Fucili e borghesia: i bastian contrari del Partito d’Azione

Eravamo troppo giovani e ignoranti, noi di Lotta Continua, per comprendere il complimento che ci rivolgeva Giorgio Bocca, quando scriveva che appartenevamo al filone culturale gobettiano e azionista. Alcuni grandi vecchi che da lì provenivano – Ferruccio Parri, Vittorio Foa, Nuto Revelli, Norberto Bobbio, Carlo Casalegno, Leo Valiani – avevano con noi un rapporto di paternale comprensione o viceversa di aspra polemica. Anche perché i loro figli militavano nel nostro movimento, suscitandone il consenso o il dispetto quando parlavano di “Resistenza tradita”.

Giovanni De Luna, all’epoca militante e storico alle prime armi, prese molto sul serio la faccenda. Decise di fare davvero i conti con la storia di Giustizia e Libertà e del Partito d’Azione. Pubblicò, esattamente quarant’anni fa, un libro meticoloso fin quasi alla pignoleria, ma proprio per questo rimasto imprescindibile, per rispondere a una domanda scomoda: come mai era precipitato nell’irrilevanza politica, fino al repentino scioglimento nel 1947, un partito che aveva riunito personalità di grandissimo rilievo, ma destinate a restare esigua minoranza nella classe dirigente italiana del dopoguerra?

Trascorsi quattro decenni dalla prima pubblicazione, lo sguardo lungo sulla vicenda narrata da De Luna consente riflessioni ulteriori: come si spiega l’eccesso di livore che ancora oggi i detrattori riversano sull’azionismo e sui suoi eredi? Quasi che si trattasse di una corrente eretica della borghesia italiana, fastidiosa per l’intransigenza con cui si oppose al fascismo e la tenacia con cui continuò a denunciare i vizi nazionali permanenti che ne avevano favorito l’ascesa al potere.

Il denominatore comune di quel crogiuolo di culture post-risorgimentali, repubblicane, liberalsocialiste riunite nel Pd’A, fu l’aspirazione a una “rivoluzione democratica”. Ne furono artefici uomini sospinti, appunto, da “volontarismo rivoluzionario” che mal concepivano la politica come “mestiere”. Non a caso, in questa riedizione, De Luna ha voluto cambiare il titolo e li definisce: “Il partito della Resistenza”. Eredi del sacrificio di Gobetti e dei fratelli Rosselli, sacrificarono nell’azione partigiana un numero elevato dei loro dirigenti: 4500 caduti su 35 mila combattenti delle formazioni GL. Ma il “partito dei fucili” non riuscirà, o forse sarebbe meglio dire non vorrà trasformarsi nel “partito delle tessere”. Alle elezioni del 1946, già lacerato al suo interno dopo la caduta del governo Parri, nemmeno arriverà al 2% dei consensi.

Forse potremmo definirlo anche il partito degli antipartito, partito d’opinione dell’attivismo civico e della democrazia “dal basso”. Al cui interno convivevano la visione neocapitalistica di La Malfa e l’adesione al modello occidentale, con un’ispirazione soprattutto torinese che riconosceva alla classe operaia (e al Pci) la funzione di architrave della lotta di Liberazione. Una spartizione di ruoli teorizzata con umiltà da Augusto Monti, l’insegnante del liceo D’Azeglio che educò molti antifascisti della prima ora: se gli operai stavano con il Pci, al Pd’A toccava il ruolo scomodo ma necessario di coscienza critica dei grandi partiti della sinistra, operando nella “gelatina” dei ceti medi. Eppure resta significativo che, in continuità con “l’affidamento gobettiano alla classe operaia”, figure importanti dell’azionismo nel dopoguerra scelgano l’impegno sindacale: da Vittorio Foa a Bruno Trentin, in ciò erede della cultura di autogoverno democratico del padre Silvio.

Ce n’è abbastanza per capire perché gli azionisti suscitino ancora tanto fastidio nella borghesia conservatrice che li vede come traditori dei suoi interessi. E perché, al contrario, il loro contributo d’azione e di visione critica della società italiana meriti grande riconoscenza.

“La transizione ecologica serve ora, il mare si alzerà di 70 metri”

La Pianura padana sarà completamente allagata, Padova, Ravenna, Venezia e tante altre città saranno interamente sommerse, mentre altre, come Roma e Firenze, sopravvivranno solo grazie a un sistema di palafitte. È l’Italia descritta da Telmo Pievani e Mauro Varotto nel libro Viaggio nell’Italia dell’Antropocene. La geografia visionaria del nostro futuro (Aboca editore, i proventi andranno al Museo Geografico di Padova), dove il filosofo della scienza e il geografo immaginano, a mille anni dal Grand Tour di Goethe, e cioè nel 2786, un viaggio – in barca – tra le rovine dell’Italia tropicale e sommersa, dove si resiste alle ondate di calore vivendo sottoterra o fuggendo sempre più in alto. Con città come Belluno e Trento trasformate in metropoli prese d’assedio.

Perché proprio il 2786?

La nostra, ovviamente, è una provocazione su quale sarà l’Italia del futuro. Lo scenario è parossistico, ma la tendenza nella quale siamo inseriti è questa. Noi immaginiamo che il mare si alzi di circa settanta metri, cosa che succederebbe in caso di fusione completa dell’Artide e dell’Antartide, lungi da venire.

Secondo lei arriverà davvero un momento in cui vivremo sottoterra, aiutati quanto più possibile dalla tecnologia?

