“Viva il decreto, muoia il decreto” Le mille giravolte di Matteo&C.

Stare dietro alle giravolte di Matteo Salvini e della Lega somiglia sempre più a uno sport olimpico, non foss’altro per la fatica che si fa a tenere il passo. L’ultimo capolavoro di incoerenza si è materializzato due sere fa in Consiglio dei ministri, quando i leghisti non hanno votato il decreto delle riaperture, contestando le pur poche limitazioni che resteranno in vigore.

E pensare che appena una settimana fa, quando il decreto fu preannunciato da Mario Draghi in conferenza stampa, Salvini era in estasi: “Finalmente! Ha prevalso il diffuso buonsenso”. E ancora: “Era il nostro obiettivo, si torna a vivere, a bersi un caffè non solo a mezzogiorno ma anche alle 7 di sera, a mangiare una pizza alle 8 e mezzo, a fare gli allenamenti sportivi. E con un calendario di aperture preciso ci sono delle date per piscine, palestre, cinema, matrimoni, teatri”. Insomma, con dono della sintesi: “È il ritorno alla vita”. Merito “della piccola grande Lega, contro tutto e tutti è riuscita a far tornare il buonsenso”. Anche Luca Zaia, che di Salvini è il più grande rivale interno al partito, era netto: “Ha vinto la Lega”.

Passano sette giorni e tutto cambia, d’improvviso il decreto diventa irricevibile. E Salvini cambia rotta: “La Lega chiede di dare fiducia agli italiani che hanno dimostrato per un anno pazienza e rispetto delle regole. Non potevamo votare un decreto che continua a imporre chiusure, coprifuoco, limitazioni”. Parole simili a quelle utilizzate da alcuni dei leghisti più irrequieti, come Claudio Borghi o Alberto Bagnai. Armando Siri, per esempio, ha una crociata personale contro Roberto Speranza: “La stagione dei limiti alle libertà fondamentali non può essere prorogata in eterno”. Alla prossima giravolta, si vedrà.

Scuola e coprifuoco, le Regioni in rivolta: “Il governo viola i patti”

Matteo Salvini per la prima volta si accorge cosa vuol dire avere un suo fedelissimo al vertice della Conferenza delle Regioni. Perché nel day after dello strappo in Cdm con la Lega che, per ordine del segretario, non ha votato il decreto sulle riaperture, sono i presidenti di Regione, guidati dal leghista Massimiliano Fedriga, ad aprire il nuovo fronte con il governo. L’oggetto del contendere è il testo del decreto approvato mercoledì in cui non sono state accolte le richieste dei governatori sul coprifuoco (lo volevano alle 23), sull’apertura dei locali al chiuso già da maggio (sarà possibile dall’1 giugno) e soprattutto sulle scuole. Martedì era stato trovato un compromesso su richiesta delle Regioni che non erano pronte al 100% degli studenti in presenza per carenze su trasporti e aule: rientro tra il 60% e il 100% in zona gialla e arancione, tra il 50 e il 75% in zona rossa. Ma nel testo definitivo il premier Draghi ha voluto alzare la soglia minima: in zona gialla e arancione non si potrà scendere sotto il 70% degli studenti in presenza. Un tradimento, per i governatori. Fedriga parla di “fatto gravissimo” e di “grave precedente” che “incrina la reale collaborazione tra Stato e Regioni” e poi convoca una Conferenza delle Regioni straordinaria che diventa lo sfogatoio di molti governatori tra cui il suo vice Michele Emiliano, Giovanni Toti e Luca Zaia. “Le istanze delle Regioni non sono state colte, quale turista verrà da noi?” dice il governatore Veneto. Anche Emiliano critica il governo sul coprifuoco alle 22 che “distrugge il turismo locale”.

