Vaccini. Il ritardo di ReiThera è colpa di burocrazia e disorganizzazione

 

Salve, vi seguo quotidianamente e siete l’unico giornale serio in circolazione. Leggo in queste ore di ReiThera, il vaccino italiano che, per vari motivi (come i fondi che non arrivano) è molto indietro rispetto agli altri. Mi piacerebbe un vostro bel servizio sul perché di questa situazione. Cordiali saluti.

Dott. Cristiano Sprea

 

Gentile Cristiano, in realtà il “Fatto” si è occupato di ReiThera proprio martedì. È vero quello che lei segnala. E cioè che l’azienda biotecnologica di Castel Romano, alle porte di Roma, ha iniziato la sperimentazione sull’uomo del vaccino anti-Covid più tardi rispetto alle case farmaceutiche straniere. Lo studio di fase 2/3, denominato Covitar, è cominciato il 18 marzo scorso dopo l’autorizzazione dell’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, e la valutazione positiva del comitato etico dell’Istituto nazionale malattie infettive di Roma, lo Spallanzani, che collabora alla sperimentazione. Entro l’estate dovrebbero però arrivare i primi risultati e in autunno, sulla base della tabella di marcia fissata, è prevista la valutazione da parte di Ema, l’Agenzia europea del farmaco, e da parte della stessa Aifa. Come lei sa parliamo di un vaccino a vettore virale, come quello di AstraZeneca e di Johnson&Johnson. E come il vaccino russo Sputnik. ReiThera, una delle poche aziende italiane dotate di un bioreattore (necessario per sviluppare vaccini), ha ricevuto finanziamenti pubblici sia dal Miur sia dalla Regione Lazio (8 milioni) e da Invitalia, che ha messo a disposizione 49 milioni di euro, dei quali 41,2 a fondo perduto, su un totale di 81 per il progetto di ricerca e di investimento industriale. Stanziamento con il quale Invitalia ha acquisito una partecipazione del 27% del capitale della società. Ma perché tanto ritardo, come lei giustamente rileva? Molto semplicemente per le caratteristiche del sistema Italia, rallentato da una macchina organizzativa e burocratica molto farraginosa che determina anche tempi lunghi dal momento in cui viene disposto il finanziamento al momento in cui le risorse arrivano effettivamente a destinazione. In questi giorni si è anche molto parlato del fatto che ReiThera possa produrre vaccini basati sull’Rna messaggero. E l’azienda proprio ieri ha dato la propria disponibilità. La buona notizia è che l’azienda ha la capacità di produrre fino a 100 milioni di dosi all’anno.

Natascia Ronchetti

Per arginare le idee (diffuse) di Cazzola si può solo resistere

La pandemia gioca strani scherzi. Così per una volta, pur non condividendone il pensiero, ci siamo trovati ad apprezzare la brutale sincerità dell’ex parlamentare Pdl e attuale esponente di +Europa, Giuliano Cazzola. In un mondo in cui tutti parlano e straparlano di riaperture in sicurezza, di rischi ragionati o calcolati, Cazzola ha detto quello che tanti pensano, ma non hanno mai il coraggio dire: meglio (per loro) lasciar morire i vecchi e i fragili piuttosto che mandare a carte quarantotto per il virus la nostra economia. Una tesi che Cazzola ha illustrato martedì scorso su La7 davanti a un visibilmente stupito Giovanni Floris. Per l’ottantenne ex sindacalista Cgil passato a destra, finora celebre per il suo sostegno senza se e senza ma alla riforma Fornero, è infatti “iniquo che una società vada in malora per far campare qualche anno in più uno come me e quelli della mia generazione”.

Quanto è diffuso questo tipo di ragionamento? Fatti Chiari crede che sia ormai diffusissimo. Lo è tra i precari, i piccoli imprenditori, i commercianti, i cittadini non garantiti. Lo è, ad esempio, tra tutti quei ristoratori che sanno benissimo come il virus – se si resta per ore a mangiare senza mascherina in un locale – corra alla grande, ma nonostante questo chiedono immediate riaperture anche al chiuso. Lo è senz’altro tra tutti quei politici che si fanno portavoce del disagio (cosa di per sé perfettamente legittima) e premono per aprire tutto o per abolire il coprifuoco, scordandosi volutamente come il loro dovere fosse quello di approntare per tempo sostanziosi ristori e sussidi alla popolazione. Lo è tra i tanti giovani che, estenuati da un anno e passa di quasi clausura, hanno capito come per la loro generazione il Covid sia una malattia assai simile all’influenza.

Se le cose stanno così, e a Cazzola va reso il merito di aver gettato alle ortiche ogni ipocrisia e ogni infingimento, bisogna chiedersi allora se il suo ragionamento sia fondato o meno. Noi pensiamo di no. Arrivati al 23 aprile 2021, l’alternativa non è tra “una società che va in malora” e i cadaveri che finiscono nei forni crematori. Esiste invece, chiara e limpida, una terza via: quella delle vaccinazioni. Bene, bravo, bis, dirà il lettore, ma se i vaccini sono ancora pochi, se ci vorranno ancora molte settimane prima che tutte le categorie più a rischio vengano immunizzate, noi intanto cosa facciamo?