Per quanto riguarda le temperature, sappiamo che nello scenario peggiore alla fine del secolo l’innalzamento sarà di quattro gradi. Ma si tratta di una media globale, è noto che ai poli la temperatura salirà di più così come nelle città, che rischiano di diventare bolle di calore. Calabria, Puglia e Sicilia saranno come la Libia oggi, con un clima desertico. Questo ovviamente se non facciamo nulla.

Nel libro ci sono strategie di adattamento di ogni tipo, dal cemento e asfalto che assorbono calore all’acqua degli impianti di desalinizzazione. È il fallimento delle politiche di mitigazione, quelle che impongono la riduzione delle emissioni e un cambio del nostro modo di vivere?

Sì, noi immaginiamo un grande investimento nelle politiche di adattamento, ma è chiaro che questo è sbagliato. È chiaro che ci adatteremo, ma il grande tema è a quale prezzo sociale, economico e politico lo faremo, quante sofferenze ci saranno, quante persone, specie povere e nelle fasce tropicali, dovranno abbandonare la propria terra. C’è un enorme problema di giustizia sociale.

Secondo lei un eventuale cambiamento come avverrà? Grazie alla politica, oppure dal basso, o attraverso choc come la pandemia?

Credo che il cambiamento dal basso proseguirà ma con una certa gradualità, a differenza di quello dall’alto, cioè della regolamentazione internazionale, che invece reagisce solo agli choc. La pandemia è uno di quelli, va messa nella categoria dei costi ambientali, è un prezzo che paghiamo per l’Antropocene.

Le tecnologia che ruolo avrà? Ci potrà salvare?

La tecnologia sarà importantissima, ma non può essere in nessun modo la salvezza, né tantomeno un alibi per non fare altre cose. La geoingegneria – come l’idea di bombardare le nuvole etc – non può essere la scusa per continuare a depredare la natura. Bisogna cambiare i nostri modelli economici e di consumo.

Cosa pensa del nostro ministero della Transizione ecologica?

Valuto positivamente la scelta a livello politico-istituzionale, ma bisogna ricordare che si tratta, appunto, di una transizione ecologica, non solo tecnologica. E che dunque occorre tenere conto degli equilibri ambientali, della biodiversità – l’Italia è il paese che ne è più ricco – delle riserve, dei parchi. Il Green Deal europeo è scritto molto bene, con le parole giuste, l’Italia deve fare in modo che i fondi rispettino questa guida: dobbiamo attenerci a quelle indicazioni, sia perché sono corrette sia per evitare sanzioni.

In conclusione: il vostro è un libro pessimista?

No, nonostante la sua geografia apocalittica, il libro vuole stimolare positivamente l’azione. In particolare tre sono le cose importanti: modificare il nostro paradigma energetico, creare una volontà politica condivisa a livello planetario, mettere in discussione il nostro modello di crescita, riducendo la carne, gli imballaggi, evitando sprechi. Se lo facciamo davvero tutti, ce la possiamo fare.

Per salvare il pianeta bisogna guardarlo di più dallo Spazio

“Ho visto con i miei occhi le sabbie del deserto del Sahara arrivare fino all’Europa o una grande macchia di smog coprire la Lombardia. Lo spettacolo della terra dallo spazio è ancora bellissimo, ma non stiamo facendo quello che le servirebbe”.

Paolo Nespoli è un ingegnere dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa). È il secondo astronauta italiano che è rimasto per più tempo nello spazio, quasi un anno in tre missioni diverse. “Guardare la terra dal suolo è come vedere i quadri in un museo con il naso appiccicato alla tela: per capire bisogna allontanarsi”, spiega nel giorno in cui si celebra il nostro pianeta, il 22 aprile appunto, una festa istituita nel lontano 1970 ma che oggi è diventata soprattutto una giornata di denuncia dell’emergenza climatica. E da questo punto di vista, oltre agli uomini, in orbita ci sono soprattutto i satelliti. Non solo quelli Cosmo SkyMed, italiani, in grado di scrutare la Terra dallo spazio metro per metro, di giorno e di notte, con ogni condizione meteo per aiutare a prevedere frane e alluvioni, coordinare i soccorsi in caso di terremoti o incendi, controllare dall’alto le aree di crisi (ma anche monitorare la stabilità degli edifici scolastici); ma anche quelli “sentinella” del progetto Copernicus, finanziato dall’Esa e dall’Unione europea.

Satelliti che forniscono dati e misurazioni esatte agli scienziati climatici che poi costruiscono i loro modelli, evitando missioni faticose e spesso impervie in zone ostili della terra. Umidità del suolo, temperatura del mare, spessore dei ghiacci, quantità di gas presenti nell’atmosfera: i cambiamenti della terra sono oggettivi, sottratti a ogni interpretazione soggettiva.

“Per noi ogni giorno, in un certo senso, è la festa della terra”, spiega Simona Zoffoli, fisica dell’Agenzia Spaziale Italiana, esperta di missioni di osservazioni della terra e delegata dell’Esa. “Dallo spazio riusciamo a misurare come il ghiaccio in Antartide e in Groenlandia stia perdendo massa sei volte più velocemente che negli anni Novanta, ma anche l’aumento esatto dei mari ogni anno o la concentrazione della CO2 nell’aria”. Utilizzando i dati dei satelliti, gli scienziati hanno stimato la perdita totale combinata di massa di ghiaccio attraverso Groenlandia e Antartide: 6.400 miliardi di tonnellate tra il 1992 e il 2017, mentre 9.000 miliardi sono le tonnellate perse dai ghiacciai di tutto il mondo dal 1961. E sempre grazie ai satelliti è stato possibile stabilire che il livello del mare è aumentato a livello globale di 17,8 mm durante il XX secolo e attualmente sta aumentando più del doppio a una velocità di 3,6 mm all’anno (tra il 2006 e il 2015), ma non in maniera uniforme, un dato vitale per sviluppare una risposta efficace.