Alla fine i governatori mandano una lettera a Draghi chiedendo un incontro urgente prima che il decreto sia pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Nella missiva si dicono “amareggiati” e chiedono di cambiare il dl su scuola, coprifuoco, matrimoni, piscine e inserendo una norma che preveda la modifica in base all’andamento dell’epidemia. La ministra degli Affari regionali Gelmini, che nel pomeriggio si ritrova con i governatori furiosi per parlare di Recovery, placare i presidenti spiegando che il coprifuoco “non durerà fino al 31 luglio” – nel decreto non c’è una data di scadenza ma fonti di governo fanno sapere che sarà rivisto già da fine maggio – e che per la scuola in presenza le Regioni “potranno prevedere deroghe” scendendo sotto il 70%. Ma, dicono da Palazzo Chigi, mai sotto il 50%: almeno uno studente su due da lunedì rientrerà in classe. Chi spera in un nuovo decreto entro metà maggio è Salvini che ieri ha continuato ad attaccare l’esecutivo di cui la Lega fa parte: “Il governo ha disatteso gli accordi e il coprifuoco non ha senso, lo dice anche il Cts – ha detto il segretario riunendo la segreteria politica – è una scelta scientificamente folle”. Ad alzare i toni dello scontro anche un battibecco su Twitter con il ministro Franceschini: Salvini lo accusava di aver messo in ginocchio la stagione dell’Arena di Verona con coprifuoco e limite di 1.000 spettatori ma il ministro gli ha spiegato che si può derogare al limite di posti su richiesta della Regione Veneto. Intanto nella Lega, dopo lo strappo in Cdm, resta il tema di come stare in un governo che, dicono i salviniani, è “in ostaggio dell’ideologia rossa”.

Nonostante la spaccatura tra Salvini e i ministri – anche se ieri i dissidi con Giorgetti, coperto da Draghi, erano già rientrati– il leader della Lega non ha intenzione di uscire dal governo, almeno per ora. Ma, su pressione dei suoi elettori e di Giorgia Meloni, vuole differenziarsi. E lo ha detto ieri in segreteria: “Pd e M5S ci vogliono fuori, ma se lo scordino, noi abbiamo fiducia in Draghi ma non voteremo decreti Covid che prevedono nuove chiusure. Non è il governo Speranza-Orlando”. Posizione condivisa da governatori e fedelissimi . Giorgetti invece predica “calma” e prova a tenere insieme le diverse anime del Carroccio. Sulla mozione di sfiducia di Fdi a Speranza, però Salvini non chiude la porta: “La leggerò e deciderò”. In serata poi apre un altro fronte sul Recovery: “Siano aggiunti al piano i progetti dei territori”. Un modo per alzare la posta. Ancora una volta.

Separiamo le carriere

Tra tutte le critiche al suo video, la più grottesca è che Grillo abbia politicizzato il processo per stupro a suo figlio. Infatti dai 5Stelle non s’è levata una sola voce in sua difesa: due o tre hanno solidarizzato sul piano umano, qualcuno ha taciuto, tutti gli altri (Conte in primis) l’hanno criticato. Come dovrebbe accadere in tutti i partiti se fossero comunità di uomini liberi e non cosche mafiose in cui, appena viene toccato il boss, tutti fanno fronte comune a prescindere. Quando qualcuno in FI, nella Lega e in Iv oserà contraddire anche timidamente il suo capo, potrà parlare di Grillo e dei 5Stelle. Nell’attesa, tacete e vergognatevi. Qui, se qualcuno sta politicizzando quel processo, è la legale della presunta vittima Giulia Bongiorno, ultima bandiera del partito trasversale degli “onorevoli avvocati” che si dividono fra le aule di giustizia e quelle parlamentari se non addirittura governative (lei, nel Conte-1, era financo ministra). Se Grillo, per i motivi appena illustrati, non è in grado di intimidire i giudici di suo figlio, non si può dire altrettanto della sen. avv. Bongiorno, responsabile Giustizia della Lega e legale di Salvini. Il quale ha subito chiesto “le dimissioni di Grillo dalle sue cariche” (quali?) e detto la sua sul processo di Tempio Pausania. Il sospetto lanciato dal M5S che sappia qualcosa di troppo è del tutto infondato: il Cazzaro Verde esterna solo quando non sa di cosa parla, altrimenti tace.

Il vero scandalo è il conflitto d’interessi dei parlamentari eletti per “rappresentare la Nazione” e poi ridotti a rappresentare tizio o caio. Lo facevano Previti, Pecorella, Ghedini, Taormina nel centrodestra, Pisapia e Calvi nel centrosinistra, spesso sedendo nelle commissioni Giustizia che riformavano o depenalizzavano i reati dei loro clienti (chissà le parcelle, dopo). I primi invocavano ispezioni ministeriali contro i magistrati dei loro processi, trasformavano in interrogazioni le istanze respinte dai giudici, usavano i loro impedimenti parlamentari per far slittare le udienze dei clienti (soprattutto uno). Taormina, sottosegretario agli Interni, andava in aula con la scorta del ministero a difendere un imputato di mafia contro cui il ministero era parte civile, ma lui almeno ebbe il buon gusto di dimettersi. Bei tempi quando i principi del foro De Nicola e Vassalli chiudevano lo studio appena assumevano pubbliche funzioni. Un giorno di fine anni 70 Scalfaro, vicepresidente della Camera, dovette sorbirsi l’interminabile catilinaria di un avvocato-deputato che spiegava come e qualmente si dovesse riformare un articolo del Codice. Alla fine, esausto, lo interruppe: “Avvocato, s’è fatto tardi: ci dica quale processo vuole sistemare, così la facciamo finita”. Altri tempi, altri stili.

