Beppe e il figlio “È bene separare la vicenda umana dal MoVimento”

La vicenda familiare che sta travolgendo Grillo colpisce tutti noi attivisti e rischia di essere usata dagli avversari politici per attaccare e indebolire in modo strumentale il M5S. In questo momento così delicato, riteniamo sia necessario considerare separatamente la vicenda umana e giudiziaria del fondatore e garante del MoVimento dalle sorti del MoVimento stesso, che in questo periodo sta vivendo una fase di profonda trasformazione ed evoluzione, lasciando che la giustizia faccia il proprio corso. Gli iscritti, gli attivisti e tutti quelli che si riconoscono nella base del Movimento, vivono ormai da mesi una situazione conflittuale in cui i vertici non comunicano con la base, i portavoce eletti in Parlamento sotto il simbolo del M5S confliggono tra loro su questioni incomprensibili, mentre tutta la nazione è in stato di difficoltà, con 15 milioni di poveri in arrivo, cittadini senza la prospettiva futura di un’occupazione dignitosa e duratura. Questa lettera aperta vuole essere un’esortazione a serrare le fila, a riflettere sul fatto che la situazione conflittuale non potrà che portare alla disgregazione del MoVimento.

Chiediamo, a chi si è allontanato dal MoVimento e dai suoi principi, di abbandonare ogni posizione personalistica e di riprendere le fila di un rapporto che stava iniziando a produrre buoni frutti per l’intero Paese. Chiediamo che ci si muova rapidamente nel completare il nostro processo evolutivo, in modo che sia chiaro qual è l’intendimento, la bussola del M5S e la visione di società che si vuole costruire nell’immediato futuro.

Chiediamo che si mantenga l’impegno di vigilare a tutti i livelli affinché siano difese le conquiste ottenute dal M5S: il reddito di cittadinanza, il taglio dei vitalizi, il mantenimento del super bonus al 110%, la difesa dell’ergastolo ostativo, la contrarietà ai condoni, la risoluzione della questione Autostrade.

Chiediamo di continuare a utilizzare e sviluppare la piattaforma Rousseau, perché nel corso degli anni essa, grazie al contributo degli attivisti, ha dimostrato di essere patrimonio del MoVimento, un esercizio costante di democrazia diretta, un ecosistema non rigenerabile che andrebbe irrimediabilmente perso.

Auspichiamo che il documento collettivo prodotto da tutti gli attivisti per gli Stati Generali possa essere attuato nell’ambito del processo evolutivo del MoVimento.

Infine, esortiamo coloro che si devono parlare affinché lo facciano, con umiltà, e lo facciano presto.

Miriam Mirolla, Massimo Maria Ferranti, Fulvio Iovino, Paolo Nugnes, Alessandra Faedda, Iolanda Mercuri, Carmine Molinaro, Francesco Pisano,

Stefania Pancioni, Daniela Diomedi, Morris Vincent Ifarajimi, Carla Novelli, Giuseppe Cifinelli, Marco Romano

(Attivisti del MoVimento 5 Stelle e iscritti sulla piattaforma Rousseau)

Quel drenaggio di soldi pubblici verso tasche private

Sapere che stiamo indebitando fino al collo le generazioni dei nostri figli e nipoti (anche) per coprire d’oro i Signori delle Grandi Mostre italiane suscita pensieri che sarebbe meglio non avere.

È un mondo opaco, basato sull’intreccio tra sottobosco politico, giornali, imprenditori, avventurieri, riciclati di ogni tipo: un mondo abituato a vivere alle spalle del patrimonio storico e artistico della nazione socializzando le perdite (rischi enormi per le opere spostate vorticosamente; schiavitù dei lavoratori; pessimo livello culturale del ‘prodotto’) e privatizzando gli utili. Un continuo drenaggio di soldi pubblici verso tasche private, che dura ormai da trent’anni: da quando l’allargamento della (pessima) legge Ronchey da parte del governo Dini stabilì che anche le mostre andassero in concessione ai privati, espiantandole dalla cultura e trapiantandole nell’avanspettacolo.

E mentre non pochi segnali facevano intuire che questa stagione dissennata stesse finalmente iniziando a mostrare la corda, ecco che il Covid piomba sui Signori delle Mostre come una manna dal cielo. Salvo che la manna cadeva su tutto il popolo: qua, invece, a chi ha sarà dato, e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha – per rimanere al linguaggio biblico.

Una estrema ingiustizia, e la forte sensazione che questa sconcertante pioggia di immeritato denaro serva a sanare tutto tranne ciò che dovrebbe: non i danni del Covid, ma quelli di gestioni inadeguate e incapaci.

Dato il caos generale in cui è sprofondato questo ingovernato Paese, si potrebbe perfino far finta di non vedere: se solo questi soldi finissero anche ai lavoratori precari. Una pletora di schiavi iperqualificati che vengono sfruttati da decenni come nelle piantagioni di cotone dell’Alabama: e che ora non sanno letteralmente come sopravvivere. Del resto, i fantasmi non mangiano.

