L’Euro 7 ha mandato in crisi l’automotive. E l’Europa ci ripensa

“I veicoli elettrici sono sopravvalutati e faranno collassare l’attuale modello di business dell’industria automobilistica”, aveva detto Akio Toyoda, presidente della Toyota, nel dicembre scorso: il manager invocava che l’adozione delle vetture a batteria fosse razionale e coerente con la domanda di mercato, oggi sorretta per larga parte dagli incentivi statali. A distanza di qualche mese, il tempo sembra avergli dato ragione.

Infatti, a novembre 2020 la bozza prodotta dallo European Advisory Group on Vehicle Emissions per i futuri standard di omologazione Euro 7 (che dovrebbe entrare in vigore dal 2026) prevedeva criteri tanto severi da decretare l’estinzione dei motori termici e di molti ibridi. Ipotesi che ha generato più di qualche mal di pancia a livello sia politico sia industriale. E ora l’Agves si prepara ad aggiustare il tiro. “I piani per il nuovo standard Euro 7 relativo alle autovetture dimostrano che la Commissione Europea ha accettato i limiti di ciò che è tecnicamente fattibile e ha abbandonato obiettivi irraggiungibili”, ha detto Hildegard Müller, presidente della Vda, l’associazione di rappresentanza della filiera automobilistica tedesca, peraltro la più lanciata in tema di modelli elettrici. A mitigare le posizioni dell’Agves sono state, probabilmente, anche le considerazioni dei manager dell’auto europea: “I piani dell’Unione europea per standard di emissioni Euro 7 ancora più rigorosi sono una sfida enorme da affrontare dal punto di vista tecnico e, allo stesso tempo, portano pochi vantaggi per l’ambiente”, aveva detto un mese fa Markus Duesmann, numero uno di Audi.

“Rischiamo di sperimentare una disoccupazione senza precedenti” per via delle ripercussioni sulla forza lavoro, aveva fatto eco Manfred Schoch, presidente del consiglio di fabbrica della Bmw. Per Carlos Tavares, ad di Stellantis, così come inizialmente abbozzato, “lo standard Euro 7 va oltre le semplici regole della fisica. Così, sarebbe semplicemente impossibile continuare a produrre auto endotermiche”. Le stesse che, però, il mercato continua a prediligere. Considerazioni analoghe sono arrivate, pochi giorni fa, dal ministro dell’Economia francese, Bruno Le Maire: “Gli standard ambientali europei devono rimanere un incentivo, non distruttivo per la nostra industria. Sono in corso trattative sull’Euro 7 e sia chiaro: in questa fase, questo standard non è per noi conveniente. Alcune delle proposte che circolano sono eccessive”. Anche il ministro dei Trasporti tedesco, Andreas Scheuer, ha chiesto standard “coraggiosi”, ma raggiungibili: “Non dobbiamo perdere l’industria automobilistica europea. Dobbiamo essere moderni e innovativi, ma il tutto deve rimanere conveniente e fattibile”.

Calci al potere: i pompieri battono il Torino-Fiat

Nei giorni della Superlega, che hanno sconvolto il calcio per 48 ore, è tornata in auge l’epica del pallone sferico, democratico. Quello delle “grandi imprese” delle piccole squadre, che arrivano alle stelle con determinazione e un po’ di fortuna. Una di queste è la formazione dei Vigili del Fuoco La Spezia campione d’Alta Italia nel 1944, la cui vicenda viene rispolverata dall’ultimo romanzo di Marco Ballestracci, Giocare col fuoco, appena uscito per Mattioli 1885.

Ballestracci conosce il lato escatologico del calcio: nel 2008 ha scritto A pedate. 11 eroi e 11 leggendarie partite di calcio, poi un romanzo sul rapporto tra sport e potere, La storia balorda.

In Giocare col fuoco narra come la piccola, e un po’ sgangherata, leva ’43-44 dello Spezia riuscì a superare il “Grande Torino” e il Venezia in un campionato anomalo (poi scomunicato e riconosciuto come onorifico dalla Figc solo nel 2002) sullo sfondo della Seconda guerra mondiale e della liberazione dal fascismo.

Una vicenda rocambolesca, più che epica. Un colpo di fortuna preso per il verso giusto, perfetto serbatoio narrativo. Così ricorda l’impresa un protagonista, il pompiere-calciatore Paolo Rostagno: “Non ce l’aspettavamo. Per le trasferte noi usavamo le autobotti, il grande Torino viaggiava nei vagoni letto”. L’epilogo è noto: il 16 luglio 1944 la “Vv.ff. Spezia” batte la “Torino-Fiat” 2 a 1 sul campo di Milano. I granata sono fiaccati da una trasferta complicata dalla guerra e il suggello lo mette una traversa, che scongiura il pareggio di Mazzola. Nella partita successiva del triangolare il Torino travolge il Venezia 5 a 2 e lo Spezia vince il titolo.

È un campionato anomalo: l’ultimo giocato sotto il fascismo, voluto come diversivo dalla guerra. Ammesse solo le squadre dentro al territorio dello Stato fantoccio della Repubblica sociale. Per ovviare ai problemi di spostamento, si divideva in tornei regionali con un quadrangolare finale. Ma a giugno viene liberata Roma e la Lazio, campione regionale, deve ritirarsi dal campionato, che finisce in triangolare.