Lino Guanciale urla e canta il dolore dei profughi in mare

Uno sguardo attento al mare Lino Guanciale lo rivolge da tempo. Lui che da anni è impegnato a fianco delle organizzazioni umanitarie a sostegno dei rifugiati sa bene come tra le onde si annidino storie di varia natura: sogni, tragedie, speranze… Appena la fine della prima ondata l’aveva consentito, il suo primo pensiero era stato offrire al pubblico un’apprezzata interpretazione dei Dialoghi di profughi di Bertolt Brecht.

Alle alterne fortunedel rapporto tra gli esseri umani e l’immensità delle acque, l’attore ha dedicato quindi Fuggi la terra e l’onde. Storie di mare, di porti e di speranza, da oggi in streaming su TvLoft, per l’ultimo appuntamento di Tutta scena – Il teatro in camera. “Il mare non è mai stato amico dell’uomo. Tutt’al più, da Odisseo a noi, è stato complice della sua irrequietezza”, scriveva Joseph Conrad ne Lo specchio del mare. Ecco quindi che tale rapporto diviene metafora dell’esistenza più in generale, sul sottile confine della salvezza e della disgrazia, della ricerca della felicità e dell’oblio degli abissi. “Il mare e l’avventura abitano nel nostro immaginario la stessa dimensione metaforica, confusi in un abbraccio complesso che lega insieme tanto l’ebbrezza della scoperta quanto la paura della natura e dell’ignoto”, dice Guanciale.

Nel suo monologo, “la sfida dell’esploratore, del poeta e del profugo”, con i “modi diversi di scrutare l’orizzonte e studiare il vento”, prende forma e vita nelle parole dei brani passati in rassegna. Da Conrad ad anonimi cronisti arabi, dai versi dell’Eneide virgiliana alle voci dei migranti dei giorni nostri, Fuggi la terra e l’onde illustra il comune sentire dell’animo umano, pur nella diversità dei destini e delle provenienze. L’artista è reduce da grandi successi televisivi – si veda alle voci L’allieva o Il Commissario Ricciardi – ma non smette di interrogare se stesso e il mondo. Su questo giornale si è descritto a suo modo esule e spiantato: sradicato dalla Avezzano delle origini, ma mai completamente ‘romanizzato’. Sarà anche per questo che le peregrinazioni di un’umanità variopinta, alla ricerca di un approdo da un porto all’altro, sono al centro della sua attenzione. Ogni viaggio porta con sé il germe di nuove relazioni e contaminazioni, e quindi di nuove appartenenze e identità: non vi è forse il profugo Enea alle origini della plurimillenaria storia di Roma?

Che attorno a un mare ricco di scambi come il nostro Mediterraneo viva una storia capace di travalicare le differenze e le divisioni lo hanno scritto bene i Braudel e i Matvejevic. Lino Guanciale ce ne ricorda oggi la lezione, chiudendo in bellezza la stagione di Tutta scena per TvLoft e in attesa di un altro approdo: quello a una nuova normalità post-pandemica.

Il mistero del conte Ugolino per un finale solo “dantesco”

Pubblichiamo un estratto di “Il cammin di nostra vita – Viaggio nella Divina Commedia”: a settecento anni dalla stesura del capolavoro dantesco, Luca Sommi ci accompagna dentro le sue pagine, in un percorso sorprendente. Da oggi in libreria.