Se in Parlamento esistesse uno straccio non dico di sinistra, ma almeno di decenza, questi fondi perduti andrebbero vincolati rigorosamente alla stabile assunzione di tutti coloro che hanno costruito quella Tebe dalle sette porte che è l’impero delle Grandi Mostre. Ma vorrebbe dire che ne potremmo perfino uscire migliori: e sembra davvero troppo, da credere.

E la vita di Berlusconi diventa una mostra “immersiva” a Milano

Il “Piano B” era quello di Cosa Nostra, che nel 1993 scelse il nuovo partito di Silvio Berlusconi, Forza Italia, dopo aver provato a varare un partito proprio, federando il suo movimento, Sicilia Libera, con le varie Leghe del Sud sbocciate nei primi anni Novanta del Novecento. Ma ora “Piano B” diventa una “mostra immersiva” che ha l’intenzione di raccontare un pezzo di storia italiana, dal 1956 al 1993, attraverso la biografia del Berlusconi imprenditore. Immagini, voci, musiche immergeranno il visitatore nell’avventura di un uomo che parte dal mondo del mattone, passa per le televisioni, attraversa la grande distribuzione, tocca i trionfi nel calcio.

A promuoverla è il Gruppo MilanoCard, che la promette per il prossimo autunno. “Prima di essere l’uomo politico che tutti conosciamo, condividendone o meno le posizioni, Berlusconi è stato un imprenditore capace con le sue intuizioni di cambiare il volto dell’Italia”, dicono gli organizzatori. “Ecco perché vogliamo riproporre la narrazione di questa epica berlusconiana, con tutti i suoi successi e anche le sue contraddizioni. Il Berlusconi imprenditore non ha costruito solo grandi aziende per sé, ma ha cambiato lo stile di vita degli italiani. Ha accelerato la modernizzazione del Paese in modo anche dirompente, ha introdotto linguaggi e visioni nuove grazie alla leva potente della televisione”.

Chissà se la narrazione “immersiva” ci spiegherà le misteriose società svizzere che finanziarono le sue prime imprese edilizie, se ci farà ascoltare le registrazioni in cui confessava ai colleghi imprenditori di girare gli uffici pubblici a caccia di autorizzazioni “con l’assegno in bocca”, se ci spiegherà finalmente il ruolo di Vittorio Mangano, il boss siciliano installato ad Arcore, se ci delizierà con i fidi ottenuti senza garanzie da banchieri fratelli di loggia (la P2), se ci documenterà gli accordi con Bettino Craxi per poter controllare tre reti tv nazionali alla faccia dei “pretori d’assalto”, fino a ottenere la legge Mammì, costruita su misura delle sue antenne.

Chissà come sarà la sezione dedicata ai suoi più fedeli collaboratori, da Cesare Previti che tenne a battesimo la Fininvest, a Marcello Dell’Utri che fece grande Publitalia, la sua concessionaria di pubblicità: entrambi sfortunatamente finiti in tribunale, condannati per corruzione e per mafia.

“La mostra non vuole dare un giudizio storico sul personaggio Berlusconi, ma riproporre un pezzo di storia che è storia collettiva, nei suoi lati positivi e in quelli negativi. L’avventura imprenditoriale di Berlusconi è frutto di tante intuizioni in anticipo sui tempi, ma ha anche le caratteristiche di un sogno che ci ha riguardato e spesso affascinato tutti”. Così spiegano per iscritto gli organizzatori, che si dicono per il momento indisponibili a rispondere alle domande e alle curiosità del Fatto. MilanoCard è un gruppo fondato da un giovanissimo Edoardo Scarpellini, che nel 2009 lancia la prima tourist card per la città di Milano, che sul modello di esperienze simili nelle altre grandi città del mondo offre ai turisti trasporti, servizi e ingressi ai musei. Nel 2015 vende i biglietti dell’Expo, poi comincia a gestire luoghi culturali e monumentali, come la suggestiva Cripta di San Sepolcro, e a organizzare mostre (Bill Viola, Leonardo, Marina Abramovic a Milano e a Napoli). Nel 2017, in collaborazione con la berlusconiana Medusa Film, organizza proiezioni volanti (Cinema Bianchini, Cinema sui tetti, Cinema in battello sui Navigli). Dal 2018, con AffariItaliani.it, produce il quotidiano online 10alle5. Sta lanciando Quotidiana, una rete di edicole per rilanciare i chioschi dopo la crisi della carta stampata.

Con “Piano B” s’incammina su un terreno che lambisce necessariamente la politica, benché proclami di volerne restare fuori. Ma come è possibile, trattandosi di Berlusconi?

Franceschini dà 130mila euro per beatificare Craxi

La riabilitazione è iniziata ufficialmente l’anno scorso, nel ventesimo dalla morte da esule o latitante ad Hammamet. Ma per fare beato Bettino Craxi si continua a lavorare, pure a spese dello Stato: la Fondazione che porta il suo nome, guidata da Margherita Boniver, beneficia della ridistribuzione del 5xmille per gli enti di volontariato e pure del 5xmille destinato a quelli di ricerca e divulgazione scientifica.