Tra ricerca storica e invenzione, con dialoghi mimetici e dialettali, Giocare con fuoco segue la “sporca dozzina” dello Spezia mentre si trascina a bordo di una vecchia autobotte da un lato all’altro dell’Appennino per incontrare gli avversari. Partite senza fronzoli: cinque, sei gol. Si gioca di fretta in quegli stadi rimasti in piedi dopo i bombardamenti, con le sirene antiaeree che suonano più del fischietto dell’arbitro. Ai calciatori sfollati era permesso aggregarsi alla squadra della città dove si trovano, e per evitare loro la leva obbligatoria li si arruola in un corpo militare, o in un’azienda di interesse bellico. Così il Torino, sponsorizzato dalla Fiat, guadagna Silvio Piola dalla Lazio, i Vigili del Fuoco di Spezia Sergio Angelini e Renato Tori dal Livorno.

Il Venezia è la più fascista di tutti. “Hai visto? C’han pure delle carogne che fan da scorta. Questi quattro maiali han venduto gli ebrei di Venezia ai tedeschi”. Così parla, prima del fischio d’inizio, l’autista dello Spezia al giovane meccanico Natalino. “E poi sai come si chiama davvero la squadra? Associazione fascista calcio Venezia. M’sà ch’ancò g’sarà da divertirs”.

La dittatura è un filo tirato lungo tutto il romanzo. I protagonisti sono uomini che si barcamenano tra le diverse tonalità del grigio. I nazisti sono usurpatori temibili, i fascisti un’autorità abusiva, ma pur sempre autorità. La lotta partigiana è distante, sulle montagne. Ogni tanto si vocifera di un collega che usa le trasferte per fare da staffetta. Dopo Torino-Juventus Piola dice la sua sul chiacchierato portiere della Juve: “Pietro, sta’ a sentè, Perucchett è un partigian come io e te siam doi madamin del bordel di via Mazzini. Sta’ a sentè! Mi i fussa stait partisan dabon j’era mia cusè tranquil come Beppe”. Però, quando si inerpica sulla Cisa per valicare in Emilia, l’autobotte dello Spezia incrocia spesso i partigiani. I rapporti son buoni, li fanno passare. Invece, il giorno in cui a fermarli è una pattuglia della X Mas, segnale di un’imminente retata, la squadra corre ad avvisare la brigata sui monti. Un’altra volta, di ritorno da una trasferta, sull’autobotte si discute di Resistenza. Si parla di Bruno Neri e del gran rifiuto di Giovanni Marchini, anarchico che alle Olimpiadi del ’36, davanti a Hitler e Mussolini a Berlino, si grattò il ginocchio per non fare il saluto romano. Il portiere chiosa: “Sai cosa fanno gli anarchici quando han l’età del bando d’arruolamento? Vanno su sulle Apuane che le conoscon così bene che non li trova nessuno e stanno lì ad aspettare che passi la tempesta. Questo fanno: aspettan che finisce tutto”. E un altro risponde: “Insomma i anarchici fà proprio quello che fazemo noi”.

Ultima mano di poker a 3 sull’ergastolo ostativo

Parafrasando il linguaggio del poker, si potrebbe dire che nella vicenda dell’ergastolo ostativo l’Avvocatura dello Stato ha fatto una specie di “apertura al buio” e poi la Consulta un “parol”. E sì, perché l’Avvocatura ha chiesto alla Corte una sentenza che – senza dichiarare l’incostituzionalità della norma impugnata – la interpretasse, nel senso che il giudice di sorveglianza debba verificare in concreto quali sono le ragioni che non consentono la condotta collaborativa. Ma se manca il pentimento (unico elemento obiettivo che consente una valutazione affidabile), ci si consegna alla tattica del condannato e si brancola appunto nel buio. Per parte sua, la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, ma ne ha differito di un anno gli effetti passando la parola a un altro (il legislatore), una mossa che si chiama appunto “parol”. Un “parol” che in questo caso dura un anno, giusto il tempo per arrivare al maggio 2022, quando cadrà il 30° anniversario delle stragi di mafia del 1992.

Ma la vicenda è troppo seria, terribilmente seria, per giochi di parole. Andiamo dunque alle vere, concrete questioni che pone l’ordinanza pronunziata dalla Corte costituzionale il 15.4.2021. Molto è già stato detto e scritto (sulla base di un comunicato ufficiale cui seguirà la motivazione). E tuttavia su alcuni punti conviene ritornare.

1. Secondo la Corte, l’ergastolo ostativo per i mafiosi non pentiti è incostituzionale per violazione di tre norme: gli artt. 3 e 27 Costituzione e l’art. 3 Convenzione Europea Diritti dell’Uomo. Quest’ultimo punto mi sembra contestabile. La realtà della condizione carceraria dei mafiosi è ben lontana dalla tortura, come dal trattamento inumano e degradante. Uno spaccato della situazione si trova nel volume Lo Stato illegale (Caselli, Lo Forte – Laterza ed.): ai mafiosi carcerati in difficoltà economiche “l’impegno è di ‘darci’ dai tre ai quattro appartamenti ciascuno”; i costruttori “debbono ‘uscire’ questi appartamenti”; “se qualcuno ‘babbia’ è un infame” e “gliela si deve far pagare”; a tutti i carcerati spetta un “mensile” per le spese correnti; un boss può arrivare a spendere “venti milioni al mese di avvocato, vestiti, ‘libretta’ e colloqui”. Proprio una vita grama non è. Certo si tratta di uno spaccato che non fotografa la condizione carceraria dei mafiosi in tutta la sua complessità, ma è quanto basta per dubitare fortemente che si possano utilizzare le categorie della tortura o dei trattamenti vietati dalla Cedu. Quanto alla nostra Costituzione, nulla da eccepire (ci mancherebbe!) circa la fondamentale rilevanza dei principi di uguaglianza e di redenzione. Sono indiscutibili conquiste di civiltà che caratterizzano una democrazia. Ma si può dire che la Costituzione non è un bancomat? Si può dire che i mafiosi sono di fatto convinti di appartenere a una razza superiore, quella che si autodefinisce degli “uomini d’onore”? Si può dire che considerano tutti gli altri non persone, ma oggetti disumanizzati da asservire? In altre parole, si può dire che con la pratica sistematica dell’intimidazione e dell’assoggettamento (art. 416 bis) i mafiosi si mettono sotto le scarpe tutti i valori della Costituzione e si pongono fuori della sua area? Si può dire che per rientrarvi devono offrire prove certe di ravvedimento e che la rinunzia allo status di uomo d’onore mediante il pentimento è l’unica condotta univoca al riguardo? Nel film Il rapporto Pelican, un’impareggiabile Julia Roberts, nel ruolo di una studentessa di Legge, al professore che le chiede perché la Corte suprema non abbia deciso una certa questione secondo la sua opinione, risponde “forse perché la Corte ha sbagliato”. Non oso arrivare a tanto, epperò…