Quello che fecero i nostri bisnonni dopo la sconfitta di Caporetto. Allora, nel 1917, Vittorio Emanuele Orlando fu nominato presidente del Consiglio dei ministri. E quando, alla vigilia di Natale, tutto pareva perduto si appellò al popolo italiano e alle nostre truppe. Orlando disse: “La voce dei morti e la volontà dei vivi, il senso dell’onore e la ragione dell’utilità, concordemente, solennemente ci rivolgono adunque un ammonimento solo, ci additano una sola via di salvezza: resistere! Resistere! Resistere!”. Fu l’inizio della riscossa.

Oggi è chiaro che ci separano non più di due mesi dall’uscita del tunnel. A giugno, anche a questo ritmo, gli anziani, i fragili, ma anche buona parte degli over 50, saranno tutti vaccinati. E come in Inghilterra e in Israele si potrà guardare al futuro con più tranquillità. Quello che per il momento manca è un presidente del Consiglio che invece di ragionare sui rischi, abbia la voglia e la capacità di parlare alla Nazione per dire a tutti (anche a Cazzola) di “resistere, resistere, resistere”. Come su un’immaginaria linea del Piave. Buona fortuna Italia.

 

La legge elettorale? Un campo minato: si torni al Mattarellum

Sul Corriere della Sera del 16 aprile il dottor De Molli, ceo di The European House-Ambrosetti, dopo aver ricordato la perdita di competitività e le criticità strutturali del Paese, ha presentato una nutrita serie di spunti per una nuova governance. Quel contributo, pur non esente da ingenuo ottimismo sulla concreta praticabilità, merita attenzione quale segno d’apertura del mondo economico-finanziario a tematiche autenticamente pubblicistiche.

Si ammette ora esplicitamente che non si possono disegnare scenari di sviluppo e di successo dell’impresa Italia senza rimodulare i pubblici poteri parametrandoli su valori costituzionali, razionalità e rispetto della persona: cioè sull’essenza della democrazia. Finora, almeno questa è l’impressione, gli istituti di consulenza economica hanno privilegiato i profili pubblicistici di più diretto interesse imprenditoriale e finanziario, senza dare altrettanta considerazione al più ampio contesto istituzionale. Per questo la sortita dell’European House-Ambrosetti va accolta con favore, indipendentemente dalla bontà o meno delle singole soluzioni prospettate.

Alcuni spunti meritano comunque un’immediata risposta. De Molli sostiene che non è la legge elettorale a essere fonte d’instabilità, ma il cambio per cinque volte della stessa, dal proporzionale al maggioritario, al misto. È semplice ribattere: gli ultimi 15 anni, nei quali ha dominato il proporzionale integrale o in misura del 67 % (con il Rosatellum), sono quelli di assoluta evidenza dello sbando istituzionale. Il sistema maggioritario garantisce sicura stabilità e, conseguentemente, migliore programmazione politica, come avviene in Francia dal 1958 e nel Regno Unito dal 1885. La preferenza tra i due sistemi va data al francese (con il doppio turno) in quanto l’altro consente l’ingresso in Parlamento pure con una risicatissima maggioranza relativa. Per queste ragioni la proposta del think tank Ambrosetti di un aumento al 50% della quota maggioritaria si rivela troppo timida e finanche compressiva della rappresentanza accompagnandola all’ipotesi di una soglia di sbarramento al 4%. Quanto alla prospettata introduzione del voto di preferenza anzi che di lista, le perplessità aumentano per il probabile insorgere di mercimoni al di fuori di una chiara proposta politica.

La legge elettorale è come un campo minato: per entrarvi è necessario aprire corridoi sicuri con esplosivi traccianti tipo vipere bofors giuridiche (quelle vere sono usate dal Genio pionieri) perché il pericolo di passi falsi è consistente. L’unica proposta coerente, al momento, è il ritorno al Mattarellum, disciplina elettorale seria e meditata, da migliorare solo attraverso una congrua riduzione della quota proporzionale al 15%. Molti altri spunti esposti dal dottor De Molli, quali un’indispensabile riforma del titolo V e meccanismi di contrasto al turismo parlamentare, sono assolutamente condivisibili e meritano opportuni riconoscimenti con l’attivazione politica.

Va peraltro segnalata con spirito costruttivo una carenza, cioè il tema della pubblica amministrazione, limitato in quel testo all’ordinamento della governance locale. Sulla ristrutturazione organica e funzionale della Pa, sulla formazione di una dirigenza che non sia il risultato di arbitrarietà, intese opache e interessi di bottega partitocratica c’è molto da dire e proporre. Basti un esempio. Un rinviato a giudizio per questioni connesse a falsità in bilanci pubblici è stato trionfalmente nominato direttore generale di un importante ospedale milanese dal presidente della Lombardia Fontana. Nulla salus per la nostra Repubblica fin quando l’arroganza e il disprezzo delle buone regole à la manière di Fontana avranno il sopravvento.