La bocca sollevò dal fiero pasto / quel peccator, forbendola a’ capelli (sollevò la bocca sporca di sangue dal cranio che stava masticando e si pulì su quegli stessi capelli). Inizia così il canto forse più straziante dell’intera Commedia. A macchiarsi del fiero pasto è il conte Ugolino della Gherardesca, la sua vittima è l’arcivescovo Ruggeri degli Ubaldini. Perché tanta crudeltà? Forse perché a Pisa l’alto prelato, giocando con la fiducia del conte, lo aveva fatto incarcerare e lo aveva lasciato morire di fame in una cella con figli e nipoti (come tutti sanno). Sarebbe forse un buon motivo, ma non basta. E Ugolino lo racconta dicendo a Dante che parlar e lagrimar vedrai insieme (parlare e piangere vedrai insieme), tanto è atroce il racconto che sta per fare. Allora: siamo a Pisa, e va detto che il conte in vita tramò a favore dei guelfi, mentre l’arcivescovo parteggiava per i ghibellini. Dopo varie vicende torbide, l’alto prelato riesce a fare incarcerare Ugolino. Una volta arrestato, insieme a due figli (Gaddo e Uguccione) e a due nipoti (Nino e Anselmuccio), in una notte apparentemente come le altre, il conte fece un sogno: sognò che il Ruggieri era a capo di una spedizione di caccia con cani famelici e lui, con i suoi ragazzi (lupo e lupetti), venivano da questi raggiunti e sbranati. A causa di questo sogno, Ugolino si svegliò in preda al panico, e sentì i suoi amati “cuccioli” sognare la stessa cosa. Ma c’è di più: nel dormiveglia i ragazzi chiesero pane, avevano fame. Già eran desti, e l’ora s’appressava / che ’l cibo ne solea esser addotto, / e per suo sogno ciascun dubitava; / e io senti’ chiavar l’uscio di sotto / a l’orribile torre (traduciamo: erano già tutti svegli, si avvicinava l’ora in cui di solito veniva portato da mangiare, e tutti ne dubitavano, visto il sogno; e io sentii la porta di sotto della torre che veniva inchiodata col martello). I congiunti si guardano senza proferire parola, l’incubo si sta avverando: li stanno “seppellendo” vivi. Dopo un giorno di silenzio, Ugolino si morde le mani tanto è affranto da questa situazione, ma i suoi ragazzi pensano che lo faccia per fame e gli offrono in pasto le loro misere carni: “Padre, assai ci fia men doglia / se tu mangi di noi: tu ne vestisti / queste misere carni, e tu le spoglia” (Padre, per noi sarà meno doloroso se ci mangi, tu ci hai dato queste misere carni e tu puoi prenderle). Nessun genitore può ascoltare parole così atroci, infatti Ugolino si richiude nel silenzio. Ma al quarto giorno la situazione precipita: Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi, / dicendo: ‘Padre mio, ché non m’aiuti?’ / Quivi morì; e come tu mi vedi, / vid’io cascar li tre ad uno ad uno. Gaddo gli si getta ai piedi chiedendo aiuto, e poi muore. Tra il quinto e il sesto giorno anche gli altri tre, uno dopo l’altro, muoiono. Ugolino, accecato dal dolore, brancola al buio per giorni e gli esce la frase che arrovellerà per secoli tutta l’umanità: Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno. Fine del racconto, e Ugolino si ributta sul cranio di Ruggeri. Traduciamo in modo quasi letterale la frase di congedo, pomo della discordia: in seguito, più del dolore, poté il digiuno. Quindi? Prima interpretazione: Ugolino è morto di fame più che di dolore. Seconda: la fame è stata più forte del dolore e, come molti hanno insinuato e ancora insinuano, Ugolino le cedette e divorò i cadaveri dei figli. Nel susseguirsi dei secoli, la prima versione risulta essere quella buona, però la seconda circola ancora. Nel Novecento è intervenuto Jorge Luis Borges e ha detto forse la cosa più logica sul sospetto che Ugolino possa aver fatto ciò che neanche si può immaginare: “Dante ha voluto non che lo pensassimo, ma che lo sospettassimo. […] Così, con due possibili agonie, lo ha sognato Dante e così lo sogneranno le generazioni future”. Ergo: in letteratura tutto è possibile, anche due finali opposti.

“Oggi siamo tutti più… Feroci”

Pio e Amedeo, temete qualche telefonata?

Già ricevuta, ma era di complimenti. A meno che non fosse un imitatore di Pier Silvio. Magari oggi troviamo lo studio smontato.

La prima puntata di “Felicissima sera” ha fatto ascolti stellari. I critici snob vi applaudono. Eppure non avete fatto sconti a nessuno, dagli zingari alle mamme fino a Mattarella.

Il politicamente corretto ha rotto le palle. La pandemia ha reso più ruvida la pancia del paese, siamo tutti feroci. Per anni ci hanno proposto una tv della cosiddetta normalità, imbevuta di perbenismo, però costruita su un trash pazzesco, fuori dalla realtà. E i giovani, che sono intelligenti, si sono allontanati dal piccolo schermo. Noi abbiamo fatto scoppiare questo brufolo, lavorando sul ‘sentiment’ collettivo che percepisci per strada.

