Commissione inchiesta. Omissis e reticenze su Fontana&c.

Segretezza, scontri, reticenze, documenti negati. Sono i mali che azzoppano la Commissione di Inchiesta sul Covid del Pirellone. Uno strumento che si sta rivelando un guscio vuoto. Partita tra le polemiche per la presidenza data dal centrodestra alla renziana Patrizia Baffi (oggi in Fratelli d’Italia), da subito è stata bloccata dalla segretezza imposta dalla maggioranza. Lunedì scorso è stato ascoltato l’ex assessore Giulio Gallera, il prossimo toccherà a Fontana. “La funzione ispettiva è ridotta per una sorta di ‘patto di reticenza’ degli auditi. Le risposte, quando non sono generiche, appaiono del medesimo copione”, dice un membro. Altro motivo di contrasto, l’ambito ispettivo: per la maggioranza limitato ai primi mesi del Covid, per le opposizioni all’intero ultimo anno. “Camici di Fontana, antinfluenzali, Aria, sono temi sui quali non vogliono indagare”, svela un altro componente. Altro vulnus, i documenti non dati. “L’unico invio di materiale è stato fatto dall’ex dg Marco Trivelli (silurato a febbraio, ndr). Da allora più nulla”.

La Lombardia “felix”: ancora disguidi e ritardi

“Siamo al di sopra degli obiettivi chiesti dal commissario Francesco Paolo Figliuolo delle 50.000 vaccinazioni/giorno. Pensiamo di poter superare le 65.000 durante la prossima settimana”, per poi tagliare “tranquillamente” il traguardo “delle 100.000” al giorno”. Così ieri, il dg Welfare, Giovanni Pavesi, magnificava i fasti lombardi in campo vaccinale alla commissione Sanità, dove ha snocciolato cifre e numeri (“le inoculazioni, al 20 aprile, sono state 2.532.000”), dipingendo una macchina che gira a pieno regime. Fino a dire che oggi apriranno con largo anticipo rispetto al piano vaccinale (il sesto) di Guido Bertolaso le prenotazioni per i 60/65enni.

Stessi toni trionfalistici usati tre giorni fa da Bertolaso in un’intervista a La Verità, dove annunciava che la Lombardia era pronta “entro aprile ad arrivare a 100.000 somministrazioni/giorno” e nella quale accusava il Lazio di Zingaretti di aver fatto scelte “furbette” per migliorare i propri dati. Bertolaso che poi bollava come inutili le classifiche tra regioni (“l’unica classifica che guardo è quella della Serie A per vedere come va la Roma”).

Evidentemente che la Lombardia, col suo 87,2%, sia terzultima in Italia nel rapporto dosi consegnate/fatte, non preoccupa il consulente. Né sembra essere un problema che ancora non siano attivi tutti gli hub previsti (“Entro questa settimana entreranno in funzione quasi tutti i 76 centri massivi”, ha detto ieri Pavesi). Come non lo turba che quelli aperti lavorino dalle 8 alle 20 (“Potremmo integrare con un orario serale o pre-mattutino”, sempre Pavesi), con buona pace dell’attività h24, 7 su 7, che lo stesso Bertolaso aveva annunciato.

Ma quali sono queste performance: nella classe over 80, mancano ancora 15.000 anziani, che non si erano prenotati. A questi vanno aggiunti quelli che ancora attendono l’iniezione a domicilio. Poi ci sono i 70/ 79enni: in totale sono 995.652, di questi sono stati vaccinati in 287.828. Ne mancano 707.824. Il piano prevede di vaccinarli tutti entro il 28 aprile (101.117 dosi al giorno), un’utopia.

Nonostante i ritardi, il Pirellone ha aperto anzitempo le prenotazioni dei 65/69enni e da oggi dei 60/65: su 1.189.119 persone, i vaccinati erano ieri 35.721. E qui la faccenda si complica, perché, a causa dell’incertezza sulle scorte vaccinali, il sistema sta dando appuntamenti solo fino alla prima settimana di maggio. Così, il 60enne A che oggi si prenoterà, riceverà un appuntamento molto in là, in un giorno successivo a quello previsto per i rifornimenti. Il 60enne B che invece si prenoterà giorni dopo A, riceverà un appuntamento in una data precedente, in uno di quei giorni che adesso non vengono assegnati. Insomma, un delirio.

Non che vada meglio con fragili, fragilissimi, disabili e caregiver: “Tra i soggetti fragili e caregiver sono state somministrate circa 112.000 dosi. Stimiamo alcune settimane per coprire tutta questa fascia”, ha detto Pavesi. Se si pensa che solo i disabili certificati con la Legge 104 sono 284.000, si comprende come si vada a rilento. La nota positiva è che quei disabili che non riuscivano a registrarsi con Poste perché il Pirellone non aveva mai digitalizzato i loro dati (sono gli invalidi certificati prima del 2010, come svelato dal Fatto), ora possono autocertificarsi. Altra news positiva è che a maggio arriveranno nelle scuole i test rapidi salivari. Una svolta giunta con sei mesi di ritardo, visto che M5S li aveva chiesti a novembre 2020, ma Moratti li aveva sempre bocciati.