“Forse bisognerebbe mandare i politici in orbita”, conclude Paolo Nespoli. “Magari smetterebbero di decidere in base alla convenienza economica ed elettorale e si convincerebbero che bisogna agire per la nostra sopravvivenza. E quella dei nostri figli”.

Tutta la verità sui vaccini

Il politically correct non deve valere quando di mezzo ci sono milioni di persone disorientate e spaventate. E quando si rischia di far fallire una campagna vaccinale ancora zoppicante, allontanando sempre più la luce in fondo al tunnel di questo incubo pandemico. Cercando di tranquillizzare con verità addolcite, provochiamo ulteriori danni. Credo che la popolazione abbia bisogno di sentirsi dire la verità, nuda e cruda, che abbia bisogno di essere compresa nel suo disagio attuale, stretta a muro tra la paura del Covid e quella di poter subire un effetto collaterale provocato da uno dei vaccini oggi disponibili. Dobbiamo, noi tecnici, non cercare di negare la fondatezza della loro paura, ma razionalizzarla. Perché dobbiamo continuare a vaccinarci con un vaccino che alcuni Paesi hanno bloccato? Perché, dopo aver letto che le trombosi che si sono verificate sono soprattutto concentrate in donne giovani, queste dovrebbero continuare a vaccinarsi a cuor leggero? Perché, ancora, una giovane dovrebbe rischiare, visto che non fa parte della fascia a rischio? Se continueremo a rispondere che tanto gli effetti indesiderati sono pochi, che sono ancora da accertare, che alcuni Paesi stanno procedendo con eccesso di precauzione, non spegneremo certo la paura e si finirà proprio per far scegliere l’apparente massima cautela nei confronti della vaccinazione. Dobbiamo dire la verità o, meglio, quella che a oggi conosciamo. I vaccini a nostra disposizione sono ancora in fase sperimentale, seppur avanzata, ma li stiamo usando, costretti dalla pressante necessità, mentre ancora cerchiamo di conoscerli meglio. La percentuale di incognite vanno via via assottigliandosi all’aumentare delle dosi iniettate, ma ancora c’è molto da studiare. È inaccettabile che EMA si limiti a dare consigli o raccomandazioni. Deve autorizzare o bloccare. Se non c’è un capo forte, durante l’emergenza, il rischio è la totale anarchia. Non lamentiamoci se la gente continua a non capire e a temere. E noi, smettiamola di giustificare questo comportamento, mostriamo, almeno noi tecnici, di avere il coraggio richiesto dal nostro ruolo.

 

Grillo, le parole e la violenza

Confesso, quel video l’ho dovuto interrompere. E ho anche una certa difficoltà a leggere i tanti articoli e commenti di questi giorni, tra le accorate difese di un padre che ha agito per proteggere disperatamente il figlio, le letture apocalittiche sulla fine del M5S o, peggio, quelle complottiste che spiegherebbero il sostegno a Draghi e al governo d’unità nazionale con quello che è, comunque lo si veda, un dramma.

Una storia che inizia una notte d’estate a Porto Cervo, e che, per rispetto di tutti i protagonisti, sarebbe dovuta rimanere il più possibile privata. E, invece, se il video di Beppe Grillo ha un pregio (l’unico) è di aver acceso, suo malgrado, il dibattito su un tema – la violenza, lo stupro presunto o tale, la vittimizzazione secondaria, il linguaggio, il #MeToo – troppo spesso relegato a questione di genere. Tant’è che persino i partiti si sono trovati, chi strumentalizzando chi meno, a doversene occupare (il che ha qualcosa di straordinario: per una volta discutono di un fatto reale, di qualcosa che nella società accade).

Non mi sconvolge tanto la brutalità del messaggio di un padre, che però è pure un politico e in quanto tale deve rispondere di quanto dice e assumersene la responsabilità. Del resto, l’Elevato si è sempre distinto, negli anni, per bassezze linguistiche tutt’altro che protofemministe. Nel 2006, in un post dal titolo “Il nuovo femminismo”, Beppe Grillo scrisse sul Blog: “Le donne non sono mai state così desiderate. Il desiderio maschile cede alla passione che poi cede allo stupro. È da animali, ma è così. La natura fa il suo corso. Accoppiamenti abusivi avvengono ovunque. Nei bagni pubblici, dietro ai cespugli, nelle carrozze dei treni in sosta. Le donne non devono stupirsi, ma coprirsi”. Un po’ di sano umorismo sessista. Era 15 anni fa. In questo tempo è cambiato il mondo, i rapporti tra i generi, c’è stato il caso DSK e il #MeToo, Trump e la marcia delle donne. Non per tutti, evidentemente.

