“Informa Salvini” Macina (5S) apre il caso Bongiorno

La Lega chiede le dimissioni, Forza Italia, Azione e Italia Viva si stracciano le vesti. Uniti contro la sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina, M5S, che ha espresso, in un’intervista al Corriere, un dubbio su un conflitto di interessi di Giulia Bongiorno, senatrice del Carroccio e avvocata di Matteo Salvini. Il cortocircuito nasce dopo la pubblicazione dell’indifendibile video di Beppe Grillo a sostegno di suo figlio Ciro, accusato di concorso in stupro di una ragazza, che è a sua volta rappresentata da Bongiorno.

Il video ha messo seriamente in difficoltà il M5S e ieri la sottosegretaria, nell’intervista, aveva provato a guardare oltre: “Doveva essere evitato… ma riconduciamolo alla sfera privata e lasciamo fuori la politica”. Poi, spiegando di non aver visto il video in mano ai magistrati che – secondo Grillo – scagionerebbe figlio e amici, Macina si pone l’interrogativo che ha provocato la bufera politica: Salvini “ha riferito di averne parlato con Giulia Bongiorno, senatrice della Lega e avvocato della ragazza… Non è che questo video che non doveva vedere nessuno, lui l’ha visto? Sarebbe grave che si utilizzi per fini politici una vicenda in cui non si capisce se Bongiorno parla da difensore (che ha quel video) o da senatrice che passa informazioni al suo capo di partito di cui è anche difensore”. Proprio Salvini, come riporta Il Tempo, aveva dichiarato, che “qualcosina su come siano andate le cose mi ha detto il mio avvocato, dato che è lo stesso della ragazza che denuncia lo stupro, ovvero Giulia Bongiorno”.

Ma la polemica è tutta contro Macina e costringe a intervenire la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che certo non si aspettava una nuova rogna dentro la maggioranza, per un’intervista che, anche secondo diversi pentastellati, infatti silenziosissimi, andava evitata. La ministra, per pochi minuti, ha incontrato la sottosegretaria e le ha detto che dato “il ruolo istituzionale ricoperto” d’ora in poi su “vicende giudiziarie in corso non si parla”. Macina ha concordato con la ministra e ha parlato con lei di malinteso. Concetto che, dopo l’incontro, ribadisce al Fatto: “Sono incredula per l’equivoco che è nato. So bene che il ruolo da me ricoperto implica il rispetto e il riserbo per le indagini in corso. Il mio intento era quello di sgombrare il campo da equivoci, invitando tutti ad un passo indietro rispetto alla vicenda giudiziaria. Doppiamente rammaricata, dunque, che sia stata interpretata come un’accusa o un’ingerenza”.

La Lega in mattinata aveva presentato un’interrogazione parlamentare alla ministra Cartabia e aveva chiesto le dimissioni della Macina. Alla Camera, Pierantonio Zanettin, avvocato e deputato di Forza Italia aveva invocato “l’intervento del ministro Cartabia. Le considerazioni espresse sono improprie, inaccettabili”. E Salvini: “La Macina come Grillo: si vergognino per gli attacchi alle donne e si dimettano dai loro incarichi”. Giulia Bongiorno minaccia querela, ma il tema del conflitto di interessi avvocati-parlamentari è stato al centro del ventennio berlusconiano, costellato da difensori dell’imputato presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, pronti a promuovere leggi ad personam, che tante volte lo hanno salvato. Come quella sulla depenalizzazione del falso in bilancio del 2001, quando il suo avvocato Gaetano Pecorella era il presidente della Commissione Giustizia alla Camera. È di Pecorella la legge del 2006, bocciata poi dalla Corte costituzionale, sulla inappellabilità per i pm delle sentenze di assoluzione in primo grado. E come non ricordare Niccolò Ghedini e Piero Longo, pure loro parlamentari e difensori dell’ex premier: idearono la legge a tempo (18 mesi) sul legittimo impedimento per fermare i processi di “mister B.”; fu loro l’idea del processo breve, non andato in porto. Avvocato di Berlusconi è anche il sottosegretario alla Giustizia di FI, Francesco Paolo Sisto, ha difeso il premier al processo barese per le escort fornite da Gianpi Tarantini a palazzo Grazioli.