Ma la parte del leone la fanno i soldi erogati dal ministero di Dario Franceschini che si moltiplicano come i pani e i pesci: la dazione prevista a favore dell’ente riconosciuto pure come Istituto culturale, passerà da 50mila a 130mila euro all’anno – con un balzo del 160 per cento – per il prossimo triennio fino al 2023. Giusto il tempo per festeggiare alla grande il trentennale del discorso che il “Cinghialone” (copyright di Vittorio Feltri) pronunciò a sua difesa il 29 aprile 1993 alla Camera, chiamata quel giorno a decidere se dare via libera ai magistrati di Milano che chiedevano di procedere nei suoi confronti. Il resto è storia: la Camera, autoassolvendosi, respinse quattro delle sei autorizzazioni richieste. Con un voto che scatenò l’indignazione generale e la piazza segnando la fine della Prima Repubblica seppellita dal lancio di monetine il giorno dopo contro Craxi di fronte all’hotel Raphael, sua dimora romana.

Anche se il 2023 è lontano, si è quasi già avverata la profezia di chi ci ha visto lungo, come per esempio Basilio Rizzo pilastro della sinistra milanese: perdonare Bettino, magari intitolandogli una strada o una piazza, per perdonare domani Roberto Formigoni. Che infatti pur ai domiciliari rivendica come medaglie le sue imprese e soprattutto è baldanzoso ora che il Senato gli ha ridato il vitalizio nonostante la condanna che ha sul groppone. Tra qualche giorno, proprio il 29 aprile di quel fatidico discorso con la sua chiamata in correità degli altri partiti nella morsa di Tangentopoli, la Fondazione Craxi ha in programma un evento speciale: la promozione in anteprima del libro di Filippo Facci sulle monetine del Raphael dal titolo 30 aprile 1993. L’ultimo giorno di una Repubblica e la fine della politica (Marsilio).

Ne discuteranno la figlia del leader socialista Stefania, Vittorio Feltri (da tempo pentitosi per la storia del Cinghialone), Giuliano Ferrara, Fabio Martini, Fabrizio Rondolino, Piero Sansonetti e Sergio Staino. Formigoni non ci sarà, anche se presente in spirito. Per la Fondazione Craxi, lo sfregio del Raphael è “il simbolo di un’epoca, il palcoscenico del feroce debutto dell’antipolitica che segnerà la vita pubblica nei decenni a seguire. Nessuno raccontò la violenza dell’aggressione, della denigrazione, dello scherno, dell’uccisione del nome di un uomo”. Santo subito.

Italia Viva, binario morto: Matteo fa affari mentre il partito si svuota

Il primo ad aprire la breccia era stato, un mese fa, il senatore lombardo Eugenio Comincini che aveva deciso di tornare nel Pd per la linea “confusa” e “sospesa” di Italia Viva dopo la formazione del governo Draghi. Da quel momento è iniziata la diaspora di molti renziani sui territori che hanno preso atto del fallimento del partito nato nel settembre 2019 con l’obiettivo di copiare il modello di En Marche! di Emmanuel Macron in Francia e svuotare il Pd come Oltralpe è successo con il Partito Socialista. Così in diverse zone d’Italia, dalla Lombardia alla Calabria, passando per Liguria e Campania, dirigenti e amministratori locali stanno lasciando Matteo Renzi. E il disimpegno del senatore di Scandicci dalla politica – tra il nuovo libro in uscita il 20 maggio, le società di consulenza e i viaggi da conferenziere all’estero – non sta aiutando. Un problema, si dice nelle chat di deputati e senatori, perché in ottobre ci sono le Comunali e le Regionali in Calabria “senza una strategia precisa”.

L’ultimo caso è quello di Patrizia Baffi, consigliera regionale in Lombardia, passata dai dem a Iv e amica del governatore leghista Attilio Fontana. Nell’ultimo anno è sempre stata vicina alla destra in consiglio regionale tant’è che aveva votato, unica dell’opposizione, contro la sfiducia a Fontana. Durante la presentazione con i colonnelli di Giorgia Meloni in Lombardia – Daniela Santanchè e Ignazio La Russa – ha motivato così la sua scelta: “Sono una renziana di ferro, ma il futuro è con Meloni”.

Prima di lei negli ultimi giorni anche in altre parti d’Italia ci sono stati degli addii. A inizio aprile in Calabria ben 11 dirigenti del partito hanno deciso di lasciare in polemica con la linea politica di Renzi e della sua longa manus in Calabria, il senatore Ernesto Magorno, di strizzare l’occhio al governatore leghista Nino Spirlì in vista delle regionali di autunno con l’ipotesi, più che concreta, di fare un’alleanza con la destra. A molti renziani calabresi non è andato giù nemmeno l’intergruppo parlamentare con Forza Italia e Lega a favore dello Stretto di Messina. Così hanno lasciato 11 esponenti di peso tra cui Stefania Coviello della Direzione Nazionale, i 4 coordinatori provinciali Lidia Chiriatti (Reggio Calabria) Salvatore Giorno (Cosenza), Maria Salvia (Vibo Valentia) e Caterina Sirianni (Catanzaro), oltre a consiglieri comunali e dirigenti dell’Assemblea nazionale di Italia Viva.