Pierre Bourdieu ha scritto che “la violenza simbolica si esercita con la complicità di strutture cognitive che non sono consce, ma che si apprendono attraverso la maniera di comportarsi: di parlare, di gesticolare, di guardare a seconda dei sessi e dei ceti sociali. Nella maggior parte delle società, si insegna alle donne ad abbassare gli occhi quando sono guardate, per esempio. Dunque, attraverso questi apprendimenti corporei, vengono insegnate delle strutture, delle opposizioni tra l’alto e il basso, tra il diritto e il curvo”. In altri termini, attraverso il linguaggio, si inculcano delle categorie di percezione, di apprezzamento, di valutazione. Ecco perché siamo qui a discutere del video di Beppe Grillo. Non perché io voglia entrare su una dolorosa vicenda privata, che prima ancora di un padre, coinvolge una ragazza e quattro ragazzi. Né, tantomeno, perché smani per partecipare a quel tiro al piattello tra innocentisti e colpevolisti a cui il nostro Paese è solito giocare specie quando di mezzo c’è una donna e, magari, un uomo famoso. Ma perché le parole hanno un potere. A maggior ragione se usate in una storia di violenza, per quanto presunta. Le parole offrono sempre un linguaggio condiviso. Ma da chi e per chi, in questo caso?

Il sottotesto – nemmeno troppo sotto – del linguaggio di Beppe Grillo è: la ragazza “è una furbetta”. Perché, cito testuale, “non è vero niente”. Perché “è andata a fare kitesurf il pomeriggio”. Perché “dopo 8 giorni fa la denuncia”. Perché era lì, “consenziente”, che si divertiva anche lei in “un gruppo che ride”, perché “si vede che sono ragazzi di 19 anni che si stanno divertendo, che sono in mutande e saltellano con il pisello perché sono 4 coglioni, non 4 stupratori”. Io non so come siano andati i fatti quella notte. Non c’ero – come non c’era Beppe Grillo – e non ho visto, a differenza sua, il video girato quella notte. Non ho letto i messaggi, non ho guardato i post Instagram. E, aggiungo, non ho figli. Non so se la ragazza stia millantando o, come spesso succede nei casi di violenza, abbia visto riaffiorare piano piano, giorni dopo, quello che il suo inconscio aveva subito rimosso. Per tutto questo, c’è la magistratura che, anche a garanzia degli accusati, è bene ricordarlo, sta concludendo le indagini. Ma così come esiste la presunzione di innocenza per gli accusati (anche se si chiamano Grillo) e il loro diritto a difendersi, esiste anche il diritto della vittima – tale è, fino a prova contraria – a non essere offesa. Umiliata. Colpevolizzata. Beppe Grillo, se è convinto dell’innocenza del figlio, non poteva come tutti i normali cittadini aspettare la fine delle indagini, l’esito di un eventuale processo e, poi, se la magistratura darà ragione a lui e a suo figlio, sporgere eventuale querela contro la ragazza? Nell’attesa però, si dirà, il figlio viene completamente sputtanato. Mai, mi permetto di replicare, come dopo il videomessaggio del padre.

“Credere alla donne – ha ricordato coraggiosamente la scrittrice e femminista Susan Faludi proprio in un’intervista al Fatto, qualche mese fa – non significa credere a tutte le donne: questo non è e non può essere l’hashtag del #MeToo”. Perché, come sempre, il pericolo sta nell’intransigenza. Nel difendere “senza se e senza ma”. Ed è importante “per il futuro del movimento – Faludi aggiungeva – che, di fronte ad accuse di violenze sessuali, non ci siano condanne per partito preso: non tutti gli uomini sono stupratori e non tutte le donne sono la bocca della verità”. Ecco. È vero questo, come è vero ovviamente il suo contrario: per partito preso, non tutti gli uomini sono solo coglioni e non tutte le donne sono solo bugiarde.

Quando qualche anno fa uscì il libro Io ho un nome che negli Stati Uniti diventò un caso letterario, Chanel Miller – che oltre a essere l’autrice era anche la vittima di uno stupro a una festa a Stanford, anche se per anni, per molti anni, l’aveva rimosso – scrisse una potente lettera aperta. “C’era una stupida festa a dieci minuti da casa, ci vado, avrei ballato come una matta. (…) Ho fatto facce buffe, abbassato la guardia e bevuto alcolici troppo in fretta, senza tenere conto del fatto che la mia tolleranza si era decisamente abbassata dai tempi dell’università. La cosa successiva che ricordo è di essere in un corridoio. (…) E tutto in me fu ridotto al silenzio. (…) Un anno dopo l’evento lui ha ricordato: oh sì, a proposito, lei in realtà ha detto di sì a tutto. Ha detto, lui, di avermi chiesto se volessi ballare. A quanto pare ho detto di sì. Ha chiesto se volessi andare nella sua camera, io ho detto di sì. Poi ha chiesto se potesse farmi un ditalino e io ho detto di sì. La maggior parte dei ragazzi non chiede ‘posso farti un ditalino?’ Di solito c’è una naturale progressione delle cose, che si sviluppa consensualmente, non una domanda e una risposta. Ma, a quanto pare, ho dato massima disponibilità. Lui è a posto. Nella sua storia io ho detto solo tre parole in tutto, sì sì sì. Nota per il futuro: se non riesci a capire se una ragazza può dare il suo consenso, vedi se riesce a dire un’intera frase. Se non riesce a farlo, allora è no. Non forse. No e basta”.

 

Milano, la sosta gratis è il contentino di Sala agli automobilisti

C’è una sola metropoli in Europa dove il parcheggio delle auto è gratis in tutti gli spazi, anche in quelli segnati con strisce blu, che – prima della pandemia – indicavano le aree della sosta a pagamento. Questa città è Milano. In molte metropoli europee, nei periodi di lockdown, ci sono state sospensioni della sosta a pagamento e delle aree a traffico limitato. Non a Londra che, malgrado le chiusure pesanti per il Covid, non ha mai sospeso neppure la congestion charge, la tariffa per i veicoli che entrano in città (una versione molto più ampia e cara – 15 sterline – della milanese Area C).