Via la Lega, maggioranza Ursula. Il sogno giallorosa (vista Colle)

Per qualche settimana è stato a guardare, Dario Franceschini. Ha aspettato che le prime crepe nella maggioranza e le prime difficoltà del governo Draghi emergessero in superficie. Così come ha dato tempo a Enrico Letta di ambientarsi al Nazareno. Ma ora è pronto a rimettere in piedi il suo progetto politico originario. Ovvero, la maggioranza Ursula. Il ministro della Cultura vorrebbe un governo senza la Lega, con Pd, M5s e FI che diano vita al fronte anti sovranista. Quello che doveva essere il Conte ter, mai nato. Ma anche il Draghi 1, come se l’era immaginato lui. Operazione che dovrebbe servire per portarlo al Quirinale. Obiettivo che continua ad avere.

D’altra parte, il giudizio di Franceschini sull’esecutivo è piuttosto duro e non da oggi. Per cui, nelle sue valutazioni, Draghi deve portare a termine il Recovery e la campagna vaccinale. Dopodiché il suo compito potrebbe già considerarsi esaurito. O comunque, il rischio di un cambio di maggioranza si potrebbe correre senza rimorsi. Di certo, non per eleggere l’attuale premier al Quirinale. I partiti sono troppo indispettiti dalla distanza con cui lui li sta trattando per volerlo in quel ruolo. E Draghi lo sa: non a caso sembra parlare più a orecchie estere che all’interno. È di una settimana fa un pezzo del New York Times che lo descriveva come il leader europeo numero uno. Ed è di ieri un articolo del Financial Times che definisce il suo Recovery Plan cruciale non solo per l’Italia, ma anche per la riuscita dell’intero progetto europeo. Ergo, Draghi punterebbe ad arrivare a fine legislatura e poi a ricoprire un ruolo in Europa.

In fondo è stato lo stesso Letta qualche giorno fa – proprio rispondendo a una domanda sull’ipotesi del premier al Colle – a dire che si aspetta che il governo arrivi a fine legislatura. Il segretario del Pd non è neanche allineato con Franceschini: insiste sulla proposta di un patto per la ricostruzione, sul modello di quello del governo Ciampi, che dovrebbe portare le forze politiche non alla concertazione, ma alla corresponsabilità. Però trova inaccettabile il Salvini di piazza e di governo. Per cui, se alla fine ci si arrivasse alla maggioranza Ursula, certo non gli dispiacerebbe. Come al resto del Pd. Il punto è che la Lega dovrebbe uscire spontaneamente, e questo – per ora – non sembra possibile. Almeno fino a che Giancarlo Giorgetti sarà in grado di frenare gli impulsi di Salvini.

D’altronde neanche Forza Italia ha gradito la decisione del Carroccio di non votare il decreto mercoledì, senza neanche avvertire. Ma come il cambio di schema resta sulla carta, così sono ancora un’ipotesi anche le aspirazioni da presidente della Repubblica di Franceschini. Comunque si evolva il quadro, non è facile che tocchi a uno del Pd. Tra l’altro, oltre a lui, c’è Paolo Gentiloni, commissario Ue agli Affari economici, che gioca la partita. E l’interlocuzione con Draghi risente anche di questa variabile.

Dai piani alti del Movimento invece ieri lo dicevano in diversi: “Nelle consultazioni avevamo avvertito l’ex presidente della Bce su cosa gli sarebbe costato governare con la Lega”. Nel M5S in pochi credono che il Carroccio stacchi la spina a breve. “Ma a medio termine, è da vedere…” sussurrano in tanti.

E d’altronde lo dice in chiaro l’ex ministra Lucia Azzolina: “Dovremmo abituarci all’idea di un nuovo Papeete, stavolta per risalire nei sondaggi e non farsi superare da Giorgia Meloni. Un bagno estivo di realtà”. Nell’attesa però c’è la partita per il Colle, su cui – sempre aspettando l’avvento di Giuseppe Conte – cominciano a riflettere anche nel M5S.

Così nel corpaccione del Movimento più d’uno torna a parlare di due forni. Ossia, della necessità di tenere aperto un canale proprio con Salvini, per non farsi schiacciare troppo dal Pd nella scelta del nome. Certo, a guidare il gioco sarà Conte, assolutamente calato come rotta e anche rapporti nel centrosinistra. “Ma anche lui, una volta diventato capo, dovrà confrontarsi con certe dinamiche politiche e parlamentari”. Perché la partita del Quirinale può valere il banco.