Avete sdoganato, in modo liberatorio, la cattiveria nazionale.

Non siamo americani: quello è un popolo che piange quando deve ridere e viceversa. Noi italiani invece siamo caciaroni, ma anche capaci di riflettere. E sappiamo quando esorcizzare il dolore, la paura. Siamo veri, istintivi. Basta con il cliché ipocrita del galateo sociale, la nevrosi di non offendere le categorie. Nel monologo delle tasse abbiamo ribaltato il luogo comune di quelli del Nord che schifano i meridionali. Appena scoppiati i contagi ci siamo comportati nello stesso modo, al sud.

Tra gli ospiti, avrete Aleandro Baldi…

Canterà la canzone con cui vinse a Sanremo, Passerà, ma senza l’accento finale. Con una chiusa straordinaria. Non si dice che diventi cieco se ti tocchi troppo? Chi vive un handicap non sopporta il pietismo. Io, Amedeo, ho un fratello disabile al 100 per cento. Non trova lavoro a Foggia perché le aziende preferiscono assumere persone con problemi minori, e più produttive.

Altre mazzate?

Un’invettiva comica sull’appetito sessuale delle donne, l’ossessione dell’orgasmo a ogni costo. E poi una carezza pure a Greta Thunberg: sicuro che dobbiamo prendercela con i potenti che rovinano il pianeta e non con la nostra smania di consumismo?

Avete disintegrato Emanuele Filiberto. Ma alla fine vi ha nominato Ufficiali di Casa Savoia.

Quelle onorificenze sono autentiche. Ora siamo cavalieri del Re! Però abbiamo scoperto che dobbiamo pagare una quota. Pensiamo di restituirle.

Qualcuno ha rifiutato il vostro invito?

Tanti, ma ora vorrebbero venire; devono stare al nostro gioco, non cercare promozione a buon mercato. Stasera ci sarà Totti, grande incassatore. E Baglioni, che convinceremo a ringiovanire i suoi fan, tutti vecchi con le vene varicose.

Avete pensato a Salvini?

No, perché i politici escono bene dall’attacco della satira. Se facessimo una cosa tipo Porta a Porta li chiameremmo tutti. Berlusconi seduto a sinistra con la Meloni, Letta a destra.

Dopo Arbore, Luxuria e Conte, siete il nuovo orgoglio di Foggia.

La massoneria cittadina ci alterna al potere. Ora tocca a noi, i leader del partito della pagnotta.

Scroccaste perfino l’abbellimento di un’aiuola nel vostro quartiere. Con i soldi di Belen e Iannone.

È diventato un punto iconico, da selfie. La rotonda di Belen. Finirà sulle guide turistiche.

Il vostro primo spettacolo insieme?

Vent’anni fa. Un teatrino di Foggia, cento posti. Zero spettatori casuali. Solo parenti, amici e compagni di scuola. Tutto esaurito, standing ovation.

Invece dovevate farne, di gavetta.

Mesi dopo, giorno di Pasqua. Paesino del beneventano. Dodici in sala, nessuno rideva. Il problema era che i nostri personaggi parlavano proprio come loro. Non c’era un palco, ci fecero esibire sopra un tavolaccio. Niente camerini, cambiavamo costumi in balcone. Nevicava.

Con questo show su Canale 5 avete superato il 20 per cento. Solo tre puntate o ne ipotizzate altre?

No, dobbiamo tornare sul set del nostro prossimo film. Belli ciao. Avevamo interrotto le riprese mesi fa. Il Covid aveva colpito la troupe.

Il tema è il south working, la migrazione al contrario per lavorare da casa.

È una fortuna sgobbare al pc davanti al mare di Puglia, con lo stipendio del Nord. Anche se alla lunga la gente si stancherà; Pio vive bene a Milano, mentre io, Amedeo, continuo a non fidarmi della metropoli…

Vi paragonano a Franchi e Ingrassia, ma erano due cherubini, in confronto.

Questa cosa deve finire, è da quando facevamo gli animatori nei villaggi! Intanto però ci siamo salvati i rispettivi numeri sui telefonini con i loro nomi. Amedeo come Franco, Pio è Ciccio. Hai visto mai.