Stesso discorso in Campania, situazione paradossale perché qui alle regionali di settembre Renzi poteva rivendicare il risultato più alto di tutta Italia con il 7,3%. Il gruppo consiliare a Napoli una settimana dopo le elezioni si è sciolto dopo l’addio dei tre consiglieri Manuela Mirra, Gabriele Mundo e Carmine Sgambati e adesso in tutta la Regione i renziani della prima ora iniziano ad andarsene: c’è il renzianissimo Tommaso Ederoclite oggi passato nello staff di Antonio Bassolino, la deputata Michela Rostan oggi nel Misto e almeno 4 consiglieri municipali di Napoli che, come ha raccontato Il Mattino, sono pronti a lasciare dopo la scelta di candidare Gennaro Migliore a sindaco di Napoli senza alcun coinvolgimento sul territorio.

Nelle ultime settimane poi c’erano stati gli abbandoni della capogruppo di IV a Sarzana Beatrice Casini e della consigliera comunale a Palermo Giusy Russa ma il problema sono soprattutto i coordinamenti provinciali: sarebbero dovuti essere il motore di Italia Viva e invece oggi sono spesso rappresentati da un solo membro, il coordinatore stesso. Nei gruppi parlamentari non va meglio. Al Senato sono sempre in bilico Leonardo Grimani e Mauro Marino che vorrebbe rientrare nel Pd (ma i dem torinesi non lo vogliono) e alla Camera il più critico è Camillo D’Alessandro che chiede un congresso e attacca il capo: “Non possiamo allearci con la destra – dice – formare il centro non risolve il problema politico: dobbiamo stare nel centrosinistra”. E intanto nel ventre dei gruppi parlamentari l’irritazione per le notizie sul conferenziere Renzi e per il distacco da deputati e senatori aumenta: “Ormai Matteo pensa solo agli affari” conclude amaro un senatore di Italia Viva.

Renzi va all’incasso: altro incarico alla corte di Mbs

Matteo Renzi è sempre più lontano dalla politica. La transizione da personaggio pubblico a uomo d’affari procede spedita. L’ultimo passo sarebbe l’approvazione di una norma che renda incompatibile la funzione di senatore della Repubblica con quella di imprenditore privato retribuito da autorità statali straniere. Se e quando sarà introdotta questa incompatibilità, Renzi lascerà la politica senza troppi rimpianti. A precisa domanda, dagli ambienti renziani si risponde con una sonora risata e un “vedremo…” che lascia pochi dubbi al riguardo.

D’altra parte le cronache raccontano che Italia Viva continua a sgonfiarsi nei sondaggi (ancora più vicini al 2%), ma le attività del suo fondatore sono sempre più floride. A Pasqua – come anticipato da Domani – Renzi è tornato sul luogo del delitto: l’Arabia Saudita di Mohammad bin Salman. Fu una conferenza a Riyad a gennaio al cospetto del principe – considerato dalla comunità internazionale il responsabile dell’omicidio del giornalista Khashoggi – ad accendere un riflettore sui suoi affari. Ora si scopre che al ruolo nel board del Future Investment Institute gestito dal fondo sovrano saudita va sommato un altro incarico tra le istituzioni del regno: il leader di Italia Viva fa parte anche dell’advisory board della Royal Commission, l’organismo che si occupa di AlUla, uno dei siti turistici più importanti dell’Arabia Saudita, al centro di un ambizioso progetto di pianificazione urbanistica (rigorosamente green e “sostenibile”, secondo i promotori).

Insomma Renzi siede in un’altra ricchissima istituzione del Golfo. Se il ruolo all’interno del Fii gli vale un gettone da 80mila dollari l’anno, i dettagli di questo ulteriore incarico non sono noti: i nomi di Renzi e degli altri consiglieri non sono pubblicati sul sito della Royal Commission e il senatore di Italia Viva non ha intenzione di far sapere il suo compenso (bisognerà aspettare la dichiarazione dei redditi).

Di sicuro le strade che lo portano in Arabia sono più di quelle che lo portano a Roma: l’ex premier era uno dei pochi privilegiati che l’8 aprile sono stati invitati al concerto di Andrea Bocelli, organizzato da his highness Bin Salman per promuovere il progetto di AlUla.

Nella Capitale, se non altro, Renzi ha appena aperto la sua nuova società di consulenza Ma.Re. Consulting Srl. La sede è in un palazzo nobiliare della famiglia Torlonia, dove l’ex premier ha trasferito anche la sua residenza privata (notizia della Verità). A parte i trascurabili insuccessi politici, la vita gli va a gonfie vele.