“Il Ponte si chiama Ulisse, è un gran figlio di…”

Nella lunga e travagliata storia del Ponte sullo Stretto quello di ieri è stato un episodio imperdibile. A Catania si riuniscono i presidenti delle due Regioni interessate: il siciliano (meloniano) Nello Musumeci e il calabrese (salviniano) Nino Spirlì. In mezzo ai due giganti, il costruttore di quest’eterna opera mai compiuta della storia italiana, l’amministratore delegato di WeBuild, Pietro Salini. Nuovo governo, nuovo tentativo: ora che c’è Draghi – si dicono i convenuti – è finalmente arrivato il momento di costruire il benedetto ponte. E per l’occasione si vola altissimo. Il ponte di Messina adesso ha un nome, e che nome: “Ulisse”. Il battesimo lo annuncia Musumeci. Il governatore non si riferisce alle acque abitate da Scilla e Cariddi. È un po’ meno aulico: “Ulisse è il Ponte sullo Stretto. Da oggi lo chiameremo così, perché l’opera è considerata una figlia di….”. Troia, nel senso della città espugnata dal cavallo di legno di Odisseo. È comunque mitologia.

Poi tocca a Spirlì. L’uomo che nel tempo libero combatte orgogliosamente contro “la lobby frocia”, regala il suo prezioso contributo al dibattito: “Il progetto c’è, chiavi in mano. Ma allo Stato italiano piace annacare il pecoro”. Ovvero perdere un sacco di tempo. “Ce lo devono dire che cosa vogliono fare”, insiste Spirlì, con orgoglio e con un pizzico di fastidio: “Non stiamo chiedendo un intervento da poveri. Qui siamo Europa, svegliatevi. L’ingresso per il continente non è il porto di Rotterdam, ma Gioia Tauro”.

Dopo la scivolata su Troia, Musumeci ritrova parole di eleganza e saggezza: “Ulisse è una vertenza che si chiama futuro. Il Mediterraneo è un mare che unisce, dove passano le merci. E dove non passano le merci passano gli eserciti. Draghi ci dica cosa vuole fare”. Spirlì è un po’ discolo ma più conciliante col governo di cui in fondo fa parte la sua Lega: “Ne abbiamo dovuto prendere le distanze, come succede in una famiglia quando non tutti siamo d’accordo”.

Cinese in Porsche con milioni di Dpi illeciti “Difesa da ex console già legale di un boss”

Una cittadina cinese “nullatenente” che gira a bordo di una Porsche e che in un magazzino tiene milioni di dispositivi anti-Covid poi sequestrati. E un avvocato del foro di Reggio Calabria (per nulla coinvolto nell’indagine), ex console onorario di un Paese extra-Ue, e già difensore (in primo grado) di un imputato per mafia a Milano, subito nominato dalla donna dopo la denuncia a piede libero. L’accusa per lei: ricettazione e frode in commercio. Storia interessante, quella che emerge dagli atti della Procura di Milano che a carico della cittadina cinese ha sequestrato oltre 5 milioni di Dpi e 6.700 euro. Stazione centrale, via Sammartini 95. È il 12 marzo. I militari della Guardia di finanza entrano e non trovano nulla. Cercano stanza dopo stanza. L’ultima è quella giusta: saltano fuori 5,6 milioni di dispositivi di protezione, tra mascherine chirurgiche, Ffp2 e Ffp3, ma anche 2.400 saturimetri, oltre 3.000 termometri e 2 milioni di guanti in lattice. Gli spazi sono di una società immobiliare italiana con sede a due passi da piazza Duomo. Chi ha in uso il magazzino è invece la cittadina cinese, 40 anni. Quando è intervenuta la Finanza, la donna stava dando parte del materiale a un connazionale titolare di una ditta fallita nel 2018. A verbale spiegherà di “non aver titolo per commercializzare i beni rinvenuti in suo possesso”. Aggiungerà “di aver ricevuto la merce da suoi connazionali”. Il giudice del Riesame scrive che “la merce risulta avere provenienza diversa rispetto alle indicazioni sulle confezioni”. Si tratta del più grande sequestro di Dpi in Lombardia. L’operazione, comunicata ieri, è stata coordinata dal pm Michela Bordieri. La donna cinese, Hu.C., sconosciuta ai terminali delle forze dell’ordine, senza un reddito chiaro e, secondo la Finanza, “nullatenente”, aveva intestata una Porsche Cayenne nella quale i militari hanno trovato altre mascherine. Il suo domicilio risulta in via Monte San Michele a Sesto San Giovanni. Appartamento modesto. Eppure molto di questa storia ancora va capito. A partire dal motivo (del tutto lecito) per il quale una sconosciuta cittadina cinese appena colta sul fatto scelga come avvocato di fiducia un principe del foro con studio tra Milano e Reggio Calabria, già console onorario, e già rappresentante della difesa (in primo grado) di un affiliato alla locale di ’ndrangheta in Brianza nel processo Infinito, condannato poi in Cassazione. Al momento i collegamenti tra i Dpi e i clan non sono emersi. La Finanza vuole capire quali erano i canali di approvvigionamento e a chi la merce stoccata veniva distribuita. Il materiale è stato dissequestrato dal Riesame, ma non restituito perché l’indagata non ne ha dimostrato la proprietà.