 

Professor Conte, di lei sappiamo troppo poco

Lo so che la politica in quanto arte del governo implica anche la dissimulazione, il dico e non dico. Giuseppe Conte ha saputo esercitarla con abilità davvero rara in un esordiente, quand’è passato all’improvviso da professore-avvocato a presidente del Consiglio. Un cambiamento di vita più unico che raro, dall’anonimato del lavoro autonomo al vertice delle istituzioni. Tanto da procurargli all’inizio la spiacevole nomea del prestanome; e in seguito, quando s’è capito che non si limitava a prendere ordini dai suoi vice Di Maio e Salvini, sul suo conto sono fiorite allusioni riguardo a chissà quale sottopotere occulto di cui sarebbe stato un adepto.

Di certo Conte non è un tecnico. O meglio non è arrivato a Palazzo Chigi in quanto tecnico, semmai come espressione di un sommovimento elettorale anti-establishment che sembrava poter riunire due forze politiche fino al giorno prima antitetiche, come il M5S e la Lega. Molta acqua è passata sotto i ponti, nei tre anni che ci separano dalla primavera 2018. Conte, prescelto alla guida di un’alleanza gialloverde, si è imposto poi come garante di una coalizione di segno opposto che i principali contraenti vorrebbero prolungare nel tempo, nonostante la caduta del suo secondo governo. Ma qui sta il punto. La politica non è solo arte del governo. Quando si tratta di costruire un percorso lungo di radicamento nella società e di progettazione di riforme, allora diviene imprescindibile esprimere una visione del mondo. Lo so, nell’attuale panorama italiano questo sembra solo un parolone, una velleità.

Provo allora a dirlo con un linguaggio più terra terra: professor Conte, forse la stupirà perché lei oggi gode di ottimi indici di popolarità, ma noi non la conosciamo abbastanza. Non basta sapere come ha governato, e neanche come ha saputo prendere le distanze da Salvini e poi da Renzi. Lo so, ha fatto scelte chiare. Dopo il maldestro tentativo di scongiurare la crisi del suo esecutivo reclutando dei “responsabili” – pur giustificato dall’emergenza in cui versa il Paese – ha saputo lasciare Palazzo Chigi con dignità e ha mostrato senso di responsabilità anche nei confronti del suo successore. Di più. Ha fatto suo il difficile progetto di rifondazione del M5S, la forza politica che l’aveva designato e che, nonostante le lacerazioni e lo stato di debilitazione culturale in cui versa, continua a rappresentare una quota rilevante dell’elettorato.

A quanto si legge, nei prossimi giorni lei intende rendere pubblici gli esiti della sua riflessione, proponendo nuove regole, un codice etico e un programma d’azione.

Naturalmente l’attendiamo al varco con interesse. In particolare chi, come me, si augura che il rapporto instaurato col Pd e con Leu prosegua rendendo verosimile un’alternativa di centrosinistra in grado di coinvolgere dal basso, con procedure democratiche, tante nuove realtà associative: un vero campo progressista che oggi trova scarsa rappresentanza nei vostri partiti.

Suppongo che lei abbia fatto tesoro delle esperienze fallimentari del passato: le forze politiche allestite intorno alla singola personalità del leader – i partiti personali – quando non si giovino delle risorse patrimoniali e del potere mediatico di un uomo abile e ricco, son destinate a durare poco.

Non suoni irrispettoso, però, se le anticipo che le sue imminenti dichiarazioni programmatiche, quand’anche corredate da riferimenti ideali e scelte di campo esplicite, da sole non basteranno all’avvio del suo percorso di militanza fuori dalle stanze ministeriali.

Professor Conte, lei si è conquistato la stima di molti concittadini ma, per diventarne il riferimento politico, deve fornirci anche un rendiconto della sua biografia. È vero, in altri Paesi abbiamo conosciuto leadership che si sono imposte provenendo direttamente dalla società civile, generate da esperienze sindacali o da movimenti per i diritti civili. Ma non è questo il percorso che l’ha portata direttamente al governo.

Un racconto sincero dei suoi esordi politici la rafforzerebbe enormemente. Non deve tenerselo nel cassetto per un futuro libro di memorie. Come andò che scelse di rendersi disponibile al M5S? Cosa pensò quando Di Maio e Salvini le proposero di fare il presidente del Consiglio? Perché accettò di guidare una coalizione con la Lega e cos’ha capito cammin facendo di quel partito, fino alla costruzione di un’alleanza alternativa? Badi bene. Non sto chiedendole inutili autocritiche postume, ma di raccontarci la natura delle trasformazioni che ha vissuto, fino a portarla a divenire una personalità di riferimento del centrosinistra. È l’anello mancante per fare patti chiari sul futuro. Professor Conte, ci dica chi è o, se preferisce, chi è diventato.

 

I perché della sinistra, il beagle chiamato Chet e le strategie a letto

E per la serie “È che sei stupido mi dispiace non le faccio io le regole”, la posta della settimana.