Alla luce di tutto ciò non stupisce se la Lombardia conta circa 1/5 dei morti giornalieri del Paese (67 decessi su 390 totali, il 20 aprile 2020). Perché, come ha detto la virologa Ilaria Capua a Dimartedì: “Le cose non vanno come dovrebbero andare. Si sono vaccinate le persone sbagliate, il vaccino non è arrivato pienamente laddove doveva arrivare”. E infatti in Lombardia le cose non vanno.

Il dibattito è “urgente”: votano le misure di marzo

Per rendersi conto del paradosso non serve andar lontani. Basta leggere il nome del decreto in discussione alla Camera: “Misure urgenti per fronteggiare la diffusione del Covid-19”. Urgenti, certo, se non fosse che mentre il governo è riunito per varare il decreto delle riaperture del 26 aprile, Montecitorio sta approvando il decreto del 13 marzo, quello che intensificava le restrizioni in vista della Pasqua.

Dopo la crociata contro il governo Conte per l’eccessivo utilizzo dei Dpcm e lo scarso coinvolgimento del Parlamento, Italia Viva, il Pd e il centrodestra hanno chiesto a Mario Draghi di intervenire attraverso decreti legge, che però sono molto meno flessibili e devono essere approvati dalle Camere entro 60 giorni dalla loro entrata in vigore. Col rischio che il Parlamento vota norme già superate da altri provvedimenti.

Per farsi un’idea della situazione, basta dare un’occhiata alla seduta di ieri a Montecitorio, trasformata in un surreale dibattito dominato dall’unico partito di opposizione. In mattinata Fratelli d’Italia presenta 7 emendamenti e 2 articoli aggiuntivi. Ci sono 101 interventi totali, di cui 93 di deputati del partito di Giorgia Meloni: il record se lo prende Augusta Montaruli (7), davanti agli agguerritissimi PaoloTrancassini, Mauro Rotelli e Marco Silvestroni (5 a testa). I contenuti delle proposte – soldi ai genitori in congedo parentale, sostegno ai lavoratori disabili –naufragano in un mare di No e dichiarazioni fantasiose. Tanto per cominciare, Fabrizio Mollicone autoproclama FdI “partito di opposizione patriottica”, non sia mai che qualcuno li tacci di esterofilia. Galeazzo Bignami chiarisce che “Fratelli d’Italia non intende essere complice di scelte che non hanno evidenza scientifica”, ma si riferisce al decreto in discussione in Cdm. Anche Salvatore Deidda guarda avanti: “Adesso inaugurate questo pass per spostarsi tra Regioni, che andrà a gravare sui cittadini”.

Il dibattito somiglia all’assemblea nazionale di FdI e l’opera si completa quando Fabio Rampelli prende il posto di Roberto Fico come presidente d’Aula. Il clima è disteso, Paola Frassinetti finisce di parlare e Rampelli ci scherza su: “Complimenti per la puntualità millimetrica, ha esaurito i cinque minuti al secondo zero”.

A un certo punto i meloniani si annoiano e mettono su una tavola rotonda di scienze politiche. Inizia Edmondo Cirielli: “L’idea di ristorare qualcuno che sia stato costretto a chiudere è un retaggio di una cultura sovietica”. Prosegue Andrea Delmastro Delle Vedove: “La sinistra non ha neanche più il coraggio di tutelare i lavoratori dipendenti”. Chiosa Silvestroni: “La sinistra ormai non rappresenta più il mondo del lavoro”. E menomale che c’è FdI a tenerci compagnia: “Ma quanto è importante che in quest’Aula ci sia Fratelli d’Italia?”, si chiede compiaciuto Trancassini. A rispondere trova solo i colleghi di partito, un po’ risentiti. Giovanni Donzelli: “Portiamo problemi concreti e dispiace vedere che da parte della maggioranza ci sia questo silenzio”. Delmastro Delle Vedove intuisce che si può divagare: “Il governo ha in mente di aumentare di un terzo il flusso dei migranti”. La sortita è un tentativo per stanare qualche leghista e scambiare due parole, ma si alza solo l’ex M5S Giorgio Trizzino: “Discutiamo di un decreto superato e dobbiamo sottostare a una monopolizzazione dell’opposizione”. E qualcuno, nel segreto dello spippolamento sullo smartphone, già rimpiange i Dpcm.

Coprifuoco, la Lega si astiene: il diktat di Salvini al governo

La riunione di maggioranza era finita con un accordo chiuso, il Consiglio dei ministri lo immaginano tutti rapido e indolore. E invece è solo veloce, dura mezz’ora scarsa, ma di guai ne provoca parecchi.