MIlano, il “giudice scroccone” ora lascia la toga

La caccia al “giudice scroccone” è durata poco. È Piero Gamacchio, consigliere di Corte d’appello a Milano. Aveva cominciato tre giorni fa il giornalista Gianluigi Nuzzi a lanciare sul suo profilo Instagram una specie di quiz: chi è il giudice, presidente di collegio in importanti processi penali, che lascia nei ristoranti conti in sospeso per migliaia di euro? “Ormai da anni consuma a Milano lussuosi pranzi, cene e aperitivi senza pagare il conto”, scriveva Nuzzi, dando voce ai ristoratori che raccontavano: “Ordina i piatti più prelibati, tonno crudo, tartufo bianco, grandi vini rossi. Viene con i colleghi, dice a loro offro io, ma poi non paga”. Conti non saldati anche in negozi d’abbigliamento e un debito di 40 mila euro con un avvocato milanese. Ieri Nuzzi ha fatto il nome di Gamacchio, svelando quello che ormai a Palazzo era diventato un segreto di Pulcinella. E ha pubblicato una dichiarazione che il giudice ha inviato proprio a lui: “Quanto letto sui social in questi ultimi giorni corrisponde ahimé alla verità, salvo che pensavo sempre al successivo adempimento, come in parte ho fatto! Ci tengo però a sottolineare che mai questi fatti hanno influito sulla mia attività di giudice, che ho sempre svolto con libertà e indipendenza”. Il magistrato lascia la toga: “Questi fatti mi impongono di chiedere da subito di essere messo in aspettativa. Si è trattato di comportamenti di grave leggerezza di cui mi pento profondamente e ai quali porrò al più presto rimedio”. Gamacchio è conosciuto come uomo estroso, di acuta intelligenza e grande simpatia. È stato giudice in processi di rilievo come quello sul conto Protezione, ha avuto come imputati Bettino Craxi e Roberto Maroni, i manager di Finmeccanica, il finanziere Danilo Coppola, la coppia dell’acido. Le sue sentenze erano giuridicamente raffinate, anche se a volte depositate in grande ritardo, tanto che il Csm gli aveva inflitto una sanzione disciplinare.

Renzi elogia ancora l’Arabia: “Ha visione e tanti giovani, Al Ula sarà città del futuro”

Matteo Renzi torna a elogiare l’Arabia Saudita. Questa volta, dopo aver parlato di “Rinascimento”, l’ex premier ha parole al miele per Al Ula, la città sede di un ambizioso progetto di urbanistica green: “Avrà la possibilità di diventare una città ricca di speranza e anima”. Le parole di Renzi risalgono a qualche giorno fa, quando ha preso parte a un panel sullo sviluppo di Al Ula che ieri è stato rilanciato da Arab news. Oratore interessato, Domani aveva rivelato che Renzi fa parte della Royal Commission saudita che si occupa proprio della città. E così Renzi, nell’inconfondibile calata anglo-fiorentina, si esalta: “La strategia della Commissione è trasformare una grande capitale del passato in un posto per il futuro sostenibile”. Per fortuna l’Arabia “può essere un grande patrimonio per la strategia green di tutta l’area”, soprattutto perché “il Regno è pieno di giovani e ha una visione”. Insomma, “Al Ula sarà un fantastico esempio di come cambierà la nostra mentalità, combinando sostenibilità ed economia”. Per la gioia del principe Bin Salman.