Oggi tutte le città hanno ripreso le Ztl e ricominciato a far pagare la sosta. Tutte, tranne Milano. Anzi no, c’è un’eccezione: la sosta è restata gratis anche a Budapest, per imposizione del premier Viktor Orban contro il volere del sindaco della capitale ungherese. A Milano, la sospensione della sosta a pagamento è stata decisa con un’ordinanza del primo cittadino Giuseppe Sala, a tutt’oggi mai revocata. Anche i non residenti possono sostare gratis dentro le strisce blu.

Contenti gli automobilisti, che possono risparmiare i soldi della sosta. Scontenti gli ambientalisti come Paolo Hutter, che per primo ha segnalato l’unicità di Milano in Italia e in Europa (in cattiva compagnia con Budapest) nella sosta gratis e ha protestato contro una misura che incentiva l’uso delle auto private in città e toglie alle casse del Comune ben 24 milioni di euro l’anno, sottratti a impieghi utili per i cittadini: “Nella prima fase dei provvedimenti anti-Covid la sosta era stata resa gratuita in più città, ma poi tutte hanno ripreso le regole normali, perché non vedevano motivo di rinunciare a uno strumento minimo di regolazione e a un introito dovuto ed essenziale. Tutte tranne una”. Non Roma, città dal territorio estesissimo; non Torino, per tradizione città dell’auto; non, al Sud, Napoli o Palermo; non Genova né Venezia Mestre, “amministrate”, commenta Hutter, “da sindaci di quel centrodestra che cavalca le proteste contro ogni tariffa o ecotassa”. L’unica è la Milano in cui il sindaco Sala annuncia l’adesione ai Verdi europei e promette la “transizione ecologica”.

Ha protestato anche Gabriele Mariani, che si propone come candidato sindaco alternativo a Sala (per Milano in Comune e Lista Civica AmbientaLista): “Le strisce blu ancora gratis sono un danno per la città”, sostiene. “Pagare la sosta vuol dire contribuire al potenziamento del trasporto pubblico e a una maggiore sicurezza per chi lo utilizza. I 24 milioni di euro generati ogni anno dalla sosta a pagamento sono risorse che dovrebbero essere dedicate al trasporto pubblico locale: più corse, autobus ecologici, agevolazioni o gratuità per le fasce di utenza più colpite dalla crisi economica. Strano che un sindaco che si dice verde non ci pensi”.

Ma siamo in campagna elettorale, seppur ancora senza uno sfidante del centrodestra: l’ex sindaco Gabriele Albertini non ha ancora accettato l’invito a candidarsi ricevuto da Matteo Salvini, da Forza Italia e da Fratelli d’Italia. Mobilità, sosta e piste ciclabili saranno temi importanti nella sfida e il voto degli automobilisti peserà. La sosta gratis serve dunque a dare un contentino agli automobilisti, già irritati per le nuove piste ciclabili che hanno ridotto l’ampiezza di molte strade cittadine (a partire da corso Buenos Aires) e aumentato il traffico e le code. Certo è più facile incentivare l’uso delle auto private piuttosto che rafforzare i mezzi pubblici per impedire i sovraffollamenti su tram, autobus e metrò. Ma non far pagare la sosta è campagna elettorale a spese dei cittadini.

 

Bidone Superlega, le regole del calcio non davano scampo

L’annuncio del tramonto della “Superlega Europea” calcistica, di cui avrebbero fatto parte 12 società tra cui le italiane Juventus, Inter e Milan con Andrea Agnelli vicepresidente e con Florentino Perez (Real Madrid) presidente, non può esimere, specie per coloro che amano il calcio, dalla conoscenza del quadro giuridico in cui si collocano iniziative del genere (quest’ultima di Perez e di Agnelli era stata subito bollata dai media come il “Calcio per Ricchi”), e delle gravissime conseguenze che da essa sarebbero derivate in ordine ai rapporti con le rappresentanze ufficiali e le organizzazioni dello sport non solo in Italia ma, attraverso l’Uefa e la Fifa (Federation International de Football Associations), in Europa e in tutto il mondo. Per quanto riguarda l’Italia, la situazione è la seguente:

1) il Coni (Comitato Olimpico Nazionale Italiano) è la Confederazione delle Federazioni sportive nazionali, associazioni senza fini di lucro con personalità giuridica di diritto privato le quali svolgono l’attività sportiva in armonia con le deliberazioni e gli indirizzi del Cio (Comitato Olimpico Internazionale), nonchè del Coni e sotto la sua vigilanza; il Coni riconosce – una sola per ciascuno sport – le Federazioni sportive nazionali a condizione che siano affiliate ad una Federazione internazionale riconosciuta dal Cio (artt. 1, 2, 20 e 21 dello Statuto) ;

2) l’Uefa (Union of European Associazions), riconosciuta dal Cio, è l’organo di governo del calcio europeo che raggruppa le 55 Federazioni calcistiche d’Europa, organizzando tutte le manifestazioni calcistiche del Continente (Champions League, Europa League, Europa Conference League, Supercoppa Uefa , Uefa Youth League);

3) la F.I.G.C. (Federazione Italiana Giuoco Calcio), associazione riconosciuta con personalità giuridica di diritto privato federata al Coni, è l’unica federazione sportiva riconosciuta dal Coni, dalla Fifa e dall’Uefa, di cui è tenuta a rispettare gli Statuti, i regolamenti, le direttive ed le decisioni (artt. 1, 2 dello Statuto);

4) le società che si avvalgono di giocatori professionisti e che disputano i campionati nazionali formano una o più associazioni, che devono assumere la denominazione di “Lega” e alle quali la F.I.G.C. demanda l’ effettuazione dell’attività agonistica mediante i campionati delle diverse categorie, a norma dell’art. 9 dello Statuto (da noi: Lega Nazionale di Serie A ).