Perché poco prima di entrare nella sala dove si riunisce il governo, i ministri della Lega – gli stessi che avevano appena dato l’ok informale al decreto – si assembrano in un capannello. E quando il ministro Giancarlo Giorgetti si siede al tavolo con Mario Draghi, dice secco: “Sono sopraggiunte delle novità, noi ci asteniamo”. Di cosa parli, non lo capisce nessuno. Di certo non il premier, né il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Roberto Garofoli, a dir poco stupefatti da questo repentino cambio di linea. La stessa schizofrenia che viene fatta circolare sulla mozione di sfiducia al ministro Roberto Speranza: “Certo che votiamo no – aveva detto qualche ora prima il capogruppo della Lega, Massimiliano Romeo – non vogliamo mettere in difficoltà il governo”. Salvo poi, a Cdm iniziato, far trapelare che anche sul titolare della Salute “valutiamo l’astensione” e che comunque “decide Salvini”.

Cosa è successo? Nel Movimento rivedono un film già visto: “Sono degli irresponsabili, vogliono fare il Papeete bis”, è il succo del ragionamento. Che nella nota ufficiale si traduce in “dispiacere” per le sorti di “questo governo che è nato per incoraggiare la coesione nazionale”. Anche il Pd fa filtrare preoccupazione per il “continuo susseguirsi di ultimatum che portano a questo tipo di incidenti di percorso”. Che Salvini non fosse soddisfatto del decreto (anche se venerdì scorso se lo era intestato come “vittoria della Lega”) lo si era capito in mattinata quando, dopo aver incontrato ministri, sindaci e governatori della Lega, aveva minacciato di non votarlo se non fosse cambiato l’orario del coprifuoco e anticipate le aperture al chiuso dei locali, come chiesto anche dalle Regioni a guida leghista. Poi il leader della Lega ha scritto anche un paio di sms a Draghi per provare a convincerlo ma niente: il premier è stato irremovibile. Quindi ha mandato i suoi ministri – Giorgetti, Erika Stefani e Massimo Garavaglia – a Palazzo Chigi con l’obiettivo di dare battaglia nonostante questi avessero tentato in mattinata un accenno di ribellione: “Venerdì avevamo chiuso l’accordo, adesso con che faccia andiamo a chiedere altre modifiche?” gli aveva fatto notare Giorgetti.

Ma Salvini, pressato da Giorgia Meloni e dai ristoratori, non ha accettato repliche e dato l’ordine ai suoi via sms: “Non si vota il decreto”. Poi ha telefonato a Draghi: “Presidente noi abbiamo fiducia in te ma non possiamo votare la norma. Sosterremo il decreto di maggio su nuove riaperture”. Risposta secca del premier: “Fatico a capire: alla cabina di regia in cui sono state scelte le misure c’era anche la Lega”. Così, nel Cdm, quando Speranza ha introdotto le misure spiegando che il rischio deve essere “ragionato” e le riaperture “graduali” per non dare il messaggio del “liberi tutti”, Giorgetti non ha potuto far altro che annunciare l’astensione. Poi si è zittito visibilmente imbarazzato. Anche Forza Italia e Italia Viva volevano allungare il coprifuoco, ma alla prova dei fatti si sono allineati. Così, a Cdm terminato, Giorgetti viene convocato da un Draghi furioso e fuori da Chigi Salvini in diretta Facebook alza la voce: “C’erano troppi divieti, esigiamo rispetto”. Esulta Fratelli d’Italia: “Sul coprifuoco, centrodestra unito” dice il capogruppo alla Camera, Francesco Lollobrigida. Sconcerto anche dai presidenti di Regione a guida Pd: “A questo punto – si sono detti a caldo – se li scrivano loro e facciano il governo con la Meloni”.

D’altronde, le misure varate ieri accolgono la quasi totalità delle richieste leghiste, escluso il coprifuoco alle 22 (ma non c’è una data di scadenza) e lo stop ai ristoranti “al chiuso” fino al 1º giugno. Per il resto, da lunedì, ci si potrà spostare liberamente tra regioni gialle, mentre per quelle arancioni e rosse servirà il “certificato verde” (vaccino, tampone negativo o guarigione dal Covid). Riaprono teatri e cinema (massimo 1.000 spettatori all’aperto e 500 al chiuso), dal 15 giugno le fiere e dall’1 luglio convegni e congressi. Gli eventi sportivi di particolare rilievo potrebbero essere autorizzati anche prima dell’1 giugno ma non sopra il 50%. Lo stato di emergenza, comunque, durerà fino al 31 luglio.