I decreti Recovery sono 2: uno ad hoc per i temi “green”

Una riunione era convocata per stamattina, ma Mario Draghi ha deciso di accelerare: già che ieri pomeriggio erano tutti a Palazzo Chigi per il Cdm, perché rimandare? E così i ministri interessati e il premier hanno discusso anche dei decreti che accompagneranno il Piano nazionale di ripresa e resilienza per garantirne l’efficacia: decreti perché i testi saranno due, uno generale in arrivo tra 7-10 giorni, il secondo che riguarderà solo i temi legati alla transizione ecologica atteso per metà maggio. Questo è almeno il calendario sperato a Palazzo Chigi: sarà il segnale che il governo rispetta i tempi del Recovery sia a Bruxelles che in Italia (tanto più che alcuni delle misure dei decreti sono chieste proprio dall’Ue).

I testi sono segreti come d’uso nel nuovo esecutivo, ma i contenuti si preannunciano vasti come il ben noto programma di De Gaulle: bisognerà intanto disegnare la governance del Piano, che sarà politica alla presidenza del Consiglio e tecnica al Tesoro, e predisporre tutte quelle regole che – a parere dei proponenti – consentiranno senza fallo all’Italia di spendere i 191 miliardi e dispari ottenuti dall’Unione nei tempi previsti (sei anni). Una sorta di decreto “Fate presto” che non dispiacerà a quegli inguaribili velocisti dei nostri industriali.

Tutti i ministeri, come detto, stanno lavorando per inserire in questi due treni legislativi le misure che ritengono necessarie per l’avvio e la realizzazione del Pnrr. Tra quelle più attese – e controverse al momento – c’è quella che garantirà l’assunzione delle migliaia di dirigenti necessari a tutti i livelli della Pubblica amministrazione: come Il Fatto ha già scritto, una prima bozza di qualche tempo fa rendeva possibile a tutti gli enti l’assunzione triennale a chiamata diretta fuori da ogni vincolo, ivi compreso quello di cercare all’interno del settore pubblico professionalità adeguate (i cosiddetti “interpelli”). Procedura che si presta a più di una critica, ma non a quella di essere farraginosa.

La gran parte degli interventi di entrambi i decreti sarà comunque di semplificazione. Uno degli obiettivi individuati dai ministeri è, ad esempio, tagliare in modo cospicuo i tempi del permitting (iter autorizzativi) in connessione alle gare d’appalto (settore che, par di capire, sarà semplificato in lungo e in largo). E ancora: nel secondo decreto, quello “ecologico”, sempre con l’intento futurista di velocizzare, troverà spazio un intervento su una vera e propria ossessione di Confindustria, cioè la commissione Via, Valutazione di impatto ambientale, accusata di frenare gli spiriti animali del capitalismo italiano.

Il tema era già oggetto di dibattito/scontro nel governo Conte-2: creare una commissione o una sottocommissione ad hoc, magari portandola fuori dal ministero dell’Ambiente, per occuparsi solo dei progetti del Pnrr. Il dibattito/scontro è andato avanti anche nel governo Draghi e la soluzione dovrebbe essere all’ingrosso questa: la commissione Via ad hoc sarà quella già varata, ma senza aver tempo di nominarla, dall’ex ministro Sergio Costa per il Pniec (il Piano energia e clima), peraltro confluito tutto nel Pnrr; i passaggi tecnici non dovrebbero essere tagliati, ma accorciati dando tempi limite, probabilmente prevedendo il silenzio assenso. Finché non ci saranno i testi, non si può dire molto: il diavolo, com’è noto, è nei dettagli.

Pnrr, riforme in cambio di soldi: i nostri ritardi e “il caso Spagna”

Il braccio di ferro tra i Paesi e la Commissione europea nella stesura dei Recovery Plan durerà senz’altro oltre la scadenza del 30 aprile, quando i piani dovranno essere inviati a Bruxelles. Al centro dei negoziati non ci sono solo i progetti e le risorse – incardinati in una complessa e a tratti astrusa griglia di norme e tempi scadenzati – ma l’ossatura stessa, per così dire, che accompagna i documenti, nello specifico le “riforme” chieste dalla Commissione. Il tema è dirimente, tanto più che ostacoli formali non ce ne sono più dopo che ieri la Corte costituzionale tedesca ha respinto i ricorsi contro la ratifica del Piano europeo.

Chi ha seguito i negoziati conferma che il tema delle riforme è stato posto dai funzionari europei fin dall’inizio e fin dall’inizio ha creato molti attriti. Non è un mistero che il Recovery Fund, al netto del suo (modesto) impatto economico aiuti Bruxelles a condizionare le politiche economiche dei Paesi nel prossimo quinquennio. Da qui le “riforme”, spesso invise per i loro costi sociali.

I segnali sono eloquenti. Nei giorni scorsi Palazzo Chigi ha smentito la Reuters che parlava di un ritardo nell’elaborazione del Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) che deve spendere i fondi europei, la cui consegna sarebbe slittata a metà maggio per la mancanza di dettagli sulla governance e “la sostanza di alcune delle riforme delineate, incluso quella del sistema giudiziario”. Il premier Draghi vuole “accelerare”, viene fatto filtrare, ma alcuni punti non sono effettivamente stati delineati, compresi i costi (ieri, per dire, l’Ufficio parlamentare di bilancio ha spiegato che le riforme “collegate” al Def non hanno coperture). Un tema secondario per il governo, non per la Commissione secondo meglio far slittare la consegna di un paio di settimane per dettagliare meglio il piano.