2.Passando la “patata bollente” al legislatore per una nuova legge, la Corte ha fissato alcuni paletti (la mafia ha una sua “specificità” rispetto alle altre condotte criminali associative; la collaborazione di giustizia è un valore da preservare) e ha spiegato il “parol” col rischio “di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”. Equivale a riconoscere che bisogna fare molta attenzione a toccare una componente dell’architettura complessiva antimafia, se si vuole evitare che questa crolli tutt’intera. Dei paletti e di questo contesto, il legislatore non potrà non farsi carico, salvo preferire che restino solo macerie e la soddisfatta allegria dei mafiosi.

3. Sembra di assistere a una specie di work in progress nella demolizione dell’ergastolo ostativo. Nel senso che già nel 2019 la Consulta gli aveva dato un bel colpo di piccone, ammettendo ai “permessi premio” anche gli ergastolani mafiosi non pentiti, e questa volta senza alcun differimento. Sicché fin dal 2019 si sono aperti ai mafiosi non pentiti spazi di libertà, con la possibilità di approfittarne per rientrare in un modo o nell’altro – rafforzandolo – nel giro delle attività criminali tipiche della mafia (dalla droga agli appalti truccati, con il “corredo”, se necessario, della violenza). Un segnale che la mafia può registrare al suo attivo. Nel contempo, una falla nell’antimafia che il legislatore potrebbe valutare quando interverrà per effetto dell’ordinanza della Consulta sulla liberazione condizionale. Sta di fatto che qualcuno comincia a chiedere ai magistrati di sorveglianza di darsi una mossa. Si è rivolto loro, ad esempio, Stefano Anastasia, garante dei detenuti per il Lazio, perché “comincino a valutare le richieste di permessi premio degli ergastolani (ex)ostativi, in modo che magari, tra un anno, qualcuno possa presentare domanda di liberazione condizionale con speranza di successo”. Come a dire che una cosa tira l’altra…

4. Non è simpatico tirare per la giacca i magistrati di sorveglianza. Escludere l’automatismo (niente pentimento/niente benefici) significa delegare alla discrezionalità del magistrato se concedere o meno il permesso premio.

Ma agli occhi del mafioso – poco avvezzo ai “distinguo” – il giudice che nega un possibile permesso diventa un “nemico”. Automaticamente (anche questo automatismo dovrebbe preoccupare…), con tutte le possibili nefaste conseguenze che sono purtroppo la storia di Cosa Nostra, storicamente impegnata sul versante che “i nostri in carcere li dobbiamo cercare in qualunque maniera di accontentarli”.

Ambiente, le promesse non bastano

Ai leader del mondo, chiamati da Joe Biden a discutere sul cambiamento climatico, Greta Thunberg le canta chiare: “Servono cambiamenti drastici… Stiamo ancora a parlare dei sussidi all’industria dei combustibili fossili: significa che non abbiamo capito l’emergenza climatica”. Greta, 18 anni, divenuta la figura più popolare di una generazione sui temi ambientali, lo dice durante un’audizione al Congresso Usa: “La mia generazione non mollerà sul clima senza battersi”. Per gli ambientalisti, lo show orchestrato dal presidente Usa nella Giornata della Terra non è sufficiente: scaricano da carriole rosa un mucchio di letame nei pressi della Casa Bianca, scandendo lo slogan no more bullshit e chiedendo che sia dichiarata “subito l’emergenza climatica”. Pure l’attivista indigena messicana Xiye Bastida, 19 anni, lancia un appello: “È tempo di cambiare il mondo. Noi giovani non possiamo essere vittime della vostra ostinazione e del vostro pessimismo … I più colpiti dai cambiamenti climatici sono quelli che non sono qui rappresentati … Chiediamo di fermare lo sfruttamento delle terre delle popolazioni indigene. L’era dei combustibili fossili è finita”. La risposta di Biden è un piano per finanziare la transizione energetica dei Paesi in via di sviluppo, raddoppiando gli aiuti. E il Fondo monetario internazionale propone un mix di scelte energetiche e ambientali che inneschino un aumento dello 0,7% l’anno del Pil mondiale nei prossimi 15 anni.