Agnelli, “Repubblica” e il “patto di sangue” squagliato nella notte

Che brutti scherzi può giocare un titolo di giornale. Soprattutto se riguarda un’intervista firmata dal direttore e, soprattutto, se fatta a un cugino del suo editore che presiede la squadra di calcio di famiglia. Un pasticcio finito nel tritacarne della Superlega del calcio, proprio a due giorni dal primo anniversario del passaggio di Repubblica alla galassia Agnelli, il 23 aprile 2020, allorché Maurizio Molinari si insediò come direttore, scalzando Carlo Verdelli: defenestrato senza neppure poter firmare l’editoriale d’addio e mentre subiva le minacce dei nemici-social del giornale. È accaduto tutto nella serata di martedì scorso, quando Molinari ha deciso di intestarsi il colloquio con Andrea Agnelli, figlio di Umberto e cugino di secondo grado dell’editore di Gedi, John Jaki Elkann (nipote di Gianni), e anche “cattivo ragazzo” del peggiore oltraggio alla storia sociale del nostro Calcio. La prima edizione del quotidiano è così uscita con un richiamo in prima pagina, riportando la rivendicazione del presidente della Juventus: “Patto di sangue, la Superlega va avanti”. Una situazione inedita per il quotidiano che fu di Eugenio Scalfari e di Ezio Mauro, secondo una vecchia “etichetta giornalistica” che non aveva ma visto impegnata la firma del direttore per interviste non strategiche. Poco più tardi però – quasi a conferma del vecchio detto “il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi” – , lo stesso Agnelli è stato costretto ad ammettere che il progetto era tramontato, dopo le notizie serali sulla rinuncia delle squadre inglesi: una novità già ampiamente rilanciata da tutti i siti d’informazione. In quel momento, di fronte all’impossibilità di ritirare le copie già stampate, nella seconda edizione il titolo è diventato: “La Superlega andrà avanti, trattiamo con l’Uefa”.

Un infortunio giornalistico che, purtroppo, può capitare a tutti, ma che diventa ancora più dannoso per l’immagine di Repubblica perché legato agli interessi e agli affari della proprietà. Una problema che Molinari ha provato a esorcizzare, nella riunione di ieri mattina, con una valutazione un po’ ardita: “Siamo davanti ai rivali sugli argomenti del ‘caso Grillo’ e della Superlega. Su quest’ultima, ottima corrispondenza da Londra di Francesco Guerrera”. Dunque, la débâcle sul calcio fa del male agli eredi Agnelli e anche a uno dei più prestigiosi giornali italiani, da 12 mesi nel recinto degli ex padroni di Fiat-Fca, ora nelle mani di Peugeot in Stellantis. Qualcosa che, per quanto riguarda il quotidiano, da tempo ha attirato a proprietà e direzione critiche per nulla velate: su una mutazione genetica di quel suo dna che veniva definito con la formula gobettiana e orgogliosa di “Una certa idea dell’Italia”.

Ma il cortocircuito di Molinari apre adesso anche altri interrogativi e proprio sugli effetti del pasticcio-Superlega. Quelli sulla permanenza di Agnelli alla guida della Juve, reduce sì da nove scudetti consecutivi e due finali di Champions (perse, però), ma anche da due stagioni deludenti e oggi, con lo scudetto quasi vinto dall’Inter, un forte dissesto di bilancio (oltre 400 milioni di euro) e infine l’avanspettacolo della Superlega. Interrogativi accentuati per paradosso dalla linea non fiancheggiatrice, in questi giorni, del quotidiano storico degli Agnelli, La Stampa di Torino, diretta da Massimo Giannini che ha fatto intervistare Evelina Christillin, amica e beniamina dell’Avvocato e membra dell’Uefa. La supertifosa juventina non si è tirata indietro: “Che cosa avrebbe detto Gianni Agnelli? Si sarebbe sentito male, come quando Giraudo e Moggi gli vendettero Bobo Vieri a sua insaputa”. In prima, invece, un fondo dell’ex campione bianconero (e campione del mondo in Spagna) Marco Tardelli, intitolato “Ma l’Avvocato avrebbe detto no”.

Che farà ora Elkann: confermerà il cugino mantenendo gli equilibri tra i discendenti di Gianni Agnelli e quelli del fratello Umberto? O farà tabula rasa, per porre rimedio a una situazione finanziaria che Exor non vuole più ripianare? Una scelta non facile, visto che Andrea Agnelli e sua madre Allegra detengono l’11,32%nella “Giovanni Agnelli BV”, la cassaforte di famiglia, e lo stesso Andrea è nel cda di Stellantis: ruolo e pacchetti azionari sempre lealmente gestiti nei momenti più difficili di Fiat-Fca e durante lo scontro ereditario tra Margherita Agnelli, i suoi figli e la madre Marella.

Non semplice, dunque, per Jaki, congedare Andrea, ma ancora di più per quest’ultimo restare in sella e risanare il bilancio della squadra. E adesso, per di più, azzoppato dalla figuraccia su quella Superlega che poteva essere il mezzo per recuperare milioni, trasformando la Juve in una sorta di Harlem Globetrotters per un calcio capitalistico e disneyano o, come sostengono alcuni, per realizzare il suo antico sogno di rilevare la Juventus dalla Famiglia, magari con i capitali di un “re del petrolio” extraeuropeo. Ma, come avrebbe detto Indro Montanelli, “i sogni (e anche i titoli di un giornale) muoiono all’alba”.

