Anno 1993. La società pubblica Autostrade incarica una commissione di tecnici di fare luce sullo stato di salute del viadotto Polcevera. Le condizioni di fragilità del ponte sono già state segnalate in vari report nei precedenti vent’anni. “È stata accertata la gravità del fenomeno di degrado che coinvolge prevalentemente le armature di acciaio degli stralli (i tiranti diagonali, ndr) – si legge nel rapporto finale – durante i lavori di manutenzione si è scoperto, oltre al degrado diffuso sugli stralli dei tre sistemi bilanciati, una serie di degradi concentrati”. Queste conclusioni vengono riprese anche in un successivo paper accademico presentato lo stesso anno a un convegno internazionale a Shangai. Tra i firmatari c’è un giovane ingegnere destinato a fare strada: Michele Donferri Mitelli. Insomma, era già lui a scriverlo. L’uomo che Giovanni Castellucci, amministratore delegato dell’era Benetton, nominerà a capo delle manutenzioni di Autostrade per l’Italia.
Ne sapeva di cose Donferri, tra i principali indagati insieme a Castellucci. Non a caso, quando nel 2019 viene allontanato da Aspi per il coinvolgimento nell’inchiesta, fa trafugare un ricco archivio personale sul viadotto: “Io sono intoccabile”, dice di sé al fratello. Ad amareggiarlo è però il fatto di essere stato scaricato proprio dal “capo”: “Se lo incontro fa finta di niente. Ha toccato il cielo con un dito. Un giorno le azioni erano a 25, il giorno dopo eri una merda. Con lui la mia carriera è decollata, la sua è diventata stellare. Non ha accettato sta cosa…”. L’articolo accademico è uno degli episodi più significativi di un lunghissimo j’accuse della Procura di Genova, che ieri, a due anni e mezzo dalla catastrofe del 14 agosto del 2018 e dei suoi 43 morti, ha concluso le indagini nei confronti di 69 persone. Il documento, firmato dai pm guidati dal procuratore Francesco Cozzi, è un atto di accusa durissimo nei confronti di Aspi e della sua controllata Spea, e coinvolge in seconda battuta anche il Ministero per gli omessi controlli. Nella sostanza, scrivono in magistrati, nessun poteva non sapere.
Secondo i periti del tribunale, il ponte Morandi è crollato per il cedimento dello strallo della pila 9. E la rottura è stata provocata dalla corrosione dei cavi. Nel 1991, scrive la commissione di cui faceva parte Donferri, l’intervento si era limitato solo a due pile perché sulla terza “la corrosione era più limitata”. Ma, quante volte è stata poi controllata “quell’unica struttura non rinforzata in precedenza”? “In un’unica occasione – scrivono i pm Paolo D’Ovidio, Walter Cotugno, e Massimo Terrile – Nel 2015”. Una sola volta “in un periodo compreso fra il 13 giugno del 1991 e il crollo (9.924 giorni, 326 mesi, oltre 27 anni)”. E, ancorché le osservazioni vengano effettuate con il buio, “la conseguente relazione evidenziava chiarissimi segnali d’allarme sugli stralli”, “i trefoli (fasci di cavi) risultavano scarsamente tesati e si muovevano con facilità facendo leva con uno scalpello”. Il risultato è che in 51 anni di vita del Morandi sulla pila 9 non viene fatto nemmeno un intervento.
La valutazione sulle condizioni di sicurezza, scrivono gli investigatori, poggiava su prove che fornivano dati “di scarso o nessun significato”. E che, oltre tutto, avevano comunque fornito in più occasioni “esiti di tale gravità da imporre immediate ispezioni visive ravvicinate”, sostituite invece con esami notturni o ispezioni con “binocoli o cannocchiali”. Un protocollo già di suo “del tutto inadeguato”, aggravato da “disinvolti copia e incolla” e “una sistematica sottovalutazione delle condizioni di degrado” nella compilazione dei rapporti.
La ristrutturazione della pila 9 doveva essere avviata nel 2011, al termine di uno studio di Spea, ma Aspi preferisce affidarsi ad altri consulenti esterni. Un primo studio, della società Cesi, invita la società a dotarsi di sensori avanzati. Una prescrizione ignorata. I sensori in essere, vetusti, smettono completamente di funzionare nel 2016 quando vengono tranciati per sbaglio. Aspi si premura anche di cancellare le note tecniche allegate dello studio, in cui Cesi manifesta preoccupazione per il degrado della struttura. Una seconda consulenza, nel 2017, firmata dal Carmelo Gentile, del Politecnico di Milano, scopre “asimmetrie longitudinali” e “comportamenti anomali” proprio sulla pila 9, provocati presumibilmente da un cedimento dei cavi. Elementi “meritevoli di ulteriori accertamenti”, “totalmente omessi”. In una mail privata, inviata agli ingegneri di Spea Emanuele De Angelis e Lucio Ferretti Torricelli, Gentile è anche più esplicito: “Il comportamento del sistema bilanciato 9 mi pare francamente poco rassicurante”. Il degrado del viadotto è talmente noto, secondo i militari del Primo Gruppo della Guardia di Finanza, guidata dal colonnello Ivan Bixio, da essere inseriti nel 2013 nel Catalogo di rischi aziendali, alla voce “rischio crollo viadotto Polcevera causato da ritardate manutenzioni”.
Perché non si interviene? Alla fine, per chi indaga, è tutta una questione di soldi. Nel 2003 Aspi fa fare uno studio per valutare l’abbattimento del Morandi, ipotesi poi accantonata. Nel frattempo rinvia ogni spesa. Il viadotto è costato alla società pubblica Autostrade 24 milioni di euro (il 98%), 1,3 milioni di euro l’anno. La concessionaria privata a guida Benetton ne spende 524mila (il 2%), cioè 24mila l’anno. E macina fino a 1 miliardo di utili l’anno. “Il problema è che le manutenzioni sono andate in calare e i dividendi aumentavano”, sentenzia Gianni Mion, uomo della famiglia di Treviso. I rischi nel frattempo aumentavano. E lo testimonia anche un premio assicurativo che nel 2016 lievita da 100 a 300 milioni.
C’è un ultimo anello di responsabilità e riguarda i tecnici del Ministero. Nel marzo il Mit approva il progetto di retrofitting, una ristrutturazione che non vedrà mai la luce. Tra i documenti ritrovati c’è una “comunicazione informale”, non allegata agli atti, in cui il consulente Antonio Brenchich descrive “uno stato di degrado impressionante”, la “rottura diffusa di cavi e degrado del calcestruzzo” e “un complessivo pessimo stato di manutenzione del manufatto”. Nessuno, neanche in quel caso, si pone il problema se il ponte sia sicuro.