Video. La gioia di Darnella, che a 17 anni ha fatto storia

“Ho pianto fortissimo. In quest’ultima ora il mio cuore batteva velocissimo, ero così in ansia, ma così in ansia che mi sembrava che arrivasse sul soffitto”. Ma sapere che è ritenuto colpevole dei tre capi d’accusa!!! GRAZIE A DIO, GRAZIE GRAZIE, GRAZIE, GRAZIE, GRAZIE. George Floyd ci siamo riusciti!”. Darnella Frazier aveva solo 17 anni quando il 25 maggio dell’anno scorso usò il suo telefono per riprendere l’agente Derek Chauvin premere il ginocchio sulla testa di George Floyd fino a soffocarlo. “Non riesco a respirare”, le ultime parole di George grazie alla Rete divennero lo slogan delle manifestazioni contro la violenza dalla polizia che da allora incendiano gli Stati Uniti. Il video è stato anche la prova chiave del processo a carico di Chauvin. Eppure, Darnella ha confessato ai giudici che quella scena ancora la tormenta e che avrebbe voluto “con tutte le sue forze fare qualcosa di più” per salvare la vita dell’uomo che riprese per ben 27 volte, in 9 minuti e 29 secondi di registrazione, chiedere al poliziotto di lasciarlo andare. “Il mondo doveva vedere ciò che stavo vedendo io. Succedono cose come questa troppe volte nell’assoluto silenzio”.

“Questa è la nostra Selma” Ma Blm si divide sul futuro

Le modalità della morte di George Floyd, la circostanza che sia stata ripresa e diventata virale, le proteste successive e il loro riconoscimento globale: la polarizzazione fra le forze di polizia e i manifestanti di Black Lives Matter istigata dalle dichiarazioni incendiarie di Donald Trump contro i primi; la crescita dell’attivismo nei mesi di preparazione del processo, l’attesa snervante, carica, di un verdetto per niente scontato malgrado le molte testimonianze e prove contro Chauvin. Il dopo è fatto di incredulità, sollievo, lacrime di chi si è battuto per la condanna, ma ora è il momento di chiedersi che fine farà l’immenso capitale politico e civile scaturito da quel tragico omicidio.

I molti gruppi di attivisti hanno ben chiaro che il triplice verdetto di condanna del poliziotto di Minneapolis è un outlier, una anomalia in un Paese dove i poliziotti violenti non vanno a processo, dove forze dell’ordine e sistema giudiziario sostengono con il conforto dei dati su arresti, detenzioni e morti in interazioni fra neri e agenti, sono sistematicamente impregnati dal pregiudizio verso i neri e dove anche questa storica sentenza è stata immediatamente strumentalizzata dalle destre come macchinazione mediatica contro il corso legittimo della giustizia. Ora ci sono molte incognite, dal quasi certo ricorso in appello dei legali di Chauvin al rischio di radicalizzazione del movimento di fronte a nuove violenze della polizia. E tuttavia, ci sono segnali positivi di un risveglio dei movimenti per i diritti razziali, tanto che Derrick Johnson, presidente della National Association for the Advancement of Colored People (Naacp) storico gruppo per la difesa dei diritti civili dei neri fin dal 1909, ha definito la condanna “la nostra Selma”, riferendosi alla violenta repressione poliziesca della marcia per i diritti civili nel 1965 a Selma, in Alabama, che fu uno dei punti di svolta del movimento. Un momento della verità che portò ad accelerare l’approvazione del Voting Rights Act che proibisce la discriminazione razziale alle elezioni.

Anche questo redivivo movimento per i diritti dei neri punta a cambiamenti legislativi, come il George Floyd Justice in Policing Act, legge di riforma delle forze dell’ordine a livello federale. La morte di Floyd ha avuto un effetto generale di sensibilizzazione, con l’approvazione in 30 stati di leggi che aumentano le verifiche sull’operato degli agenti, e 46 delle 100 maggiori città Usa hanno rivisto pratiche pericolose di coercizione fisica degli arrestati finora consentite alle forze dell’ordine. E naturalmente il fatto che il capo della polizia di Minneapolis Medaria Arradondo e alcuni colleghi abbiano preso le distanze dall’operato di Chauvin o testimoniato contro di lui allenta in parte la tensione fra agenti e comunità nera, così come il supporto pubblico della condanna da parte del Presidente Biden indica un deciso cambio di rotta rispetto alla presidenza Trump.

Ma non si può festeggiare come una vittoria una sola sentenza, un caso singolo per raddrizzare una stortura endemica. “I cambiamenti nell’uso legale della forza a livello statale e municipale sono senza precedenti” ha commentato ad Al Jazeera Ray McKesson, attivista e fondatore di Campaign Zero, campagna di contrasto alla violenza poliziesca. “Ma da soli non bastano”. La lotta contro il razzismo sistemico è molto più complicata.