Caso Suárez: “La legale della Juve fu l’istigatrice”

L’esito della trattativa per portare, la scorsa estate, Luis Suárez alla Juventus, era “condizionato all’acquisizione della cittadinanza italiana” da parte del calciatore. E, quindi, dipendente da quello che gli inquirenti ritengono essere stato un esame-farsa di lingua italiana, sostenuto il 17 settembre 2020 dal top player uruguaiano a Perugia. Per la Procura umbra, infatti, se l’ex attaccante del Barcellona avesse ottenuto l’attestazione della conoscenza della lingua italiana al livello B1, avrebbe potuto avere la “possibilità di essere ingaggiato” dal club bianconero, ottenendone i relativi “vantaggi patrimoniali”. È stato notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari a Maria Cesarina Turco, la legale incaricata dalla Juventus “quale concorrente morale e istigatrice” dell’operazione. Con lei rischiano il processo tre dei vertici dell’Università per stranieri di Perugia: la rettrice Giuliana Grego Bolli, la direttrice del consiglio direttivo del Centro valutazione, Stefania Spina, e il direttore generale Simone Olivieri, accusati a vario titolo di falso ideologico, rivelazione di segreto d’ufficio e falso materiale. Secondo i pm perugini, venne organizzata una “sessione straordinaria ad personam solo per consentire” a Suarez “di ottenere, nei tempi richiesti” dalla Juventus la certificazione linguistica, “all’esito di una fittizia procedura d’esame”. Il materiale d’esame, a quanto si legge nel capo d’imputazione, “era stato rivelato” al calciatore sudamericano “già alcuni giorni prima, il 12 settembre”. In particolare, ricostruiscono i pm, “nel corso di una lezione online” su Microsoft Teams”, venne girato al calciatore “il file in formato pdf contenente l’intero svolgimento della prova poi tenuta il 17 settembre”. È stato invece sospeso – ma l’indagine resta aperta – il procedimento parallelo per false informazioni ai pm, che vede indagati Fabio Paratici, dirigente dell’area sportiva della Juventus, e l’avvocato Luigi Chiappero, legale del club bianconero. L’inchiesta ripartirà alla definizione del fascicolo principale.

Suarez stava per firmare con la Juventus un contratto da circa 10 milioni di euro l’anno, bonus compresi. Nel corso dell’indagine è emerso che, durante la trattativa col calciatore in uscita dal Barcellona, Paratici abbia anche contattato l’allora ministra dei Trasporti, Paola De Micheli (estranea all’inchiesta) – tifosa juventina e amica d’infanzia del dirigente bianconero – per ottenere un consiglio su come muoversi. “La Juventus mi chiede notizie di questa richiesta di cittadinanza. Mi aiuteresti?”, il messaggio che l’ex ministra dem inviò poi a Bruno Fattasi (estraneo all’inchiesta), capo di gabinetto del ministero dell’Interno, guidato da Luciana Lamorgese (estranea all’inchiesta).

L’esito dell’inchiesta penale e l’eventuale grado di coinvolgimento di dirigenti o incaricati della Juventus sarà importante per definire anche la possibile responsabilità oggettiva del club bianconero di fronte alla giustizia sportiva. La Procura federale della Figc ha un fascicolo aperto “dormiente” sulla vicenda. Il procuratore Giuseppe Chinè ha già dichiarato di voler attendere la magistratura ordinaria. Secondo l’articolo 32 del codice di giustizia sportiva, “le società nonché i loro dirigenti, tesserati, soci e non soci (…) che compiano direttamente o tentino di compiere (…) atti volti a ottenere attestazioni o documenti di cittadinanza falsi o comunque alterati (…) ne sono responsabili”. Nel caso i pm sportivi dovessero ritenere violata questa norma, per la Juventus scatterebbero sanzioni che vanno dai punti di penalizzazione fino alla retrocessione.

Farsa SuperLeague, i ribelli ora sono i reietti d’Europa

Si sono addormentati da padroni del calcio. Si sono risvegliati da zimbelli d’Europa. La Juventus, le milanesi, tutte le 12 ribelli, ma soprattutto Andrea Agnelli, grande artefice della Superlega insieme a Florentino Pérez del Real Madrid, vero sconfitto del suo naufragio. Il sogno del campionato dei ricchi si è sbriciolato in una notte. Hanno disprezzato i tifosi, trascurato Francia e Germania (Paesi che qualche peso in Europa ce l’hanno). Hanno sottovalutato la volubilità dei governi, pronti a cavalcare il malcontento popolare: il premier britannico Boris Johnson è stato il più risoluto a opporsi e con le sue minacce ha fatto battere in ritirata i club inglesi. Negli ambienti sportivi filtra invece che Mario Draghi, che conosce bene il presidente del Milan, Paolo Scaroni, fosse stato messo al corrente del progetto prima dell’annuncio, lasciando intendere la neutralità del governo, salvo poi dichiararsi contrario quando la situazione è precipitata (Palazzo Chigi non conferma). Hanno sbagliato tutto.