“B. delinquente e malavitoso”: ecco perché si può dire

Sì, preferirebbe essere adulato come ‘Cavaliere’ o ‘Presidente’, e un bell’‘Onorevole’ ci starebbe sempre bene, giacché ha riconquistato l’agibilità politica e uno scranno in europarlamento. Silvio Berlusconi, però, dovrà farsene una ragione: definirlo “delinquente” non è diffamatorio, non è ingiurioso, non è sbagliato. Nemmeno se aggiungiamo “terrorista”, “malavitoso”, “pregiudicato” e se ricordiamo che “ha gettato una minorenne nelle braccia di una puttana” ed è “sospettato di avere cominciato la sua carriera di imprenditore grazie ai soldi della mafia” e le tante altre prodezze che sappiamo.

Lo dice il giudice civile di Roma Damiana Colla nelle motivazioni della sentenza con cui il magistrato ha rigettato la citazione civile di Berlusconi contro Massimo Fini, Marco Travaglio, Peter Gomez e la società editrice del Fatto Quotidiano, condannandolo a pagare più di 10.000 euro di spese legali ai nostri avvocati Caterina Malavenda e Valentino Sirianni.

In dodici pagine, il giudice spiega che si può dare del delinquente a Berlusconi purché sia chiaro il contesto della critica generale e politica in cui si inserisce il sostantivo, in un quadro dove si sottolinea che il fatto è vero: delinquente è colui che delinque, Berlusconi è stato condannato con sentenza passata in giudicato per frode fiscale, quindi per sillogismo aristotelico Berlusconi è un delinquente. E i sei articoli di Massimo Fini pubblicati nel 2018 sul Fatto, prima e dopo le elezioni politiche celebrate con lo spauracchio della presenza in campo dell’uomo di Arcore, sono rimasti nel recinto della critica politica.

I legali di Berlusconi invece sostenevano che gli articoli erano “caratterizzati da contenuti non solo diffamatori nella sostanza, ma anche apertamente ingiuriosi e illeciti nella forma, in quanto tutti costellati da gratuite e immotivate offese ad personam, esorbitanti da ogni possibile limite di tolleranza”. Ed è qui che il giudice inizia a fare coriandoli delle tesi dell’ex premier. “Nulla è specificamente allegato da parte attrice – scrive la dottoressa Colla – circa la ‘sostanza’ diffamatoria di ogni articolo, concentrandosi piuttosto l’attore sul requisito formale della continenza espositiva”.

In parole povere: Berlusconi sottolinea i presunti insulti, ma trascura la parte in cui dovrebbe provare di essere vittima di menzogne. E non può fare altro, perché per quanto aspre e urticanti, le parole di Fini si muovono sul terreno di fatti e notizie vere. E quindi sono critiche legittime. Quando Fini dà del “terrorista” a Berlusconi parte dal dato, vero, che B. ha appena definito “criminale” la sentenza che lo ha condannato, “che gli impedisce di fare il premier”. Quindi, come i brigatisti, delegittimando quella sentenza, non riconosce le istituzioni dello Stato. Ecco perché Fini non è sanzionabile quando paragona B. a Vallanzasca preferendo il secondo al primo perché Vallanzasca “non ha mai contestato il diritto dello Stato a punirlo”. È una critica legittima anche questa.

Berlusconi inoltre non può lamentarsi di essere chiamato “delinquente naturale”: lo afferma la sentenza del Tribunale di Milano sulle “enormi evasioni off shore”. Il resto è riferibile alle vicende di Ruby e Nicole Minetti, e al ruolo di Marcello Dell’Utri nel patto tra l’ex senatore e la mafia per proteggere B. e i suoi interessi economici in cambio di fiumi di denaro.

La sintesi migliore della sentenza a nostro avviso è in questo passaggio: “Il giudizio critico manifestato dall’autore è dunque interamente frutto delle numerose vicende giudiziarie che hanno coinvolto l’attore, con gli esiti più diversi, ma dei quali non era necessario dare conto (…), in ragione del fatto che esso non ha a oggetto cronaca giudiziaria, ma l’espressione di un complessivo e ragionato giudizio critico soggettivo”.

“Renzi sr. mi indicò russo, ma Romeo non me lo ricordo”

Lunedì prossimo ci sarà l’udienza preliminare dell’indagine Consip. Il Gup Annalisa Marzano dovrà decidere se e chi dovrà andare a processo e chi dovrà essere prosciolto.

La questione più delicata dal punto di vista politico è quella di Tiziano Renzi. Insieme all’imprenditore campano, Alfredo Romeo, e ad altri rischia il processo per traffico di influenze e turbativa di gara.