“Chi protesta si pentirà”: Putin minaccia il mondo

Ai nemici: “Non valicate la linea rossa”, perché è la Russia a tracciarla tenendo conto di “ogni specifico caso”. Al mondo: dire “qualcosa di cattivo sulla Russia è ormai diventato uno sport”. Agli oppositori: quanti organizzano proteste – ma nel gergo del Cremlino si chiamano “provocazioni” –, e minacciano “interessi e sicurezza, si pentiranno delle loro azioni come non si sono mai pentiti prima”. Putin ha pronunciato ieri il suo tradizionale discorso alla nazione, sapendo bene che, insieme ai suoi cittadini, c’era “l’Occidente” ad ascoltarlo. Le sanzioni economiche che hanno recentemente colpito la Federazione sono “illegali”: sono misure che, ha chiosato il presidente, l’Ovest adotta per imporre agli altri “la sua volontà con la forza”, ma la risposta agli attacchi sarà “repentina, asimmetrica e severa”. La Russia “non vuole bruciare ponti” verso gli altri Stati: è anzi aperta “ai veri amici”, ma non bisogna mai scambiare “per debolezza le buone intenzioni” di Mosca.

Tutti gli uomini in sala per uno solo sul palco. Un migliaio di ufficiali, governatori regionali, alte cariche e legislatori hanno ascoltato il capo di Stato, intervenuto dopo una pioggia di sanzioni e misure restrittive inviate nei giorni scorsi da Washington e Unione europea, giunte insieme a una cascata di appelli e critiche per la prigionia e lo stato di salute dell’oppositore Aleksej Navalny. Il presidente ha discusso di armamenti strategici, ma anche di green: “Se fate profitti dalla natura, dopo ripulite” per rispondere alla sfida del cambiamento climatico. Con la promessa che nei prossimi 30 anni la Russia avrà meno emissioni di gas dell’intera Unione europea, ha assicurato che non si ripeteranno altre catastrofi ambientali come quella avvenuta per la pessima gestione del giacimento minerario di Norilsk. Verrà inoltre istituita una Giornata dedicata a quanti lavorano in pronto soccorso in tempi di emergenza sanitaria.

Mentre il presidente parlava di aiuti alle famiglie, importanza del vaccino e conseguenze della pandemia Covid-19 con il tricolore alle spalle, i primi 50 arresti di quelli che diventeranno almeno 400 in tutto il Paese sono stati compiuti nella Capitale. A Mosca, dove sono state fermate alle prime ore del mattino di ieri la portavoce del blogger Kira Yarmush, e l’alleata Lybov Sobol, è stata bloccata dalla polizia la centralissima strada Tverskaya e il sito indicato dal Fondo anti-corruzione di Navalny per il raduno della protesta: la piazza del Maneggio. Blindata da un cordone di divise anti-sommossa, è stata comunque raggiunta da una piccola folla che chiedeva la liberazione del dissidente. In totale almeno 6 mila persone, secondo il ministero dell’Interno russo, erano presenti alla manifestazione e tra loro c’era la moglie di Navalny, Yulia. A protestare per il blogger e la sua salute, che, dicono i suoi medici, peggiora in maniera gravissima da quando ha iniziato lo sciopero della fame il 31 marzo scorso, in strada sostenitori anche in Estremo Oriente. Poche centinaia di persone a Vladivostock, quasi 5 mila persone a Novosibirsk urlavano: “Basta zar”. A Yekaterinburg le forze dell’ordine hanno contato 5 mila manifestanti, gli uffici regionali del movimento invece 10 mila in più. A Nizhny Novgorod arrestato perfino un fisico dell’Accademia delle Scienze. Quanti sono stati dispersi dalle divise intorno alla Cattedrale di Sant’Isacco a San Pietroburgo sono riusciti a raggiungere le strade centrali della città con le luci dei telefonini rivolte al cielo in segno di solidarietà all’oppositore.