Non è solo la figuraccia mondiale di una Lega lanciata in pompa magna e sciolta nel giro di 48 ore. C’è anche il tradimento, l’aver tramato alle spalle dei colleghi, in certi casi amici. Aver tentato, di fatto, di ammazzare gli altri per salvare se stessi, perché questo significava la Superlega: uccidere coppe e campionati per ripagare i debiti miliardari delle big. Sarebbe troppo facile ora cavarsela chiedendo scusa. Vale per tutti i congiurati, ma non tutti si sono esposti allo stesso modo. Prendiamo le italiane, l’Inter ad esempio: ha una proprietà ormai talmente distante che quasi non esiste, come si fa a prendersela con un fantasma. Qualche problema in più potrebbe averlo Beppe Marotta, dirigente in carne e ossa, che rappresenta la Serie A in Federcalcio: Cairo ha già chiesto le sue dimissioni. Il Milan, invece, pure nel comunicato finale ha rivendicato il progetto. Non è un caso: l’ad Gazidis era tra i suoi promotori e potrebbe essere il capro espiatorio in casa rossonera. Ma i veri colpevoli restano altri: la Juve e il Real Madrid, Agnelli e Florentino.

La resa dei conti sarà sia in Europa che in Italia, ma non sommaria. I dissidenti non saranno puniti: “Non si sanziona un’idea”, ha spiegato il presidente della Figc, Gabriele Gravina. Al massimo nel prossimo consiglio potrebbero essere inasprite le norme sull’obbligo di partecipazione ai tornei Uefa per iscriversi al campionato, in modo da blindare la “costituzione” e prevenire colpi di Stato in futuro. Anche il n. 1 della Uefa, Aleksander Ceferin, ha subito vestito i panni del padre misericordioso che riaccoglie il figliol prodigo. La Uefa non può permettersi una guerra con i top club. Lo sloveno si incattivisce solo se parla di Agnelli: “La delusione più grande”.

Fino a ieri era un collega stimato, un amico: aveva fatto da padrino al battesimo di sua figlia. Agnelli era il patron più influente d’Europa, a capo dell’ECA, la potente associazione dei club, e nell’esecutivo Uefa. Non c’era decisione che si prendesse senza il suo parere. Si è dimesso da tutto per la Superlega e ora resta con un pugno di mosche in mano, in un momento decisivo. La Uefa si siederà a trattare, su come distribuire poltrone e risorse (specie se arriveranno per la nuova Champions i miliardi dei fondi d’investimento Usa, la mossa per rispondere alla Superlega). Solo che al tavolo ci andrà qualcun altro: passeranno all’incasso Francia e Germania, che sono rimasti leali, l’Inghilterra, che ha fatto saltare il banco. Gli emarginati saranno Italia e Spagna.

E che dire della Serie A: ci vorrà una faccia di bronzo per presentarsi alla prossima assemblea, ma quella se non altro ad Agnelli non è mai mancata. Solo che qui l’accusa è circostanziata. Agnelli è stato uno dei grandi promotori dell’operazione “Project goal”, la cessione del 10% della media company del campionato al fondo Cvc per 1,7 miliardi, cifra che avrebbe risolto i problemi di tanti presidenti. Era nella commissione ristretta che ha negoziato coi fondi e poi ha fatto saltare la trattativa quando ha scoperto che il contratto prevedeva un vincolo di permanenza nel torneo. Col senno di poi, è facile pensar male. In Europa come in Italia, nessuno gli farà più sconti. Per la Superlega ha compromesso rapporti di lavoro e personali, gente legata agli Agnelli che ora pensa e dice tutto il peggio possibile del nipote dell’Avvocato. Ha perso poltrone, amici, potere, credibilità. Gli resta la Juve. Per ora.

Quousque tandem

Mentre la Superlega del calcio frana in testa ai suoi aedi (massima solidarietà a Sambuca Molinari e Johnny Riotta, che si erano tanto spesi sul quotidiano casualmente edito dai padroni della Juve), anche la Superlega della politica scricchiola. E non è colpa di Draghi, che ce la mette tutta, pur col piglio distaccato dell’amministratore delegato. È colpa di chi gli ha tirato il pacco, Mattarella in primis, illudendolo che bastasse ammucchiare nel governo tutti i partiti tranne uno per cancellarne le differenze di idee e di interessi. Non era così. Infatti ieri la Lega, non contenta di avere strappato le imprudenti riaperture al 26 aprile, s’è astenuta sulla proroga del coprifuoco. E non si vede che ci stiano a fare 5Stelle, Pd e Leu in una maggioranza dove, se c’è da cantare, tocca a Salvini e, se c’è da portare la croce, tocca ai giallorosa. Il giochino non può durare, anche perché prima o poi si voterà. Salvini l’ha capito e, tallonato dalla Meloni, si abbarbica al potere per tenere le mani sul bottino del Recovery, ma si finge morto appena c’è da perdere voti. Gli altri quando lo capiranno? Appena inizia il semestre bianco, ci divertiamo.