Se in Italia si procede al buio, una buona approssimazione di quel che sta accadendo è il dibattito in corso in Spagna. Madrid ha dovuto far slittare di un mese la consegna del suo Piano (che impegna 140 miliardi, di cui 70 di sussidi) dopo un lungo braccio di ferro con Bruxelles che lamentava l’assenza di alcune riforme rilevanti: lavoro, pensioni e fisco.

Secondo El Paìs, Bruxelles ha chiesto modifiche al sistema fiscale (alzando l’Iva), alla legislazione del lavoro in tema di disoccupazione e ha considerato i piani pensionistici – frutto di una difficile mediazione tra Pse e Podemos – “poco ambiziosi”. Lo stallo è durato oltre un mese e alla fine si è chiuso con una “pausa negoziale”: ieri il premier Pedro Sanchez ha presentato le linee guida del piano che per ora esclude queste riforme. Il governo spagnolo vuole giustamente discuterle con le parti sociali e Bruxelles ha accettato di sospendere la richiesta, ma non significa che non tornerà a insistere sul punto. Anche i Paesi nordici hanno ricevuto richieste di correzione. Alla Germania è stato contestato di non aver inserito una riforma delle pensioni, così come ai Paesi Bassi (oltre alla revisione delle norme che li rendono un paradiso fiscale), ma è con gli Stati più indebitati e in crisi (e che quindi ricevono più fondi in forma di sussidi) che la pressione può funzionare.

L’arma negoziale in mano alla Commissione sono le risorse. Non a caso la Spagna ha deciso di usare solo una parte dei prestiti del Recovery per evitare di aumentare il tasso di condizionalità. Nel suo piano, l’Italia prevede alcuni evergreeen: dalla riforma della Pubblica amministrazione alla giustizia civile, al fisco per finire a una revisione dei sussidi dannosi per l’ambiente (Sad). Le regole del Recovery and Resilience Facility, il cuore del piano europeo, prevedono di dettagliare riforme che accompagnino progetti e missioni dei piani nazionali in linea con le “Raccomandazioni per Paese” stilate dalla Commissione. Per l’Italia prevedono un po’ di tutto, oltre alla solita riduzione del debito contenendo la spesa pubblica: su alcune, dal lavoro alle pensioni, ci siamo portati avanti da soli (legge Fornero, Jobs act, etc.) in ossequio alla famosa lettera della Bce dell’estate 2011.

Il tema è dirimente. I regolamenti prevedono di poter sospendere l’erogazione delle risorse in caso di violazione delle regole fiscali europee: per ora sono sospese fino al 2023, ma la pressione dei Paesi del Nord per ripristinarle tout court non sono cessate. Nei giorni scorsi, in una raccomandazione all’Ocse che doveva stilare un rapporto sull’economia spagnola, la Germania ha chiesto di avviare subito un piano di tagli di spesa per ridurre il debito pubblico (che è al 120% del Pil e ci resterà a lungo).

Con la cultura non si mangia (e zero pensione)

Le sale chiuse e i concerti rimandati non sono l’unico problema dello spettacolo dal vivo. Finora per la pandemia il settore dello spettacolo ha ricevuto circa 927 milioni dal Mibact (esclusi i fondi a cinema e musei), tra contributi Fus in deroga, extra Fus e sostegni, ma il blocco quasi totale delle attività ha acceso i riflettori sulle criticità di un settore che alla lente si presenta discontinuo e scarsamente tutelato. Lo certifica un rapporto della commissione Cultura della Camera, approvato ieri. L’indagine, di cui è relatrice la capogruppo M5S Alessandra Carbonaro, è stata condotta tra il 2019 e il 2020 e sistematizza statistiche note, pareri di sindacati e associazioni per concludere che il welfare del settore è, di fatto, inefficiente.

Con un problema di fondo, ovvero la difficoltà di quantificare gli appartenenti al settore. Il lavoro dello spettacolo è per natura intermittente, ha forme variegate e spesso si affianca ad altri lavori. Così, se sono 330 mila i soggetti ad aver versato nel 2019 almeno una giornata contributiva al Fondo pensione per lavoratori dello spettacolo (ex Enpals), l’Inps segnala che molti non superano 10 giornate annue: lavoratori occasionali o amatoriali. L’Istat invece, basandosi su codici di attività e sul registro sul costo del lavoro Racli, stima la cifra più contenuta di 192 mila professionisti (l’1,4 per cento del totale dei lavoratori italiani), di cui 142 mila attivi al 2017. Il dato comprende sia un 32% di amministrativi e manager, ma appare al ribasso. Il Racli, infatti, conta solo i dipendenti del privato, escludendo realtà come la Rai (che ha 13 mila dipendenti), alcune fondazioni lirico-sinfoniche o enti teatrali.