Caro Daniele, la sinistra deve tornare alla lotta di classe. Mettere i diritti dei lavoratori al centro e costruire la società intorno a questo concetto. Case, lavoro, salario sicuro, sanità pubblica, pensioni, welfare. Tutto ciò è stato privatizzato e abbiamo visto i risultati durante la pandemia, quando negli ospedali non c’erano neppure i camici e le mascherine per proteggere gli operatori sanitari. La sinistra deve difendere ciò che il capitalismo non può garantire. Il vaccino che è stato creato nei laboratori dell’Università di Oxford, finanziato con i fondi pubblici, poi è stato comprato da un privato. Ancora un esempio di conoscenza che diventa merce. Dovrebbe essere disponibile per tutto il mondo, a beneficio di tutti, dall’Africa all’America Latina, invece di far arricchire una società privata. Si ragiona sempre dentro un sistema che genera disuguaglianze e si cerca di limitarne l’avidità. Io non voglio controllare questo sistema che crea ricchezze mostruose, come quella di Jeff Bezos, e povertà indicibile: io voglio cambiarlo totalmente. La flessibilità è stata un vantaggio per i datori di lavoro, per le grandi società, ma un disastro per i lavoratori. Significa precariato. Come puoi pianificare la vita? Come puoi comprare una casa se non c’è niente di sicuro? Gli operai sono stati ridotti a lavoratori a tempo, e quindi vulnerabili e quindi ricattabili, perché non c’è più la forza del contratto collettivo, quindi non c’è più niente di garantito. Le grandi aziende private premono sempre per tagliare i costi, per avvantaggiarsi rispetto ai concorrenti. Quindi troveranno il modo di sfruttare i lavoratori in un altro modo. Forse i driver stanno vincendo una battaglia, ma la guerra è ancora persa. (Ken Loach, Londra)

Ti do il numero di Renzi.

Come faccio a convincere mia moglie a darmi il culo? (Gianni Lombardo, Caltanissetta)

Devi metterglielo dentro per sbaglio apposta. In genere è l’unico modo. Anni fa stavo con una che era molto disponibile. Lasciava che le facessi un numero infinito di cose. E anche di più. Una notte le dico: “Se ti metti a pancia sotto, ti entro da Blockbuster”. Lei tira fuori un vibratore dal comodino e mi fa: “D’accordo, ma prima lo faccio io a te”. VRRRRR! “Aaaaaaaaah! Tiralo fuori dalla scatola, prima!” Lo toglie dalla scatola, me lo infila di nuovo. VRRRRR! E io: “No, era meglio prima”. Quando è venuto il mio turno, me la sono sbattuta così forte che le ho fatto saltare le lentiggini. Hai mai avuto un orgasmo di proporzioni hitleriane? Ovviamente, mi sentii subito in colpa: il sesso mi rende così felice da farmi sentire in colpa. Ogni volta che ho un orgasmo passabile, poi mi aspetto di dover fare come minimo sei mesi di volontariato in Africa. Dio me ne scampi: potrei incontrare Veltroni!

Hai animali domestici? (Lucio Mastrocinque, Isernia)

Un beagle intelligentissimo che ho chiamato Chet perché al canile si faceva le pere, come Chet Baker. (Nel periodo in cui anche Chet Baker stava in un canile. Con Veltroni.) Tre anni fa l’ho portato dal veterinario e l’ho fatto castrare. Già che c’ero, l’ho fatto fare anche a me, così ho risparmiato. Chet era un cane vispo, saltellava sempre, curioso di tutto. Lo lascio dal veterinario. “Ci vediamo fra un’ora, Chet”. “Bau bau bau”. Torno, lo metto in macchina, parto. Guardo nello specchietto retrovisore: mi sta fissando muto. Da quel giorno non abbaia più e ascolta solo i Rudimentary Peni (shorturl.at/bwZ49).

 