L’altro nodo che viene al pettine è quello dei vaccini. E qui Draghi c’entra. Ne aveva annunciati 500mila al giorno dopo la metà di aprile, personalmente e per interposto generale Figliuolo. Siamo al 22 aprile e l’altroieri ne sono stati somministrati 300mila. Ora, dopo due mesi di “accelerate” sui giornali, siamo in continua frenata. E, come vaticinò Bersani al cambio della guardia fra Arcuri e Figliuolo, è inevitabile fare un confronto. Dal 6 al 20 gennaio (governo Conte, commissario Arcuri) l’Italia era davanti a Germania, Spagna e Francia per vaccinati in rapporto alla popolazione, e in certi giorni anche per numeri assoluti. A fine gennaio fu superata di pochi decimali dalla Spagna, ma restò sempre davanti a Germania e Francia. Il 13 febbraio Draghi si insedia e il 2 marzo caccia Arcuri e lo rimpiazza con Figliuolo. Il passaggio di consegne al Commissariato fra la struttura Invitalia e l’armata interforze dura un mese. Arcuri e i suoi garantiscono una decina di giorni di presenza, durante i quali (3-13 marzo) l’Italia resta seconda dietro la Spagna e davanti a Francia e Germania, poi se ne tornano nella loro sede. Il 13 marzo Figliuolo vara il nuovo Piano vaccini e l’Italia inizia a precipitare: terza il 14 e 15 marzo, scavalcata anche dalla Germania; poi, con rare eccezioni, sempre ultima. I dati dell’altroieri sono impietosi: Spagna 20,19% di abitanti vaccinati, Germania 20,07, Francia 18,73, Italia 18,24. Abbiamo perso due mesi. E per peggiorare. Chi se ne va prima: Salvini o Figliuolo?

Bestemmie, un caso editoriale: i miracoli del finto padre Tava

“Sarà per te come la luce sulla via di Damasco” scrive Padre Alfonso Maria Tava, autore di questo libro fantasmagorico da poco uscito per Il Saggiatore. Apostati e spergiuri, ecco a voi Come smettere di bestemmiare, l’edizione definitiva di un testo che già proliferava in forma abbozzata sul web, di bocca in bocca empia.

“Classe 1949”, si legge nella biografia romanzata, Tava è “un religioso, esploratore, missionario, oligarca, filantropo, asceta, derviscio e scrittore italiano”. “Dietro la sua identità, mi celo io – spiega il misterioso prelato al Fatto Quotidiano –. Devo tuttavia metterla in guardia: ci sono in giro ancora troppi impostori che millantano, per darsi un tono, di essere loro padre Tava”.

Un vademecum, un “metodo scientifico”, un breviario, il suo, per redimersi dall’orrido peccato verbale. Risultati garantiti. L’imprecazione verso il soprannaturale è uno dei morbi del secolo nuovo, sia tra le vecchie sia tra le nuove generazioni, “un vizio trasversale che avvampa le fauci dell’umanità tutta, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali”, aggiunge il “Don”. Un controsenso solo apparente, in un pianeta di atei: si trovano sempre infinite ragioni per sguainare la lingua biforcuta. Non ultima, questa pandemia senza fine, “inviata dall’Altissimo per ammonirci”.

Ma evocare sacrilegamente Dio e l’assemblea plenaria dei santi e dei beati è un palliativo, se non un boomerang. Fortuna che c’è qui il Nostro ad aiutarci: anche perché c’è passato sulla sua pelle. Ci rivela infatti: “Un tempo pure io ero succube di questo ributtante malanno, al pari, purtroppo, di molti altri colleghi. Così ho iniziato a sperimentare su me stesso un sistema che mi consentisse di ristabilirmi. Ne ho poi esteso l’applicazione a una cerchia crescente di bestemmiatori, e mi hanno chiesto di mettere su carta i miei insegnamenti. Ed ecco il Manuale, che colma un vuoto editoriale insostenibile”.