Le analisi convergono quando si parla di retribuzione. Quella media stimata dall’Inps è di 10.600 euro, l’Istat calcola una mediana di poco più di 4.000 euro, con 194 giornate l’anno. Entrambi gli istituti riportano che la maggior parte dei contratti dello spettacolo non supera le 80-90 giornate all’anno. Chi resta fermo a questa soglia ne risente in termini di accesso al welfare di settore, visto che i requisiti minimi per maturare un’annualità contributiva per la pensione è fissata a 120 giornate e quella per l’indennità di malattia a 100. Quanto alla Naspi, ritenuta mediamente efficace, si propone di estenderla al 9% di lavoratori autonomi e ai co.co.co. (che nello spettacolo non hanno la Diss-coll perché non iscritti alla gestione separata). Probabilmente, chi totalizza poche giornate e pochi redditi nel settore ha magari un altro lavoro e altre casse da cui trarre tutele e ammortizzatori.

Dall’indagine emergono anche i frequenti periodi di inattività. Il documento della commissione Cultura fa propri i dati del sondaggio della Fondazione Di Vittorio, per cui quasi l’80% degli intervistati ha conosciuto almeno un mese di inattività (il 40% tra 1 e tre). È in parte fisiologico: tra una performance e l’altra si studia o ci si esercita, ma non si viene retribuiti né si maturano contributi. È su questo punto che fanno leva le proposte avanzate da più sigle e addetti di settore, che si richiamano al modello francese dell’intermittenza. C’è poi un dato macroscopico: il fondo pensione dello spettacolo è costantemente in attivo. Tanti versano contributi e pochi ricevono prestazioni. Nel 2017 l’avanzo patrimoniale è stato di 4,8 miliardi, quattro volte le entrate annuali. L’Inps scrive che l’andamento “documenta oggettivamente” la necessità di una riforma. Questo, spiega l’istituto, può favorire l’emersione del lavoro nero “fondato sulla convinzione che, per le attuali regole, l’assicurazione pensionistica obbligatoria non produca alcun ritorno in termini di prestazioni, limitandosi a costituire esclusivamente un onere finanziario”. “Quello che emerge dall’indagine è che occorre intervenire al più presto sui requisiti dell’indennità di malattia e della pensione, estendere la Naspi e introdurre una tutela per i periodi di discontinuità”, sintetizza Carbonaro. La deputata M5S è co-firmataria con la pd Chiara Gribaudo di una proposta di legge che ritocca la Naspi e introduce una “Tutela professionisti discontinui dello spettacolo”, con obbligo di formazione continua. Tra Camera e Senato i progetti depositati sono otto, da quello del dem Orfini alla leghista Borgonzoni. Ma la palla sembra stare dalle parti del Mibact. La settimana scorsa, il ministro Dario Franceschini ha annunciato una legge delega che le riassuma tutte (c’è un collegato apposito al dl Bilancio). Al Mibact reputano l’impresa fattibile perché tutte le proposte andrebbero nella stessa direzione. Una bozza dovrebbe arrivare a maggio.

I ristori ai soliti signori delle grandi mostre

Dal Maestro delle storie di Isacco ad Assisi, forse un giovane Giotto, sino a Van Dijck e Jouvenet, la vicenda biblica di Giacobbe che carpisce con l’astuzia la benedizione del padre Isacco destinata invece per diritto al primogenito Esau è un topos che per secoli ha tenuto banco nella pittura. Nessuno ha mai dedicato al tema un’esposizione antologica, ma da qualche mese la discussione sulla furbizia infuria nel settore delle mostre. Il ministero della Cultura retto da Dario Franceschini, che gestisce 4,24 miliardi di aiuti pubblici per l’emergenza Covid, già dall’anno scorso ha versato decine di milioni alle società organizzatrici di eventi saltati a causa della pandemia. Una manna dal cielo per un comparto che come altri ha visto crollare i ricavi. Ma c’è chi sostiene che alcuni avrebbero ricevuto quella benedizione senza averne titolo.

In Italia nessuno ha dati precisi sul mondo delle mostre. Manca un registro degli eventi, non si conoscono numero degli spettatori né giro d’affari complessivo. L’unica fonte parziale sono le statistiche Siae, che però mischiano mostre e fiere, come il Salone del Mobile di Milano. Secondo i dati preliminari, nel 2020 gli eventi sono calati a 27.913, quasi 50mila in meno rispetto al 2019 (-64%) con appena 5,8 milioni di ingressi (20 milioni in meno, -78%), per un incasso al botteghino crollata a 46 milioni da 196 milioni (-77%).

A fronte di questo disastro, i contributi a fondo perduto per il ristoro di mostre d’arte cancellate annullate o rinviate valgono sinora 71,4 milioni. Una boccata d’ossigeno la cui suddivisione ha deciso i sommersi e i salvati tra gli operatori del settore. La ripartizione, gestita tramite 7 decreti ministeriali, non è stata calcolata sulle perdite di bilancio subìte dagli operatori (quando sono stati distribuiti i primi sostegni non erano ancora disponibili i rendiconti 2020) ma in base ad autodichiarazioni sulla differenza in corso d’anno tra i fatturati 2020 e 2019. L’attività delle mostre però varia di anno in anno con risultati incerti, perché nulla assicura il successo di un evento. Così sono stati risarciti incassi presunti da parametri precedenti. Inoltre gli operatori hanno ottenuto anche altri sostegni, come la cassa integrazione per i dipendenti.