Draghi e Letta augurino lunga vita ai 5stelle

Secondo lo stupidario politico in voga, l’autoprodotta video-catastrofe di Beppe Grillo, con successiva lapidazione del suddetto, dovrebbe comportare la rapida dissoluzione dei 5stelle, del resto giudicati in avanzato sfacelo. Oltre, di conseguenza, al fallimento di Giuseppe Conte, impegnato nella difficile rifondazione del Movimento. Con il suo definitivo ritorno all’insegnamento, e amen. Esemplare il commento soddisfatto di Matteo Renzi secondo il quale “le parole di Grillo dicono molto su cosa è diventato il Movimento 5 Stelle. O forse è sempre stato così, ma adesso se ne accorgono in tanti. Sipario”. Purtroppo per il neoimpresario di Rignano sull’Arno (con addentellati nei peggiori suq levantini) l’auspicato sipario sugli odiati grillini – ove calasse con la stessa velocità con la quale egli e Maria Elena Boschi, dopo lo storico rovescio, si rimangiarono la promessa di abbandonare per sempre la politica – comporterebbe, tanto per dirne una, l’immediata crisi del governo Draghi. Parliamo di quel capolavoro napoleonico da lui promosso grazie al quale Italia Viva, che prima poteva ricattare ogni giorno il governo Conte, oggi conta come la Superlega di Andrea Agnelli, ovvero una risata. Dalla guerra sulla piattaforma Rousseau alle polemiche sul doppio mandato alle risse tra le correnti, il M5S naviga in acque sicuramente tempestose. Ma resta pur sempre la forza politica prevalente in Parlamento, l’azionista di riferimento nell’attuale maggioranza, il contrappeso sul quale il premier può contare per arginare le nefaste incursioni del salvinismo. Quanto al Pd, è comprensibile che certi suoi illuminati esponenti gongolino nello scommettere sull’implosione grillina, e sentano l’odore del sangue (per dirla con Gad Lerner). Convinti di potersi riprendere quella quota di consensi che il Movimento acquisì a sua volta sottraendoli al Nazareno annichilito dallo choc renziano. Un calcolo del tutto sconclusionato visto che se privati sul piano delle alleanze della sponda 5stelle, con il prossimo voto autunnale nelle grandi città i pidini resterebbero come don Falcuccio, alla mercé del Salvini&Meloni. Ragion per cui fossimo in Draghi e Letta pregheremmo ogni giorno in aramaico per il rinsavimento di Grillo, per il successo di Conte, augurando lunga vita e prosperità al Movimento.

Il Morandi è crollato per avidità: un’ispezione di notte in 30 anni

Anno 1993. La società pubblica Autostrade incarica una commissione di tecnici di fare luce sullo stato di salute del viadotto Polcevera. Le condizioni di fragilità del ponte sono già state segnalate in vari report nei precedenti vent’anni. “È stata accertata la gravità del fenomeno di degrado che coinvolge prevalentemente le armature di acciaio degli stralli (i tiranti diagonali, ndr) – si legge nel rapporto finale – durante i lavori di manutenzione si è scoperto, oltre al degrado diffuso sugli stralli dei tre sistemi bilanciati, una serie di degradi concentrati”. Queste conclusioni vengono riprese anche in un successivo paper accademico presentato lo stesso anno a un convegno internazionale a Shangai. Tra i firmatari c’è un giovane ingegnere destinato a fare strada: Michele Donferri Mitelli. Insomma, era già lui a scriverlo. L’uomo che Giovanni Castellucci, amministratore delegato dell’era Benetton, nominerà a capo delle manutenzioni di Autostrade per l’Italia.

Ne sapeva di cose Donferri, tra i principali indagati insieme a Castellucci. Non a caso, quando nel 2019 viene allontanato da Aspi per il coinvolgimento nell’inchiesta, fa trafugare un ricco archivio personale sul viadotto: “Io sono intoccabile”, dice di sé al fratello. Ad amareggiarlo è però il fatto di essere stato scaricato proprio dal “capo”: “Se lo incontro fa finta di niente. Ha toccato il cielo con un dito. Un giorno le azioni erano a 25, il giorno dopo eri una merda. Con lui la mia carriera è decollata, la sua è diventata stellare. Non ha accettato sta cosa…”. L’articolo accademico è uno degli episodi più significativi di un lunghissimo j’accuse della Procura di Genova, che ieri, a due anni e mezzo dalla catastrofe del 14 agosto del 2018 e dei suoi 43 morti, ha concluso le indagini nei confronti di 69 persone. Il documento, firmato dai pm guidati dal procuratore Francesco Cozzi, è un atto di accusa durissimo nei confronti di Aspi e della sua controllata Spea, e coinvolge in seconda battuta anche il Ministero per gli omessi controlli. Nella sostanza, scrivono in magistrati, nessun poteva non sapere.

Secondo i periti del tribunale, il ponte Morandi è crollato per il cedimento dello strallo della pila 9. E la rottura è stata provocata dalla corrosione dei cavi. Nel 1991, scrive la commissione di cui faceva parte Donferri, l’intervento si era limitato solo a due pile perché sulla terza “la corrosione era più limitata”. Ma, quante volte è stata poi controllata “quell’unica struttura non rinforzata in precedenza”? “In un’unica occasione – scrivono i pm Paolo D’Ovidio, Walter Cotugno, e Massimo Terrile – Nel 2015”. Una sola volta “in un periodo compreso fra il 13 giugno del 1991 e il crollo (9.924 giorni, 326 mesi, oltre 27 anni)”. E, ancorché le osservazioni vengano effettuate con il buio, “la conseguente relazione evidenziava chiarissimi segnali d’allarme sugli stralli”, “i trefoli (fasci di cavi) risultavano scarsamente tesati e si muovevano con facilità facendo leva con uno scalpello”. Il risultato è che in 51 anni di vita del Morandi sulla pila 9 non viene fatto nemmeno un intervento.