Intanto però la Procura di Roma, in questi mesi – dopo la chiusura dell’inchiesta di dicembre scorso – ha svolto un’attività integrativa d’indagine. I nuovi accertamenti nascono da un’informativa depositata nel procedimento napoletano, sempre su Romeo ma per altri fatti, che riguardava i messaggi trovati nel telefonino di Carlo Russo, amico di Tiziano Renzi, anche lui indagato. Il 1° febbraio, dopo l’acquisizione dell’informativa napoletana, è stata interrogata, come persona informata sui fatti, Eleonora Chierichetti, ex collaboratrice di Matteo Renzi quando era sindaco di Firenze e poi approdata nella segreteria di Luca Lotti a Palazzo Chigi. Per capire perché la Procura ha deciso di sentire la Chierichetti, bisogna dunque tornare all’informativa dei carabinieri napoletani. Il 10 aprile 2015, secondo i carabinieri, Tiziano Renzi “comunicava a Russo il numero del cellulare di Eleonora Chierichetti”. Due ore dopo aver ricevuto il contatto da Tiziano Renzi, Russo scrive: “Eleonora buongiorno, scusa se ti disturbo. Posso chiamarti? Grazie, Carlo Russo”. Tre giorni dopo, il 13 aprile 2015, Paola Grittani, collaboratrice di Romeo, invia a Russo il numero della Romeo Gestioni. “Dr. Ecco il numero della segreteria dell’avvocato. Si preoccuperanno di passare la telefonata n. 081******* saluti”. Due minuti dopo, Russo invia quel numero al cellulare della Chierichetti: “081******* avv. Romeo”.

Questi messaggi vanno contestualizzati. Un mese prima di quegli sms, il 4 marzo 2015, Russo porta Alfredo Romeo dal tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi (non indagato, che dice di aver parlato di un finanziamento lecito al Pd, da lui rifiutato). Il 22 aprile 2015 – 8 giorni dopo l’invio del sms di Russo a Chierichetti – Russo e Tiziano Renzi incontrano l’Ad allora in carica di Consip, Domenico Casalino, in un bar di Roma.

Tre mesi dopo quell’sms, Tiziano, Russo e Romeo si incontrano il 16 luglio 2015 a Firenze. Nella settimana successiva, Tiziano organizza un incontro con ‘il colorato’, alias, secondo i pm, l’appena nominato Ad di Consip, Luigi Marroni. Poi, secondo Marroni, Tiziano gli raccomanda Russo e questi gli fa pressioni per la gara Fm4 in favore di una società. Quale? Marroni esclude Romeo ma non ricorda il nome.

Il 1° febbraio scorso la Chierichetti, sentita come testimone, ha spiegato: “Premetto di conoscere Tiziano Renzi sin da quando ero bambina perché siamo dello stesso paese. Durante il governo di cui era presidente suo figlio Matteo, in numerose occasioni(…) ho avuto modo di sentirlo telefonicamente; in particolare spesso Tiziano (…) mi chiamava per chiedere di fissare appuntamenti tra persone che lui mi segnalava e il sottosegretario e poi ministro Lotti. Normalmente non mi specificava le ragioni di questi appuntamenti, solo a volte specificava il ruolo ricoperto da queste persone”.

Tra i “nominativi” indicati da Tiziano Renzi, spiega la donna, c’era dunque Russo. “Anche in epoca successiva, sempre presentandosi come persona accreditata da Tiziano Renzi – aggiunge la donna – Russo chiese più volte, anche in modo insistente, di essere ricevuto da Luca Lotti, tanto nel periodo in cui questi era sottosegretario alla Presidenza quanto nel periodo in cui era ministro. Ricordo perfettamente, come peraltro è successo per altre persone, che Lotti mi disse di non avere interesse a incontrarlo e pertanto, come non di rado mi è accaduto in situazioni simili al fine di interrompere seppure cortesemente questa insistente richiesta di colloqui, ho provveduto a riceverlo io”.

La Chierichetti dice di averlo ricevuto due o tre volte “nell’arco di due o tre anni”, in un bar in Galleria Colonna a Roma. “(…)È possibile che in quelle circostanze, sia pure fugacemente, Russo possa avermi fatto cenno ai motivi di queste sue insistenti richieste di colloquio, ma non ne ho affatto memoria”. Per la Chierichetti, quindi, Lotti non incontrò mai Russo.

Un dato che è un po’ dissonante con una circostanza già rivelata dal Fatto: nell’ottobre 2014, Michele Emiliano chiedeva a Lotti se fosse il caso di incontrare un tal Carlo Russo che si accreditava come amico suo. E Lotti rispondeva via sms: “‘Lo conosciamo (…) Ha un buon giro ed è inserito nel mondo della farmaceutica. Se lo incontri per 10 minuti non perdi il tuo tempo’”.