La direzione Musei del Mibact con i suoi decreti ha stabilito che potevano fare domanda gli operatori “che abbiano subito un calo di fatturato per la cancellazione, l’annullamento o il rinvio, a causa dell’emergenza Covid, di almeno una mostra d’arte in Italia o all’estero in calendario tra il 23 febbraio e il 30 settembre 2020”. Erano ammessi ai contributi i soggetti la cui “attività prevalente sia l’organizzazione di mostre d’arte” e le imprese di logistica, trasporto e allestimento che dalle mostre d’arte avessero ricevuto oltre il 50% del fatturato. Tra i requisiti c’erano l’assenza di procedure fallimentari, la regolarità contabile contributiva e fiscale e la possibilità di contrattare con la Pubblica amministrazione. Gli aiuti per legge non sono tassabili come reddito e dunque entrano tutti nelle componenti positive dell’utile netto.

Una buona fetta dei sostegni agli organizzatori di mostre, oltre 65 milioni, sono stati già erogati tra il 2019 e il marzo scorso. La fetta maggiore è andata a pochissime imprese: i primi 8 gruppi (su 38) hanno ricevuto l’85% della somma, oltre 39 milioni sui 50,1 destinati alla categoria. Anche tra i gruppi dei servizi i primi 6 beneficiari (su 19) hanno ricevuto quasi l’83% del sostegno al segmento: 12,7 milioni su 15,3. Ma a scatenare le polemiche è stato soprattutto il fatto che la parte del leone nella suddivisione degli aiuti è andata alle imprese collegate a due editori, Electa della Mondadori e 24Ore Cultura del Sole. Questi due operatori da soli si sono portati a casa quasi il 40% di tutti i sostegni alla filiera, poco meno di 20 milioni su 50,1. Electa primeggia nella classifica dei beneficiari: da sola ha ricevuto il 30% dei fondi agli organizzatori di mostre, 15,1 milioni su 50,1, dei quali 10,9 versati già nel 2020. 24Ore Cultura lo scorso anno ha ricevuto aiuti per 3,52 milioni e altri 1,24 a marzo, il 9,5% del settore. Contributi detassati che hanno sostenuto i bilanci consolidati 2020 dei relativi gruppi editoriali quotati.

Secondo il bilancio, Mondadori Electa nel 2019 ha realizzato 60,2 milioni di ricavi e 8 milioni di utile. L’organizzazione delle mostre valeva 3,2 milioni, i proventi da biglietteria 20,8: in totale 24 milioni, il 40% dei ricavi. La vendita di libri ha generato incassi per 28,84 milioni, il 48% del totale. I ricavi vari “pesavano” per il 2,8%, mentre quelli da gestione museale 5,23 milioni, il 9%. Un operatore del settore che chiede l’anonimato si domanda “come abbia fatto Electa a dichiarare quale attività primaria l’organizzazione di mostre. Dalle visure risulta che l’attività prevalente indicata è la “gestione di luoghi e monumenti storici e attrazioni simili” ed “edizione di libri”. Eppure hanno già ottenuto aiuti pari a oltre il 60% dei ricavi da eventi realizzati nel 2019”. Il tema del concetto di attività prevalente è dibattuto, tuttavia i pareri legali convergono sul fatto che a dirimerne l’attribuzione non sia il codice Ateco aziendale, dunque la forma, ma la sostanza ovvero la fonte predominante dei ricavi.

Quanto a 24Ore Cultura Srl, nel bilancio al 31 dicembre 2019 segnava ricavi per 12,21 milioni e un utile di 808mila euro. I ricavi dai biglietti delle mostre erano pari a 5,79 milioni, il 47% del totale. Servizi e sponsorizzazioni, vendite di libri e altri prodotti, cointeressenze, gestione del parcheggio del museo Mudec generavano ricavi per 6,42 milioni, il restante 53%. “Eppure 24Ore Cultura ha già ottenuti aiuti per 4,76 milioni, l’82% dei suoi ricavi del segmento del 2019”, sottolinea la fonte.

Tra i maggiori beneficiari compaiono poi diverse società del gruppo Arthemisia di Iole Siena che hanno ottenuto aiuti totali per 9,1 milioni, il 18,2% del settore, Mondo Mostre con 4,1 milioni, l’Associazione Civita con 2,6 e Metamorfosi di Pietro Folena per quasi un milione. “Se si guarda all’attività prevalente Mondo Mostre, Civita o Arthemisia paiono aver titolo per i ristori”, spiega il nostro interlocutore. Ma tra le varie imprese presiedute da Iole Siena in passato ci sono stati fallimenti e concordati e una dura vertenza fra Artemisia e 24Ore Cultura ha portato la società del Sole a varare l’azione di responsabilità contro l’ex ad Natalina Costa, accusata di aver danneggiato l’impresa a favore di Artemisia. Forse un motivo per cui mancano mostre sulla furbizia che dribbla il diritto c’è.