Nella prima parte del volume, vengono elencate le principali motivazioni dell’intercalare più osceno. Come la celebrazione di lieti eventi (la cosiddetta bestemmia “celebrativa”), l’accettazione sociale (si apostrofa pesantemente il Divino per inserirsi nel gruppo, che sia composto da adolescenti o da liberi professionisti), il voler affascinare il prossimo (la “bestemmia galante”). A proposito, esiste una vasta gamma di seduzioni a base di favella profanatrice. La bestemmia pronunciata al contrario, la poliglotta, la “falsamente modesta”, quella in rima e l’erudita (la “barocca”), da cui il Best-Emmy Awards, abominevole festival che si svolgerebbe ogni anno “in una nota località vacanziera friulana”. Inoltre, si calpesta il nome dell’Onnipotente e dei suoi parenti ed eletti per coprire silenzi imbarazzanti, per maramaldeggiare sui subalterni, per riempir una voragine esistenziale, per mero intrattenimento.

La bestemmia, abietta pratica, ha origini antichissime: discenderebbe da un “M******** a C*****” per la scomparsa di Pompei nel 79 d.C. C’è poi il tema del rapporto tra la bestemmia e gli animali, prediletti dal blasfemo di parola, in particolare “le famiglie dei canidi e dei suini”. D’inverso, “Agnello di Dio” è un’espressione liturgica benedetta. Un rovello teo-filologico non da poco. Insorgono i bestemmiatori vegani: loro al posto di porco, usano tofu e invece di cane, falafel. Di taglio diverso gli insulti supremi dei fruttariani: “D** mela”, “Mango la M*******” e l’oltremodo equivoco “Cocco D**”.

Come uscire dal tunnel scellerato? Alfonso Maria Tava prescrive una exit strategy a tappe: dalla compilazione di un diario al ricorso alle “alterazioni eufemistiche”. Spazio perciò ai sostitutivi “maremma, madosca, zio, due, duo, Diaz, Diogene, Christian, Cristopher, tio, dinci, Marcoddio, diporto, bioparco, porto mio, orcodi, Borgo Pio”. Infine, lo stress test. Nell’ultimo mese di “trattamento”, il convalescente va sottoposto a dosaggi crescenti di visioni di Italia-Brasile, finale dei Mondiali del 1994, e soprattutto di Italia-Corea del 2002. E se nemmeno un primo piano dell’arbitro Moreno vi farà più effetto… bene, l’esorcismo è riuscito, e la guarigione può dirsi completa.

“Che bontà i granchi dopo aver seminato i cronisti… Ci vorrebbe la dittatura illuminata”

Si parlò della democrazia, e dissi quel che pensano tutti, ossia che in un certo senso oggigiorno sia piuttosto un ostacolo. “Se i governi avessero le mani slegate, se fossero solidi e potessero agire più liberamente, svincolati dai mille scrupoli demagogici che li attanagliano, e non dovessero passare il tempo a blandire i propri nazionalisti, saremmo molto più avanti. Quel che ci vorrebbe oggi in Europa è una dittatura illuminata”… Tornammo in albergo a piedi, scegliendo di perderci per goderci ancora un poco la città di notte e prendere una boccata d’aria…

Ovviamente mi alzai alquanto tardi. Ad attendermi, il corrispondente del New York Herald. Si metteva male… La conferenza a porte chiuse del giorno prima aveva creato diversi malumori… regnava un’atmosfera di grande suscettibilità… L’edizione parigina dell’Herald riportava sotto gran titoloni una descrizione assai comica e appassionante delle scene che si erano svolte davanti alla Carnegie-House, parlava di assembramenti di giornalisti, proteste, scontri durante i controlli e persino di tafferugli con la polizia… Sfortunatamente l’organizzazione aveva promesso, a mia insaputa, che dalle sette in poi sarei stato a disposizione dei giornalisti… quando invece io, ignaro di tutto, mi ero visto costretto a squagliarmela prima delle sette per non tardare al ricevimento. Nel tentativo di sistemare almeno un po’ la situazione, accordai all’uomo dell’Herald un’intervista, sempre funestata dalla mia raucedine, ma di ostentata familiarità: mi dilungai sul rapporto tra Germania e Russia, su Poe, Whitman e O’Neill, di modo che avesse materiale da dare in pasto al telegrafo…

Dopo essere andati a zonzo per un po’, ci fermammo a mangiare da Prunier. Il pranzo da Prunier è d’obbligo; è il locale del momento. A ben vedere, si tratta di un caffè per naiadi e geni delle acque, perfetto per la sirenetta di Andersen: servono solo frutti di mare… Nelle vetrinette fa bella mostra di sé un paese della cuccagna sottomarino con aragoste, ostriche, caviale e pure del pesce. Sui tavolini ciotole piene di splendidi gamberi à discrétion. Ci si siede a semicerchio su alti sgabelli attorno a un buffet e ci si rimpinza a volontà, sempre esclusivamente di pescato… I granchi con il pane già imburrato sono un ottimo passatempo per ingannare l’attesa della bouillabaisse, un piatto dal sapore molto deciso e tanto abbondante che dopo si assaggia appena un pezzetto di formaggio, giusto per mettere nello stomaco anche un ingrediente non oceanico…