La valutazione sulle condizioni di sicurezza, scrivono gli investigatori, poggiava su prove che fornivano dati “di scarso o nessun significato”. E che, oltre tutto, avevano comunque fornito in più occasioni “esiti di tale gravità da imporre immediate ispezioni visive ravvicinate”, sostituite invece con esami notturni o ispezioni con “binocoli o cannocchiali”. Un protocollo già di suo “del tutto inadeguato”, aggravato da “disinvolti copia e incolla” e “una sistematica sottovalutazione delle condizioni di degrado” nella compilazione dei rapporti.

La ristrutturazione della pila 9 doveva essere avviata nel 2011, al termine di uno studio di Spea, ma Aspi preferisce affidarsi ad altri consulenti esterni. Un primo studio, della società Cesi, invita la società a dotarsi di sensori avanzati. Una prescrizione ignorata. I sensori in essere, vetusti, smettono completamente di funzionare nel 2016 quando vengono tranciati per sbaglio. Aspi si premura anche di cancellare le note tecniche allegate dello studio, in cui Cesi manifesta preoccupazione per il degrado della struttura. Una seconda consulenza, nel 2017, firmata dal Carmelo Gentile, del Politecnico di Milano, scopre “asimmetrie longitudinali” e “comportamenti anomali” proprio sulla pila 9, provocati presumibilmente da un cedimento dei cavi. Elementi “meritevoli di ulteriori accertamenti”, “totalmente omessi”. In una mail privata, inviata agli ingegneri di Spea Emanuele De Angelis e Lucio Ferretti Torricelli, Gentile è anche più esplicito: “Il comportamento del sistema bilanciato 9 mi pare francamente poco rassicurante”. Il degrado del viadotto è talmente noto, secondo i militari del Primo Gruppo della Guardia di Finanza, guidata dal colonnello Ivan Bixio, da essere inseriti nel 2013 nel Catalogo di rischi aziendali, alla voce “rischio crollo viadotto Polcevera causato da ritardate manutenzioni”.

Perché non si interviene? Alla fine, per chi indaga, è tutta una questione di soldi. Nel 2003 Aspi fa fare uno studio per valutare l’abbattimento del Morandi, ipotesi poi accantonata. Nel frattempo rinvia ogni spesa. Il viadotto è costato alla società pubblica Autostrade 24 milioni di euro (il 98%), 1,3 milioni di euro l’anno. La concessionaria privata a guida Benetton ne spende 524mila (il 2%), cioè 24mila l’anno. E macina fino a 1 miliardo di utili l’anno. “Il problema è che le manutenzioni sono andate in calare e i dividendi aumentavano”, sentenzia Gianni Mion, uomo della famiglia di Treviso. I rischi nel frattempo aumentavano. E lo testimonia anche un premio assicurativo che nel 2016 lievita da 100 a 300 milioni.

C’è un ultimo anello di responsabilità e riguarda i tecnici del Ministero. Nel marzo il Mit approva il progetto di retrofitting, una ristrutturazione che non vedrà mai la luce. Tra i documenti ritrovati c’è una “comunicazione informale”, non allegata agli atti, in cui il consulente Antonio Brenchich descrive “uno stato di degrado impressionante”, la “rottura diffusa di cavi e degrado del calcestruzzo” e “un complessivo pessimo stato di manutenzione del manufatto”. Nessuno, neanche in quel caso, si pone il problema se il ponte sia sicuro.

Ammortizzatori, riforma sgonfiata

L’operazione del ministro del Lavoro, Andrea Orlando, sulla riforma degli ammortizzatori sociali è semplice: ha preso la proposta ereditata da Nunzia Catalfo, suo predecessore e l’ha resa un po’ meno generosa. Ecco perché il primo incontro in cui l’ha illustrata ai sindacati – l’altroieri – è culminato con un nulla di fatto: le tutele sono considerate ancora deboli, specie per quello che ci aspetta subito dopo la pandemia. Ciò che non convince è la parte sui sussidi di disoccupazione. Oggi abbiamo la Naspi per i dipendenti e la Dis.coll per i collaboratori: entrambe durano la metà dei mesi lavorati. Ad esempio, se si è licenziati dopo un anno, l’assegno viene percepito per sei mesi. Mentre la Naspi copre fino a massimo due anni, la Dis.Coll non può andare oltre i sei mesi. Orlando vuole solo aumentare la durata della Dis.coll. La commissione di esperti nominata con il governo Conte-2, invece, suggeriva di allungare pure la Naspi, parificando il periodo lavorato con quello protetto dal sussidio: perdendo il posto dopo un anno di lavoro, quindi, si avrebbe un altro anno di Naspi. Ipotesi che, nell’incontro, non è stata messa sul tavolo.

