato il 118. Nessuno del resto della comitiva aveva manifestato dei disturbi. Tanto che il giorno successivo era ripartita per Sorrento, dove aveva trascorso una notte, per poi dirigersi a Cassino. Ed è stato nel comune laziale che le autorità sanitarie hanno rintracciato il gruppo, il 31 gennaio, per poi riportarlo a Roma e metterlo in isolamento allo Spallanzani: tutti risulteranno, poi, negativi. La coppia, una volta dimessa, donò anche 40 mila dollari all’sitituto.

La scoperta dell’equipe universitaria è avvenuta con l’analisi dei campioni del sangue della coppia cinese, messi a confronto con quelli degli abitanti di Vo’ Euganeo.

“A questo punto – dice Crisanti – è evidente che c’è stato qualcosa di sbagliato nella gestione iniziale dell’emergenza, perché a quei turisti che provenivano da Wuhan non doveva essere consentito di mettere piede in Italia. Il nostro Paese ha aspettato troppo a imporre delle limitazioni alla circolazione”. La decisione era datata 31 gennaio.

“Il quadro è ancora critico”. 14 Regioni gialle da lunedì

Da lunedì 26 l’Italia riapre almeno un po’, “non è un liberi tutti” ripetono dal ministero della Salute e dall’Istituto superiore di Sanità. “Si conferma la lenta discesa dei nuovi casi e del numero di pazienti ricoverati, ma il quadro complessivo resta ancora a un livello molto impegnativo”, scrivono. Tornano, per effetto del decreto legge 52 del 22 aprile, le zone gialle abolite ai primi di marzo: ripartono bar e ristoranti anche a cena purché all’aperto, si potrà andare al cinema e a teatro e praticare qualsiasi sport – calcetto compreso – sempre all’aperto, ma resta il divieto di circolazione notturno dalle 22 alle 5. Varrà per 14 Regioni e cioè tutte salvo la Sardegna (che resta rossa), la Basilicata, la Calabria, la Puglia, la Sicilia e la Valle d’Aosta (arancioni).

Questi i provvedimenti del ministro della Salute Roberto Speranza, che avrebbe aspettato ancora un po’. Sul decreto ha deciso Mario Draghi senza però spingersi fin dove volevano la Lega, le Regioni e le numerose categorie economiche strangolate dalle chiusure e in attesa dei Sostegni, a cui non è bastato togliere il nome di Ristori per renderli più tempestivi. Si litiga ancora sulle spiagge e sull’apertura dei centri commerciali nel weekend, quest’ultima cancellata in extremis dal decreto. Piscine all’aperto e palestre devono ancora attendere, rispettivamente, il 15 maggio e il 1° giugno. I congressi e i parchi tematici il 1° luglio. Ma tutto dipende dai dati: “Speriamo di non tornare indietro”, incrociano le dita numerosi esperti. E ricordano che la Sardegna, prima Regione bianca, è passata al rosso in due settimane. L’atmosfera del “liberi tutti” nel Paese c’è.