L’appuntamento virtuale segna il ritorno degli Usa sulla scena della lotta al cambiamento climatico, dopo i quattro anni di sbandamenti negazionisti dell’Amministrazione Trump. Biden raddoppia l’impegno e annuncia che vuol tagliare di oltre il 50% le emissioni inquinanti entro il 2030. Gli altri leader, che rappresentano tutti i maggiori inquinatori del Pianeta, sciorinano a gara obiettivi ambiziosi: l’Europa è pronta ad agire, dice la Von der Leyen; Draghi annuncia una riunione ad hoc del G20, che l’Italia presiede; il presidente francese Macron, la cancelliera tedesca Merkel, il premier britannico Johnson usano formule ad effetto; Xi promette emissioni zero entro il 2060 (ma fino al 2030 la Cina inquinerà di più). Chi sta più sulle sue è il presidente russo Putin, protagonista di un pasticcio tecnologico: la sua immagine compare sugli schermi mentre parla Macron, la cui connessione salta. Momenti d’imbarazzo, poi la parola va al presidente russo, mentre i tecnici s’affannano a ripristinare il collegamento del francese.

I francesi disprezzano Manu e Le Pen corre verso l’Eliseo

“E se la principale forza di Marine Le Pen fosse la debolezza del suo rivale al ballottaggio?”, scrive la Fondation Jean Jaurès, think tank vicino alla gauche, in uno studio pubblicato sul suo sito il 21 aprile, anniversario di quel 21 aprile 2002, in cui Jean-Marie Le Pen, leader del Front National, si ritrovò al ballottaggio delle Presidenziali contro Jacques Chirac. Un trauma mai digerito. Vent’anni dopo, il rischio di un déjà vu nella corsa all’Eliseo del 2022, con una sfida tra Marine Le Pen, figlia del “patriarca”, ed Emmanuel Macron, proprio come nel 2017, sembra confermarsi nei sondaggi. Rispetto a quattro anni fa molte cose sono cambiate. Nel 2017 il candidato En Marche era l’ambizioso riformatore della Francia e il “rottamatore” dei vecchi partiti. Ci sono stati la crisi sociale dei Gilet Gialli, gli scontri per la riforma delle pensioni (mai compiuta), e ilCovid, con i suoi morti, le menzogne e le sue polemiche.

La popolarità di Macron resta stabile al 37%, meglio del 28% di Sarkozy e del 14% di Hollande allo stesso punto del mandato. Ma il think tank ha registrato le emozioni che oggi Macron provoca nei francesi e sono tutte negative: “rabbia” (28%), “disperazione” (21%), “disgusto” (21%), “vergogna” (21%). Da parte sua, Marine Le Pen da tempo lima la sua immagine. E se il processo di “banalizzazione” del Rassemblement national (ex Front National) non è ancora completo, “sta portando i suoi frutti – spiega la Fondation Jaurès –. Nel marzo 2019, il 50% dei francesi aveva una brutta opinione di Marine Le Pen, oggi è solo il 34%”. È lei inoltre ad aver l’elettorato “più stabile”, con l’89% dei votanti Rn del 2017 pronti a confermare il voto nel 2022. Allora, conclude lo studio, in uno scontro alle urne tra due avversari che provocano lo stesso disprezzo, lei, Marine Le Pen, ha tutte le carte per vincere. Manca ancora un anno al voto, e né a destra né a sinistra emergono ancora candidati convincenti, ma per ora tutti i sondaggi suggeriscono un testa a testa serrato Macron-Le Pen al primo turno. L’ultimo di Harris Interactive dà la Le Pen al 26% contro Macron al 26-28%. Al ballottaggio poi vincerebbe lui, 54% contro 46%. Nel 2017 ha vinto col 66% contro il 33%. Per un sondaggio Elabe di marzo il 48% dei francesi ritiene “probabile” che l’ultradestra vinca le elezioni. Le Pen è popolare soprattutto tra i giovani dai 25 ai 34 anni che non si vergognano di dire che votano Rn. “La mia vittoria è plausibile”, ha detto lei orgogliosa, confermando la sua candidatura per il 2022. Entro l’estate lascerà la guida del Rn (come ha già fatto nel 2017) per essere la “candidata di tutti”. Ha una nuova sede in rue Michel-Ange, 16° arrondissement di Parigi, “La Capitainerie”, che, per il partito pieno di debiti, costerà meno della sede di Nanterre.

Alla rivista di estrema destra, Valeurs Actuelles, ha detto di voler “far cadere l’armatura”, quindi ha parlato di sé, dei suoi tre figli, della sua passione per i gatti. Cerca alleati nella destra conservatrice e moderata. Si mostra più ecologista e femminista. In Francia ci si chiede se il “fronte repubblicano”, quell’alleanza tacita tra forze politiche diverse che permette di far convergere voti su un unico candidato per il solo bene della nazione, potrà funzionare ancora. Il rischio di una vittoria di Marine Le Pen preoccupa il governo. Il premier Jean Castex si è sentito in dovere di intervenire sulla questione: “Sarebbe una catastrofe”, ha detto su BFm-Tv. Pare che l’entourage di Macron abbia consigliato al presidente di non esporsi ancora per il 2022 per evitare quello che già alcuni chiamano l’“effetto Churchill”, cioè di non essere rivotato dopo la crisi come successe a Churchill nel ’45 dopo la guerra. “Una volta passata la crisi, tutti avranno solo voglia di proiettarsi verso qualcosa di nuovo”, ha detto Stanilas Guérini, un fedele di Macron, citato da Le Monde. E questa voglia di novità potrebbe tradursi nelle urne.