Come si vede, in base agli ordinamenti calcistici nazionali e internazionali non esisteva alcuna possibilità di costituire, nel loro ambito, ulteriori formazioni associative tipo Superlega. Invero, il principale ostacolo derivava dal fatto che essa si poneva dichiaratamente come una sovrastruttura di èlite, ristretta ad un limitato numero di squadre privilegiate, chiusa istituzionalmente all’accesso delle società considerate di rango inferiore, oggettivamente connotata da una sorta di “discriminazione sociale” che lo Statuto della F.I.G.C. bandisce espressamente (art. 2 comma 5 ) e che lo Statuto del Coni condanna come fonte di “esclusione e disuguaglianza” (art. 2 comma 4) . Tutto ciò senza contare il conflitto di interessi cui avrebbe dato luogo la contemporanea partecipazione delle tre società alla Federcalcio e alla nuova compagine associativa con relativa, insanabile incompatibilità. Uefa, Federcalcio inglese, Premier League, Federcalcio Spagnola, Liga, F.I.G.C., Lega di Serie A, Fifa e federazioni loro affiliate, avrebbero fermato “questo cinico progetto che si fonda sull’interesse di pochi club in un momento in cui la società ha più che mai bisogno di solidarietà… poiché il calcio si basa su competizioni aperte e meriti sportivi”. Al coro dei No si erano uniti il capo dello Stato francese Macron, Boris Johnson, Mario Draghi, Enrico Letta, Matteo Salvini e molti altri leaders europei, e schiere di tifosi, a dimostrazione di quanto fosse diffuso il sentimento di avversione alla Superlega, condiviso in Germania anche da grandi club come il Borussia Dortmund e il Bayer Monaco. Questa unanime bocciatura dovrebbe ammonire tutti che l’Europa non vuole Superleghe né per il presente, né per il futuro.

Così Grillo ha sbagliato, ma Salvini e B. stiano zitti

Grillo ha sbagliato. Con tutta evidenza. Tu non puoi pretendere perché sei popolare e potente che tuo figlio abbia davanti alla Magistratura un trattamento diverso da quello che tocca, o dovrebbe toccare, a qualsiasi altro cittadino. L’atteggiamento di Grillo è particolarmente grave per l’esponente di un movimento, i 5Stelle, che aveva fatto del principio “la legge è uguale per tutti” (il grido “onestà, onestà” in fondo significava questo) un suo vessillo e per il teorico dell’“uno vale uno”. Quando tocca a lui, uno non vale più uno. Siamo alle solite.

Ma trovo altrettanto ripugnante, maramaldesco e vile infierire su un padre comunque sofferente solo a fini di strumentalizzazione politica come han fatto Alessandro Sallusti, Maurizio Belpietro, Matteo Salvini, Maria Elena Boschi, Debora Serracchiani, Alessia Rota e tutta la fairy band dei politici o dei loro servi. Salvini è stato il primo ad aprire le danze, eppure proprio lui dovrebbe essere sensibile all’argomento perché fu attaccato in modo pesante e del tutto sproporzionato per una molto più innocente bagattella del suo figlio ragazzino che si era messo in sella a una moto della polizia che il padre comandava (chi al suo posto non l’avrebbe fatto?). Ma chiedere una sensibilità umana a Salvini è come pretendere da un vampiro di astenersi davanti a un secchio di sangue. Più scoperta e anche peggiore è la posizione dei Sallusti e dei Belpietro che scoprono ora, improvvisamente, il diritto all’indipendenza della magistratura dopo averla attaccata in tutti i modi negli ultimi vent’anni a beneficio del loro padrone, Silvio Berlusconi.

Io non ho mai amato i linciaggi. Ho sempre pensato che chi lincia si mette allo stesso livello di colui che viene linciato o ne è addirittura un gradino sotto. È mia abitudine schierarmi dalla parte del perdente. Quando Bettino Craxi cadde nel fango e improvvisati fiocinatori, e fra loro c’era anche chi, come Claudio Martelli, gli doveva tutto, si accanivano sulla balena ferita a morte (o il cinghialone, per dirla col Feltri di allora, forcaiolo quanti altri mai prima di diventare garantista a uso berlusconiano), io che a Craxi non dovevo niente se non degli insulti molto pesanti (“un giornalista ignobile che scrive cose ignobili”, da New York nientemeno) scrissi sull’Indipendente un editoriale in cui difendevo ciò che di Craxi si poteva ancora difendere: “Vi racconto il lato buono di Bettino” (L’Indipendente, 17 dicembre 1992). Per lo stesso motivo ho trovato inutilmente maramaldesco quel “risalga a bordo, cazzo!” che Gregorio De Falco indirizzò al comandante della Costa Concordia, pur sapendo benissimo che Schettino era ormai totalmente fuori gioco. È grazie a quel “risalga a bordo, cazzo!” dove il core sta proprio nella parola “cazzo” che vuol dire che lui il De Falco, che mai aveva solcato il mare, aveva gli attributi e Schettino no, che lo stesso De Falco diventerà, acquisita questa fama del tutto immeritata, senatore per i 5Stelle che tradirà nel giro di pochissimi mesi (incrocio di coincidenze).