Ma torniamo al verbale della Chierichetti. Pur non ricordando il contenuto delle conversazioni con Russo, la donna dice di non poter “escludere che in una di queste circostanze possa aver nominato Romeo, ma allora questo nominativo non mi diceva nulla”. “Precedentemente alla diffusione di notizie sulla stampa che legavano Alfredo Romeo a Consip – aggiunge in un altro passaggio del verbale la Chierichetti – e che hanno portato al coinvolgimento nelle indagini di Lotti non sapevo neppure chi fosse Romeo. (…) Quando ricevetti questo numero come era prassi per comunicazioni di questo tipo, mi sarò limitata a comunicarlo a Lotti (…). Dopo aver comunicato questo numero non sono stata onerata di prendere contatti né in quella circostanza né successivamente”. L’ex ministro oggi al Fatto esclude di aver ricevuto il numero di Romeo che mai ha conosciuto.

Al Fatto Romeo a gennaio ha raccontato una versione che stride con quella resa a febbraio al pm da Chierichetti. L’imprenditore ha spiegato che l’obiettivo era invitare Matteo Renzi a un convegno che stava organizzando: “Per il convegno mi aveva chiamato in aprile (2015) anche una signora della Segreteria di Palazzo Chigi. Mi aveva dato assicurazioni ma non se ne fece niente”. Romeo non fa il nome della Chierichetti ma sembra probabile che riferisca a lei.

Il punto è che, se Romeo dice il vero, non era Lotti, bensì Matteo Renzi, il suo ‘obiettivo’ quando nell’aprile 2015 cercava un contatto telefonico con Palazzo Chigi, organizzato da Carlo Russo. Dunque la domanda da fare a Eleonora Chierichetti è sempre la stessa: lei ha dato a qualcuno quel numero? A Lotti, a Renzi o a chi?

Se ci sarà un processo sarà la sede per proporla.

Ancora troppi contagi. Ai Länder tedeschi il “freno d’emergenza”

La Germania ha ancora paura. Il presidente federale Frank-Walter Steinmeier ha deciso, incurante delle proteste di piazza, di avallare la nuova legge già votata dal Parlamento e dal Senato messa a punto per affrontare l’aumento dei contagi: quasi 30 mila nelle scorse 24 ore. Questa legge dovrebbe essere guardata con attenzione dai governi delle nazioni che, come l’Italia, hanno consegnato alle Regioni l’autonomia in ambito sanitario. La novità più importante è l’introduzione del cosiddetto “freno d’emergenza” su scala federale. Si tratta di una modifica dirimente rispetto alla legge già esistente sulla pandemia.

Il governo centrale potrà frenare l’autonomia dei Länder (i 16 Stati della Federazione) laddove l’incidenza settimanale superi i 100 casi ogni 100 mila abitanti. È un sistema che permette il conferimento al governo federale di poteri extra se il carico di lavoro supera determinati livelli e include misure come il coprifuoco notturno e limiti ai contatti sociali.

La discussione nel Bundestag e in Senato è stata molto animata. Alcuni ministri-presidenti dei Länder hanno espresso riserve. Anche qui, sia pur alla tedesca, si è sfiorata la rissa sull’orario del coprifuoco. L’introduzione del freno di emergenza non ha fatto certo piacere ai governatori dei Länder ma alla fine hanno compreso che se l’infezione continuerá a colpire nuove persone in questa modo esponenziale, anche gli efficienti ospedali tedeschi dotati del triplo delle nostre terapie intensive e del doppio del nostro personale sanitario potranno collassare. A spingere per l’introduzione di questa misura è stata la Cancelliera uscente Angela Merkel.

Intanto anche il ministro della Salute tedesco, Jens Spahn, ha annunciato una decisione che porterà sicuramente scompiglio negli altri Paesi membri dell’Unione europea. Il ministro ha confermato che la Germania potrà far cadere il sistema delle priorità sui vaccini agli inizi di giugno, e offrire la possibilità di vaccinarsi a tutti i giovani adulti.