Cuba è stanca del pensiero unico

A Cuba si è conclusa lunedì scorso una fase che solo dieci anni fa sembrava, se non impossibile, quantomeno assai difficile. Il trasferimento del comando del Partito comunista, della presidenza della Repubblica e la direzione del governo dalla famiglia Castro a esponenti della generazione nata dopo la vittoria della Rivoluzione di Fidel, nel 1959. Così, il nuovo volto ufficiale del potere a Cuba è oggi Miguel Díaz-Canel, nominato segretario generale del Pcc e già consolidato presidente della Repubblica.

La transizione è avvenuta secondo un piano voluto da Raúl Castro, in modo ordinato volto a due fini: rinnovare il vertice del partito ma “nella continuità”, mantenendo come faro il “modello del socialismo cubano”, ovvero il Pcc come partito unico “rappresentante dell’unità del popolo” erede del nazionalismo dell’Apostolo dell’indipendenza José Martí, e mantenendo il controllo dello Stato sull’economia dell’isola. L’operazione politica è avvenuta senza scosse sociali, nonostante la grave crisi economica aggravata dalla pandemia di Covid-19 e il mantenimento di un embargo degli Usa che l’ex presidente Trump ha portato ai limiti.

“Certamente nessuna tensione, ma a scapito della democrazia”, afferma Ivette García González, storica, autrice di vari libri e saggi su Cuba e l’America latina. “L’ottavo congresso del Pcc – afferma – non ha incluso nella sua agenda la democrazia, sia nel partito sia nella società, nonostante negli ultimi mesi molti interventi nelle reti sociali abbiano confermato l’importanza del tema per la società”.

Anche in questo campo, per González “è prevalso il concetto di continuità: l’esaltazione del modello cubano di democrazia partecipativa e l’attribuzione di tutto quello che dissente da quel modello nel campo del nemico, al servizio degli Stati Uniti”. García González, non si riferisce solo al Movimento di San Isidro, il piccolo gruppo di oppositori che negli ultimi due mesi ha sfidato con sue manifestazioni il potere del governo e ha conquistato una visibilità internazionale. Ma anche al dissenso di gruppi di militanti e intellettuali di sinistra, come quelli che si esprimono nel blog La joven Cuba. “È vero che il pluripartitismo non garantisce di per se lo sviluppo democratico, ma il sistema a partito unico è altrettanto, se non di più, criticabile”. Non è accettabile, invece, come metodo e pratica la repressione del dissenso. Per questo preocupa che Humberto López il commentatore che in televisione mette alla gogna gli oppositori senza diritto di replica, “sia stato cooptato nel nuovo Comitato centrale” del Pcc.

“Nel Congresso del Partito comunista è prevalso il senso di continuità col passato anche in economia. Al settore privato è permesso solo un ruolo complementare. Non viene considerato competitore”, dichiara l’economista Ángel Marcelo Rodríguez Pita, membro dell’iniziativa politica Cuba Humanista. L’assenza di una vera riforma strutturale è lamentata anche dagli economisti Mauricio de Miranda e Omar Everleny. “Non stiamo proponendo la privatizzazione dell’economia nazionale, ma l’eliminazione dei monopoli statali, che oggi sono trattati come fossero privati, afferma il primo. Per dare dinamismo all’economia cubana è necessario che esista la possibilità di competere tra imprese di distinta forma di proprietà, statale, cooperativa o privata”. De Miranda mette in chiaro che queste proposte “non hanno l’obiettivo di distruggere le conquiste della Rivoluzione cubana. Al contrario vogliamo renderla più forte. Una gestione più efficiente e trasparente della proprietà pubblica permetterebbe allo Stato di ricevere , mediante le tasse, risorse da destinare allo sviluppo sociale”. Il riferimento è a sanità, scuole, assistenza ai settori più deboli.

Anche Everleny è convinto che la sopravvivenza del socialismo cubano è affidata alla sua capacità di dare dinamismo all’economia, anche con l’apporto di imprenditori privati. E di assicurare ai cittadini “un miglioramento della qualità della vita”. Dall’inizio di gennaio è in corso nell’isola la Tarea Ordenamiento, una riforma monetaria ed economica ritenuta necessaria per rilanciare l’industria nazionale. Ma il rapporto con il dollaro Usa e la scarsezza di beni di prima necessità hanno reso la situazione della popolazione cubana al limite della sopportazione.

“La novità di questi giorni? Che nella bodega è arrivato il pollo”. E che, grazie al Congresso del Pcc “è stata aumentata la fornitura di uova nella libreta”, sostiene Luis, ingegnere meccanico. La sua è una battuta scherzosa. Ma non troppo, visto che non fa mistero di considerarsi comunista.

Le tenebre fan bene a Barbareschi

L’epifania di Gigi Marzullo è un capitolo affascinante della storia della televisione, associabile al sistema feudale del Medioevo; prima di diventare una macchietta di Che tempo che fa, Gigi ha costruito il suo feudo fondato sulle interviste cuore a cuore col favore delle tenebre. Confidenze, tormentoni, piano bar, album dei ricordi, interpretazione dei sogni… Per quarant’anni, tutti i vip di serie A, B e C si sono messi in fila, come se andare da Marzullo fosse meglio che vaccinarsi con Pfizer, in Italia i No Marz sono molti meno dei No Vax. Negli ultimi tempi, però, qualcosa è cambiato. Il signorotto della notte dell’etere deve vedersela con gli assalti di nuovi pretendenti. Non siamo ancora alla presa di Costantinopoli ma le avvisaglie si moltiplicano, di fatto le interviste marzullesche al chiaro di luna sono l’unica nuova tendenza dei palinsesti.