C’è poi il cosiddetto décalage. Oggi l’importo della Naspi (il 75% dello stipendio) si riduce gradualmente dal quarto mese, penalizzando gli ex part time che si ritrovano con assegni infimi. Orlando ha accolto la proposta della commissione di spostare al sesto mese l’inizio del taglio, ignorando però quella di sospendere del tutto il meccanismo del décalage per tre anni. “Su Naspi e Dis.Coll – ha spiegato la segretaria Cgil Tania Scacchetti – abbiamo confermato la necessità di intervenire ulteriormente sulla durata e sulla misura della prestazione”. Sulla cassa integrazione, Orlando ha parlato di aumento dei tetti massimi per i redditi più bassi: dagli attuali 998 euro a 1.199 euro. “Sono lordi, è ancora troppo poco”, spiega la segretaria Uil Ivana Veronese. L’obiettivo è superare la frattura – consacrata nel Jobs Act – tra garantiti e non. Il ministro non ha però vuotato il sacco sulle protezioni da dedicare ai lavoratori autonomi, per i quali la commissione voluta da Catalfo aveva indicato un pacchetto molto corposo. Se ne parlerà in un tavolo a parte. Lo sblocco dei licenziamenti è previsto tra giugno e ottobre; la riforma (forse) per gennaio 2022, anticipata al massimo a novembre. Ancora non è chiaro chi la pagherà, inizialmente dovrebbe farlo la fiscalità generale.

Piano Draghi: superbonus tagliato, imprese premiate

In un piano dalle minime differenze rispetto al Recovery plan presentato dal governo Conte, il Piano di ricostruzione e resilienza (Pnrr) del nuovo esecutivo riesce a spostare molte più risorse sulle imprese, attraverso la voce “digitale” e a creare qualche problema al M5S sul Superbonus per l’efficientamento degli edifici che al momento risulta il più penalizzato.

Il governo ha fatto circolare alcune schede con un riepilogo delle 6 “missioni” suddivise in 16 “componenti” e poi ancora suddivise in una miriade di programmi di intervento per un totale di 191,5 miliardi. A questi il Piano del governo Draghi aggiunge 30 miliardi del Fondo complementare, finanziati a deficit dall’ultimo scostamento di bilancio e che ha una specificità rilevante: “Nessun obbligo di rendicontazione a Bruxelles e scadenze più lunghe rispetto al 2026 in alcuni casi”.

Il Tesoretto. Come si vede, si tratta di un “tesoretto” da spendere con maggiore discrezionalità e che completa il Pnrr ma non lo sostituisce. E questo rende già difficile trovare esattamente le differenze. Una voce, ad esempio, come “La rivoluzione verde e la transizione ecologica” risulta oggi finanziata con 57 miliardi contro i 67,5 del precedente Piano, ma le sono assegnati circa 11 miliardi nel Fondo complementare. Il quale non è composto da poche voci chiaramente riconoscibili, ma da una lista di piccoli stanziamenti, anche di poche centinaia di milioni, che vanno alla “sostenibilità ambientale dei porti”, al “monitoraggio dinamico” dell’A24-A25 da non precisati “investimenti ad alto contenuto tecnologico” a 1,32 miliardi alle “tecnologie satellitari ed economia spaziale” (e qui i Verdi si chiedono se ci siano spese in armamenti) fino, addirittura, al “potenziamento” di Cinecittà. Questa modalità andrebbe forse chiarita meglio altrimenti ci si troverà con una lista della spesa a discrezione dei vari ministeri (e forse è proprio questo l’obiettivo).

L’impatto. Quanto al corpaccione del Pnrr, difficile davvero trovare grandi modifiche rispetto a quello del governo Conte. Lo si vede chiaramente dall’impatto sull’economia. Se ora si parla di un Pil che “nel 2026 sarà di 3 punti percentuali più alto rispetto allo scenario di base”, nel Pnrr licenziato dal governo Conte il 12 gennaio si leggeva testualmente che “la crescita del Pil nel 2026 risulterebbe più alta di 3 punti percentuali rispetto allo scenario tendenziale di base”.

Qualcosa in realtà non torna. L’ecobonus del 110%, ad esempio, viene decurtato nel Pnrr centrale passando da 29,23 miliardi a 11,69. Anche aggiungendo gli 8,25 miliardi contenuti nel Fondo complementare si arriva a circa 20 miliardi, il 30% in meno. E infatti il M5S ha protestato chiedendo che venga ripristinata l’estensione anche al 2023. Altra anomalia: in un Piano che, dal punto di vista della pura contabilità confronta i 191,5 miliardi attuali ai 210 miliardi elencati dal governo Conte (che aveva una maggiore dotazione della cifra proveniente dal Rrf europeo, il fondo che alimenta i Pnrr nazionali a cui aggiungeva una componente derivante dal Fondo di coesione sociale) le cifre dovrebbero tutte essere ridotte di circa il 10% (210 miliardi meno 191).

Le imprese. Invece ci sono voci che aumentano: tra queste la “Digitalizzazione, innovazione e competitività nel sistema produttivo” – fondi alle imprese – che dai 25,7 miliardi passa a 26,7. A trainare questo aumento ci pensano la “Transizione 4.0” e “le Reti ultraveloci (banda larga e 5G)”, in cui si nota la mano del ministro Vittorio Colao. Su questo punto è invece il Pd a chiedere “chiarezza”.