Io non sto col vincente di giornata, preferisco il perdente (“Potevo barattare la mia chitarra e il suo elmo con una scatola di legno che dicesse perderemo”, Amico fragile, De André). Ma questa parte di Don Chisciotte della Mancha, che mi è costata moltissimo sul piano professionale, sociale e alla fine anche esistenziale, mi ha stufato. Perché è inutile sempre, ma è più che mai inutile in un Paese come l’Italia dove, come canta Gaber nel suo album Io non mi sento italiano, “si discute di tutto ma non cambia mai niente” o, per usare Tomasi di Lampedusa, si fa che tutto cambi perché nulla cambi.

“Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono” canta un Gaber deluso, amareggiato, disincantato (sul significato di questa canzone ho scritto un articolo che, a Marco Travaglio piacendo, verrà pubblicato penso intorno all’anno 2050). Nemmeno io mi sento italiano, ma per fortuna non lo sono. Sono a metà russo e più invecchio più mi sento russo. Noi russi, parlo del popolo va da sé, abbiamo enormi difetti, siamo tutto e il contrario di tutto, ma ci manca per lo meno il cinismo roman-andreottiano. Che è la cifra dell’inguardabile Italia di oggi.

 

Caro Massimo, uomo di poca fede, l’articolo su Gaber uscirà venerdì o sabato, ma non ti dico di quale settimana, mese e anno.

(M. Trav.)

 

Il razzismo nella comicità è fermo all’analisi del periodo coloniale

La gag di Striscia con Gerry Scotti e Michelle Hunziker che facevano la caricatura dei cinesi è stata accusata di razzismo anche da Diet Prada, uno degli account di moda più temuti su Instagram: quando criticò come razzisti tre spot pubblicitari di Dolce & Gabbana (shorturl.at/bkquN), seguirono boicottaggi in Cina, scuse goffe di Dolce & Gabbana (shorturl.at/syH29), e una denuncia per diffamazione di questi a Diet Prada. Il testo con cui Diet Prada accompagna la foto della gag di Scotti e Hunziker (shorturl.at/fpBHT) riassume la gag e la biografia dei conduttori, ai quali dà atto di aver difeso i diritti femminili e LGBTQ; e ricorda la discriminazione subita dalla comunità cinese in Italia durante la prima ondata di Coronavirus. (Negli Usa, dove Trump chiamava il Coronavirus “China virus”, l’uccisione di sei donne asiatiche che lavoravano in alcune spa di Atlanta, un anno fa, fu attribuito al crescente razzismo anti-cinese post-Covid: ne nacque il movimento mondiale di protesta #stopasianhate. Il clima di paura è ben espresso da una recente copertina del New Yorker: shorturl.at/anEIO. Questo contesto rende la gag di Striscia intollerabile per gli osservatori stranieri.). Fra le repliche sbagliate all’accusa di razzismo va inclusa quella dell’Ufficio stampa di Striscia (“Striscia non chiede scusa perché è, e resterà, una trasmissione satirica e, come le trasmissione satiriche e comiche di tutto il mondo, politicamente scorretta. Scorretta, ma non quanto le iniziative pretestuose di chi pensa di ricattare aziende e marchi internazionali.”): il razzismo non c’entra col politicamente corretto; neppure la satira ha libertà di razzismo; e replicare col tu quoque è una classica fallacia induttiva (cfr. Ncdc 4 settembre).

In Italia, il discorso sul razzismo nella comicità e nella satira è fermo all’analisi del periodo coloniale, ma andrebbe aggiornato, se non altro per rendere meno frequenti gli episodi di razzismo involontario, che i razzisti volontari sono ben felici di utilizzare per la loro propaganda tossica. Perpetuare uno stereotipo non contrasta lo stereotipo, e incoraggia chi lo condivide. Penso alle polemiche inadeguate che accompagnarono il trailer del film Tolo Tolo (shorturl.at/gwG12) realizzato da Luca Medici. Chi ne parlò, sia dicendo “il trailer non fa ridere perché è razzista”, sia dicendo che “il trailer fa ridere e non è razzista”, commise il medesimo errore, che purtroppo è frequente: confondere la tecnica della gag, che fa scattare la risata, con il contenuto della gag, che puoi non condividere affatto. La risata, quando provocata a dovere da certi grilletti, scatta come un riflesso. Il giudizio sul suo contenuto viene subito dopo, se siamo persone che si interrogano sugli avvenimenti. Quando il contenuto è per noi intollerabile, giudichiamo negativamente la risata, tanto da spegnerla all’istante, con disappunto. Un contenuto ci è intollerabile in almeno tre casi:

1) Il contenuto attacca un nostro pregiudizio. Ottimo, su questo si fonda la funzione liberatoria della satira: demolire quei pregiudizi (psicologici, sociali, religiosi, politici &c.) che ci chiudono al rapporto con l’altro facendocelo considerare inferiore a noi, in quanto “altro da noi”. Sono pregiudizi razzisti, nella accezione estesa che ne dava Pasolini (anche il maschilismo è una forma di razzismo: razzismo contro le donne). Se una gag sfotte un nostro pregiudizio, lì per lì non ne ridiamo; ma col tempo, magari, capiamo che quella gag aveva ragione, e che eravamo stupidi a pensarla in quel modo. (Per contro: quando una gag vellica un nostro pregiudizio, ridiamo contentissimi, come i fascisti agli sfottò su Anna Frank.)