Il dopo Floyd: Biden tra diritti e lotta al crimine

Otto settimane ancora, per conoscere l’entità della pena che l’ex agente Derek Chauvin, l’assassino di George Floyd, dovrà scontare, dopo che martedì una giuria di Minneapolis l’ha ritenuto colpevole di tutti e tre i capi di imputazione. Otto settimane che il presidente Joe Biden potrà usare per cercare di fare dell’uccisione di Floyd una leva per contrastare la violenza della polizia rivolta, soprattutto, contro neri e ispanici. Biden, che fu uno dei senatori democratici più ‘Law&Order’, si batte ora perché la polizia tratti tutti i cittadini statunitensi allo stesso modo, senza pregiudizi razziali. Il verdetto di Minneapolis – dice – “può essere un momento di cambiamento significativo”, nell’affrontare il problema del razzismo sistematicamente presente nella società americana: “Non ci possiamo fermare qui”. Sul New York Times, Frank Bruni è ottimista: “Siamo sul cammino di un’America più umana”. Il reato più grave addebitato a Chauvin è omicidio colposo preterintenzionale: il 25 maggio 2020, l’agente causò la morte per soffocamento di Floyd, tenuto a terra per 8‘46” col ginocchio premuto sul collo, perché aveva cercato di comprare un pacchetto di sigarette con un biglietto da 20 dollari falso.

Una sentenza diversa poteva esasperare il clima di tensione nell’Unione. E, certo, il lavoro del presidente, una strada che Politico definisce “lunga e tortuosa”, sarà più agevole se la polizia non continuerà ad ammazzare neri in giro per l’America. Ieri, poco prima del verdetto di Minneapolis, un agente di polizia di Columbus, la capitale dell’Ohio, ha ammazzato a colpi di arma da fuoco un’adolescente nera, Makiyah Bryant, 15 anni. Makiyah viveva in una famiglia adottiva vicino a dove è stata uccisa. Quando la polizia, chiamata per una rissa, è giunta sul posto ha trovato un gruppo di persone di fronte al giardino di una casa: nel video della body cam di un agente si vede la ragazza che, brandendo un coltello, si avventa contro un’altra donna che cade all’indietro. Un poliziotto apre il fuoco e l’adolescente cade contro un’auto parcheggiata nel vialetto dietro l’abitazione, con accanto il coltello. Inutile la corsa in ospedale, dove Makiyah è giunta già cadavere. Una zia ha raccontato ai media locali che la nipote aveva litigato con qualcuno e che aveva un coltello, ma che l’avrebbe gettato prima di essere colpita. Ne è nata una protesta, poi stemperata dalla notizia della sentenza di Minneapolis.

Il verdetto è stato accolto da un’ovazione fuori dal palazzo di giustizia e da scene di esultanza ovunque nell’Unione. E la tensione s’è sciolta in applausi e in urla di gioia. La grande paura s’è presto trasformata in una grande festa, da Times Square a New York a Washington, da Chicago a Los Angeles. La giuria di Minneapolis è stata rapida nel deliberare, molto più veloce di quanto i media Usa non pensassero: in 10 ore, ha trovato l’unanimità. Invece, il giudice Peter Cahill si prende il suo tempo per deliberare la pena: deve valutare anche eventuali aggravanti, come il fatto che il soffocamento di Floyd è avvenuto davanti a una bambina. Chauvin rischia una condanna sino a 75 anni, anche se le linee guida del Minnesota raccomandano 12,5 anni per l’omicidio di secondo e terzo grado e quattro per quello colposo. L’accusa tuttavia ha chiesto una pena più severa di quella suggerita.

Intanto, il Dipartimento di Giustizia ha deciso di aprire un’indagine sulle pratiche usate dalla polizia di Minneapolis: lo ha annunciato l’attorney general degli Stati Uniti, Merrick Garland. Sotto inchiesta, l’uso eccessivo della forza e le discriminazioni, anche contro persone mentalmente disabili. Il verdetto di Minneapolis, ha sottolineato Garland, non risolve le questioni sistemiche dell’operato delle forze dell’ordine di questa come di altre città degli Stati Uniti.

Per l’Amministrazione Biden, ricostruire la fiducia tra le comunità e la polizia richiederà tempo e sforzi, ma c’è la convinzione che il cambiamento non può aspettare. Ma i Repubblicani non paiono associarsi allo sforzo dei Democratici: per loro, la ricetta sono pene più severe per chi protesta contro la brutalità degli agenti. Al Congresso la riforma della polizia è ferma: il Gop vuole più fondi agli agenti o in Senato non passerà. Gli altri tre ex agenti di pattuglia con Chauvin coinvolti nell’uccisione di Floyd, licenziati il giorno dopo la tragedia, dovranno rispondere in tribunale del reato di favoreggiamento, aggravato ora dal fatto che Chauvin è stato dichiarato colpevole di omicidio. Rischiano fino a 40 anni di carcere. Il processo a loro carico inizierà il 23 agosto. Per allora, Chauvin potrebbe già aver fatto ricorso.