Sembra che da grandi tutti vogliano fare Marzullo. Abbiamo avuto la calata di Laura Tecce, la giornalista che sussurra ai politici, la rotonda sul mare di Pierluigi Diaco, la crisi del maschio spiegata dell’ex ministro delle Politiche agricole Nunzia De Girolamo, abbiamo visto Pino Insegno insegnare la dizione a Giorgia Meloni (poi dicono che la gratitudine non è di questo mondo).

Ora è arrivato Luca Barbareschi (In barba a tutto, lunedì, Rai2), che nella vita ha fatto tante cose con alterne fortune ma un debole per la tv lo ha sempre avuto, le padellate in testa che si scambiavano le coppie di C’eravamo tanto amati resta uno dei picchi inviolati del trash televisivo. Ma l’età della saggezza arriva per tutti; così abbiamo visto Barbareschi tirare tardi con i suoi ospiti in modo sornione, consapevole e mirato, parlare di Sanremo con Morgan e di politicamente corretto nell’opera con Katia Ricciarelli. Al primo sguardo, la migliore incursione nella storica marca della mezzanotte e dintorni. Tanti da grandi vogliono fare Marzullo; Barbareschi potrebbe addirittura riscoprire se stesso.

Gaber che disse no al mondo di mezzo

“Io non mi sento italiano” è un album di Giorgio Gaber pubblicato postumo. Vi si sente tutta l’amarezza, la disillusione, il disincanto di un uomo che ha attraversato la vita italiana dal 1939 al 2003. Gaber ed io siamo più o meno della stessa mandata, la nostra vita si è svolta in campi diversi, ma esistenzialmente abbiamo vissuto lo stesso tempo.

Ma per trovare un’Italia diversa da quella attuale, con dei valori, non è necessario, come fa Giorgio, rifarsi al Rinascimento. Basta ricordare tempi assai più recenti che entrambi abbiamo vissuto, quelli del dopoguerra e degli anni successivi. Allora l’onestà, cardine di ogni convivenza civile, era un valore per tutti, per la borghesia, se non altro perché dava credito, per il mondo contadino, dove violare la stretta di mano costava l’emarginazione dalla comunità, per il mondo proletario che aveva una sua etica sia pur diversa, nei modi ma non nella sostanza, da quella di noi giovani borghesi. La solidarietà, che oggi ci si vorrebbe imporre dall’alto, stava nelle cose. A parte una sottilissima striscia di borghesia che aveva però il buon gusto e il buon senso di non ostentare la propria ricchezza, eravamo tutti più o meno poveri. Ed è fra poveri e non fra ricchi che ci si dà una mano. Milano, dove Gaber, come me è nato, era una città di quartieri e nel quartiere ci si conosceva e ci si aiutava tutti (la fame no, nell’Italia che ho conosciuto io la fame, almeno nel dopoguerra, non c’è mai stata). Non bisogna dimenticare, fra le altre cose, che Milano è una città che ha una tradizione cattolica e socialista. Noi ragazzi vestivamo tutti allo stesso modo, calzoncini quasi all’inguine con i quali giocavamo a calcio in strada o nei terrain vague che gli americani ci avevano lasciato come regalo dei bombardamenti. Le griffe, le scarpe firmate, non esistevano ancora. Questo clima durò fino al boom economico e, per qualche anno, anche oltre. Il boom lo vivemmo in modo ingenuo, naif, non volgare. Era bello, per ragazzi e adulti, dopo che per anni si era tirata la cinghia, assaporare un po’ di benessere. Ma un tarlo invisibile e silenzioso aveva cominciato a corrodere le nostre vite. Nel 1960 entrai per la prima volta, col mio amico Giagi, in un Supermarket. Ci sembrò il Paese di Bengodi. Era invece il cavallo di Troia entrato in città e che ci avrebbe tolto, per sempre, l’innocenza.

Ma erano comunque ancora i Sessanta, gli “anni blu” della mia giovinezza, ciò che per Fitzgerald era stata “l’età del jazz”. Ma quel che di ludico e libertario c’era stato nella contestazione giovanile era ormai agli sgoccioli. Arrivarono le Brigate Rosse che presero sul serio le parole d’ordine che i figli dei borghesi gridavano durante le manifestazioni, “fascista basco nero, il tuo posto è al cimitero”, “uccidere un fascista non è un reato”. Il Sessantotto fu, per usare una frase che Luigi Einaudi applicò alla massoneria, “una cosa comica e camorristica”, figli della borghesia che avrebbero dovuto rovesciare la borghesia, una cosa che avrebbe fatto rivoltare nella tomba il vecchio Marx. Ma nelle prime BR, a differenza del Sessantotto, c’era ancora un contenuto ideale sia pur espresso in modi e in tempi sbagliati perché il marxismo-leninismo cui si richiamavano sarebbe morto di lì a poco. È vero che i primi brigatisti non sembravano avere alcuna considerazione della vita altrui, ma a rischio della propria. In seguito anche nel terrorismo ci sarà una deriva che ha parecchio a che fare con quella della società civile che stava nel frattempo maturando. Per i brigatisti di seconda e terza generazione la vita altrui continuava a non contar nulla, ma della propria avevano grande considerazione. L’omicidio di Walter Tobagi, consumato da due giovani male educati, segnerà il culmine di questa fase, e infatti Barbone e Morandini, a differenza dei primi brigatisti, si pentiranno subito per avere i vantaggi della legislazione premiale. È il segno, sia pur sub specie terrorista, di un individualismo sfrenato che sta invadendo la nostra società.