Il monitoraggio settimanale diffuso ieri da Salute e Iss dice che il tasso di riproduzione del virus è sceso, sia pure di poco, raggiungendo lo 0,81 al 7 aprile contro lo 0,85 di sette giorni prima. Preoccupano diverse Regioni del Centro-Sud: Molise (Rt a 1,49), Basilicata (1,24), Sicilia (1,12) e Calabria (1,03), ma anche la Sardegna (come la Calabria) è considerata a rischio alto. A livello nazionale cala lentamente l’incidenza: da 160,5 nuovi casi ogni 100 mila abitanti nella settimana fino all’11 aprile a 157,4 al 18 aprile nel flusso completo dei dati Iss; si attesta a 159 al 22 aprile nel flusso quotidiano dei dati trasmessi dalle Regioni alla Salute. Siamo lontani dai 250 ogni 100 mila a settimana che bastano per andare in zona rossa, ma anche dai 50 che permetterebbero il completo tracciamento e il contenimento dei nuovi casi. A ogni modo, diminuiscono le infezioni non riconducibili a catene di trasmissione note: 29.892 contro 32.921 la settimana precedente. E soprattutto si attenua la pressione sugli ospedali: i pazienti in terapia intensiva, si legge nel report settimanale, sono scesi dai 3.526 del 13 aprile ai 3.151 del 20 e ieri erano 2.979, pari al 33% dei posti e ormai prossimi a rientrare sotto la soglia critica del 30%; nelle aree mediche siamo già al 36%, sotto la soglia critica (40%), ma non in tutte le Regioni. Il dato migliore è la “netta e veloce decrescita” dei contagi degli 80enni: è “l’effetto delle vaccinazioni nelle fasce di età più avanzate”, ha osservato il presidente dell’Iss, Silvio Brusaferro.

Bongiorno Italia

Per dire come funziona quella che spiritosamente chiamiamo “informazione”. Il Tempo riporta una dichiarazione di Salvini dopo il video di Grillo sulle accuse al figlio: “Qualcosina su come siano andate le cose mi ha detto il mio avvocato, dato che è lo stesso della ragazza che ha denunciato lo stupro, ovvero Giulia Bongiorno”. Né Salvini né Bongiorno smentiscono. Anna Macina, sottosegretario M5S alla Giustizia, pone la domanda che tutti si pongono: la Bongiorno, nella sua doppia veste di legale della ragazza e di Salvini, nonché di avvocata e di senatrice, ha spifferato notizie sul caso di Grillo jr. al suo cliente e leader che l’ha portata in Parlamento? Se così fosse, un conflitto d’interessi già enorme (un’eletta per rappresentare l’intera nazione che rappresenta tizio o caio) si moltiplicherebbe vieppiù, senza contare la questione deontologica degli eventuali segreti di una cliente rivelati a un altro cliente. In un Paese normale, tutti chiederebbero a Salvini e Bongiorno di chiarire l’imbarazzante situazione. Invece siamo in Italia e tutti attaccano la Macina, che si dovrebbe dimettere dal governo per aver detto l’unica cosa sensata in tutta la vicenda. Salvini tace. La Bongiorno chiede le dimissioni della Macina e minaccia di trascinare anche lei in tribunale per non si sa bene cosa, visto che la sua domanda è tipica dell’attività parlamentare, scriminata dall’insindacabilità. A quel punto, toma toma cacchia cacchia, arriva l’ineffabile ministra Cartabia, che ammonisce la sottosegretaria al dovere “istituzionale del massimo riserbo sulle vicende giudiziarie aperte”. Peccato che la Macina non abbia detto nulla sul processo a Grillo jr.: è il senatore Salvini che ha detto di sapere ciò che non dovrebbe grazie alla Bongiorno che non l’ha smentito. Intanto l’altro sottosegretario alla Giustizia, il forzista Sisto, deputato e avvocato di B. nel processo Escort, dichiara che il rinvio a giudizio di Salvini per Open Arms non sta in piedi perché “è impossibile pensare che abbia commesso tutto da solo”. Tifo da stadio per il neoimputato anche dai ministri Gelmini e Garavaglia e dai sottosegretari Durigon e Gava. Ma per loro non risultano moniti della Cartabia.

Riavvolgiamo il nastro. Se Salvini ha detto la verità, la Bongiorno ha tradito il mandato legale, dunque dovrebbe dimettersi, se non da parlamentare, almeno da avvocata della ragazza, e querelare per diffamazione non la Macina, ma se stessa. Se Salvini ha mentito, dovrebbe dimettersi lui e la Bongiorno dovrebbe querelare lui, non la Macina. In attesa di sapere chi se ne deve andare e fra Salvini e la Bongiorno, gli unici che devono dare spiegazioni sono Salvini e la Bongiorno. E l’unica che deve restare al suo posto senza spiegare nulla è la Macina.