I governatori contrari al freno di emergenza e al coprifuoco sono stati “sostenuti” a Berlino da circa 8 mila manifestanti senza mascherina, di cui 150 arrestati nel corso delle proteste anti-restrizioni. L’unico dato incoraggiante in questo marasma è l’aumento del numero delle persone vaccinate. Finora è stato vaccinato il 21,6% della popolazione con la prima dose (17,9 milioni di persone) e il 6,9% con la seconda (5,7 milioni), rende noto il Robert Koch Institut.

La campagna vaccinale, che ha sollevato molte polemiche per le lentezze iniziali, ha visto un’accelerazione da quando ad aprile sono stati coinvolti anche i medici di base: nella giornata di ieri sono state somministrate 689.042 dosi.

È diventata ufficiale anche la decisione di acquistare unilateralmente, ovvero al di là dei contratti collettivi firmati dalla Commissione di 30 milioni di dosi di Sputnik, nel caso in cui il vaccino russo riceverà l’ok dall’Ema.

Al Nord si muore il doppio che in Ue “Presto per aprire”

Mentre il Regno Unito ha dato il via alle riaperture solo dopo che la curva dei decessi di Covid ha smesso di crescere, il governo Draghi decide di riaprire quando il tasso di crescita dei morti da Covid al Nord Italia risulta essere il doppio della media europea e il più alto tra tutti i Paesi occidentali. Dai dati della Johns Hopkins University (negli Usa) nel database ourworldindata, e quelli del Gruppo di Lavoro CovidStat dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) si evince che “il numero di decessi nel Centro e Sud Italia sono in linea con la media europea, mentre il Nord Italia ne ha il doppio (2.800 invece di 1.400 per milione di abitanti) ed è sopra alla media di tutti i Paesi occidentali” dice Francesco Sylos Labini, dirigente del Centro di ricerca Enrico Fermi (Cref), che ha studiato i dati dei due database. “Nel Nord Italia c’è stata una crescita rapida a marzo 2020, poi di nuovo tra novembre e dicembre. Verso gennaio, la curva ha rallentato, ma subito dopo ha ripreso a crescere poco meno rapidamente della prima ondata” spiega.

Il tasso di crescita si mantiene più veloce del Centro-Sud e della media europea. “Il numero di positivi è ancora molto alto, quindi non è la situazione ideale per riaprire, dal punto di vista del controllo dell’epidemia” spiega Daniele Pedrini, referente del gruppo CovidStat dell’Infn. “Mi sarei aspettato che da marzo ad adesso il numero di decessi scendesse sotto i 2.000 per milione di abitanti, invece stupisce che siamo intorno a 4.000 dal primo gennaio”. Anche il tasso di contagiosità Rt non è sceso quanto servirebbe alla vigilia di una riapertura. “Siamo appena sotto 1, una situazione instabile” aggiunge. “Non ancora a valori come lo 0,2 che danno qualche certezza”.

Da cosa può dipendere questa continua impennata al Nord rispetto al Sud e al resto dei Paesi occidentali? “Nel Regno Unito hanno iniziato a vaccinare durante un lockdown stretto e un ritmo di vaccinazione molto elevato – ritiene Pedrini –. In Italia, abbiamo avuto ritardo nei vaccini, continui cambiamenti di zone rosse, arancioni e gialle. Il numero di persone positive è sempre molto alto. La decrescita c’è ma è molto lenta. Con questi numeri, il rischio che i contagi riprendano a salire dopo le riaperture è molto alto”. Sì, ma ciò che avviene al Nord, non accade nel resto d’Italia. Perché? “Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte sono tra le regioni più inquinate d’Italia. La Pianura padana è l’area più inquinata d’Europa – spiega Andrea Rapisarda, autore di uno studio apparso su Nature in merito al legame tra tassi di inquinamento e letalità del Covid –. La mortalità del virus è molto diversa da regione a regione, a parità di numero di contagiati e anche di età: il 24% dei morti è in Lombardia. A parità di età, le popolazioni di quelle regioni risultano molto più fragili. Ci sono motivi legati al clima, alla mobilità, alla densità di popolazione, ma soprattutto all’inquinamento – prosegue –. Ormai è noto: ci sono studi in Usa, Gran Bretagna, Olanda e Cina, che dimostrano come per ogni microgrammo di particolato in più per centimetro cubo d’aria, si registra una mortalità da Covid del 15% in più. L’inquinamento è una delle ragioni alla base sia della nascita della pandemia, sia della severità con cui sta colpendo il Nord Italia. Se vogliamo cambiare qualcosa, il vaccino non basta: dobbiamo inquinare di meno”. E pensare di riaprire quelle regioni non appare per niente una buona idea.