Le riforme. Anche le riforme indicate non si discostano da quelle elencate dal governo Conte: Pubblica amministrazione e Giustizia (ma era prevista anche una riforma del mercato del lavoro) mentre ora si fa un rapido accenno ad alcune “semplificazioni per la concessione di permessi e autorizzazioni” e a “interventi sul codice degli appalti” (pallino della Lega: ieri Matteo Salvini ha riunito i ministri e altri dirigenti del partito per discutere del Pnrr).

I tempi. Le schede che circolano non rappresentano però la versione finale del Piano. Il Consiglio dei ministri ne discuterà oggi, ma Draghi ha deciso di dare un segnale al Parlamento facendo votare il Cdm solo dopo la presentazione alle Camere prevista per il 26 e 27 aprile.

Dopodiché ci sarà da correre per rispettare la scadenza del 30 aprile. Scadenza che il governo italiano intende rispettare dopo le voci della scorsa settimana in cui si dava conto di una certa diffidenza della Commissione europea sulla capacità italiana di rispettare i tempi. In ogni caso, la definizione esatta, sotto forma di disegni di legge o di progetti compiuti, delle riforme richieste dai regolamenti europei al momento non sembra esserci, ma occorrerà leggere il documento complessivo.

Sulla governance al momento ci sono indicazioni generiche. L’attuazione è affidata alla “responsabilità diretta delle strutture operative coinvolte” quindi ministeri ed Enti locali. Sarà invece il ministero dell’Economia e delle Finanze che “monitora e controlla il progresso dell’attuazione” e “funge da punto di contatto unico” con la Commissione europea. Ma su questo punto le forze politiche hanno già fatto sapere a Mario Draghi che vogliono una “cabina di regia” in cui anche loro possono contare.

M5S, ultimatum scaduto Rousseau verso l’addio

Oggi, a ultimatum inutilmente scaduto, l’erede strapperà l’ultimo filo che lo lega alla sua storia, al Movimento. Dopo mezzanotte, al massimo in mattinata, dirà addio tramite post, su quel blog delle Stelle che da mesi è una sua riserva personale. E forse sarà scissione. “Davide Casaleggio si caricherà tanti fuoriusciti, finalmente proverà a farsi il suo partito” scandiscono come un anatema i Cinque Stelle, alla vigilia del distacco con la piattaforma e l’associazione Rousseau.

Ieri, giovedì 22 aprile, era l’ultimo giorno per provare a rimettere assieme i cocci del rapporto con l’ex casa madre di Milano, che chiedeva al M5S versamenti arretrati per 450 mila euro e garanzie, sul suo ruolo nel Movimento che verrà. “Qualora i rapporti pendenti non verranno definiti entro questa data – scriveva l’associazione Rousseau un paio di settimane fa – saremo costretti a immaginare per Rousseau un percorso diverso, lontano da chi non rispetta gli accordi e vicino, invece, a chi vuole creare un impatto positivo sul mondo”. Ma ieri di segnali e soprattutto di soldi da Roma non se ne sono visti. “Rousseau? Non so, provate a chiamare voi…” rispondeva al Fatto il reggente Vito Crimi a metà pomeriggio in Senato. Il M5S ormai ha in mente già un’altra strada. In questi giorni il rifondatore Giuseppe Conte ha visionato vari progetti per una piattaforma alternativa. Per capirsi, “sul modello di quelle già adoperate da alcune grandi aziende” raccontano. L’ex premier riflette su “metodi gestionali alternativi” a Rousseau, che per il M5S non era solo una piattaforma, ma anche l’associazione che preparava e filtrava le liste, nonché una scuola (virtuale) di formazione, e molto altro. Funzioni che Conte vuole riportare a Roma, anche fisicamente, puntando sulla sede individuata in piazza del Parlamento. Nell’attesa, si profila lo scontro in tribunale.

Alcuni giorni fa l’ex premier aveva incaricato un avvocato di sua fiducia di cercare un’ultima mediazione con Casaleggio. Però il rischio che si finisca a carte bollate ormai è altissimo, anche perché il Movimento pretende i dati degli iscritti, tuttora in possesso solo di Rousseau. Li ha già richiesti con una diffida, pare. E se non arriveranno novità in tempi brevi i 5Stelle sono pronti a chiederli di fronte a un giudice. Così oggi, salvo sorprese a cui non crede nessuno, sarà frattura. “Ma non dovevamo arrivare a questo punto” sibilano un paio di big. Non è un mistero che anche Luigi Di Maio sperasse in maggiore celerità da parte di Conte.

Ma l’avvocato tira dritto, con i suoi tempi. Anche perché i problemi sono una valanga. I soldi, ad esempio. “Conte deve garantire ai parlamentari di poter tenere tutto il Tfr, o avremo altri addii” sussurrano dal Movimento. Per ora, anche nel nuovo regolamento è previsto che si possa tenere solo un terzo del trattamento di fine mandato. Ma a naso non può bastare per tenere nei ranghi tanti eletti. Nell’attesa, diversi parlamentari cercano Alessandro Di Battista. Lui risponde a tutti. Ma precisa: “Resterò all’opposizione di questo governo”. E non parteciperà neppure a eventuali scissioni. Compresa quella di Casaleggio.