Elettrico, il passo del gambero di politica e costruttori

Che confusione, quest’auto elettrica. Come la Sora Camilla, tutti la vogliono ma nessuno (qualcuno, va) se la piglia. I soldi che i costruttori continuano a investirci sono tanti, ma i dubbi che ci si possa rientrare in tempi brevi aumentano: in un futuro anche non lontano guideremo senza dubbio a elettroni, ma come la battuta di un film possiamo tranquillamente dire “not today”. Al punto che come leggete qui di fianco qualcuno a Bruxelles si è accorto che pretendere una transizione così veloce verso la batteria è controproducente, e sta meditando di imporre limiti meno spartani ai prossimi standard di emissioni Euro 7, per allungare la vita dei motori endotermici di ultima generazione, magari incastonati in powertrain ibridi.

Un passo del gambero? Una consapevolezza parzialmente ritrovata, magari. Come ad esempio negli Stati Uniti, dove la General Motors passa dall’essere una fiera paladina dell’elettrico (“dal 2035 produrremo solo auto a zero emissioni”) a posizioni più prudenti (“dobbiamo dare ai consumatori quello che vogliono quando lo vogliono”), nonostante dodici stati abbiano chiesto al presidente Biden il bando ai motori benzina e diesel proprio entro il 2035. Chi va avanti noncurante di tutto è invece la Cina: al salone di Shanghai che si sta svolgendo in questi giorni le parole chiave sono “suv” ed “elettrificazione”. Ma si sa che lì la strada dell’elettrone è stata imboccata prima di tutti, più per convenienza che per convinzione. E non si può tornare indietro.

Un Cavallino misterioso entra in scuderia

Una nuova Ferrari, di cui ancora non si conosce il nome, ha ancora più fascino. Mentre le prime immagini sono state divulgate, i dettagli tecnici completi dell’inedita Rossa, che gli appassionati stanno cercando di classificare (GTO, Imola, Mugello, Le Mans, gli appellativi più gettonati) e che a Maranello hanno chiamato in modo provvisorio “812 Versione Speciale”, verranno svelati solo il 5 maggio nel corso di un evento digitale sui canali social Ferrari.

Ma nel frattempo possiamo dire che si tratta della berlinetta a motore anteriore del Cavallino più estrema di sempre, la cui produzione (limitatissima, neanche a dirlo) è probabilmente già tutta sold out.

La base tecnica di partenza è quella della 812 Superfast, mentre il motore che la spinge è l’ultima evoluzione del V12 aspirato, capace la considerevole potenza di 830 cavalli e di raggiungere un regime massimo pari a 9500 giri al minuto. Tra i tanti accorgimenti tecnici dedicati, il nuovo sistema di fasatura delle valvole e l’inedito terminale di scarico.

L’aerodinamica poi, è curata e studiata per garantire un elevato carico verticale e, al contempo, fondersi con il design distintivo della berlinetta.

Un esempio? Il lunotto posteriore con struttura monolitica in alluminio, che integra una serie di generatori di vortici, e lo spoiler posteriore, dall’estetica decisamente corsaiola.

In attesa di provarla su strada, si può anticipare che la dinamica di guida trarrà sicuramente beneficio dal sofisticato sistema a quattro ruote sterzanti indipendenti, “in grado di aumentare la sensazione di agilità e precisione in ingresso curva, nonché di assicurare una rapidità di risposta ai comandi senza pari”, come si legge nella nota diffusa dalla casa di Maranello. A cui non si fa fatica a credere, anche considerando che per contenere il peso è stato nondimeno fatto ampio ricorso (sia fuori che dentro) alla fibra di carbonio. Ultima notazione, per ora, la merita l’assistenza alla guida: su quest’auto è stata introdotta la versione 7.0 del Side Slip Control, per il controllo elettronico della dinamica di marcia.