Finito il terrorismo arriveranno gli anni Ottanta, i beati anni della “Milano da bere”. Per la verità se la bevevano soprattutto i socialisti. Ma il denaro girava e gli italiani credettero a questo nuovo boom. E non vollero vedere ciò che c’era sotto, e cioè che la classe dirigente, politica ed imprenditoriale, si era venuta corrompendo in modo sistematico. Fu Mani Pulite, nel ’92-94, ad aprir loro gli occhi. E fu l’ultima volta che la popolazione italiana, di fronte all’arroganza del potere, provò un legittimo e sincero sdegno. Ma nel giro di soli due anni, anche grazie all’appoggio massiccio dei media a loro volta corrotti fino al midollo, i magistrati divennero i veri colpevoli e i ladri le vittime. E qui si ruppero gli ultimi argini. Di fronte a simili esempi anche il cittadino normalmente onesto si chiese “ma devo essere solo io il più cretino della partita?”. E così la corruzione, fattuale ma, cosa ancor più grave, morale, discese giù per li rami invadendo quasi l’intera società civile. Lo dimostra il fatto che non era venuta meno tanto la sanzione penale quanto quella sociale. Prendo il caso di Luigi Bisignani solo a titolo di esempio. Bisignani fu condannato a due anni e sei mesi nell’ambito dell’inchiesta Enimont, cioè per un reato contro la PA. Si penserebbe che un soggetto del genere nella pubblica amministrazione non potrebbe metter più piede. Invece lo troviamo a metà degli anni Novanta come consigliere dell’ad delle FS Necci condannato per lo scandalo di quella che verrà chiamata “Mani Pulite 2”. Diventerà in seguito consigliere di Paolo Scaroni, ad dell’Eni. Oggi Bisignani è un editorialista di vari giornali. Insomma importanti amministratori dello Stato o del parastato non avevano nessuna remora a frequentare un soggetto come Luigi Bisignani che Wikipedia non riesce a definire meglio che come “faccendiere”. Quello che voglio qui dire è che erano saltati tutti i valori, preideologici, prepolitici, prereligiosi, che avevano contrassegnato il tessuto sociale dell’Italia degli anni Cinquanta e dei primi Sessanta: onestà, onore, dignità, lealtà, rispetto delle regole. Chiunque tu ti trovi di fronte oggi non puoi sapere se è una persona per bene o un corrotto. In fondo è la storia del “mondo di mezzo” romano allargato a livello nazionale.

Tentando di fare un ritratto dell’Italia contemporanea scrivevo nel mio libro Senz’anima del 2010: “È un’Italia (…) devastata dalla Televisione che sembra aver concentrato in sé l’intera vita nazionale dettando, insieme alla sua gemella Pubblicità che è il motore di tutto il sistema, i consumi, i costumi, la way of life, le categorie, i protagonisti e che ha finito per distruggere ogni cultura che non sia la sua subcultura. È un’Italia che ha perso ogni freschezza, la sua antica grazia, senza sorriso, cupa, volgare, ossessionata dal denaro, dal benessere, dagli ‘status symbol’, dai gadget, dagli oggetti. Un’Italia ipocrita, pronta a commuoversi su tutto, solo per potersi autocompiacere della propria commozione, ma sostanzialmente indifferente all’altro, al vicino, al prossimo. Un’Italia senza misericordia. Un’Italia ormai inguaribilmente corrotta, nelle classi dirigenti come nel comune cittadino, intimamente, profondamente mafiosa, come sempre anarchica ma senza più essere divertente, priva di regole condivise, di principi, di valori, di interiorità, di dignità, di identità. Un’Italia senz’anima”.

Giorgio Gaber è morto nel 2003. Ma potrebbe dire oggi ancor più di allora: “Io non mi sento italiano”.

 

Preso in castagna

Settimanadi giubilo a Criminopoli. Tra ’ndrangheta, camorra, Cosa Nostra, affiliati e fiancheggiatori vari (chi viene beccato perché nasconde la pistola del boss, chi gli ricicla i soldi, chi lo aiuta di qua e chi lo aiuta di là) abbiamo sfondato il tetto dei mille nuovi indagati. Se ne contano 127 soltanto dal 15 aprile a oggi. E così, con la media di 9,5 indagati al giorno, siamo giunti a quota 1.065.

In lieve calo – ma non ci preoccupa, è in qualche modo fisiologico – il numero dei nuovi indagati per corruzione. Questa settimana ne contiamo 6. Veniamo ai vincitori della settimana.

Il premio per il “miglior peculato” va a Francesca Costanzo, prima assessore e poi vicesindaco di Petilia Policastro, comune in provincia di Crotone. Secondo l’accusa, si appropriava dei pacchi alimentari destinati agli indigenti inseriti nelle liste del progetto “Lotta alla povertà” per distribuirli ad altre persone. A chi? “L’ho dato a Mena…”, dice intercettata, “l’ho dato al figlio di compare Micuzzu… a Costanza… gliel’ho dato sennò non mi votavano”.

Premio mazzetta della settimana invece a Domenico Tedesco, direttore del dipartimento prevenzione Asp di Crotone: secondo l’accusa, s’è impegnato a dimezzare l’importo di un’ammenda (per violazioni sull’igiene e sicurezza sul lavoro) in cambio di due latte d’olio e alcuni chili di castagne.