(3. Continua)

 

Mail Box

 

 

Adesso Conte acceleri sulla rifondazione M5S

Sono d’accordo con il direttore sulla questione Grillo. Ma non possiamo comunque ignorare che il Garante 5S si è messo in una posizione politicamente scomoda che va ad aggravare una situazione già precaria del Movimento 5 Stelle. Non sarebbe il caso che Conte acceleri con la trasformazione del Movimento sfilandosi da Rousseau e dal Garante stesso, cambiando anche il nome per una nuova formazione politica in dialogo col Pd?

Roberto Giagnorio

 

I lettori si dividono dopo il video di Grillo

Ancora una volta Travaglio mette ordine dopo una giornata di schifezze dette dai giornaloni e dai civetti sui comò. Tutti, senza sapere i fatti, hanno giudicato il figlio di Grillo colpevole di stupro. Tutti parlavano come persone informate sui fatti. Tutti hanno descritto la tanto attesa discesa in campo risolutiva e definitiva del presidente Conte. Conoscevo lo squallore di molti commentatori, ma la giornata di ieri ne ha svelati di nuovi e di tutti ci ha fatto conoscere il livello vero di meschinità e scorrettezza. Tutti sono stati messi a nudo. Io credo che tutti loro sono talmente costretti a inveire sul M5S che non si preoccupano minimamente della figuraccia di merda che faranno se un giudice non deciderà il rinvio a giudizio. Nessuno ha detto una parola sulla rabbia che ha causato quella reazione. Io non escludo che molti, vedendo il livello di rabbia di Beppe, si stiano augurando il peggio.

Biagio Stante

 

Grillo si è sfogato in malo modo e lo ha fatto in maniera irrispettosa nei riguardi della presunta vittima e della sua famiglia (che a differenza sua ha mantenuto il giusto riserbo in attesa che la magistratura faccia il suo corso!) e al di sopra delle regole che dovrebbe conoscere meglio degli altri. Lasci stare i paragoni con gli altri e gli attacchi dei suoi avversari (ovviamente immancabili). Qui si deve valutare la sua esternazione di padre ancor prima di uomo pubblico: a me essa pare deplorevole del tipo “io so’ Grillo e dico quello che voglio” e a me questo non va giù perché credo che anche nel dolore ci debba essere dignità e rispetto, il resto è solo sciacallaggio!

Raffaele Fabbrocino

 

Caro Travaglio, complimenti per l’editoriale riguardante l’affaire Grillo. Chissà se il ministro della Giustizia invierà gli ispettori per verificare le cause del ritardo del processo (leggi inadeguate, sovraccarico di lavoro, burocrazia, ingerenze politiche…). Mi dispiace molto per le ragazze e i ragazzi coinvolti in questa storia più grande di loro… con i soliti sciacalli politici/giornalisti che approfittano della situazione. Mi chiedo se scuse pubbliche e un risarcimento danni (per far ritirare la denuncia), avrebbero chiuso questa storia molto prima…

Claudio Trevisan

 

La differenza tra fatti e propaganda sul Covid

Leggendo i vari pareri e guardando i dati dei morti del mio paese, circa 2800 abitanti, è emerso che nei cinque anni precedenti la pandemia, la media dei morti annuali era di 30 persone. Nel 2020 sono morte 60 persone, il doppio. La correlazione fra morti e Covid è evidente. Ma anche fra i fatti (Conte) e la propaganda (Draghi) c’è correlazione. E dopo che Conte ha sudato le cosiddette sette camicie per far andare le cose in meglio, soprattutto sotto il piano della giustizia, adesso che le figurine al governo sono le solite dei precedenti anni da cicale, c’è correlazione sul fatto che arrivano pochi vaccini? E che appena aprono la bocca fanno disastri?

Claudio Molaschi

 

Anche nelle parrocchie si potrebbe vaccinare

Per la loro capillare presenza e conoscenza sul territorio e in quanto dotate di spazi, le parrocchie potrebbero aiutare a creare centri di vaccinazione. Il mio parroco ne sarebbe entusiasta.

G. Martini

 

Cinema, c’è un problema di ricambio degli attori

Uno dei più grandi problemi del Cinema attuale è la “sospensione del ricambio generazionale”… La grande generazione degli “attori mito” è purtroppo ormai giunta al capolinea, per motivi anagrafici e biologici. Interpreti come J. Nicholson e R. Redford si sono ritirati dalle scene mentre R. De Niro e A. Pacino, pur continuando a lavorare, fra qualche anno inevitabilmente smetteranno. E dopo di loro? Chi ci sarà dopo di loro? Purtroppo non si intravedono all’orizzonte attori di tale grandezza… e questo per il cinema è un problema enorme…

Marco Scarponi

 

Complimenti al “Fatto” per Ferro e Dell’Arti

Leggo tutti i giorni il Fatto che trovo sempre molto interessante. Nel numero di martedì ho letto (e riletto) due articoli secondo me addirittura superlativi: l’articolo di Tiziano Ferro sul Maestro Battiato e il pezzo di Giorgio Dell’Arti su Beethoven. Un modo molto bello di parlare di Musica. Bravi, continuate così.

Luigi Roselli