Per quanto simbolici, i suddetti premi saranno automaticamente revocati se Costanzo e Tedesco dovessero essere archiviati o assolti.

Ah, dimenticavamo: lo Stato non cattura Matteo Messina Denaro da 10.186 giorni.

 

270 indagati per corruzione

1.065 accusati di mafia

10.186 giorni di latitanza di messina denaro

MailBox

 

Restrizioni, con Draghi il bersaglio è Speranza

In relazione alle misure restrittive adottate per fronteggiare il Covid, nel precedente governo le forze di opposizione e i giornaloni cantavano: “Conte ci fa morire di fame”, “Conte sta uccidendo l’economia”. Con il governo dei Migliori la discontinuità sta nel fatto che è cambiato il killer: Speranza, ministro della Salute. Draghi non viene mai nominato, eppure è sempre il capo del governo. Evidentemente Draghi, il Superman mondiale, non ha licenza di uccidere come Conte (o Speranza). Altre spiegazioni non le trovo. Forse Salvini, Meloni e i giornaloni lo potranno spiegare meglio ai loro elettori e lettori.

Sergio Grisanti

 

Continua il dibattito sul video di Beppe Grillo

Mi è piaciuto molto l’articolo di Travaglio. L’essersi messo nei panni di Grillo, citando come esempio la preoccupazione per i suoi stessi figli, ha voluto significare che questi spiacevoli episodi possono accadere a chiunque. Attaccare Grillo investendolo sul piano politico, denota sciacallaggio. Ogni vero genitore rimane distrutto per un fatto simile. Anche se non si tratta di stupro. A mio avviso, Grillo ha rigore morale. A volte esagera, ma un buon uomo non è che non sbaglia mai. L’importante è che difenda i suoi valori. E a me pare che lui li abbia. E anche molto forti.

Roberto Calò

 

Diversamente dagli altri giorni, leggendo il fondo del direttore dedicato al “caso Grillo” sono stato in profondo disaccordo. Egli scrive: “Grillo non ha sbagliato a difendere suo figlio. E fanno ribrezzo quanti, col ditino alzato, deplorano la sua rabbia: vorrei vedere loro, al suo posto”. Questa frase, secondo me, giustifica pienamente il tristemente famoso “tengo famiglia”. A mio parere, una persona, specialmente se pubblica, ha l’assoluto dovere di essere obiettiva sempre, anche quando ci sono in ballo componenti della sua famiglia. Diversamente, per la famiglia, ci si potrebbe sentire autorizzati a tutto: a scavalcare le file, a rivelare segreti di Stato, a facilitare assunzioni e così via. Insomma: l’Italia di oggi.

Bruno Firmani

 

Ho seguito con attenzione il dibattito sul video di Grillo, lo squallore degli interventi dei politici e le imbarazzate e sofferte analisi di stimati giornalisti. Voglio esternare la mia piena condivisione di quanto scrive sul Fatto Maddalena Oliva. E anche esprimere il mio apprezzamento per lo spazio dato all’accaduto dal giornale che leggo, con soddisfazione, ogni giorno.

Guido Moressa

 

Mani pulite: i militanti Psi furono i primi a soffrire

Negli anni della mia gioventù frequentavo il Psi e mi onoravo di seguire le orme del “grande” Riccardo Lombardi e quando scoppiò Mani Pulite rimasi paralizzato dall’aver scoperto il “marciume” presente nel partito e il lancio delle famose monetine fu la reazione “spontanea” di una generazione cresciuta nei locali della Federazione giovanile socialista (Fgs) in cui accanto ai valori antifascisti eravamo “indottrinati” ai valori del bisogno, dell’onestà, dell’uguaglianza e dei diritti civili, tutti facenti parte della cultura socialista! Quindi il Raphael fu il minimo che i socialisti veri potessero fare per discostarsi dal fango piovuto sul partito! Le strumentalizzazioni degli altri partiti e in particolare del Pci sono altra cosa e non possono “santificare” chi fu giustamente giudicato e condannato: non mischiamo la lana con la seta, per favore!

Raffaele Fabbrocino

 

Giuseppe ha fatto bene a non unirsi ai Migliori

Con il passare dei giorni, dopo l’insediamento del governo Draghi, rimango sempre più convinto di quanto Conte abbia avuto ragione a non immischiarsi nella compagine dei cosiddetti “migliori” come ministro o consulente. Se l’avesse fatto sarebbe caduto nella trappola delle scelte impopolari perdendo conseguentemente il bottino di consensi maturato negli ultimi anni.

Francesco Multari

 

Il vitalizio ai corrotti è contro la Costituzione

È vergognoso e indecente che il Senato abbia accolto il ricorso di un delinquente che potrà di nuovo beneficiare del vitalizio, riconoscendogli quelle tutele dell’articolo 38 della Costituzione specifiche per tutti i lavoratori. Come mai i nostri onorevoli senatori non hanno valutato e deciso anche in base all’art.54 di quella stessa carta “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”. Ma che bravi e onesti la banda dei soliti noti.

Franca Giordano

 

I NOSTRI ERRORI

In merito all’articolo pubblicato il 7 aprile – “I bar tolti ai clan ora in mano a due imputati per riciclaggio” – precisiamo che, come emerso da una successiva verifica, i signori Max Spiess e Augusto Bizzini non sono “imputati”, ma semplicemente “indagati” dalla Procura di Latina e attendono le richieste dei magistrati all’esito della conclusione delle indagini preliminari. Per il resto viene confermato il contenuto dell’articolo.

Vin. Bis.